17 marzo 2011

L'identità italiana. Oggi Festa dell'Unità d'Italia.


http://www.comune.roma.it/was/repository/ContentManagement/information/N1181201501/logo%20italia%20unita%20grande.JPG

Credo che, quando si parla di “identità”, se si vuol far un discorso corretto si debba cominciare a circoscriverne i caratteri. L’identità è la coscienza di se stessi – anzitutto “sentita” e “vissuta”, ma della quale bisogna pur sforzarsi di acquisire razionale consapevolezza -: pertanto della propria specificità, di quel che distingue “noi” dagli “altri” e della gradualità, appunto, dell’essere “noi” rispetto agli “altri”, secondo criteri di maggiori o minori prossimità e/o affinità. Il che significa che l’identità è per sua natura dinamica (in quanto si modifica nella storia) e imperfetta (in quanto nessuna comunità, come del resto nessun individuo, può vantare un’identità assoluta, metafisica e metastorica, “globale”: ciascuna identità si misura su concreti parametri storici, spaziali, genetici, linguistico-dialettali, religiosi, antropologici).
Nell’Italia d’oggi si è affermata a livello politico e massmediale una sorta di “neolingua”, di nefasta orwelliana memoria, che rischia di render le acque della nostra reciproca comprensione più torbide di quanto già non siano. E’ la “neolingua” nel nome della quale, ad esempio, si definisce “buonismo” qualunque tipo di atteggiamento caratterizzato da quel che si giudica un eccesso di tolleranza, di altruismo, di umanitarismo, di comprensione, spinto fino alla debolezza: e nel nome del quale troppo facilmente si condannano le scelte tese a risolvere i nuovi problemi che il presente c’impone di affrontare (ad esempio l’immigrazione illegale e il disagio causato dalle vecchie e dalla nuove povertà) con equilibrio e senso di solidarietà. Spesso, si disprezza e si condanna come “buonismo” quella ch’è solo la vecchia, cara carità cristiana.
Allo stesso modo si usa di solito condannare, o comunque guardare con sospetto, il cosiddetto “relativismo”. Al riguardo vanno però notate almeno due cose. Primo: non bisogna confondere il concetto di “relativismo morale” – che implica un’adattabilità utilitaristica di concetti e valori di per sé concepiti come innegoziabili – con il “relativismo antropologico”, che altro non è – ce l’ha insegnato un grande scienziato ch’era anche un grande spirito libro, Claude Lévi-Strauss – se non il principio secondo il quale ciascuna cultura va compresa e giudicata alla luce dei criteri e dei valori che le sono propri. Secondo: bisogna guardarsi dal giudicare comunque come frutto di “relativismo” quel ch’è invece, in ogni caso, applicazione del principio della “relatività”, che è caratteristico dei parametri storici e politici. Difatti, è del tutto legittimo perseguire principi assoluti: ma senza dimenticare che l’Assoluto è un parametro teologico, mistico e filosofico, che non può essere tradotto se non in modo mediato e articolato nella realtà storica. La convivenza tra principi religiosi e filosofici differenti è difatti una prassi politica, tesa a salvare l’essenziale di quanto nella culture “altrui” è considerabile come assoluto, senza danneggiare tuttavia i valori assoluti di nessuno, e quindi imparando a rinunziare a quanto essenziale non sia. Bisogna tener presente che il contrario del “relativismo” non è, come potrebbe sembrare, l’”assoluta obiettività”: ma è, al contrario, il più spudorato soggettivismo elevato arbitrariamente a categoria generale e universale. Chi ad esempio ritiene “relativistico” l’atteggiamento di quanti rifiutano d’imporre agli altri, come cànone civile, gli esiti delle proprie convinzioni personali a livello religioso e morale, dimentica che tali convinzioni sono senza dubbio assolute e innegoziabili a livello intimo e personale (in sede di “fòro interno”, come una volta si sarebbe detto): ma – in una società che si autodefinisce “laica” e che tiene alla sua “laicità” – l’unico modo non già d’imporle, bensì di proporle agli altri è il discuterne pacatamente e il dimostrarne razionalmente l’eccellenza. “Voi vincerete, ma non convincerete”, è affermato nell’altissima replica pronunciata nell’Università di Salamanca, nell’ottobre del 1936, da Miguel de Unamuno al Viva la Muerte! del generale Millan Astray. Questa è la vera sfida che chiunque si senta portatore di valori assoluti in una società laica è chiamato a raccogliere: convincere chi non li condivide che essi sono quelli giusti, o quanto meno quelli piu opportuni.
Ecco perché il discorso sulle identita, essendo per sua natura storico, sociologico, antropologico e sul piano dei valori pratici anche politico, non può svilupparsi se non all’interno di un contesto di “segni” e di significati relativi: e anche chi li viva come assoluti non può non accettare questo piano di discussione, dal momento che appunto di storia, di sociologia, di antropologia e di politica qui si parla, non di teologia o di filosofia o di mistica.
Ora, le “identità”, tutte, hanno la caratteristica fondamentale della pluralità: esse possono inoltre presentarsi tanto come comunitarie quanto come individuali. Esse sono inoltre – come all’inizio di questo discorso dicevamo - dinamiche, essendo soggette al mutamento storico; e imperfette, in quanto alla loro configurazione dinamica concorrono ordinariamente fattori identitari provenienti da altra origine.
Un’identita “nazionale”, ad esempio, non può sacrificare la sua complessità a proposte riduttive che intendano semplificarla. La “nazione” si sovrappone difatti, magari con l’ambizione di sintetizzarle ma senza necessariamente risolverle tutte in se stessa, a una serie di “identità” non solo individuali, ma altresì familiari, cittadine, municipali, regionali, che corrispondono ad altrettanti complessi modi di essere i quali si traducono anche in valori linguistici, etici, addirittura estetici. Esistono inoltre altre dimensioni, esse stessi identitarie, che sono ad esempio quelle religiose, da cui dipendono in gran parte le stesse scelte etiche e civiche (indirettamente perfino estetiche: in quanto simboliche). Le scelte e le tradizioni religiose incidono potentemente sulle identità nazionali, che sono storicamente parlando più “giovani” di esse: tuttavia solo di rado e di solito per brevi periodi, nella storia umana, valori nazionali e valori religiosi (pensiamo a una religione “storica”, incarnata anche in istituzioni ecclesiali o comunque socioculturali concrete) coincidono. A ciò si aggiungono, a completare ma anche a complicare il quadro identitario comune all’interno del quale ogni individuale componente di esso dovrebbe pienamente riconoscersi, altre componenti che sono certo connesse con fattori storici e religiosi, ma che tuttavia riguardano a livello più intimo il nostro essere e il nostro divenire: il sesso con le relative inclinazioni individuali e il valore sociale che ciascuna di esse riveste, la fascia d’età, la condizione socioeconomica, quella psico biologica (lo stato di salute, le aspirazioni, la “speranza di vita”, la “ricerca della felicità”), quella socioculturale.
Prima di procedere oltre, va a questo punto introdotta una considerazione storica fondamentale. Il cammino della Modernità occidentale, dal Cinquecento e con maggior forza dal Settecento in poi, è stato caratterizzato da un crescente ipertrofizzarsi dell’identità individuale, dell’ego, a vantaggio del quale si è teso a progressivamente sacrificare ogni altra identità: soprattutto quelle comunitarie, che per molteplici generazioni sono state considerate un ostacolo all’affermarsi – “assoluto”, appunto…- della Libertà e della Volontà dell’individuo. Ci si deve anzi render conto che questo è appunto, a tutt’oggi, il grande problema di quella che usiamo definire la “civiltà occidentale”: una dicotomia, che può rischiar di portar alla schizofrenia, tra la considerazione dei Diritti Umani (irrinunciabile, appunto, per noi occidentali: che anzi vi guardiamo come a un insieme di valori assoluti e universali) e la Volontà di Potenza individualistica, che in determinati momenti storici può essersi proiettata comunitariamente in progetti di tipo nazionale o classistico, ma che comunque è di per sé insofferente di limiti. Si è provato più volte, nella storia recente e meno recente (dal colonialismo sette-novecentesco alle recenti crisi irakena e afgana) a convincer noi stessi e gli altri che Diritti Umani generali e Volontà di potenza, quindi interessi, “occidentali” coincidevano. Ma si è sempre trattato di un escamotage che ha sempre dovuto scoprir presto i suoi limiti: che insomma, a dirla appunto con de Unamuno, non ha mai “convinto” neppure quando ha “vinto”: e, che del resto, nemmeno la brutalità delle armi è mai davvero risucita ad imporre, come appunto i “casi” irakeno e afghano drammaticamente dimostrano.
Ora, proprio questo è il punto su cui si deve forse innescare un progetto, se non addirittura attuare una scelta. Noi italiani di oggi – e non siamo i soli: anzi, siamo in ottima compagnia occidentale – abbiamo difficoltà a immaginare sul serio una “identità” che non sia soprattutto e anzitutto quella individuale, al massimo estensibile ai cerchi identitari di prossimità familiare e amicale. Quando invece, riferendosi al piano comunitario, molti parlano di “identità minacciata”, bisogna tener ben presente che le “identità” possono bensì venir combattute o addirittura represse: tuttavia, esse sono minacciate sul serio solo dal loro interno, dalla mancanza o dalla carenza di autocoscienza. Gli italiani, al pari di tutti gli “occidentali”, hanno curato specie negli ultimi due-tre secoli la crescita della propria identità individuale, per quanto altri valori – nazionali appunto, e in genere comunitari, nonché religiosi - si ponessero rispetto ad essa in controtendenza. Abbiamo quindi perduto la consapevolezza delle nostre tradizioni: e, d’altronde, anche della loro complessità. L’abbiamo perduta o, per meglio dire, l’abbiamo consapevolmente rimossa da noi: tra il primo-secondo e il settimo-ottavo decennio del nostro secolo gran parte della società italiana, da “destra” come da “sinistra”, ha fatto a gara nel respingere, rifiutare, deridere e dimenticare usanze e consuetudini ch’erano in realtà l’involucro esteriore di valori profondi. Come ha sostenuto Antonio Gramsci, l’unica autentica tradizione identitaria del popolo italiano nel suo complesso era quella legata ai riti, ai ritmi, ai valori etici della Chiesa cattolica: ma proprio contro di essi, giudicati in blocco nemici della libertà e del progresso, si è costruito gran parte del processo di unità nazionale noto col nome di “Risorgimento”. L’obliterazione è stata profonda e, allo stato presente delle cose, irreversibile: e si è tradotta perfino nella considerazione e nel sentimento del tempo, cioè in valori calendariali. Quanti di noi, che si dicono cattolici e che gridano di voler difendere le loro “tradizioni” contro gli assalti esterni (i “campanili contro i “minareti”…), sanno che cosa sono le Quattro Tempora o come si arriva a determinare calendariamente parlando la domenica di Pasqua?
