22 marzo 2011

L'internazionalismo del capitale e il localismo del lavoro




crisi economica
"Forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l'ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica"

Una domanda si aggira inquieta per le menti d'Europa che pensano alla politica come alla leva della libertà dei popoli e del governo del mondo. Per quali ragioni, il neoliberismo, la travolgente iniziativa capitalistica avviata negli '80 in Gran Bretagna e in USA e diventata pensiero unico planetario, è ancora così vivo e dominante in quasi tutti gli Stati?

Eppure, quella stagione è finita nel fango della più grave crisi degli ultimi 80 anni. Non solo. Essa ha mancato pressoché tutti i suoi obiettivi dichiarati. Non ha creato nuovi posti di lavoro, anzi la disoccupazione è dilagata ben prima del tracollo del 2008, nonostante le imprese abbiano ottenuto dai vari governi nazionali flessibilità e precarietà dei lavoratori mai sperimentate prima.

Alla fine degli anni '90, come ha mostrato un grande esperto del problema, Kevin Bales si potevano contare ben 27 milioni di schiavi diffusi nei vari angoli della terra. E nel 2000 erano al lavoro ben 246 milioni di bambini. Uno scacco alla civiltà umana che non può certo essere compensato dai nuovi ricchi affacciatisi al benessere nei paesi a basso reddito. Ma forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l'ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica. Tra il 1979 e il 2000 il tasso medio di crescita annuale del reddito mondiale procapite – come ha mostrato Branco Milanovic – è stato dello 0,9%. Assolutamente imparagonabile al 3% e talora oltre dei periodi precedenti.

E allora? Com'è che a questa generale e inoccultabile sconfitta sul terreno economico non è corrisposta una pari disfatta sul piano politico? Non siamo così meccanicisti da non comprendere la diversità dei piani messi a confronto e la differente temporalità dei fenomeni che si agitano nelle due diverse sfere sociali. Ma la domanda si pone.

lavoro_soldi
"Il lavoro, sempre meno rappresentato sul versante politico e sindacale, è incatenato sul suo territorio, mentre il capitale scorrazza liberamente per il mondo"

Io credo che una prima risposta sia da ricercare in questo esito paradossale: concludendo il suo ciclo nel tracollo economico-finanziario, il neoliberismo ha potuto far tesoro di due esiti politici vantaggiosi. La crisi ha infatti rese acute due gravi scarsità: la scarsità del lavoro e la scarsità di sicurezza. Quest'ultima in parte connessa alla prima.

Tali scarsità pongono la classe operaia e i ceti popolari in una condizione di grave asimmetria di potere e forniscono ai ceti dominanti rapporti di forza e materia di manipolazione ideologica in grado di offuscare le sconfitte subite sul piano economico. Come sempre, bisogno e paura sono diventati due formidabili armi di potere.

Ma questa è una parte della risposta. Alla fine del '900 si è consumata una inversione storica per tanti versi stupefacente. Come ha osservato Mario Tronti, sino ad alcuni decenni fa, il movimento operaio aveva una dimensione internazionale a fronte di un confinamento nazionale del capitale. Con tutti i suoi limiti, l'insieme dei paesi comunisti era anche questo: un fronte internazionale. Oggi assistiamo a un capovolgimento completo dello scenario.

Il lavoro, sempre meno rappresentato sul versante politico e sindacale, è incatenato sul suo territorio, mentre il capitale scorrazza liberamente per il mondo: una libertà di movimento che è un potere politico inedito contro chi ha perso la sua rappresentanza globale. La capacità di ricatto di Marchionne, che può muoversi liberamente tra USA, Brasile, Polonia, Serbia è, sotto tale profilo, esemplare.

Ma forse il più grande successo politico del neoliberismo - quello che gli consente oggi di avere ancora diritto di parola - è stata la sua presa egemomica sui partiti tradizionali della sinistra e il loro svuotamento come partiti popolari. Vogliamo ricordare quali sono state le parole d'ordine prevalenti – fatte salve le diversità nazionali - dei laburisti britannici, dei socialdemocratici tedeschi, dei socialisti francesi, degli ex-comunisti italiani, in tutti questi anni? Liberalizzazioni, privatizzazioni, flessibilità del lavoro, riduzione dello stato sociale, emarginazione del sindacato, ecc.

L'idea che la libertà individuale si dovesse far strada come agente dominante di un nuovo progetto di società, regolato dalle logiche dinamiche e vincenti del mercato, è stato il cuore – tutto di marca neoliberista – che ha sostituito il vecchio patrimonio solidarista e internazionalista. Una resa senza condizioni alle ragioni dell'avversario, che, da un punto di vista culturale, si spiega anche con la tradizione marxista e comunque industrialista della sinistra europea.

soldi mano
L'individualismo economicistico su cui il neoliberismo si fondava è apparso ben presto come l'incarnazione di un comportamento sociale non più sostenibile

L'astrale distanza di queste formazioni storiche dal pensiero ecologico contemporaneo, infatti, ha impedito loro di intravedere un nuovo orizzonte solidale e cosmopolita di fronte alla crisi fiscale dello Stato sociale nei paesi industrializzati e al tracollo dell'URSS. Esaurita la spinta riformatrice dei decenni precedenti, ad essi non è rimasta altra strada, se volevano continuare nella promozione della crescita economica, che quella indicata dall'avversario.

Pur tra esorcizzazioni e camuffamenti, il neoliberismo è stato di fatto accettato come la nuova frontiera da seguire. Ma oggi quella nuova religione della crescita, che apparve negli anni '80 come l 'avanguardia di una nuova stagione di modernizzazione e di avanzamento del mondo intero, si mostra in tutta la sua paradossale e stupefacente antistoricità. Era una retroguardia ottocentesca ed è stata scambiata per il fiore in boccio di una nuova stagione dell'umanità.