La penisola italica è stretta e lunga: ha la sua spalla occidentale in Francia (anzi, nel mondo borgognone-provenzale), quella orientale tra mondo germanico e mondo slavo, lo sprone e il tallone in quello greco-illirico (un maestro, Ernesto de martino, ce l’ha insegnato molto bene), la punta del piede nel mondo arabo-africano; e le sue isole maggiori sono state per lungo tempo parte della realtà storico-linguistica iberica (come ben sanno i sardi catalanofoni). Fin dall’inizio del primo millennio a.C. – ma in realtà già da prima -, l’Ausonia-Enotria-Italia è stata “molo d’approdo” e “piano di scorrimento” di una quantità di genti ciascuna delle quali le ha apportato parti del proprio patrimonio etnico, religioso, linguistico. Anche a voler abbandonarsi alle semplificazioni e alle astrazioni piu estreme, si è costretti ad ammettere che non esistono soltanto italiani “settentrionali”, “centrali” e “meridionali”, italiani “adriatico-ionici” e “tirrenici”, ciascuno con caratteristiche dialettali e gergali che li distinguono. La stessa cultura “italiana” è in gran parte essa stessa dialettale e gergale: la “questione della lingua italiana” è in realta antica di oltre un millennio e - se vogliamo farla risalire ai sermones bassolatini – ancora di più: ma i tentativi di costruire una lingua italiana, già perpetrati anche da figure come Dante Alighieri e Pietro Bembo, hanno finito con il venir risolti d’autorità, quando “fatta l’Italia, restavan da fare gli italiani”, adottando secondo il modello suggerito da Alessandro Manzoni il cànone linguistico dei “fiorentini colti”. Il che significa che, mentre la lingua inglese si è per esempio radicata nel kings English grosso modo già definito nel XV secolo e il francese si è fissato grazie al lavoro dei poeti della “Pleiade” prima e dei philosophes settecenteschi poi, l’idioma italiano non ha ancora due secoli di vita ed è stato sempre insidiato, inficiato, “inquinato”, da quei dialetti che in realtà sono un’irrinunziabile ricchezza delle nostre genti. L’adozione forzosa dell’italiano, che insieme con al leva obbligatoria e la scuola primaria è stata uno dei piu potenti motori del processo d’integrazione nazionale tra 1860 e 1945, ha rischiato di farci perdere una quantità immensa e profonda di valori: basti pensare all’oblio purtroppo generalizzato, e comunque (per fortuna) solo apparente, della gran tradizione letteraria dialettale, dal Meli al Porta al Pascarella al Trilussa al Di Giacomo fino a Totò, a Eduardo e perfino allo stesso Pirandello che pur passa per un propagatore dell’italiano formalmente – e talora, in apparenza, “freddamente” – corretto, e che e stato capace di produrre un capolavoro assoluto come la traduzione in siciliano del Ciclope di Aristofane; uguagliato da Eduardo, con la sua splendida traduzione napoletana della Tempesta di Shakespeare. Si parla d’identità italiana: è pensabile, è esprimibile, senza la poesia, il teatro e perfino il cinema in dialetto, sia stato esso il napoletano che a lungo si e imposto nella canzone, il romanesco del cinema del secondo dopoguerra, ma anche il veneziano di Goldoni e di Gallina, il genovese di Govi, il friulano di Pasolini, il milanese di Rabagliati, il fiorentino-pratese di Benigni?
A ciò vanno aggiunti i valori religiosi, complicati dal peso storico che il papato, insediato nel centro della penisola, ha avuto sulla storia italiana, e dal fatto che la religione prevalente – appunto la cattolica – è ormai in crisi (vorrei ricordare al riguardo studi importanti, come quello di Pietro Prini o, più di recente, di Riccardo Chiaberge) – e che la maggior parte dei cattolici è fatta di “credenti” che sono soltanto sociologicamente tali; mentre esistono valori “laici”, che hanno potentemente contribuito alla costruzione storica di una “nazione italiana” unitaria, che sono in realtà profondamente anticlericali quando non addirittura, ed esplicitamente, anticattolici. Del resto, il rapporto tra politica e religione pesa sul nostro paese da molto prima dell’insorgere dell’anticlericalismo-anticattolicesimo di élite degli illuministi e delle logge massoniche: esiste una lontana tradizione antiecclesiale radicata nei movimenti religioso-popolari (e, come diceva Gioacchino Volpe, nelle “sette ereticali”) del medioevo, passata attraverso l’impietas soprattutto – ma non esclusivamente – ghibellina dei secoli XIII-XV (penso al “ghibellino” Ezzelino da Romano, ma anche al “guelfo” Sigismondo Pandolfo Malatesta), il non-conformismo di eretici e di “riformati” del Cinquecento – e ci soccorrono qui lezioni altissime, da Delio Cantimori a Giorgio Spini –, lo scetticismo “libertino” sei-settecentesco collegato con la rivoluzione scientifica allora in atto, per approdare all’anticlericalismo otto-novecentesco. Una storia lunga, alimentata dal circolo repressione-ribellione soprattutto nei territori dello stato pontificio; ma quanto ha pesato sulla costruzione dell’identita meridionale, nei decenni immediatamente successivi all’Unita, l’altro circolo tragico di repressione-ribellione, quello legato al “banditismo”; e l’altro ancora, quello dell’immigrazione tanto interna quanto diretta all’estero, in gran parte dovute alle esigenze dello sviluppo industriale del Nord a spese del sud e a questioni sociali eternamente irrisolte a causa di un pervicace sostegno dato dei governi dell’Italietta postrisorgimentale a un “sistema dell’ingiustizia sociale” che ha ad esempio impedito sistematicamente qualunque seria riforma agraria?
Ed eccoci pertanto, nonostante le infinite forme di massificazione e di omologazione dei giorni nostri, a un’”identità-mosaico” che non può non essere se non tale. Per esprimersi in termini schematici, ma pensati appunto per far emergere contrasti e contraddizioni: come possono ad esempio un italosettentrionale laico, maturo, di sesso maschile, mediamente abbiente, d’istruzione corrispondente alla scuola media secondaria, e una italomeridionale o isolana giovane, magari disoccupata e ragazza-madre, d’istruzione elementare o medio-primaria, nullatenente, cattolica oppure ebrea (e oggi magari musulmana), condividere la stessa “identita nazionale”? Di quali “Fratelli d’Italia” andiamo mai blaterando?
Questo è forse, dal punto di vista storico, il principale ostacolo da affrontare quando si parla di una “identità italiana”. La costruzione del processo unitario nazionale nel nostro paese non solo è stata recente (datando al massimo dalla fine del Settecento, ma in realtà piuttosto dalla meta dell’Ottocento): essa si è realizzata sulla base dell’adozione di un modello, quello centralizzatore di giacobina e bonapartistica memoria, ch’era per molti versi congruo con la tradizione storica del paese nel quale era nato, la Francia, ma che non era per nulla coerente con la storia della penisola. Ch’è storia policentrica, regionale, municipale, comprensoriale, cittadina, addirittura familiare (e qui hanno avuto ragione tanto Jacques Heers quanto Paul Ginsborg). Storia di varie “patrie” senza dubbio incoerenti e magari reciprocamente incompatibili, ma tuttavia profondamente e lungamente vissute, praticate, sentite: e soprattutto amate. “la patria, uno se la sceglie”, è stato detto; “La patria è quella dove si vive”; c’è chi ha sostenuto che al sua patria è il mondo intero; ma il detto più italiano fra tutti è quello di chi ha sentenziato che “la patria è la propria parte”.
In tedesco, vi sono per indicare la patria due parole: Vaterland, che qualifica in senso generale la “terra degli antenati”; e Heimat, da una radice linguistica significante il segreto, il mistero, il cuore nascosto delle cose.
Dinanzi a una nazione italiana centralizzata nata, e sviluppatasi contro le tradizioni antropologicamente stratificate (da etruschi e greci a celti, a longobardi, ad arabi), policentriche e regionalistiche delle genti italiche, e dopo un secolo e mezzo di vita nazionale ch’è per piu versi stata una “falsa partenza” (pensiamo al tentativo di trasformarsi in grande potenza europea e al suo lungo contraccolpo, che ha diviso e ancora in parte divide le coscienze), ora la “seconda repubblica”, se è nata, ha scelto la forma federalistica: il che vuol dire che ha in gran parte rifiutato un modello nel quale per un secolo e mezzo gli italiani avevano cercato e creduto d’identificarsi, bisogna trovare il coraggio di accettare il fatto che un’autentica “identita italiana” è ancora da costruire. E che va costruita di nuovo. Il che non implica un rifiuto del passato: bensì una rilettura storica faticosa e profonda (che ne e, ad esempio, della nostra grande tradizione municipalistica e regionale per quasi mezzo millennio vissuta e praticata all’interno di quegli stati italiani preunitari la storia, le istituzioni, la vita dei quali e stata forzosamente obliterata nell’ultimo secolo e mezzo, ma che pure hanno lasciato tracce profonde?). Il ripensamento storico (“revisionistico”, dira qualcuno: ma la storia è revisione continua di giudizi precedenti, o non è nulla) va accompagnato altresì da un atteggiamento positivo ed energico di fronte alla realtà presente e alle possibilità del futuro. Nessuno di noi puo rinunziare alla sua Heimat profonda. La mia, per esempio, è toscana, anzi fiorentina; e cattolica.