L'individualismo economicistico su cui esso si fondava è apparso ben presto come l'incarnazione di un comportamento sociale non più sostenibile, perché generatore, tra l'altro, della più grave minaccia che l'umanità abbia avuto davanti a sé: l'esaurimento delle risorse, il tracollo degli equilibri ambientali, il riscaldamento climatico.

È paradossale, ma ricco di significati, il fatto che i partiti popolari non abbiano saputo cogliere il nuovo orizzonte di cooperazione e di solidarietà che i problemi ambientali rimettevano al centro della scena mentre si eclissavano quelli delle vecchie ideologie socialiste e comuniste. Essi non hanno saputo vedere come la scoperta di una 'Terra finita' e in pericolo, con il corredo delle scienze ecologiche, offrivano un nuovo progetto di società nel quale il bene comune, l'interesse generale, si ripresentava in rinnovate forme universali e drammaticamente cogenti. Un nuovo collante ideologico per una moltitudine di figure e di ceti sociali e al tempo stesso la premessa di un nuovo e più vasto internazionalismo.

Oggi, esattamente il disancoramento dall''internazionalismo del lavoro', eredità del passato, e l'inettitudine a comprendere il nuovo, proposto dall'ambientalismo, fanno dei partiti storici della sinistra delle barche di carta nella tempesta. Senza una meta da seguire, senza energie per affrontare il mare. Nell'immediato, tuttavia, è l'assenza di un internazionalismo del lavoro la debolezza più grave e drammatica.

cgil
"La forza che può assumere l'iniziativa – e che deve farlo urgentemente – è il sindacato: la CGIL"

La mancanza di una lettura delle tendenze profonde del capitalismo contemporaneo impedisce di comprendere le distruzioni in atto nel mondo del lavoro. Non fornisce lo sguardo prospettico su ciò che il capitale va preparando, a tutto il lavoro sociale, grazie alla sua capacità di movimento su scala mondiale. Impedisce di prefigurare la gigantesca dissoluzione dei legami sociali e di classe a cui esso è sempre più vitalmente interessato. Il capitale, infatti, oggi colpisce duramente non perché c'è la crisi, ma per il gigantesco potere politico nel frattempo guadagnato sui lavoratori in una fase di aspra competizione intercapitalistica. E allora, che fare?

Io credo che se il capitale è mobile e planetario, altrettanto può esserlo il diritto, la maglia delle regole imposte dalle lotte, dalla politica: anch'essa, del resto, potenzialmente universale. Ma quale soggetto, per esempio in Italia, può muoversi in tale direzione? Dal PD mi sembra assai difficile poterlo pretendere. Dalle catastrofi culturali non si riemerge in breve tempo e per la buona volontà di qualcuno. Dai piccoli partiti di sinistra può venire solo un piccolo contributo. Senza dubbio, la forza che può assumere l'iniziativa – e che deve farlo urgentemente – è il sindacato: la CGIL.

Ritengo che oggi non sia più possibile rinviare una discussione spregiudicata e coraggiosa su questa importante forza operaia e popolare, che ha certo svolto una funzione fondamentale di difesa dei lavoratori in tutti questi difficili anni. Ma noi dobbiamo oggi chiederci e chiederlo ai dirigenti, come sia stato possibile che uno dei sindacati più potenti d'Europa – e forse il più ricco sotto il profilo patrimoniale - abbia potuto consentire un così drammatico arretramento dei redditi operai.

In un rapporto OCSE 2006-2007 i salari dei lavoratori italiani risultavano al 23° posto dei 30 Paesi dell'Organizzazione. E l'Italia, nella graduatoria, non è certo l'ultimo di questi Paesi. La CGIL, dispone di una geniale organizzazione territoriale, mutuata dal sindacalismo francese: la Camera del Lavoro. Essa raggruppa lavoratori delle varie categorie e svolge vari compiti di patronato e assistenza.

giovani
"Un nuovo cosmopolitismo del lavoro bussa imperiosamente alle porte"

Ma perché in tutti questi anni in cui il lavoro è stato frantumato, separato spesso dal luogo di lavoro, disperso, le Camere del Lavoro non hanno svolto un ruolo di ricomposizione locale, di riaggregazione sindacale e politica? Perché le Camere del Lavoro non si sono estese, disseminate nei quartieri delle città, nei piccoli centri, come nuovi presidi del lavoro sul territorio? Non risulta che la CGIL non avesse le risorse per tali iniziative. Risulta invece che essa vive fondamentalmente e anche bene – benché non esclusivamente – con i soldi dei lavoratori e quindi ha obblighi morali più cogenti.

E inoltre: come è stata possibile, mentre si realizzava l'Europa dell'euro e delle varie istituzioni dell'Unione, una così clamorosa assenza di iniziativa volta alla concertazione europea delle varie organizzazioni da parte di uno dei maggiori sindacati del Continente? Sul piano mondiale, infine, l'inerzia politica è ancora più grave e stupefacente, anche se riguarda indistintamente tutti i sindacati.

È dal 1919 che esiste a Ginevra l'Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL). Essa è stata creata ben 25 anni prima del FMI e della Banca Mondiale. L'OIL, frutto delle ambizioni internazionaliste di quell'epoca, doveva vigilare sulle legislazioni del lavoro nei vari paesi del mondo. Ma nell'ultimo mezzo secolo essa è uscita di scena, mentre ha trionfato l'internazionalismo finanziario delle istituzioni di Bretton Woods.

E i sindacati dove erano nel frattempo? Perché non sono stati in grado di seguire l'avanzante internazionalizzazione del capitale? Perché non sono stati capaci di fare di tale organismo, oggi membro dell'ONU, un reale potere mondiale dei lavoratori? Evidentemente, insieme alla forza dell'avversario, è l'inerzia dell'istituzione sindacale che ha giocato un ruolo importante.