Ma la storia e la realtà attuale c’impongono non solo la consapevole accettazione di quel ch’è stato storicamente il nostro Vaterland, bensì addirittura la considerazione di quello che in tedesco si chiamerebbe il Grossvaterland, la “Grande Patria”: che per tutti noi è l’Europa, al di là del carattere insoddisfacente di quelle che a tutt’oggi sono le sue istituzioni comunitarie, che restano nonostante tutto una ricchezza e il cui percorso e sostanzialmente irreversibile, per quanto grazie a Dio non irriformabile. Ma io, questo mio “essere europeo”, lo vivo da euromeridionale, da “euroterrone”, cioè da euromediterraneo; cioè da europeo che si sente prossimo al Vicino Oriente e all’Africa settentrionale. Tutto ciò impone un recupero di valori magari antichi, magari dimenticati, ma al tempo stesso la scoperta di nuove frontiere ma anche di nuovi contenuti culturali, di nuove affinità, in grado di collaborare alla costruzione di un’”identità comunitaria” che ancora non esiste, e i desueti modelli storici della quale debbono esser per forza anzitutto esplicitati, cioè riportati alla conoscenza comune (e in cio il concorso di scuola e di massmedia sarebbe fondamentale), quindi messi in discussione.
Se riusciremo a vincere questa sfida, potremo parlare sul serio di una “identità italiana”. Nei Demoni di Dostoevskji uno dei personaggi più intensi, Shatov, a chi lo accusa di essere ateo risponde: “Io crederò in Dio”. Shatov intende dire che accetterà di dirsi credente se il popolo russo, nel suo insieme, saprà riscoprire gli autentici valori religiosi che stanno alla base della sua esperienza comunitaria profonda. Oggi, nei confronti dell’Italia, mi sento personalmente un po’ come Shatov: io crederò nell’Italia se, al di là di nostalgie e di nuovi fanatismi, sapremo riscoprirci italiani, anche aprendoci a chi ancora non è tale eppure in buona fede e buona volontà intende diventarlo, perché il ricambio è una forma di rinnovamento e rinnovarsi è indispensabile anche biologicamente, in tempi di decremento demografico principalmente dovuto sul piano delle scelte morali al benessere e al consumismo.
Recuperare valori – come dicevo or ora – magari addirittura antichi e dimenticati, quindi ripensarli (non si tratterebbe certo di un recupero archeologico-museale ) e proporli a nuovi concittadini, a gente venuta da fuori o nata e cresciuta fra noi ma figlia d’immigrati, e al tempo stesso non chiudersi alle sacrosante e legittime istanze di chi, trovando con noi e presso di noi una nuova patria, non per questo vuol voltare del tutto e repentinamente le spalle a quella che è stato costretto ad abbandonare (che cos’altro hanno fatto mai i nostri poveri connazionali costretti, fra Otto e Novecento, a cercar un pezzo di pane e una casa in America e in Australia?), potrà apparire come la quadratura del cerchio. Ma è la chiave di volta del rinnovamento e quindi del futuro: poiché, come e stato detto, o ci si rinnova o si perisce. Non si può stabilire una prognosi e una terapia adeguata, quando se ne ha bisogno, senza una lucida e spietata diagnosi.
E la diagnosi dello stato di salute dell’Italia è quella presentata nel rapporto ISTAT del gennaio 2010. Il paese sta progressivamente e rapidamente invecchiando; la nostra economia si regge in gran parte su un “lavoro nero” i proventi del quale finiscono in gran parte nelle tasche di gente che poi finanzia e fomenta, direttamente o indirettamente, la xenofobia e soffia sul fuoco della piu infame delle guerra, la guerra tra poveri; gli italiani sono ai primi posti nel mondo nel possesso e nell’uso dei telefonini portatili, ma cresce esponenzialmente l’ignoranza.
Non c’è dubbio che le generazioni che oggi sono adulte, mature o anziane, insomma quelle degli italiani nati nel mezzo secolo tra 1930 e 1980, sono le responsabili di tutto ciò. Se quelle nate nel mezzo secolo precedente ci hanno condotto alla guerra e alla rovina , le attuali – prendiamo in blocco quelle di chi oggi è padre o madre, nonno o nonna – sono le responsabili della cattiva e irresponsabile gestione degli anni della ricostruzione e del benessere. Le generazioni nate nel cinquantennio precedente gli Anni Trenta (ovviamente sto schematizzando un discorso che andrebbe attentamente articolato) sono forse ree di averci passato un cattivo, usurato, inquinato testimone; le nostre (io sono del ’40) lo sono di una colpa ancora peggiore, quella di non aver saputo consegnare ai loro figli alcun testimone: sono state il team latitante nella corsa a staffetta della storia. Ai nostri figli e nipoti, abbiamo consegnato solo un peraltro fragile benessere, insieme con la cultura dei consumi. Abbiamo permesso che essi crescessero nell’ignoranza quasi totale di quelli che globalmente si definiscono “valori immateriali”, prigionieri di una Civilta dell’Avere (ricordate il vecchio Erich Fromm?) che ha loro del tutto nascosto la Civilta dell’Essere. Su questo deserto sono cresciute le malepiante dell’indifferenza, dell’insensibilità, del disimpegno sociale, della diseducazione civica: le malepiante che hanno prodotto una società civile italiana largamente assente a se stessa, tutta pretesa di diritti e niente assunzione di doveri. Una società profondamente malata, dai livelli alti nei quali si evadono alla grande le tasse e si consumano gli abusi piu scandalosi ai livelli bassi di chi non è nemmeno in grado di capire l’importanza di un corretto modo di parcheggiare l’auto o di eseguire la raccolta differenziata dei rifiuti; e dalla noia, dall’angoscia, cui si risponde magari con la droga. Ma il vuoto morale e spirituale, il vuoto dei valori e dei doveri, è come qualunque altra forma di vuoto: non esiste. Viene immediatamente riempito. E, in una società ammalata di consumismo e di spettacolarismo, quel che riempie il vuoto è a sua volta per forza di cose costituito da falsi valori o da controvalori: dal carrierismo senza scrupoli nei casi “rampanti” alla ricerca di surrogati che abbiano una qualche lontana parvenza d’impegno civile ma che, pensati da e per soggetti incolti e corrotti, possono finir col costituire “rimedi” peggiori del male. E siamo alle false neoideologie che alimentano il patriottardismo da stadio, la xenofobia o, su una sponda solo formalmente ad essi opposta, le tentazioni neosettarie e neoterroristiche “di sinistra”.
Per reagire a tutto questo, per uscire dalla morta gora attuale, bisogna per forza rivolgersi ai giovani. Farlo anzitutto, noi adulti e magari anziani, partendo da un nostra culpa, nostra culpa, nostra maxima culpa che non sia una recriminazione pietosa, ma una virile assunzione di responsabilità. Oltre un secolo fa Giosué Carducci, rivolgendosi ai giovani del suo tempo dalla sponda della sua generazione, quella che aveva fatto il Risorgimento e aveva coscienza di averlo fatto male, poteva dedicar loro un intenso viatico, adatto ai suoi tempi: “Noi troppo odiammo, e sofferimmo: amate”. Ma noialtri, che abbiamo fallito il dopoguerra, il boom della società del benessere prima e del semimalessere ch’è venuto dopo, non abbiamo né odiato né sofferto: e soprattutto non abbiamo insegnato ai nostri ragazzi ad amare un bel niente. Li abbiamo solo lasciati a se stessi, senza parlar loro, senza comunicar né trasmettere (traditio deriva da tradere) loro un bel nulla nulla: soli nella loro consumistica sala-giochi, E non è solo un modo di dire. Quanti, che oggi hanno dai quarant’anni circa in giù, potrebbero testimoniare che la loro prima e vera, magari unica balia e compagna di giochi è stata la TV? Il danno che in tal modo abbiamo loro procurato, soprattutto al livello della devastazione dell’immaginario, è incommensurabile, inimmaginabile e irreparabile. La stessa crisi della fede cattolica, della famiglia, della scuola, della solidarietà, del principio positivo di autorità (che non è autoritarismo) sta sostanzialmente tutta qui. Dopo le macerie materiali del ’40-’45, è sulle rovine morali e culturali degli ultimi decenni, non meno impressionanti e terribili, che bisogna meditare. Per ricostruire con fatica e dolore, come nell’immediato dopoguerra. E non crediate che i detriti dell’anima si rimuovano più facilmente di quelli fatti di muri crollate e di metallo contorto; non crediate che l’edificio dello spirito si restauri prima e più facilmente dei monumenti e delle fabbriche distrutti dalle bombe.
Ricorriamo quindi alla necessaria medicina già prescritta da Max Weber: il disincanto. Cominciamo a esporre con chiarezza ai giovani d’oggi il quadro del nostro fallimento e dei rischi che essi corrono di conseguenza. Mostriamo loro come l’unico testimone che noi diamo l’impressione di aver loro passato, il Nulla, non può essere appunto un testimone: e che come tale va respinto. E ripartiamo: dal nostro linguaggio italiano, ch’è molto piu della lingua italiana convenzionalizzata e astrattizzata da un lavoro di nazionalizzazione delle masse che andava pur fatto, tra Otto e Novecento, ma che deve costituire una base e una traccia, non una gabbia. Ripartiamo dal linguaggio della nostra storia policentrica, delle nostre tradizioni in gran parte dimenticate e tutte da riscoprire, della nostra sensibilità collettiva, del Bello che nei secoli le genti d’Italia hanno saputo produrre e proporre al mondo: e scegliamo quanto di tutto ciò costituisce un capitolo da sigillare e riporre sia pur con venerazione nella nostra memoria collettiva (da non relegare nell’oblio, quindi), e quanto è invece ancora fecondo e suscettibile di esser condiviso con i nuovi compagni di strada, con i nuovi compatrioti che vengono in gran parte a colmare un vuoto – anche demografico – del quale non loro bensi noi portiamo la colpa, mentre essi ne sono semmai le vittime, dal momento che il nostro pluridecennale benessere si è fondato sugli squilibri di una globalizzazione che nelle parti del mondo che essi o i loro padri sono stati costretti ad abbandonare ha prodotto ingiustizia e miseria. Vengono da lontano, privi di tutto o quasi dal punto di vista materiale, ma carichi di ricchezze morali e culturali che a loro volta debbono esser pronti a valorizzare e a condividere. In tal modo, potremo creare insieme nuove sintesi: perche un processo storico si alimenta sempre e soltanto di nuove sintesi, lontano dagli opposti pericoli del progressismo e del mondialismo astratti che sono rifiuto del passato e delle chiusure xenofobe che sembrano difensive e sono invece suicide perche costituiscono il rifiuto del futuro.
Questa è, qui e ora, la nostra battaglia d’italiani. Confesso di non riuscir ad amare granché l’Italia d’oggi. Sento, come si espresse uno scrittore francese di qualche decennio fa, che mon pays me fait mal. Ma, se la facessimo a vincere questa battaglia, avrei la forza di ricredermi. E anch’io potrei dire col poeta del Novecento che piu amo, lo Ezra Pound dei Canti pisani: “Credo nell’Italia, e nella sua impossibile rinascita”.
di Franco Cardini

La questione energetica fondamento di una economia sostenibile



https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_h8lnYfe4FpNLPS0tR4tti1t4JHIyZwswnFtqnmQhsDpy90pkt9-Bk-TjPRdMqsZTvTsL3dUI3cRxJ3r0QpjMLrq0SLLtusDGoZss78u2Au81cnnXOrPWDwO36jH1TIefr1k3Eg/s320/root-chakra-catherine-g-mcelroy.jpg

La catastrofe giapponese ripropone tramite la discussione sul nucleare il tema dell'energia. Le risorse energetiche infatti sono l’elemento sostanziale per ogni interpretazione del modello di sviluppo economico. Quest’ultimo se si ritiene illimitato nell’espansione dei mercati per mezzo dell’allargamento dei consumi, non è dato in fisica giacché le risorse naturali per definizione sono scarse e limitate. In effetti, le flebili voci ambientaliste sembrano spesso ispirate più all’utopismo irrealistico, che ad una consapevolezza politica, fondata sulla contraddizione ingenerata tra la cultura e la natura dall’utilitarismo economicista e il pragmatismo tecnologico. D’altra parte le patologie prodotte dal modello di sviluppo industriale sono oggi di tale portata, che è credibile, finanche popolare, proporre un mutamento di paradigma capace di superare la modernità sul piano della sostenibilità ecologica e la responsabilità sociale e politica. Nella fattispecie, il sistema energetico italiano si fonda essenzialmente sulle fonti fossili: gas naturale, petrolio e suoi derivati, carbone. Ben il 67% dei 318 TWh di energia complessivamente consumati proviene, infatti, da centrali termoelettriche, equamente insediate nel territorio nazionale. Le fonti rinnovabili contribuiscono per il 16-17%. Prevalente è l’idroelettrica, prodotta soprattutto in centrali dell’Italia del Nord, che occupa una quota del 15%. Il residuo 2% viene dalla geotermia, dalle biomasse e dai rifiuti e, in misura minore, dall’eolico che fornisce, insieme al fotovoltaico, 1.183 GWh d’energia e che appare in crescita. A completare l’offerta ci sono infine le importazioni dirette di energia dai paesi confinanti, che pesano per un 16%. Il rifornimento avviene soprattutto da Francia e Svizzera, seguite da Austria, Slovenia e, in misura ridotta, Grecia. Dall’esame di questi sommari dati, spiccano agli occhi tre evidenze: l’elevato utilizzo di combustibili fossili, il ridotto apporto delle fonti pulite e rinnovabili, la notevole dipendenza dall’estero del nostro sistema energetico. Partiamo da quest’ultimo aspetto. Poveri di risorse tradizionali, siamo costretti ad approvvigionarci largamente dall’estero, acquistando sia combustibili sia elettricità. In tal senso, la localizzazione delle esigenze energetiche contribuirebbe ad un processo di consapevolezza ecologica delle fonti e responsabilizzazione sociale e politica dal basso verso l’alto, attivando un modello sussidiario e comunitario di autonomia e indipendenza che avrebbe un impatto virtuoso in efficienza ed efficacia economica. Altra evidenza, si è detto, è l’eccessivo utilizzo di fonti fossili. Escluse le importazioni di elettricità, ricorriamo per l’81% della nostra produzione alle fonti non rinnovabili, con pesanti conseguenze ambientali: è noto che, a livello mondiale, oltre il 75% dell’emissione di anidride carbonica (il principale gas responsabile del cosiddetto effetto serra) è imputabile alla combustione di fonti fossili (essenzialmente carbone e petrolio). Sappiamo delle controversie tra i paesi industrializzati occidentali e i Paesi emergenti sulla reale volontà di adottare la riduzione delle emissioni di gas serra, che ha visto recentemente a Copenhagen l’ultimo - ma non ultimo - atto internazionale. La tendenza, in effetti, è ad un continuo aumento della domanda di energia, anche se, in linea con gli altri paesi più industrializzati, negli ultimi anni il tasso di crescita si è stabilizzato su una media del 2-3%: merito sia di un uso più efficiente dell’energia, sia dello spostamento della nostra economia verso un terziario avanzato, a più bassa intensità energetica. Da questo punto di vista sarebbe auspicabile un mutamento di paradigma socio-economico. In un contesto di tarda o post-modernità, con una economia sempre più smaterializzata, declinare la tecnologia e le priorità socio-culturali su priorità in controtendenza - oggi percepite nell’opinione pubblica - incentrate sulla qualità della vita, la sua sacralità e quindi armonia naturale, è praticabile anche in termini di consenso diffuso.
Le fonti energetiche rinnovabili sono quelle fonti il cui utilizzo non ne comporta l’estinzione: sono quindi tendenzialmente infinite ed, in genere, pulite (la valutazione sull’impatto ambientale e salutare va fatta in relazione all’intero ciclo di vita). Sono il sole, il vento, l’energia idraulica, le maree, la geotermia e le biomasse. In Italia la miopia politica e culturale, indotta dai forti interessi economici dominanti, si è concentrata quasi completamente sulle fonti rinnovabili “convenzionali”, vale a dire energia idraulica, geotermica e da biomasse. Minoritario resta invece l’apporto di sole e vento (che solo in questi ultimi anni sta diffondendosi), inesistente quello dell’energia marina, mentre l’idrogeno resta ad uno stato ancora di studio con aspetti molto contraddittori in merito alle implicazioni ecologiche di tale prodotto energetico. Le speranze concrete per il futuro sono essenzialmente due: sole e vento. Sono fonti veramente rinnovabili, eterne, pulite, gratuite e senza padrone. Sebbene da secoli l’uomo sfrutti la potenza del vento, è solo negli ultimi decenni che ne riesce a trarne anche elettricità. Il potenziale mondiale è enorme: secondo gli studi, da 20 a 50mila TWh, ben al di sopra, quindi, dell’attuale fabbisogno globale del Pianeta.
La forte domanda si accompagna ad un progressivo affinamento della tecnologia eolica: dai primi generatori a due o anche una sola pala, siamo ormai assestati su quelli a tre pale, le cui dimensioni sono progressivamente aumentate. Ciò ha consentito un aumento della potenza (in 20 anni aumentata di 60 volte) ma non parallelamente dei costi (aumentati solo di 10 volte), grazie alle economie di scala. Caso esemplare dei vantaggi offerti dalle nuove FER anche a livello economico e occupazionale è quello della Danimarca. I danesi, che soddisfano con l’eolico il 20% del loro fabbisogno nazionale, hanno oggi il primato mondiale nel settore, con tre grandi imprese tra le prime dieci del pianeta ed una quota di mercato pari al 50% delle richieste mondiali. Quella eolica rappresenta oggi la prima industria della Danimarca, con 25.000 nuovi occupati. Interessante è anche il sistema di gestione degli impianti, affidati, sulla base di un azionariato popolare, a migliaia di piccoli investitori privati. In Italia gli impianti sono quasi tutti concentrati sui rilievi dell’Appennino centro-meridionale (Abruzzo, Molise, Puglia, Campania. Tra i limiti che ostacolano una maggiore diffusione degli aerogeneratori, oltre alla basilare diversa esposizione ai venti, ci sono le resistenze locali (spesso animate da un risentito provincialismo), dovute all’innegabile impatto paesaggistico, all’inquinamento acustico e alle interferenze elettromagnetiche. Ancor più del vento, infatti, è il Sole, fonte di vita per eccellenza, che potrà risolvere i nostri problemi energetici. Il potenziale teorico è sconfinato: a seconda degli studi, 10-15.000 volte l’attuale fabbisogno mondiale. Tutto sta nel riuscire a “catturare” le radiazioni solari e a trasformarle in energia: una sfida tecnologica che negli ultimi anni sta registrando crescenti successi. L’energia solare può essere utilizzata per produrre calore o elettricità. Il primo uso è quello del cosiddetto “solare termico”, con i collettori per l’acqua calda per usi sanitari e per il riscaldamento degli edifici. Nelle realizzazioni più avanzate, si accompagna ad un termico passivo, che cattura il calore solare grazie ad una buona progettazione degli edifici. Paradossalmente, la loro diffusione è maggiore in paesi con insolazione minore: Germania ed Austria, mentre l’Italia, inondata dal sole per almeno otto mesi all’anno, è in un incomprensibile ritardo. C’è poi il solare fotovoltaico, per produrre elettricità. Si fonda sulle celle solari a base di silicio che, esposte alle radiazioni solari, originano cariche elettriche. L’efficienza di conversione delle celle è oggetto di un continuo affinamento tecnologico. Elettricità dal sole è poi prodotta anche grazie agli impianti a concentrazione, che moltiplicano la temperatura delle radiazioni solari grazie alla concentrazione dei raggi su un unico punto, utilizzando il sistema degli specchi di Archimede.
L’efficienza dei vari sistemi è ancora da perfezionare. I costi economici, in particolare, non sono ancora competitivi, e restano più alti di quelli dell’energia prodotta con fonti fossili, ma la valutazione sulla convenienza va presa su parametri non riduttivamente economicistici, ovviamente. Con l’attuale tendenza alla riduzione dei costi unitari, si conta, ad esempio, sull’assoluta competitività entro un arco di 10 anni. Il solare, resta, indubbiamente, la grande speranza. È una fonte pulita, veramente rinnovabile, eterna, gratuita e largamente diffusa. Non presenta, inoltre, problemi di impatto, se non, per le grandi centrali, per lo spazio richiesto. Ma la sua vera diffusione non sembra legata ai grandi impianti, quanto invece a piccoli impianti, in grado di soddisfare le esigenze dei singoli nuclei abitativi. Ma il discorso sulle fonti rinnovabili va reso completo con una “settima fonte”, forse la più “strategica”: il risparmio energetico conseguente ad un uso razionale della risorsa. A differenza del risparmio da “sobrietà”, che è centrale nella logica di una scelta di stile di vita critico verso i consumi superflui, il risparmio da uso razionale dell’energia consente di disegnare un quadro di operatività economica sostenibile con un minore dispendio di risorse, grazie alla sensibilità culturale, imprenditoriale e l’indipendenza del “politico” dai ricatti dei gruppi d’interesse consolidati.
Fonti rinnovabili e contenimento dei consumi tramite una diversa consapevolezza e un uso razionale dell’energia sono la realistica alternativa alle centrali a fonti fossili. Sono obiettivi possibili, che richiedono una lugimirante volontà politica e consapevolezza sociale. Il territorio è il luogo naturale di questa grande battaglia, che coinvolge lo stile di vita individuale in un contesto comunitario e partecipativo, solidale perché sussidiario. Le ricadute, sarebbero positive non solo per la devastata salute del nostro pianeta, ma anche per i risvolti strategici, economici e occupazionali. Una vera rivoluzione fattuale, per mutare l’attuale modello di sviluppo.
di Eduardo Zarelli

16 marzo 2011

Fukushima: "mi dite che cazzo sta succedendo"



Non è il banale gusto del turpiloquio a suggerire il titolo di questo aggiornamento sulla crisi nucleare giapponese, ma la traduzione, forse un po’ brutale ma realistica, della frase che, riportano Kyodo News e un quotidiano svedese, il primo ministro nipponico Naoto Kan ha rivolto ai dirigenti della TEPCO, la società elettrica che gestisce la centrale di Fukushima. Kan è frustrato che ancora la situazione non si risolva, anzi vada peggiorando di ora in ora. Ma anche perché cominciano le reticenze interne e incrociate. Pare infatti che la notizia dell’ultima esplosione al reattore n.2 di Fukushima e di un incendio al reattore n.4 sia stata data al primo ministro con un’ora di ritardo. Comincia a saltare la catena comunicativa, insomma, ed è una pessima notizia.


Circa 250 dei 300 operatori attivi nella centrale sono stati evacuati. A gestire sei reattori in crisi di raffreddamento attualmente sono solo in 50. Lavoratori con aspirazioni da kamikaze probabilmente, affiancati, a quanto pare, anche da esperti americani. Nel frattempo si annuncia che l’incidente di Fukushima è stato promosso al livello 6, su una scala di 7 (record stabilito solo da Cernobyl). L’area di evacuazione è passata da 20 a 30 chilometri, e il sindaco di Tokio ha ufficializzato la presenza di radiazioni sulla città, però a un livello non dannoso alla salute. Ovviamente… Un’osservazione che contrasta con l’invito di tutte le ambasciate diretto ai propri dipendenti a lasciare quanto prima la capitale.

Ma tutto il quadro contrasta aspramente con il mantra che dal Giappone arriva insistentemente, rilanciato con forza da tutti i gruppi d’interesse legati al nucleare, con media asserviti al seguito: “Fukushima non è come Cernobyl”. Non ancora, risponde qualcuno. È peggio, osservano altri. Quello che appare chiaro già oggi è che l’evento di Fukushima avrà in comune con Cernobyl il ritardo con cui verranno finalmente scoperte le carte. Per chi non ha memoria: l’allora URSS tenne nascoste le reali proporzioni dell’incidente per giorni e giorni, ammettendo tutto solo davanti all’evidenza, quando ormai la nube si era diffusa in modo tale da renderne molto difficoltoso il monitoraggio.

Allora era l’orgoglio sovietico, sancito da un regime dittatoriale, a trattenere le informazioni. Oggi è un’altra forma di dittatura a tenere a freno a fatica il flusso informativo: la dittatura dell’industria e degli interessi legati al nucleare. Anche in questo caso, attendiamocelo, la reale proporzione sarà chiara solo quando l’evidenza sarà tale da non poter essere più negata. C’è chi ha fatto tesoro dell’esperienza sovietica, come i tedeschi, i cui boschi orientali sono ancora soggetti a divieti di raccolta di frutti o funghi per la presenza di radionuclidi persistenti nel terreno. Non a caso ieri ben 400 manifestazioni antinucleari si sono tenute in tutta la Germania. Altrove, come in Italia, si lascia ufficialmente il tema a una Prestigiacomo qualunque, terrea in volto nel parlare di cose che non sa.