Per questo, l'insieme di tali fallimenti oggi rende inevitabile rivolgere alla CGIL una serie di richieste pressanti e precise. Essa deve dotarsi di una strategia volta alla creazione di una rete internazionale del movimento sindacale. Un nuovo cosmopolitismo del lavoro bussa imperiosamente alle porte. Ci sono, in Italia, migliaia di ragazze e ragazzi che a 30 anni hanno girato il mondo, conoscono più lingue, praticano ogni giorno connessioni internazionali su internet.

Da essi deve venire una nuova leva di dirigenti sindacali. Per tale ragione la CGIL avrebbe l'obbligo di avviare al proprio interno un censimento che ridefinisca i compiti di dirigenti, funzionari, impiegati, per cambiare in corsa la sua organizzazione e le sue strategie. Le inerzie del passato non sono più comprensibili, né tollerabili. Questo sindacato non può più vivere nella routine mentre sul mondo del lavoro si abbatte la tempesta.

di Piero Bevilacqua

Perchè si è attaccata la Libia?


Ritengo, come già espresso, che un cambiamento politico sia auspicabile in tutto il mondo arabo, che la rete dei Fratelli musulmani sia diventata – anche agli occhi dell’amministrazione americana – un attore imprescindibile di questo cambiamento e che un nuovo modello formalmente democratico possa nascere solo dalle istanze condivise delle popolazioni e non può – come tentato in passato con esiti catastrofici – essere “esportato” tramite bombardamenti e invasioni.
Il colonnello Gheddafi non riscuote simpatie né tra i radicali islamici, né nel mondo occidentale, né tra i governi arabi, né tra le organizzazioni islamiche non integraliste (che ha perseguitato e massacrato per decenni), né, credo, dopo la sua fastidiosissima ultima visita, tra gli italiani.
Se il suo governo avrà dunque fine, piangeranno in pochi, almeno fuori dalla Libia.
Cionondimeno, per onestà intellettuale, non si può non storcere il naso su numerosi aspetti dell’intervento armato contro di lui.
Spiace sicuramente assistere al ritorno dei missili americani nel Mediterraneo. Chi sperava che l’era dello sceriffo planetario fosse terminata è rimasto deluso, anche se gli Usa assicurano che lasceranno la guida dell’operazione – che molti auspicavano fosse sotto l’egida Ue, della Lega araba o addirittura assieme all’Unione africana – ad una o più nazioni europee.
La retorica umanistico-planetaria che ha accompagnato dal dopoguerra ad oggi ogni guerra, è stucchevole.
Questa volta da più parti i leader hanno ammesso che intervengono per tutelare gli interessi nazionali, ma la formula stessa della risoluzione Onu – che parla di un regime che usa le armi contro il proprio popolo – è un tantino ipocrita.
Indipendentemente dalle simpatie soggettive, sostenere che un potere centrale non debba reagire in armi contro i tentativi di secessione armata è la negazione della sovranità di qualsiasi governo nazionale al mondo, che ha tra i suoi diritti-doveri la garanzia dell’integrità del proprio territorio.
A dire il vero stiamo assistendo ad una replica dell’attacco alla Serbia in difesa del tentativo secessionista del Kosovo.
A qualcuno non sarà sfuggito quanto identica sia la posizione assunta dall’Italia – malgrado l’inversione di segno del governo – rispetto a quando D’Alema, nel 1999, abbandonò l’amico Milosevic, al quale lo legava anche l’operazione Telekom-Serbia, per mettere a disposizione della Nato le basi italiane da cui partirono i bombardamenti contro Belgrado.
Da più parti si è espressa preoccupazione per il fatto che questo tempestivo intervento armato per imporre una risoluzione del Consiglio di sicurezza possa rappresentare un pericoloso precedente.
Durante la conferenza stampa di Ban Ki-moon al Cairo del 21 marzo, una giornalista a chiesto a tal proposito se le Nazioni unite adotteranno le stesse modalità per far rispettare le risoluzioni Onu ad Israele…
di Marcello de Angelis -

21 marzo 2011

Fukushima, ovvero il crollo del paradigma nucleare

Gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi da una parte richiamano l’irrazionalità dell'attuale sistema economico e dall'altra sanciscono definitivamente l’inadeguatezza di quell’atteggiamento eroico ossessivo che intendeva dominare la Natura grazie alla tecnologia.


giappone nucleare
Le disastrose implicazioni del terremoto in Giappone impongono una doverosa riflessione sul rapporto dell’uomo con il mondo

Le disastrose implicazioni del terremoto in Giappone impongono una doverosa riflessione sul rapporto dell’uomo con il mondo. In particolare il tema del nucleare torna prepotentemente alla ribalta a seguito dei danni subiti da alcune centrali giapponesi, tra cui quella di Fukushima, che tengono l’intera umanità con il fiato sospeso.

La prima domanda a sorgere spontanea è: riuscirà l’uomo a correggere il proprio atteggiamento spericolato e a migliorare la qualità del suo rapporto con il mondo prima che sia troppo tardi? Tale domanda scaturisce da una sana emozione dettata dalla gravità dei fatti. La funzione psicologica dell’emotività, infatti, è quella di collegare la mente al Reale. Nessuno può negare che l’uomo di oggi detiene abbastanza potere per distruggere l’intero pianeta.

Il nucleare è appunto uno dei simboli maggiori di quell’enorme potere atto a sfuggirgli di mano. Purtroppo, a giudicare dai suoi comportamenti e dalle sue scelte politiche ed economiche, l’uomo non pare minimamente consapevole di questa situazione. Pertanto, al momento la risposta alla nostra domanda rimane aperta.

Tuttavia, gli eventi attualmente in corso nell’arcipelago nipponico incrinano radicalmente il giudizio a mio avviso largamente ottimistico rispetto alle nostre capacità di dominare la Natura e di gestire saggiamente le risorse energetiche. L’uomo moderno ha ragione di avere paura del nucleare e quindi di se stesso. Tale paura non rappresenta il segno di una psicosi collettiva.

fukushima nucleare
Di fronte alle immagini terrificanti delle centrali giapponesi in fiamme, vi sono esponenti politici ed economici che hanno il coraggio di negare pubblicamente la pericolosità del nucleare

Danni come quelli riportati dalle centrali giapponesi a seguito del terremoto fanno affiorare ed esaltano una paura assolutamente sana che corrisponde, da punto di vista psicoanalitico, ad un tentativo di compensazione inconscia di un atteggiamento irragionevole, spericolato e al limite dell’autodistruttività.

Razionalmente, quel disastro era prevedibile. Si è giocato a dadi quando in Giappone si è optato per la costruzione di centrali nucleari, negando la probabilità che avvenga un terremoto di simile proporzione in un paese che pure si sapeva ad alto rischio sismico. Lo stesso discorso si applica a tutte le scelte umane mosse da quel velenoso ottimismo legato all’odore del profitto, come per esempio la costruzione di grattacieli e altre strutture vicine alle coste o ai corsi d’acqua.

La possessione ad opera di Economia toglie all’uomo la razionalità del Cuore. Il ritenere di essere in grado, grazie alla tecnologia, di sfidare le complesse leggi della Natura sino a sostituirsi ad essa non è ragionevole. Nemmeno se lo si ritiene vantaggioso da un punto di vista economico. Anche un bimbo potrebbe capire queste cose. Sempre però che quel bimbo sia ben disposto ad accogliere la realtà e non faccia capricci.

Di fronte alle immagini terrificanti delle centrali giapponesi in fiamme, vi sono esponenti politici ed economici che hanno il coraggio di negare pubblicamente la pericolosità del nucleare. Ma è oltremodo facile stanare il flagrante conflitto di interesse che si cela dietro a questi commentatori. Essi somigliano a clown che scambiano lo spazio pubblico per un circo. Come ho affermato altrove, la fede in Economia non ha colore né odore [1]. Essa è del tutto trasversale e caratterizza la politica di Destra come di Sinistra. Tuttavia, per quanto riguarda il nucleare e le questioni ecologiche si può dire che generalmente la seconda appare maggiormente sensibile e responsabile della prima.

popoli tribali
Lo stile di vita dei popoli tribali è perfettamente ecologico. Essi concepiscono la Natura come un mondo da abitare piuttosto che da dominare

La fede in Economia asservisce la coscienza dell’uomo rendendola nella stessa occasione insensibile a quegli aspetti del Reale i cui valori non si prestano ad essere cifrati. Qualcuno il cui amore per i numeri non è certo da dimostrare, scrisse: “Non tutto quello che conta si può contare, e non tutto quello che può essere contato conta” [2].

In altri termini, si può affermare che nella nostra cultura il calcolo freddo finisce per sopprimere l’anima, non vedendo in essa che il retaggio di una psicologia infantile o arcaica. La dimensione animistica, che poggia invece sull’immaginazione profonda, non trova spazio. Quel che un Tylor e un Freud chiamavano rispettivamente “credenza nelle anime” e “pensiero magico”, ad uno studio scevro da pregiudizi culturali si rivela invece un'altra modalità di rapporto con se stessi e con il mondo, modalità dimostratasi per millenni del tutto funzionale alla vita sociale e all’adattamento all’ambiente.

Lo stile di vita dei popoli tribali è perfettamente ecologico. Essi concepiscono la Natura come un mondo da abitare piuttosto che da dominare. Una delle funzioni che più caratterizza la loro psicologia è la percezione e il rispetto di quella dimensione animistica che rende sacri gli esseri, i luoghi e gli eventi. Sento già le solite voci indignarsi per l’offesa recata al loro dio Progresso, come se la società umana non potesse procedere che in una sola e unica direzione: quella tracciata da Economia.

Ma gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi mettono in crisi il nostro attuale sistema di valori e acquistano, mi sembra, una importante valenza simbolica dal punto di vista psicoanimistico. Da una parte essi richiamano l’irrazionalità del sistema economico diventato un contenitore di credenze irrazionali e speranze esagerate. D’altra parte, viene definitivamente sancita l’inadeguatezza di quell’atteggiamento eroico ossessivo che intendeva dominare la Natura (assieme all’inconscio che da sempre vi è legato) grazie alla tecnologia.

economia
Nessuna economia sarà mai adeguata fintanto che l’uomo non si sarà ripreso dalla sbornia del profitto

Così come nessuna economia sarà mai adeguata fintanto che l’uomo non si sarà ripreso dalla sbornia del profitto, nessuna misura di sicurezza sarà mai realmente efficace fintanto che l’uomo non avrà liberato la propria anima a tale punto da consentirgli di percepire i poteri della Natura, quali appunto quelli dell’energia nucleare e del terremoto. I poteri della Natura che presso i popoli animisti sono particolarmente considerati, nella nostra cultura sono del tutto ignorati.

L’uomo moderno pensa di potere risolvere i problemi derivanti dalla sua opera di desacralizzazione del mondo mediante espedienti tecnici. Egli non riesce a percepire (e nemmeno a pensare) l’esistenza di una dimensione spirituale complementare a quella fisica. Dissociato dal proprio lato percettivo, tale un Dedalo dei tempi moderni egli non può che confezionare soluzioni tecniche destinate a rivelarsi parziali, inappropriate e fonte di ulteriori problemi [3]. Fino a quando quel macro-organismo tanto complesso quanto incompreso che è Gaia, la Terra, riuscirà a perdonare i suoi errori?