Per il resto l’opposizione, da noi, viaggia ancora e sempre in Rete, dove si organizzano gruppi e si propongono manifestazioni, probabilmente destinate ad abortire a causa delle solite varie divisioni all’italiana, in questo caso fra i diversi gruppi antinuclearisti, ognuno convinto di avere l’unzione esclusiva per organizzare mobilitazioni popolari e indisponibile ad accodarsi a quelle di altri, pur di fronte a un interesse comune. Resta la difficoltà giornalistica a scrivere pezzi riguardanti situazioni così capaci di mutare da un momento all’altro. Mentre scrivo, la Reuters notifica che le radiazioni nella sala controllo del reattore n.4 di Fukushima sono troppo alte per permettere il lavoro degli operatori, e quindi verrà presto abbandonata. Ma in questo contesto non sono le notizie date ad angosciare, bensì quelle non date. In particolare, parafrasando Naoto Kan, qualcuno vuole dirci che cazzo sta succedendo alle barre irradiate presenti nelle vasche di raffreddamento e al combustibile di plutonio del reattore n.3?
di Davide Stasi

17 marzo 2011

L'identità italiana. Oggi Festa dell'Unità d'Italia.


http://www.comune.roma.it/was/repository/ContentManagement/information/N1181201501/logo%20italia%20unita%20grande.JPG