Volendo concludere con una nota positiva, diremo che nonostante il daimon economico e il predominio tecnologico, la percezione piuttosto diffusa (anche se un po’ confusa) di una Natura che si ribella è comunque un segno indicante che l’umanità non ha ancora del tutto perso la propria anima.

di Antoine Fratini

22 marzo 2011

L'internazionalismo del capitale e il localismo del lavoro




crisi economica
"Forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l'ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica"

Una domanda si aggira inquieta per le menti d'Europa che pensano alla politica come alla leva della libertà dei popoli e del governo del mondo. Per quali ragioni, il neoliberismo, la travolgente iniziativa capitalistica avviata negli '80 in Gran Bretagna e in USA e diventata pensiero unico planetario, è ancora così vivo e dominante in quasi tutti gli Stati?

Eppure, quella stagione è finita nel fango della più grave crisi degli ultimi 80 anni. Non solo. Essa ha mancato pressoché tutti i suoi obiettivi dichiarati. Non ha creato nuovi posti di lavoro, anzi la disoccupazione è dilagata ben prima del tracollo del 2008, nonostante le imprese abbiano ottenuto dai vari governi nazionali flessibilità e precarietà dei lavoratori mai sperimentate prima.

Alla fine degli anni '90, come ha mostrato un grande esperto del problema, Kevin Bales si potevano contare ben 27 milioni di schiavi diffusi nei vari angoli della terra. E nel 2000 erano al lavoro ben 246 milioni di bambini. Uno scacco alla civiltà umana che non può certo essere compensato dai nuovi ricchi affacciatisi al benessere nei paesi a basso reddito. Ma forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l'ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica. Tra il 1979 e il 2000 il tasso medio di crescita annuale del reddito mondiale procapite – come ha mostrato Branco Milanovic – è stato dello 0,9%. Assolutamente imparagonabile al 3% e talora oltre dei periodi precedenti.

E allora? Com'è che a questa generale e inoccultabile sconfitta sul terreno economico non è corrisposta una pari disfatta sul piano politico? Non siamo così meccanicisti da non comprendere la diversità dei piani messi a confronto e la differente temporalità dei fenomeni che si agitano nelle due diverse sfere sociali. Ma la domanda si pone.

lavoro_soldi
"Il lavoro, sempre meno rappresentato sul versante politico e sindacale, è incatenato sul suo territorio, mentre il capitale scorrazza liberamente per il mondo"

Io credo che una prima risposta sia da ricercare in questo esito paradossale: concludendo il suo ciclo nel tracollo economico-finanziario, il neoliberismo ha potuto far tesoro di due esiti politici vantaggiosi. La crisi ha infatti rese acute due gravi scarsità: la scarsità del lavoro e la scarsità di sicurezza. Quest'ultima in parte connessa alla prima.

Tali scarsità pongono la classe operaia e i ceti popolari in una condizione di grave asimmetria di potere e forniscono ai ceti dominanti rapporti di forza e materia di manipolazione ideologica in grado di offuscare le sconfitte subite sul piano economico. Come sempre, bisogno e paura sono diventati due formidabili armi di potere.

Ma questa è una parte della risposta. Alla fine del '900 si è consumata una inversione storica per tanti versi stupefacente. Come ha osservato Mario Tronti, sino ad alcuni decenni fa, il movimento operaio aveva una dimensione internazionale a fronte di un confinamento nazionale del capitale. Con tutti i suoi limiti, l'insieme dei paesi comunisti era anche questo: un fronte internazionale. Oggi assistiamo a un capovolgimento completo dello scenario.

Il lavoro, sempre meno rappresentato sul versante politico e sindacale, è incatenato sul suo territorio, mentre il capitale scorrazza liberamente per il mondo: una libertà di movimento che è un potere politico inedito contro chi ha perso la sua rappresentanza globale. La capacità di ricatto di Marchionne, che può muoversi liberamente tra USA, Brasile, Polonia, Serbia è, sotto tale profilo, esemplare.

Ma forse il più grande successo politico del neoliberismo - quello che gli consente oggi di avere ancora diritto di parola - è stata la sua presa egemomica sui partiti tradizionali della sinistra e il loro svuotamento come partiti popolari. Vogliamo ricordare quali sono state le parole d'ordine prevalenti – fatte salve le diversità nazionali - dei laburisti britannici, dei socialdemocratici tedeschi, dei socialisti francesi, degli ex-comunisti italiani, in tutti questi anni? Liberalizzazioni, privatizzazioni, flessibilità del lavoro, riduzione dello stato sociale, emarginazione del sindacato, ecc.

L'idea che la libertà individuale si dovesse far strada come agente dominante di un nuovo progetto di società, regolato dalle logiche dinamiche e vincenti del mercato, è stato il cuore – tutto di marca neoliberista – che ha sostituito il vecchio patrimonio solidarista e internazionalista. Una resa senza condizioni alle ragioni dell'avversario, che, da un punto di vista culturale, si spiega anche con la tradizione marxista e comunque industrialista della sinistra europea.

soldi mano
L'individualismo economicistico su cui il neoliberismo si fondava è apparso ben presto come l'incarnazione di un comportamento sociale non più sostenibile

L'astrale distanza di queste formazioni storiche dal pensiero ecologico contemporaneo, infatti, ha impedito loro di intravedere un nuovo orizzonte solidale e cosmopolita di fronte alla crisi fiscale dello Stato sociale nei paesi industrializzati e al tracollo dell'URSS. Esaurita la spinta riformatrice dei decenni precedenti, ad essi non è rimasta altra strada, se volevano continuare nella promozione della crescita economica, che quella indicata dall'avversario.

Pur tra esorcizzazioni e camuffamenti, il neoliberismo è stato di fatto accettato come la nuova frontiera da seguire. Ma oggi quella nuova religione della crescita, che apparve negli anni '80 come l 'avanguardia di una nuova stagione di modernizzazione e di avanzamento del mondo intero, si mostra in tutta la sua paradossale e stupefacente antistoricità. Era una retroguardia ottocentesca ed è stata scambiata per il fiore in boccio di una nuova stagione dell'umanità.

L'individualismo economicistico su cui esso si fondava è apparso ben presto come l'incarnazione di un comportamento sociale non più sostenibile, perché generatore, tra l'altro, della più grave minaccia che l'umanità abbia avuto davanti a sé: l'esaurimento delle risorse, il tracollo degli equilibri ambientali, il riscaldamento climatico.

È paradossale, ma ricco di significati, il fatto che i partiti popolari non abbiano saputo cogliere il nuovo orizzonte di cooperazione e di solidarietà che i problemi ambientali rimettevano al centro della scena mentre si eclissavano quelli delle vecchie ideologie socialiste e comuniste. Essi non hanno saputo vedere come la scoperta di una 'Terra finita' e in pericolo, con il corredo delle scienze ecologiche, offrivano un nuovo progetto di società nel quale il bene comune, l'interesse generale, si ripresentava in rinnovate forme universali e drammaticamente cogenti. Un nuovo collante ideologico per una moltitudine di figure e di ceti sociali e al tempo stesso la premessa di un nuovo e più vasto internazionalismo.

Oggi, esattamente il disancoramento dall''internazionalismo del lavoro', eredità del passato, e l'inettitudine a comprendere il nuovo, proposto dall'ambientalismo, fanno dei partiti storici della sinistra delle barche di carta nella tempesta. Senza una meta da seguire, senza energie per affrontare il mare. Nell'immediato, tuttavia, è l'assenza di un internazionalismo del lavoro la debolezza più grave e drammatica.

cgil
"La forza che può assumere l'iniziativa – e che deve farlo urgentemente – è il sindacato: la CGIL"

La mancanza di una lettura delle tendenze profonde del capitalismo contemporaneo impedisce di comprendere le distruzioni in atto nel mondo del lavoro. Non fornisce lo sguardo prospettico su ciò che il capitale va preparando, a tutto il lavoro sociale, grazie alla sua capacità di movimento su scala mondiale. Impedisce di prefigurare la gigantesca dissoluzione dei legami sociali e di classe a cui esso è sempre più vitalmente interessato. Il capitale, infatti, oggi colpisce duramente non perché c'è la crisi, ma per il gigantesco potere politico nel frattempo guadagnato sui lavoratori in una fase di aspra competizione intercapitalistica. E allora, che fare?

Io credo che se il capitale è mobile e planetario, altrettanto può esserlo il diritto, la maglia delle regole imposte dalle lotte, dalla politica: anch'essa, del resto, potenzialmente universale. Ma quale soggetto, per esempio in Italia, può muoversi in tale direzione? Dal PD mi sembra assai difficile poterlo pretendere. Dalle catastrofi culturali non si riemerge in breve tempo e per la buona volontà di qualcuno. Dai piccoli partiti di sinistra può venire solo un piccolo contributo. Senza dubbio, la forza che può assumere l'iniziativa – e che deve farlo urgentemente – è il sindacato: la CGIL.

Ritengo che oggi non sia più possibile rinviare una discussione spregiudicata e coraggiosa su questa importante forza operaia e popolare, che ha certo svolto una funzione fondamentale di difesa dei lavoratori in tutti questi difficili anni. Ma noi dobbiamo oggi chiederci e chiederlo ai dirigenti, come sia stato possibile che uno dei sindacati più potenti d'Europa – e forse il più ricco sotto il profilo patrimoniale - abbia potuto consentire un così drammatico arretramento dei redditi operai.

In un rapporto OCSE 2006-2007 i salari dei lavoratori italiani risultavano al 23° posto dei 30 Paesi dell'Organizzazione. E l'Italia, nella graduatoria, non è certo l'ultimo di questi Paesi. La CGIL, dispone di una geniale organizzazione territoriale, mutuata dal sindacalismo francese: la Camera del Lavoro. Essa raggruppa lavoratori delle varie categorie e svolge vari compiti di patronato e assistenza.

giovani
"Un nuovo cosmopolitismo del lavoro bussa imperiosamente alle porte"

Ma perché in tutti questi anni in cui il lavoro è stato frantumato, separato spesso dal luogo di lavoro, disperso, le Camere del Lavoro non hanno svolto un ruolo di ricomposizione locale, di riaggregazione sindacale e politica? Perché le Camere del Lavoro non si sono estese, disseminate nei quartieri delle città, nei piccoli centri, come nuovi presidi del lavoro sul territorio? Non risulta che la CGIL non avesse le risorse per tali iniziative. Risulta invece che essa vive fondamentalmente e anche bene – benché non esclusivamente – con i soldi dei lavoratori e quindi ha obblighi morali più cogenti.

E inoltre: come è stata possibile, mentre si realizzava l'Europa dell'euro e delle varie istituzioni dell'Unione, una così clamorosa assenza di iniziativa volta alla concertazione europea delle varie organizzazioni da parte di uno dei maggiori sindacati del Continente? Sul piano mondiale, infine, l'inerzia politica è ancora più grave e stupefacente, anche se riguarda indistintamente tutti i sindacati.

È dal 1919 che esiste a Ginevra l'Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL). Essa è stata creata ben 25 anni prima del FMI e della Banca Mondiale. L'OIL, frutto delle ambizioni internazionaliste di quell'epoca, doveva vigilare sulle legislazioni del lavoro nei vari paesi del mondo. Ma nell'ultimo mezzo secolo essa è uscita di scena, mentre ha trionfato l'internazionalismo finanziario delle istituzioni di Bretton Woods.

E i sindacati dove erano nel frattempo? Perché non sono stati in grado di seguire l'avanzante internazionalizzazione del capitale? Perché non sono stati capaci di fare di tale organismo, oggi membro dell'ONU, un reale potere mondiale dei lavoratori? Evidentemente, insieme alla forza dell'avversario, è l'inerzia dell'istituzione sindacale che ha giocato un ruolo importante.