Credo che, quando si parla di “identità”, se si vuol far un discorso corretto si debba cominciare a circoscriverne i caratteri. L’identità è la coscienza di se stessi – anzitutto “sentita” e “vissuta”, ma della quale bisogna pur sforzarsi di acquisire razionale consapevolezza -: pertanto della propria specificità, di quel che distingue “noi” dagli “altri” e della gradualità, appunto, dell’essere “noi” rispetto agli “altri”, secondo criteri di maggiori o minori prossimità e/o affinità. Il che significa che l’identità è per sua natura dinamica (in quanto si modifica nella storia) e imperfetta (in quanto nessuna comunità, come del resto nessun individuo, può vantare un’identità assoluta, metafisica e metastorica, “globale”: ciascuna identità si misura su concreti parametri storici, spaziali, genetici, linguistico-dialettali, religiosi, antropologici).
Nell’Italia d’oggi si è affermata a livello politico e massmediale una sorta di “neolingua”, di nefasta orwelliana memoria, che rischia di render le acque della nostra reciproca comprensione più torbide di quanto già non siano. E’ la “neolingua” nel nome della quale, ad esempio, si definisce “buonismo” qualunque tipo di atteggiamento caratterizzato da quel che si giudica un eccesso di tolleranza, di altruismo, di umanitarismo, di comprensione, spinto fino alla debolezza: e nel nome del quale troppo facilmente si condannano le scelte tese a risolvere i nuovi problemi che il presente c’impone di affrontare (ad esempio l’immigrazione illegale e il disagio causato dalle vecchie e dalla nuove povertà) con equilibrio e senso di solidarietà. Spesso, si disprezza e si condanna come “buonismo” quella ch’è solo la vecchia, cara carità cristiana.
Allo stesso modo si usa di solito condannare, o comunque guardare con sospetto, il cosiddetto “relativismo”. Al riguardo vanno però notate almeno due cose. Primo: non bisogna confondere il concetto di “relativismo morale” – che implica un’adattabilità utilitaristica di concetti e valori di per sé concepiti come innegoziabili – con il “relativismo antropologico”, che altro non è – ce l’ha insegnato un grande scienziato ch’era anche un grande spirito libro, Claude Lévi-Strauss – se non il principio secondo il quale ciascuna cultura va compresa e giudicata alla luce dei criteri e dei valori che le sono propri. Secondo: bisogna guardarsi dal giudicare comunque come frutto di “relativismo” quel ch’è invece, in ogni caso, applicazione del principio della “relatività”, che è caratteristico dei parametri storici e politici. Difatti, è del tutto legittimo perseguire principi assoluti: ma senza dimenticare che l’Assoluto è un parametro teologico, mistico e filosofico, che non può essere tradotto se non in modo mediato e articolato nella realtà storica. La convivenza tra principi religiosi e filosofici differenti è difatti una prassi politica, tesa a salvare l’essenziale di quanto nella culture “altrui” è considerabile come assoluto, senza danneggiare tuttavia i valori assoluti di nessuno, e quindi imparando a rinunziare a quanto essenziale non sia. Bisogna tener presente che il contrario del “relativismo” non è, come potrebbe sembrare, l’”assoluta obiettività”: ma è, al contrario, il più spudorato soggettivismo elevato arbitrariamente a categoria generale e universale. Chi ad esempio ritiene “relativistico” l’atteggiamento di quanti rifiutano d’imporre agli altri, come cànone civile, gli esiti delle proprie convinzioni personali a livello religioso e morale, dimentica che tali convinzioni sono senza dubbio assolute e innegoziabili a livello intimo e personale (in sede di “fòro interno”, come una volta si sarebbe detto): ma – in una società che si autodefinisce “laica” e che tiene alla sua “laicità” – l’unico modo non già d’imporle, bensì di proporle agli altri è il discuterne pacatamente e il dimostrarne razionalmente l’eccellenza. “Voi vincerete, ma non convincerete”, è affermato nell’altissima replica pronunciata nell’Università di Salamanca, nell’ottobre del 1936, da Miguel de Unamuno al Viva la Muerte! del generale Millan Astray. Questa è la vera sfida che chiunque si senta portatore di valori assoluti in una società laica è chiamato a raccogliere: convincere chi non li condivide che essi sono quelli giusti, o quanto meno quelli piu opportuni.
Ecco perché il discorso sulle identita, essendo per sua natura storico, sociologico, antropologico e sul piano dei valori pratici anche politico, non può svilupparsi se non all’interno di un contesto di “segni” e di significati relativi: e anche chi li viva come assoluti non può non accettare questo piano di discussione, dal momento che appunto di storia, di sociologia, di antropologia e di politica qui si parla, non di teologia o di filosofia o di mistica.
Ora, le “identità”, tutte, hanno la caratteristica fondamentale della pluralità: esse possono inoltre presentarsi tanto come comunitarie quanto come individuali. Esse sono inoltre – come all’inizio di questo discorso dicevamo - dinamiche, essendo soggette al mutamento storico; e imperfette, in quanto alla loro configurazione dinamica concorrono ordinariamente fattori identitari provenienti da altra origine.
Un’identita “nazionale”, ad esempio, non può sacrificare la sua complessità a proposte riduttive che intendano semplificarla. La “nazione” si sovrappone difatti, magari con l’ambizione di sintetizzarle ma senza necessariamente risolverle tutte in se stessa, a una serie di “identità” non solo individuali, ma altresì familiari, cittadine, municipali, regionali, che corrispondono ad altrettanti complessi modi di essere i quali si traducono anche in valori linguistici, etici, addirittura estetici. Esistono inoltre altre dimensioni, esse stessi identitarie, che sono ad esempio quelle religiose, da cui dipendono in gran parte le stesse scelte etiche e civiche (indirettamente perfino estetiche: in quanto simboliche). Le scelte e le tradizioni religiose incidono potentemente sulle identità nazionali, che sono storicamente parlando più “giovani” di esse: tuttavia solo di rado e di solito per brevi periodi, nella storia umana, valori nazionali e valori religiosi (pensiamo a una religione “storica”, incarnata anche in istituzioni ecclesiali o comunque socioculturali concrete) coincidono. A ciò si aggiungono, a completare ma anche a complicare il quadro identitario comune all’interno del quale ogni individuale componente di esso dovrebbe pienamente riconoscersi, altre componenti che sono certo connesse con fattori storici e religiosi, ma che tuttavia riguardano a livello più intimo il nostro essere e il nostro divenire: il sesso con le relative inclinazioni individuali e il valore sociale che ciascuna di esse riveste, la fascia d’età, la condizione socioeconomica, quella psico biologica (lo stato di salute, le aspirazioni, la “speranza di vita”, la “ricerca della felicità”), quella socioculturale.
Prima di procedere oltre, va a questo punto introdotta una considerazione storica fondamentale. Il cammino della Modernità occidentale, dal Cinquecento e con maggior forza dal Settecento in poi, è stato caratterizzato da un crescente ipertrofizzarsi dell’identità individuale, dell’ego, a vantaggio del quale si è teso a progressivamente sacrificare ogni altra identità: soprattutto quelle comunitarie, che per molteplici generazioni sono state considerate un ostacolo all’affermarsi – “assoluto”, appunto…- della Libertà e della Volontà dell’individuo. Ci si deve anzi render conto che questo è appunto, a tutt’oggi, il grande problema di quella che usiamo definire la “civiltà occidentale”: una dicotomia, che può rischiar di portar alla schizofrenia, tra la considerazione dei Diritti Umani (irrinunciabile, appunto, per noi occidentali: che anzi vi guardiamo come a un insieme di valori assoluti e universali) e la Volontà di Potenza individualistica, che in determinati momenti storici può essersi proiettata comunitariamente in progetti di tipo nazionale o classistico, ma che comunque è di per sé insofferente di limiti. Si è provato più volte, nella storia recente e meno recente (dal colonialismo sette-novecentesco alle recenti crisi irakena e afgana) a convincer noi stessi e gli altri che Diritti Umani generali e Volontà di potenza, quindi interessi, “occidentali” coincidevano. Ma si è sempre trattato di un escamotage che ha sempre dovuto scoprir presto i suoi limiti: che insomma, a dirla appunto con de Unamuno, non ha mai “convinto” neppure quando ha “vinto”: e, che del resto, nemmeno la brutalità delle armi è mai davvero risucita ad imporre, come appunto i “casi” irakeno e afghano drammaticamente dimostrano.
Ora, proprio questo è il punto su cui si deve forse innescare un progetto, se non addirittura attuare una scelta. Noi italiani di oggi – e non siamo i soli: anzi, siamo in ottima compagnia occidentale – abbiamo difficoltà a immaginare sul serio una “identità” che non sia soprattutto e anzitutto quella individuale, al massimo estensibile ai cerchi identitari di prossimità familiare e amicale. Quando invece, riferendosi al piano comunitario, molti parlano di “identità minacciata”, bisogna tener ben presente che le “identità” possono bensì venir combattute o addirittura represse: tuttavia, esse sono minacciate sul serio solo dal loro interno, dalla mancanza o dalla carenza di autocoscienza. Gli italiani, al pari di tutti gli “occidentali”, hanno curato specie negli ultimi due-tre secoli la crescita della propria identità individuale, per quanto altri valori – nazionali appunto, e in genere comunitari, nonché religiosi - si ponessero rispetto ad essa in controtendenza. Abbiamo quindi perduto la consapevolezza delle nostre tradizioni: e, d’altronde, anche della loro complessità. L’abbiamo perduta o, per meglio dire, l’abbiamo consapevolmente rimossa da noi: tra il primo-secondo e il settimo-ottavo decennio del nostro secolo gran parte della società italiana, da “destra” come da “sinistra”, ha fatto a gara nel respingere, rifiutare, deridere e dimenticare usanze e consuetudini ch’erano in realtà l’involucro esteriore di valori profondi. Come ha sostenuto Antonio Gramsci, l’unica autentica tradizione identitaria del popolo italiano nel suo complesso era quella legata ai riti, ai ritmi, ai valori etici della Chiesa cattolica: ma proprio contro di essi, giudicati in blocco nemici della libertà e del progresso, si è costruito gran parte del processo di unità nazionale noto col nome di “Risorgimento”. L’obliterazione è stata profonda e, allo stato presente delle cose, irreversibile: e si è tradotta perfino nella considerazione e nel sentimento del tempo, cioè in valori calendariali. Quanti di noi, che si dicono cattolici e che gridano di voler difendere le loro “tradizioni” contro gli assalti esterni (i “campanili contro i “minareti”…), sanno che cosa sono le Quattro Tempora o come si arriva a determinare calendariamente parlando la domenica di Pasqua?
La penisola italica è stretta e lunga: ha la sua spalla occidentale in Francia (anzi, nel mondo borgognone-provenzale), quella orientale tra mondo germanico e mondo slavo, lo sprone e il tallone in quello greco-illirico (un maestro, Ernesto de martino, ce l’ha insegnato molto bene), la punta del piede nel mondo arabo-africano; e le sue isole maggiori sono state per lungo tempo parte della realtà storico-linguistica iberica (come ben sanno i sardi catalanofoni). Fin dall’inizio del primo millennio a.C. – ma in realtà già da prima -, l’Ausonia-Enotria-Italia è stata “molo d’approdo” e “piano di scorrimento” di una quantità di genti ciascuna delle quali le ha apportato parti del proprio patrimonio etnico, religioso, linguistico. Anche a voler abbandonarsi alle semplificazioni e alle astrazioni piu estreme, si è costretti ad ammettere che non esistono soltanto italiani “settentrionali”, “centrali” e “meridionali”, italiani “adriatico-ionici” e “tirrenici”, ciascuno con caratteristiche dialettali e gergali che li distinguono. La stessa cultura “italiana” è in gran parte essa stessa dialettale e gergale: la “questione della lingua italiana” è in realta antica di oltre un millennio e - se vogliamo farla risalire ai sermones bassolatini – ancora di più: ma i tentativi di costruire una lingua italiana, già perpetrati anche da figure come Dante Alighieri e Pietro Bembo, hanno finito con il venir risolti d’autorità, quando “fatta l’Italia, restavan da fare gli italiani”, adottando secondo il modello suggerito da Alessandro Manzoni il cànone linguistico dei “fiorentini colti”. Il che significa che, mentre la lingua inglese si è per esempio radicata nel kings English grosso modo già definito nel XV secolo e il francese si è fissato grazie al lavoro dei poeti della “Pleiade” prima e dei philosophes settecenteschi poi, l’idioma italiano non ha ancora due secoli di vita ed è stato sempre insidiato, inficiato, “inquinato”, da quei dialetti che in realtà sono un’irrinunziabile ricchezza delle nostre genti. L’adozione forzosa dell’italiano, che insieme con al leva obbligatoria e la scuola primaria è stata uno dei piu potenti motori del processo d’integrazione nazionale tra 1860 e 1945, ha rischiato di farci perdere una quantità immensa e profonda di valori: basti pensare all’oblio purtroppo generalizzato, e comunque (per fortuna) solo apparente, della gran tradizione letteraria dialettale, dal Meli al Porta al Pascarella al Trilussa al Di Giacomo fino a Totò, a Eduardo e perfino allo stesso Pirandello che pur passa per un propagatore dell’italiano formalmente – e talora, in apparenza, “freddamente” – corretto, e che e stato capace di produrre un capolavoro assoluto come la traduzione in siciliano del Ciclope di Aristofane; uguagliato da Eduardo, con la sua splendida traduzione napoletana della Tempesta di Shakespeare. Si parla d’identità italiana: è pensabile, è esprimibile, senza la poesia, il teatro e perfino il cinema in dialetto, sia stato esso il napoletano che a lungo si e imposto nella canzone, il romanesco del cinema del secondo dopoguerra, ma anche il veneziano di Goldoni e di Gallina, il genovese di Govi, il friulano di Pasolini, il milanese di Rabagliati, il fiorentino-pratese di Benigni?
A ciò vanno aggiunti i valori religiosi, complicati dal peso storico che il papato, insediato nel centro della penisola, ha avuto sulla storia italiana, e dal fatto che la religione prevalente – appunto la cattolica – è ormai in crisi (vorrei ricordare al riguardo studi importanti, come quello di Pietro Prini o, più di recente, di Riccardo Chiaberge) – e che la maggior parte dei cattolici è fatta di “credenti” che sono soltanto sociologicamente tali; mentre esistono valori “laici”, che hanno potentemente contribuito alla costruzione storica di una “nazione italiana” unitaria, che sono in realtà profondamente anticlericali quando non addirittura, ed esplicitamente, anticattolici. Del resto, il rapporto tra politica e religione pesa sul nostro paese da molto prima dell’insorgere dell’anticlericalismo-anticattolicesimo di élite degli illuministi e delle logge massoniche: esiste una lontana tradizione antiecclesiale radicata nei movimenti religioso-popolari (e, come diceva Gioacchino Volpe, nelle “sette ereticali”) del medioevo, passata attraverso l’impietas soprattutto – ma non esclusivamente – ghibellina dei secoli XIII-XV (penso al “ghibellino” Ezzelino da Romano, ma anche al “guelfo” Sigismondo Pandolfo Malatesta), il non-conformismo di eretici e di “riformati” del Cinquecento – e ci soccorrono qui lezioni altissime, da Delio Cantimori a Giorgio Spini –, lo scetticismo “libertino” sei-settecentesco collegato con la rivoluzione scientifica allora in atto, per approdare all’anticlericalismo otto-novecentesco. Una storia lunga, alimentata dal circolo repressione-ribellione soprattutto nei territori dello stato pontificio; ma quanto ha pesato sulla costruzione dell’identita meridionale, nei decenni immediatamente successivi all’Unita, l’altro circolo tragico di repressione-ribellione, quello legato al “banditismo”; e l’altro ancora, quello dell’immigrazione tanto interna quanto diretta all’estero, in gran parte dovute alle esigenze dello sviluppo industriale del Nord a spese del sud e a questioni sociali eternamente irrisolte a causa di un pervicace sostegno dato dei governi dell’Italietta postrisorgimentale a un “sistema dell’ingiustizia sociale” che ha ad esempio impedito sistematicamente qualunque seria riforma agraria?