Per questo, l'insieme di tali fallimenti oggi rende inevitabile rivolgere alla CGIL una serie di richieste pressanti e precise. Essa deve dotarsi di una strategia volta alla creazione di una rete internazionale del movimento sindacale. Un nuovo cosmopolitismo del lavoro bussa imperiosamente alle porte. Ci sono, in Italia, migliaia di ragazze e ragazzi che a 30 anni hanno girato il mondo, conoscono più lingue, praticano ogni giorno connessioni internazionali su internet.

Da essi deve venire una nuova leva di dirigenti sindacali. Per tale ragione la CGIL avrebbe l'obbligo di avviare al proprio interno un censimento che ridefinisca i compiti di dirigenti, funzionari, impiegati, per cambiare in corsa la sua organizzazione e le sue strategie. Le inerzie del passato non sono più comprensibili, né tollerabili. Questo sindacato non può più vivere nella routine mentre sul mondo del lavoro si abbatte la tempesta.

di Piero Bevilacqua

Perchè si è attaccata la Libia?


Ritengo, come già espresso, che un cambiamento politico sia auspicabile in tutto il mondo arabo, che la rete dei Fratelli musulmani sia diventata – anche agli occhi dell’amministrazione americana – un attore imprescindibile di questo cambiamento e che un nuovo modello formalmente democratico possa nascere solo dalle istanze condivise delle popolazioni e non può – come tentato in passato con esiti catastrofici – essere “esportato” tramite bombardamenti e invasioni.
Il colonnello Gheddafi non riscuote simpatie né tra i radicali islamici, né nel mondo occidentale, né tra i governi arabi, né tra le organizzazioni islamiche non integraliste (che ha perseguitato e massacrato per decenni), né, credo, dopo la sua fastidiosissima ultima visita, tra gli italiani.
Se il suo governo avrà dunque fine, piangeranno in pochi, almeno fuori dalla Libia.
Cionondimeno, per onestà intellettuale, non si può non storcere il naso su numerosi aspetti dell’intervento armato contro di lui.
Spiace sicuramente assistere al ritorno dei missili americani nel Mediterraneo. Chi sperava che l’era dello sceriffo planetario fosse terminata è rimasto deluso, anche se gli Usa assicurano che lasceranno la guida dell’operazione – che molti auspicavano fosse sotto l’egida Ue, della Lega araba o addirittura assieme all’Unione africana – ad una o più nazioni europee.
La retorica umanistico-planetaria che ha accompagnato dal dopoguerra ad oggi ogni guerra, è stucchevole.
Questa volta da più parti i leader hanno ammesso che intervengono per tutelare gli interessi nazionali, ma la formula stessa della risoluzione Onu – che parla di un regime che usa le armi contro il proprio popolo – è un tantino ipocrita.
Indipendentemente dalle simpatie soggettive, sostenere che un potere centrale non debba reagire in armi contro i tentativi di secessione armata è la negazione della sovranità di qualsiasi governo nazionale al mondo, che ha tra i suoi diritti-doveri la garanzia dell’integrità del proprio territorio.
A dire il vero stiamo assistendo ad una replica dell’attacco alla Serbia in difesa del tentativo secessionista del Kosovo.
A qualcuno non sarà sfuggito quanto identica sia la posizione assunta dall’Italia – malgrado l’inversione di segno del governo – rispetto a quando D’Alema, nel 1999, abbandonò l’amico Milosevic, al quale lo legava anche l’operazione Telekom-Serbia, per mettere a disposizione della Nato le basi italiane da cui partirono i bombardamenti contro Belgrado.
Da più parti si è espressa preoccupazione per il fatto che questo tempestivo intervento armato per imporre una risoluzione del Consiglio di sicurezza possa rappresentare un pericoloso precedente.
Durante la conferenza stampa di Ban Ki-moon al Cairo del 21 marzo, una giornalista a chiesto a tal proposito se le Nazioni unite adotteranno le stesse modalità per far rispettare le risoluzioni Onu ad Israele…
di Marcello de Angelis -

21 marzo 2011

Fukushima, ovvero il crollo del paradigma nucleare

Gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi da una parte richiamano l’irrazionalità dell'attuale sistema economico e dall'altra sanciscono definitivamente l’inadeguatezza di quell’atteggiamento eroico ossessivo che intendeva dominare la Natura grazie alla tecnologia.


giappone nucleare
Le disastrose implicazioni del terremoto in Giappone impongono una doverosa riflessione sul rapporto dell’uomo con il mondo

Le disastrose implicazioni del terremoto in Giappone impongono una doverosa riflessione sul rapporto dell’uomo con il mondo. In particolare il tema del nucleare torna prepotentemente alla ribalta a seguito dei danni subiti da alcune centrali giapponesi, tra cui quella di Fukushima, che tengono l’intera umanità con il fiato sospeso.

La prima domanda a sorgere spontanea è: riuscirà l’uomo a correggere il proprio atteggiamento spericolato e a migliorare la qualità del suo rapporto con il mondo prima che sia troppo tardi? Tale domanda scaturisce da una sana emozione dettata dalla gravità dei fatti. La funzione psicologica dell’emotività, infatti, è quella di collegare la mente al Reale. Nessuno può negare che l’uomo di oggi detiene abbastanza potere per distruggere l’intero pianeta.

Il nucleare è appunto uno dei simboli maggiori di quell’enorme potere atto a sfuggirgli di mano. Purtroppo, a giudicare dai suoi comportamenti e dalle sue scelte politiche ed economiche, l’uomo non pare minimamente consapevole di questa situazione. Pertanto, al momento la risposta alla nostra domanda rimane aperta.