Ed eccoci pertanto, nonostante le infinite forme di massificazione e di omologazione dei giorni nostri, a un’”identità-mosaico” che non può non essere se non tale. Per esprimersi in termini schematici, ma pensati appunto per far emergere contrasti e contraddizioni: come possono ad esempio un italosettentrionale laico, maturo, di sesso maschile, mediamente abbiente, d’istruzione corrispondente alla scuola media secondaria, e una italomeridionale o isolana giovane, magari disoccupata e ragazza-madre, d’istruzione elementare o medio-primaria, nullatenente, cattolica oppure ebrea (e oggi magari musulmana), condividere la stessa “identita nazionale”? Di quali “Fratelli d’Italia” andiamo mai blaterando?
Questo è forse, dal punto di vista storico, il principale ostacolo da affrontare quando si parla di una “identità italiana”. La costruzione del processo unitario nazionale nel nostro paese non solo è stata recente (datando al massimo dalla fine del Settecento, ma in realtà piuttosto dalla meta dell’Ottocento): essa si è realizzata sulla base dell’adozione di un modello, quello centralizzatore di giacobina e bonapartistica memoria, ch’era per molti versi congruo con la tradizione storica del paese nel quale era nato, la Francia, ma che non era per nulla coerente con la storia della penisola. Ch’è storia policentrica, regionale, municipale, comprensoriale, cittadina, addirittura familiare (e qui hanno avuto ragione tanto Jacques Heers quanto Paul Ginsborg). Storia di varie “patrie” senza dubbio incoerenti e magari reciprocamente incompatibili, ma tuttavia profondamente e lungamente vissute, praticate, sentite: e soprattutto amate. “la patria, uno se la sceglie”, è stato detto; “La patria è quella dove si vive”; c’è chi ha sostenuto che al sua patria è il mondo intero; ma il detto più italiano fra tutti è quello di chi ha sentenziato che “la patria è la propria parte”.
In tedesco, vi sono per indicare la patria due parole: Vaterland, che qualifica in senso generale la “terra degli antenati”; e Heimat, da una radice linguistica significante il segreto, il mistero, il cuore nascosto delle cose.
Dinanzi a una nazione italiana centralizzata nata, e sviluppatasi contro le tradizioni antropologicamente stratificate (da etruschi e greci a celti, a longobardi, ad arabi), policentriche e regionalistiche delle genti italiche, e dopo un secolo e mezzo di vita nazionale ch’è per piu versi stata una “falsa partenza” (pensiamo al tentativo di trasformarsi in grande potenza europea e al suo lungo contraccolpo, che ha diviso e ancora in parte divide le coscienze), ora la “seconda repubblica”, se è nata, ha scelto la forma federalistica: il che vuol dire che ha in gran parte rifiutato un modello nel quale per un secolo e mezzo gli italiani avevano cercato e creduto d’identificarsi, bisogna trovare il coraggio di accettare il fatto che un’autentica “identita italiana” è ancora da costruire. E che va costruita di nuovo. Il che non implica un rifiuto del passato: bensì una rilettura storica faticosa e profonda (che ne e, ad esempio, della nostra grande tradizione municipalistica e regionale per quasi mezzo millennio vissuta e praticata all’interno di quegli stati italiani preunitari la storia, le istituzioni, la vita dei quali e stata forzosamente obliterata nell’ultimo secolo e mezzo, ma che pure hanno lasciato tracce profonde?). Il ripensamento storico (“revisionistico”, dira qualcuno: ma la storia è revisione continua di giudizi precedenti, o non è nulla) va accompagnato altresì da un atteggiamento positivo ed energico di fronte alla realtà presente e alle possibilità del futuro. Nessuno di noi puo rinunziare alla sua Heimat profonda. La mia, per esempio, è toscana, anzi fiorentina; e cattolica.
Ma la storia e la realtà attuale c’impongono non solo la consapevole accettazione di quel ch’è stato storicamente il nostro Vaterland, bensì addirittura la considerazione di quello che in tedesco si chiamerebbe il Grossvaterland, la “Grande Patria”: che per tutti noi è l’Europa, al di là del carattere insoddisfacente di quelle che a tutt’oggi sono le sue istituzioni comunitarie, che restano nonostante tutto una ricchezza e il cui percorso e sostanzialmente irreversibile, per quanto grazie a Dio non irriformabile. Ma io, questo mio “essere europeo”, lo vivo da euromeridionale, da “euroterrone”, cioè da euromediterraneo; cioè da europeo che si sente prossimo al Vicino Oriente e all’Africa settentrionale. Tutto ciò impone un recupero di valori magari antichi, magari dimenticati, ma al tempo stesso la scoperta di nuove frontiere ma anche di nuovi contenuti culturali, di nuove affinità, in grado di collaborare alla costruzione di un’”identità comunitaria” che ancora non esiste, e i desueti modelli storici della quale debbono esser per forza anzitutto esplicitati, cioè riportati alla conoscenza comune (e in cio il concorso di scuola e di massmedia sarebbe fondamentale), quindi messi in discussione.
Se riusciremo a vincere questa sfida, potremo parlare sul serio di una “identità italiana”. Nei Demoni di Dostoevskji uno dei personaggi più intensi, Shatov, a chi lo accusa di essere ateo risponde: “Io crederò in Dio”. Shatov intende dire che accetterà di dirsi credente se il popolo russo, nel suo insieme, saprà riscoprire gli autentici valori religiosi che stanno alla base della sua esperienza comunitaria profonda. Oggi, nei confronti dell’Italia, mi sento personalmente un po’ come Shatov: io crederò nell’Italia se, al di là di nostalgie e di nuovi fanatismi, sapremo riscoprirci italiani, anche aprendoci a chi ancora non è tale eppure in buona fede e buona volontà intende diventarlo, perché il ricambio è una forma di rinnovamento e rinnovarsi è indispensabile anche biologicamente, in tempi di decremento demografico principalmente dovuto sul piano delle scelte morali al benessere e al consumismo.
Recuperare valori – come dicevo or ora – magari addirittura antichi e dimenticati, quindi ripensarli (non si tratterebbe certo di un recupero archeologico-museale ) e proporli a nuovi concittadini, a gente venuta da fuori o nata e cresciuta fra noi ma figlia d’immigrati, e al tempo stesso non chiudersi alle sacrosante e legittime istanze di chi, trovando con noi e presso di noi una nuova patria, non per questo vuol voltare del tutto e repentinamente le spalle a quella che è stato costretto ad abbandonare (che cos’altro hanno fatto mai i nostri poveri connazionali costretti, fra Otto e Novecento, a cercar un pezzo di pane e una casa in America e in Australia?), potrà apparire come la quadratura del cerchio. Ma è la chiave di volta del rinnovamento e quindi del futuro: poiché, come e stato detto, o ci si rinnova o si perisce. Non si può stabilire una prognosi e una terapia adeguata, quando se ne ha bisogno, senza una lucida e spietata diagnosi.
E la diagnosi dello stato di salute dell’Italia è quella presentata nel rapporto ISTAT del gennaio 2010. Il paese sta progressivamente e rapidamente invecchiando; la nostra economia si regge in gran parte su un “lavoro nero” i proventi del quale finiscono in gran parte nelle tasche di gente che poi finanzia e fomenta, direttamente o indirettamente, la xenofobia e soffia sul fuoco della piu infame delle guerra, la guerra tra poveri; gli italiani sono ai primi posti nel mondo nel possesso e nell’uso dei telefonini portatili, ma cresce esponenzialmente l’ignoranza.
Non c’è dubbio che le generazioni che oggi sono adulte, mature o anziane, insomma quelle degli italiani nati nel mezzo secolo tra 1930 e 1980, sono le responsabili di tutto ciò. Se quelle nate nel mezzo secolo precedente ci hanno condotto alla guerra e alla rovina , le attuali – prendiamo in blocco quelle di chi oggi è padre o madre, nonno o nonna – sono le responsabili della cattiva e irresponsabile gestione degli anni della ricostruzione e del benessere. Le generazioni nate nel cinquantennio precedente gli Anni Trenta (ovviamente sto schematizzando un discorso che andrebbe attentamente articolato) sono forse ree di averci passato un cattivo, usurato, inquinato testimone; le nostre (io sono del ’40) lo sono di una colpa ancora peggiore, quella di non aver saputo consegnare ai loro figli alcun testimone: sono state il team latitante nella corsa a staffetta della storia. Ai nostri figli e nipoti, abbiamo consegnato solo un peraltro fragile benessere, insieme con la cultura dei consumi. Abbiamo permesso che essi crescessero nell’ignoranza quasi totale di quelli che globalmente si definiscono “valori immateriali”, prigionieri di una Civilta dell’Avere (ricordate il vecchio Erich Fromm?) che ha loro del tutto nascosto la Civilta dell’Essere. Su questo deserto sono cresciute le malepiante dell’indifferenza, dell’insensibilità, del disimpegno sociale, della diseducazione civica: le malepiante che hanno prodotto una società civile italiana largamente assente a se stessa, tutta pretesa di diritti e niente assunzione di doveri. Una società profondamente malata, dai livelli alti nei quali si evadono alla grande le tasse e si consumano gli abusi piu scandalosi ai livelli bassi di chi non è nemmeno in grado di capire l’importanza di un corretto modo di parcheggiare l’auto o di eseguire la raccolta differenziata dei rifiuti; e dalla noia, dall’angoscia, cui si risponde magari con la droga. Ma il vuoto morale e spirituale, il vuoto dei valori e dei doveri, è come qualunque altra forma di vuoto: non esiste. Viene immediatamente riempito. E, in una società ammalata di consumismo e di spettacolarismo, quel che riempie il vuoto è a sua volta per forza di cose costituito da falsi valori o da controvalori: dal carrierismo senza scrupoli nei casi “rampanti” alla ricerca di surrogati che abbiano una qualche lontana parvenza d’impegno civile ma che, pensati da e per soggetti incolti e corrotti, possono finir col costituire “rimedi” peggiori del male. E siamo alle false neoideologie che alimentano il patriottardismo da stadio, la xenofobia o, su una sponda solo formalmente ad essi opposta, le tentazioni neosettarie e neoterroristiche “di sinistra”.
Per reagire a tutto questo, per uscire dalla morta gora attuale, bisogna per forza rivolgersi ai giovani. Farlo anzitutto, noi adulti e magari anziani, partendo da un nostra culpa, nostra culpa, nostra maxima culpa che non sia una recriminazione pietosa, ma una virile assunzione di responsabilità. Oltre un secolo fa Giosué Carducci, rivolgendosi ai giovani del suo tempo dalla sponda della sua generazione, quella che aveva fatto il Risorgimento e aveva coscienza di averlo fatto male, poteva dedicar loro un intenso viatico, adatto ai suoi tempi: “Noi troppo odiammo, e sofferimmo: amate”. Ma noialtri, che abbiamo fallito il dopoguerra, il boom della società del benessere prima e del semimalessere ch’è venuto dopo, non abbiamo né odiato né sofferto: e soprattutto non abbiamo insegnato ai nostri ragazzi ad amare un bel niente. Li abbiamo solo lasciati a se stessi, senza parlar loro, senza comunicar né trasmettere (traditio deriva da tradere) loro un bel nulla nulla: soli nella loro consumistica sala-giochi, E non è solo un modo di dire. Quanti, che oggi hanno dai quarant’anni circa in giù, potrebbero testimoniare che la loro prima e vera, magari unica balia e compagna di giochi è stata la TV? Il danno che in tal modo abbiamo loro procurato, soprattutto al livello della devastazione dell’immaginario, è incommensurabile, inimmaginabile e irreparabile. La stessa crisi della fede cattolica, della famiglia, della scuola, della solidarietà, del principio positivo di autorità (che non è autoritarismo) sta sostanzialmente tutta qui. Dopo le macerie materiali del ’40-’45, è sulle rovine morali e culturali degli ultimi decenni, non meno impressionanti e terribili, che bisogna meditare. Per ricostruire con fatica e dolore, come nell’immediato dopoguerra. E non crediate che i detriti dell’anima si rimuovano più facilmente di quelli fatti di muri crollate e di metallo contorto; non crediate che l’edificio dello spirito si restauri prima e più facilmente dei monumenti e delle fabbriche distrutti dalle bombe.
Ricorriamo quindi alla necessaria medicina già prescritta da Max Weber: il disincanto. Cominciamo a esporre con chiarezza ai giovani d’oggi il quadro del nostro fallimento e dei rischi che essi corrono di conseguenza. Mostriamo loro come l’unico testimone che noi diamo l’impressione di aver loro passato, il Nulla, non può essere appunto un testimone: e che come tale va respinto. E ripartiamo: dal nostro linguaggio italiano, ch’è molto piu della lingua italiana convenzionalizzata e astrattizzata da un lavoro di nazionalizzazione delle masse che andava pur fatto, tra Otto e Novecento, ma che deve costituire una base e una traccia, non una gabbia. Ripartiamo dal linguaggio della nostra storia policentrica, delle nostre tradizioni in gran parte dimenticate e tutte da riscoprire, della nostra sensibilità collettiva, del Bello che nei secoli le genti d’Italia hanno saputo produrre e proporre al mondo: e scegliamo quanto di tutto ciò costituisce un capitolo da sigillare e riporre sia pur con venerazione nella nostra memoria collettiva (da non relegare nell’oblio, quindi), e quanto è invece ancora fecondo e suscettibile di esser condiviso con i nuovi compagni di strada, con i nuovi compatrioti che vengono in gran parte a colmare un vuoto – anche demografico – del quale non loro bensi noi portiamo la colpa, mentre essi ne sono semmai le vittime, dal momento che il nostro pluridecennale benessere si è fondato sugli squilibri di una globalizzazione che nelle parti del mondo che essi o i loro padri sono stati costretti ad abbandonare ha prodotto ingiustizia e miseria. Vengono da lontano, privi di tutto o quasi dal punto di vista materiale, ma carichi di ricchezze morali e culturali che a loro volta debbono esser pronti a valorizzare e a condividere. In tal modo, potremo creare insieme nuove sintesi: perche un processo storico si alimenta sempre e soltanto di nuove sintesi, lontano dagli opposti pericoli del progressismo e del mondialismo astratti che sono rifiuto del passato e delle chiusure xenofobe che sembrano difensive e sono invece suicide perche costituiscono il rifiuto del futuro.
Questa è, qui e ora, la nostra battaglia d’italiani. Confesso di non riuscir ad amare granché l’Italia d’oggi. Sento, come si espresse uno scrittore francese di qualche decennio fa, che mon pays me fait mal. Ma, se la facessimo a vincere questa battaglia, avrei la forza di ricredermi. E anch’io potrei dire col poeta del Novecento che piu amo, lo Ezra Pound dei Canti pisani: “Credo nell’Italia, e nella sua impossibile rinascita”.
di Franco Cardini