Tuttavia, gli eventi attualmente in corso nell’arcipelago nipponico incrinano radicalmente il giudizio a mio avviso largamente ottimistico rispetto alle nostre capacità di dominare la Natura e di gestire saggiamente le risorse energetiche. L’uomo moderno ha ragione di avere paura del nucleare e quindi di se stesso. Tale paura non rappresenta il segno di una psicosi collettiva.

fukushima nucleare
Di fronte alle immagini terrificanti delle centrali giapponesi in fiamme, vi sono esponenti politici ed economici che hanno il coraggio di negare pubblicamente la pericolosità del nucleare

Danni come quelli riportati dalle centrali giapponesi a seguito del terremoto fanno affiorare ed esaltano una paura assolutamente sana che corrisponde, da punto di vista psicoanalitico, ad un tentativo di compensazione inconscia di un atteggiamento irragionevole, spericolato e al limite dell’autodistruttività.

Razionalmente, quel disastro era prevedibile. Si è giocato a dadi quando in Giappone si è optato per la costruzione di centrali nucleari, negando la probabilità che avvenga un terremoto di simile proporzione in un paese che pure si sapeva ad alto rischio sismico. Lo stesso discorso si applica a tutte le scelte umane mosse da quel velenoso ottimismo legato all’odore del profitto, come per esempio la costruzione di grattacieli e altre strutture vicine alle coste o ai corsi d’acqua.

La possessione ad opera di Economia toglie all’uomo la razionalità del Cuore. Il ritenere di essere in grado, grazie alla tecnologia, di sfidare le complesse leggi della Natura sino a sostituirsi ad essa non è ragionevole. Nemmeno se lo si ritiene vantaggioso da un punto di vista economico. Anche un bimbo potrebbe capire queste cose. Sempre però che quel bimbo sia ben disposto ad accogliere la realtà e non faccia capricci.

Di fronte alle immagini terrificanti delle centrali giapponesi in fiamme, vi sono esponenti politici ed economici che hanno il coraggio di negare pubblicamente la pericolosità del nucleare. Ma è oltremodo facile stanare il flagrante conflitto di interesse che si cela dietro a questi commentatori. Essi somigliano a clown che scambiano lo spazio pubblico per un circo. Come ho affermato altrove, la fede in Economia non ha colore né odore [1]. Essa è del tutto trasversale e caratterizza la politica di Destra come di Sinistra. Tuttavia, per quanto riguarda il nucleare e le questioni ecologiche si può dire che generalmente la seconda appare maggiormente sensibile e responsabile della prima.

popoli tribali
Lo stile di vita dei popoli tribali è perfettamente ecologico. Essi concepiscono la Natura come un mondo da abitare piuttosto che da dominare

La fede in Economia asservisce la coscienza dell’uomo rendendola nella stessa occasione insensibile a quegli aspetti del Reale i cui valori non si prestano ad essere cifrati. Qualcuno il cui amore per i numeri non è certo da dimostrare, scrisse: “Non tutto quello che conta si può contare, e non tutto quello che può essere contato conta” [2].

In altri termini, si può affermare che nella nostra cultura il calcolo freddo finisce per sopprimere l’anima, non vedendo in essa che il retaggio di una psicologia infantile o arcaica. La dimensione animistica, che poggia invece sull’immaginazione profonda, non trova spazio. Quel che un Tylor e un Freud chiamavano rispettivamente “credenza nelle anime” e “pensiero magico”, ad uno studio scevro da pregiudizi culturali si rivela invece un'altra modalità di rapporto con se stessi e con il mondo, modalità dimostratasi per millenni del tutto funzionale alla vita sociale e all’adattamento all’ambiente.

Lo stile di vita dei popoli tribali è perfettamente ecologico. Essi concepiscono la Natura come un mondo da abitare piuttosto che da dominare. Una delle funzioni che più caratterizza la loro psicologia è la percezione e il rispetto di quella dimensione animistica che rende sacri gli esseri, i luoghi e gli eventi. Sento già le solite voci indignarsi per l’offesa recata al loro dio Progresso, come se la società umana non potesse procedere che in una sola e unica direzione: quella tracciata da Economia.

Ma gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi mettono in crisi il nostro attuale sistema di valori e acquistano, mi sembra, una importante valenza simbolica dal punto di vista psicoanimistico. Da una parte essi richiamano l’irrazionalità del sistema economico diventato un contenitore di credenze irrazionali e speranze esagerate. D’altra parte, viene definitivamente sancita l’inadeguatezza di quell’atteggiamento eroico ossessivo che intendeva dominare la Natura (assieme all’inconscio che da sempre vi è legato) grazie alla tecnologia.

economia
Nessuna economia sarà mai adeguata fintanto che l’uomo non si sarà ripreso dalla sbornia del profitto

Così come nessuna economia sarà mai adeguata fintanto che l’uomo non si sarà ripreso dalla sbornia del profitto, nessuna misura di sicurezza sarà mai realmente efficace fintanto che l’uomo non avrà liberato la propria anima a tale punto da consentirgli di percepire i poteri della Natura, quali appunto quelli dell’energia nucleare e del terremoto. I poteri della Natura che presso i popoli animisti sono particolarmente considerati, nella nostra cultura sono del tutto ignorati.

L’uomo moderno pensa di potere risolvere i problemi derivanti dalla sua opera di desacralizzazione del mondo mediante espedienti tecnici. Egli non riesce a percepire (e nemmeno a pensare) l’esistenza di una dimensione spirituale complementare a quella fisica. Dissociato dal proprio lato percettivo, tale un Dedalo dei tempi moderni egli non può che confezionare soluzioni tecniche destinate a rivelarsi parziali, inappropriate e fonte di ulteriori problemi [3]. Fino a quando quel macro-organismo tanto complesso quanto incompreso che è Gaia, la Terra, riuscirà a perdonare i suoi errori?

Volendo concludere con una nota positiva, diremo che nonostante il daimon economico e il predominio tecnologico, la percezione piuttosto diffusa (anche se un po’ confusa) di una Natura che si ribella è comunque un segno indicante che l’umanità non ha ancora del tutto perso la propria anima.

di Antoine Fratini