La questione energetica fondamento di una economia sostenibile



https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_h8lnYfe4FpNLPS0tR4tti1t4JHIyZwswnFtqnmQhsDpy90pkt9-Bk-TjPRdMqsZTvTsL3dUI3cRxJ3r0QpjMLrq0SLLtusDGoZss78u2Au81cnnXOrPWDwO36jH1TIefr1k3Eg/s320/root-chakra-catherine-g-mcelroy.jpg

La catastrofe giapponese ripropone tramite la discussione sul nucleare il tema dell'energia. Le risorse energetiche infatti sono l’elemento sostanziale per ogni interpretazione del modello di sviluppo economico. Quest’ultimo se si ritiene illimitato nell’espansione dei mercati per mezzo dell’allargamento dei consumi, non è dato in fisica giacché le risorse naturali per definizione sono scarse e limitate. In effetti, le flebili voci ambientaliste sembrano spesso ispirate più all’utopismo irrealistico, che ad una consapevolezza politica, fondata sulla contraddizione ingenerata tra la cultura e la natura dall’utilitarismo economicista e il pragmatismo tecnologico. D’altra parte le patologie prodotte dal modello di sviluppo industriale sono oggi di tale portata, che è credibile, finanche popolare, proporre un mutamento di paradigma capace di superare la modernità sul piano della sostenibilità ecologica e la responsabilità sociale e politica. Nella fattispecie, il sistema energetico italiano si fonda essenzialmente sulle fonti fossili: gas naturale, petrolio e suoi derivati, carbone. Ben il 67% dei 318 TWh di energia complessivamente consumati proviene, infatti, da centrali termoelettriche, equamente insediate nel territorio nazionale. Le fonti rinnovabili contribuiscono per il 16-17%. Prevalente è l’idroelettrica, prodotta soprattutto in centrali dell’Italia del Nord, che occupa una quota del 15%. Il residuo 2% viene dalla geotermia, dalle biomasse e dai rifiuti e, in misura minore, dall’eolico che fornisce, insieme al fotovoltaico, 1.183 GWh d’energia e che appare in crescita. A completare l’offerta ci sono infine le importazioni dirette di energia dai paesi confinanti, che pesano per un 16%. Il rifornimento avviene soprattutto da Francia e Svizzera, seguite da Austria, Slovenia e, in misura ridotta, Grecia. Dall’esame di questi sommari dati, spiccano agli occhi tre evidenze: l’elevato utilizzo di combustibili fossili, il ridotto apporto delle fonti pulite e rinnovabili, la notevole dipendenza dall’estero del nostro sistema energetico. Partiamo da quest’ultimo aspetto. Poveri di risorse tradizionali, siamo costretti ad approvvigionarci largamente dall’estero, acquistando sia combustibili sia elettricità. In tal senso, la localizzazione delle esigenze energetiche contribuirebbe ad un processo di consapevolezza ecologica delle fonti e responsabilizzazione sociale e politica dal basso verso l’alto, attivando un modello sussidiario e comunitario di autonomia e indipendenza che avrebbe un impatto virtuoso in efficienza ed efficacia economica. Altra evidenza, si è detto, è l’eccessivo utilizzo di fonti fossili. Escluse le importazioni di elettricità, ricorriamo per l’81% della nostra produzione alle fonti non rinnovabili, con pesanti conseguenze ambientali: è noto che, a livello mondiale, oltre il 75% dell’emissione di anidride carbonica (il principale gas responsabile del cosiddetto effetto serra) è imputabile alla combustione di fonti fossili (essenzialmente carbone e petrolio). Sappiamo delle controversie tra i paesi industrializzati occidentali e i Paesi emergenti sulla reale volontà di adottare la riduzione delle emissioni di gas serra, che ha visto recentemente a Copenhagen l’ultimo - ma non ultimo - atto internazionale. La tendenza, in effetti, è ad un continuo aumento della domanda di energia, anche se, in linea con gli altri paesi più industrializzati, negli ultimi anni il tasso di crescita si è stabilizzato su una media del 2-3%: merito sia di un uso più efficiente dell’energia, sia dello spostamento della nostra economia verso un terziario avanzato, a più bassa intensità energetica. Da questo punto di vista sarebbe auspicabile un mutamento di paradigma socio-economico. In un contesto di tarda o post-modernità, con una economia sempre più smaterializzata, declinare la tecnologia e le priorità socio-culturali su priorità in controtendenza - oggi percepite nell’opinione pubblica - incentrate sulla qualità della vita, la sua sacralità e quindi armonia naturale, è praticabile anche in termini di consenso diffuso.
Le fonti energetiche rinnovabili sono quelle fonti il cui utilizzo non ne comporta l’estinzione: sono quindi tendenzialmente infinite ed, in genere, pulite (la valutazione sull’impatto ambientale e salutare va fatta in relazione all’intero ciclo di vita). Sono il sole, il vento, l’energia idraulica, le maree, la geotermia e le biomasse. In Italia la miopia politica e culturale, indotta dai forti interessi economici dominanti, si è concentrata quasi completamente sulle fonti rinnovabili “convenzionali”, vale a dire energia idraulica, geotermica e da biomasse. Minoritario resta invece l’apporto di sole e vento (che solo in questi ultimi anni sta diffondendosi), inesistente quello dell’energia marina, mentre l’idrogeno resta ad uno stato ancora di studio con aspetti molto contraddittori in merito alle implicazioni ecologiche di tale prodotto energetico. Le speranze concrete per il futuro sono essenzialmente due: sole e vento. Sono fonti veramente rinnovabili, eterne, pulite, gratuite e senza padrone. Sebbene da secoli l’uomo sfrutti la potenza del vento, è solo negli ultimi decenni che ne riesce a trarne anche elettricità. Il potenziale mondiale è enorme: secondo gli studi, da 20 a 50mila TWh, ben al di sopra, quindi, dell’attuale fabbisogno globale del Pianeta.
La forte domanda si accompagna ad un progressivo affinamento della tecnologia eolica: dai primi generatori a due o anche una sola pala, siamo ormai assestati su quelli a tre pale, le cui dimensioni sono progressivamente aumentate. Ciò ha consentito un aumento della potenza (in 20 anni aumentata di 60 volte) ma non parallelamente dei costi (aumentati solo di 10 volte), grazie alle economie di scala. Caso esemplare dei vantaggi offerti dalle nuove FER anche a livello economico e occupazionale è quello della Danimarca. I danesi, che soddisfano con l’eolico il 20% del loro fabbisogno nazionale, hanno oggi il primato mondiale nel settore, con tre grandi imprese tra le prime dieci del pianeta ed una quota di mercato pari al 50% delle richieste mondiali. Quella eolica rappresenta oggi la prima industria della Danimarca, con 25.000 nuovi occupati. Interessante è anche il sistema di gestione degli impianti, affidati, sulla base di un azionariato popolare, a migliaia di piccoli investitori privati. In Italia gli impianti sono quasi tutti concentrati sui rilievi dell’Appennino centro-meridionale (Abruzzo, Molise, Puglia, Campania. Tra i limiti che ostacolano una maggiore diffusione degli aerogeneratori, oltre alla basilare diversa esposizione ai venti, ci sono le resistenze locali (spesso animate da un risentito provincialismo), dovute all’innegabile impatto paesaggistico, all’inquinamento acustico e alle interferenze elettromagnetiche. Ancor più del vento, infatti, è il Sole, fonte di vita per eccellenza, che potrà risolvere i nostri problemi energetici. Il potenziale teorico è sconfinato: a seconda degli studi, 10-15.000 volte l’attuale fabbisogno mondiale. Tutto sta nel riuscire a “catturare” le radiazioni solari e a trasformarle in energia: una sfida tecnologica che negli ultimi anni sta registrando crescenti successi. L’energia solare può essere utilizzata per produrre calore o elettricità. Il primo uso è quello del cosiddetto “solare termico”, con i collettori per l’acqua calda per usi sanitari e per il riscaldamento degli edifici. Nelle realizzazioni più avanzate, si accompagna ad un termico passivo, che cattura il calore solare grazie ad una buona progettazione degli edifici. Paradossalmente, la loro diffusione è maggiore in paesi con insolazione minore: Germania ed Austria, mentre l’Italia, inondata dal sole per almeno otto mesi all’anno, è in un incomprensibile ritardo. C’è poi il solare fotovoltaico, per produrre elettricità. Si fonda sulle celle solari a base di silicio che, esposte alle radiazioni solari, originano cariche elettriche. L’efficienza di conversione delle celle è oggetto di un continuo affinamento tecnologico. Elettricità dal sole è poi prodotta anche grazie agli impianti a concentrazione, che moltiplicano la temperatura delle radiazioni solari grazie alla concentrazione dei raggi su un unico punto, utilizzando il sistema degli specchi di Archimede.
L’efficienza dei vari sistemi è ancora da perfezionare. I costi economici, in particolare, non sono ancora competitivi, e restano più alti di quelli dell’energia prodotta con fonti fossili, ma la valutazione sulla convenienza va presa su parametri non riduttivamente economicistici, ovviamente. Con l’attuale tendenza alla riduzione dei costi unitari, si conta, ad esempio, sull’assoluta competitività entro un arco di 10 anni. Il solare, resta, indubbiamente, la grande speranza. È una fonte pulita, veramente rinnovabile, eterna, gratuita e largamente diffusa. Non presenta, inoltre, problemi di impatto, se non, per le grandi centrali, per lo spazio richiesto. Ma la sua vera diffusione non sembra legata ai grandi impianti, quanto invece a piccoli impianti, in grado di soddisfare le esigenze dei singoli nuclei abitativi. Ma il discorso sulle fonti rinnovabili va reso completo con una “settima fonte”, forse la più “strategica”: il risparmio energetico conseguente ad un uso razionale della risorsa. A differenza del risparmio da “sobrietà”, che è centrale nella logica di una scelta di stile di vita critico verso i consumi superflui, il risparmio da uso razionale dell’energia consente di disegnare un quadro di operatività economica sostenibile con un minore dispendio di risorse, grazie alla sensibilità culturale, imprenditoriale e l’indipendenza del “politico” dai ricatti dei gruppi d’interesse consolidati.
Fonti rinnovabili e contenimento dei consumi tramite una diversa consapevolezza e un uso razionale dell’energia sono la realistica alternativa alle centrali a fonti fossili. Sono obiettivi possibili, che richiedono una lugimirante volontà politica e consapevolezza sociale. Il territorio è il luogo naturale di questa grande battaglia, che coinvolge lo stile di vita individuale in un contesto comunitario e partecipativo, solidale perché sussidiario. Le ricadute, sarebbero positive non solo per la devastata salute del nostro pianeta, ma anche per i risvolti strategici, economici e occupazionali. Una vera rivoluzione fattuale, per mutare l’attuale modello di sviluppo.
di Eduardo Zarelli

16 marzo 2011

Fukushima: "mi dite che cazzo sta succedendo"



Non è il banale gusto del turpiloquio a suggerire il titolo di questo aggiornamento sulla crisi nucleare giapponese, ma la traduzione, forse un po’ brutale ma realistica, della frase che, riportano Kyodo News e un quotidiano svedese, il primo ministro nipponico Naoto Kan ha rivolto ai dirigenti della TEPCO, la società elettrica che gestisce la centrale di Fukushima. Kan è frustrato che ancora la situazione non si risolva, anzi vada peggiorando di ora in ora. Ma anche perché cominciano le reticenze interne e incrociate. Pare infatti che la notizia dell’ultima esplosione al reattore n.2 di Fukushima e di un incendio al reattore n.4 sia stata data al primo ministro con un’ora di ritardo. Comincia a saltare la catena comunicativa, insomma, ed è una pessima notizia.


Circa 250 dei 300 operatori attivi nella centrale sono stati evacuati. A gestire sei reattori in crisi di raffreddamento attualmente sono solo in 50. Lavoratori con aspirazioni da kamikaze probabilmente, affiancati, a quanto pare, anche da esperti americani. Nel frattempo si annuncia che l’incidente di Fukushima è stato promosso al livello 6, su una scala di 7 (record stabilito solo da Cernobyl). L’area di evacuazione è passata da 20 a 30 chilometri, e il sindaco di Tokio ha ufficializzato la presenza di radiazioni sulla città, però a un livello non dannoso alla salute. Ovviamente… Un’osservazione che contrasta con l’invito di tutte le ambasciate diretto ai propri dipendenti a lasciare quanto prima la capitale.

Ma tutto il quadro contrasta aspramente con il mantra che dal Giappone arriva insistentemente, rilanciato con forza da tutti i gruppi d’interesse legati al nucleare, con media asserviti al seguito: “Fukushima non è come Cernobyl”. Non ancora, risponde qualcuno. È peggio, osservano altri. Quello che appare chiaro già oggi è che l’evento di Fukushima avrà in comune con Cernobyl il ritardo con cui verranno finalmente scoperte le carte. Per chi non ha memoria: l’allora URSS tenne nascoste le reali proporzioni dell’incidente per giorni e giorni, ammettendo tutto solo davanti all’evidenza, quando ormai la nube si era diffusa in modo tale da renderne molto difficoltoso il monitoraggio.

Allora era l’orgoglio sovietico, sancito da un regime dittatoriale, a trattenere le informazioni. Oggi è un’altra forma di dittatura a tenere a freno a fatica il flusso informativo: la dittatura dell’industria e degli interessi legati al nucleare. Anche in questo caso, attendiamocelo, la reale proporzione sarà chiara solo quando l’evidenza sarà tale da non poter essere più negata. C’è chi ha fatto tesoro dell’esperienza sovietica, come i tedeschi, i cui boschi orientali sono ancora soggetti a divieti di raccolta di frutti o funghi per la presenza di radionuclidi persistenti nel terreno. Non a caso ieri ben 400 manifestazioni antinucleari si sono tenute in tutta la Germania. Altrove, come in Italia, si lascia ufficialmente il tema a una Prestigiacomo qualunque, terrea in volto nel parlare di cose che non sa.

Per il resto l’opposizione, da noi, viaggia ancora e sempre in Rete, dove si organizzano gruppi e si propongono manifestazioni, probabilmente destinate ad abortire a causa delle solite varie divisioni all’italiana, in questo caso fra i diversi gruppi antinuclearisti, ognuno convinto di avere l’unzione esclusiva per organizzare mobilitazioni popolari e indisponibile ad accodarsi a quelle di altri, pur di fronte a un interesse comune. Resta la difficoltà giornalistica a scrivere pezzi riguardanti situazioni così capaci di mutare da un momento all’altro. Mentre scrivo, la Reuters notifica che le radiazioni nella sala controllo del reattore n.4 di Fukushima sono troppo alte per permettere il lavoro degli operatori, e quindi verrà presto abbandonata. Ma in questo contesto non sono le notizie date ad angosciare, bensì quelle non date. In particolare, parafrasando Naoto Kan, qualcuno vuole dirci che cazzo sta succedendo alle barre irradiate presenti nelle vasche di raffreddamento e al combustibile di plutonio del reattore n.3?
di Davide Stasi