13 aprile 2011

Il “dopo Geronzi”. La finanza sulle nostre teste

Per la stragrande maggioranza dei cittadini le modifiche nei CdA delle banche e affini sono notizie che appaiono remote e sostanzialmente incomprensibili. Ma è proprio in quegli ambiti riservati ed esclusivi che si gioca la partita più delicata: quella del controllo dei capitali, dalle cui strategie deriva tutto il resto



Ma a te, trentenne precario, casalinga alla terza settimana del mese, piccolo imprenditore strangolato dalle banche, a te cosa importa se Giovanni Galateri di Genola diventerà il nuovo presidente delle Assicurazioni Generali dopo Cesare Geronzi si è dimesso? Niente. Per te che fatichi per sopravvivere non c’è nessuna “svolta epocale”.

Geronzi è la personificazione di un certo modo, paludato e impastoiato con i partiti, di fare finanza e di un certo mondo, a metà fra Chiesa e Berlusconi, tutto romano e di potere. Rappresenta uno dei volti del cosiddetto salotto buono. Ma l’uomo della strada ne era escluso prima e resterà escluso anche dopo la sua uscita di scena. Perciò le paginate dedicate agli intrighi e ai retroscena delle dimissioni di Geronzi (accusato di falso e bancarotta per il crac Cirio) sono esercizio autoreferenziale offensivo per la gente che a che fare con la vita vera.

Le beghe fra banchieri, industriali e manager riguardano una dimensione parallela tutta loro. Il guaio è che le manovre che la agitano e la squassano, nel linguaggio incomprensibile e nell’aura semi-occulta in cui è avvolta, rappresentano i movimenti della classe dominante che giù per li rami investono l’esistenza di tutti noi, ignari e incoscienti sudditi. Il quotidiano spettacolo della politica è la facciata visibile, ma dietro le quinte questi signori grigi e azzimati sconosciuti ai più decidono con le loro lotte gli assetti del potere reale, quello finanziario. Sono i finanzieri ad avere le chiavi della cassa, e in una società totalmente regolata in base alla quantità di denaro chi tiene i cordoni della borsa è il padrone.

Ecco perché, se nulla cambia per il cittadino comune, al cittadino informato serve sapere cosa gli combinano sopra la testa. Semplificando, Geronzi, un passato da banchiere andreottiano, personaggio trasversale perchè “centrista”, già dominus della decisiva Mediobanca, vicino al premier, aveva scontentato un po’ tutti dopo il suo arrivo al vertice delle Generali appena un anno fa. Il suo disegno era fare del Leone di Trieste, prima forza finanziaria del paese, l’indiscussa centrale di comando al fine di gestire il potere secondo metodi tipicamente romani (alla Fazio, per capirci), che non a macinare affari.

Il suo disegno era funzionale alla conquista berlusconiana della stanza dei bottoni: in Mediobanca, prima azionista di Generali, il capo del governo è presente nel board tramite sua figlia Marina, il sodale Tarek Ben Ammar, l’amico Salvatore Ligresti e il fido Ennio Doris. L’influente ministro dell’economia Giulio Tremonti aveva inizialmente appoggiato la presidenza Geronzi. Ora è stato uno dei suoi affossatori in contrasto con Gianni Letta, ombra di Silvio e diretto rivale di Giulio nel conflitto interno al governo (vedi il braccio di ferro sulle nomine nelle società pubbliche, di cui abbiamo scritto mercoledì scorso). Contro Geronzi la guerra è stata scatenata sulla piazza mediatica dal bulldozer Diego Della Valle, alleato di ferro dell’ambizioso Luca Cordero di Montezemolo. Ma anche il costruttore ed editore Caltagirone (vicino a Casini), per non dire di Palenzona (Unicredit, centrosinistra) hanno dato il via libera al siluramento.

Politicamente, a perderci è stato dunque Berlusconi, che oltretutto si vede sempre più insidiato in casa dall’infido Tremonti. Ma a perderci è anche, nient’affatto paradossalmente, Gianni Bazoli (Intesa), l’eminenza della finanza cattolica lombarda legata al centrosinistra, che con Geronzi aveva creato un filo rosso per mantenere l’equilibrio generale. Ciò, ad esempio, ha garantito che non venissero toccati i delicatissimi pesi e contrappesi nel patto che governa il Corriere della Sera, preda ambita da chi coltiva sogni di gloria. E il sospetto è che a coltivarne uno di portata storica è il duo Della Valle-Montezemolo: il famigerato Terzo Polo che pare si stia preparando è un progetta che mira a colpire e in prospettiva sostituire il blocco berlusconiano, d’accordo con la sinistra non casualmente chiamata “bancaria” per la sua contiguità con le maggiori banche (Intesa, Unicredit). La partita avrà il suo vero finale a fine anno, quando si dovrà rinnovare l’accordo di controllo di Mediobanca.

Come si vede, una normale storia dell’inaccessibile empireo dei potenti. Una storia di potere che non è in nostro potere. Come non lo è niente, nella pseudo-democrazia dove una ventina di persone a capo di tre o quattro consigli di amministrazione decretano la sorte di un intero paese senza che noi, quaggiù in basso, possiamo dire o fare alcunché.
di Alessio Mannino

12 aprile 2011

Diversamente giovani. Il problema è che in Italia il narcisismo sta diventando una malattia senile

Prematuramente estromesso dal risiko del potere all’alba dei 76 anni, il banchiere Cesare Geronzi marchia i suoi successori col nomignolo irridente di «gioventù anziana». In effetti molti eterni delfini sembrano condividere il destino di Carlo d’Inghilterra, invecchiato in sala d’attesa, o quello di certi «enfant prodige» che col tempo smarriscono il «prodige» e si tengono solo l’«enfant». Se però oggi persino un sessantenne può sembrare un giovanotto arrembante è perché i «diversamente giovani» non mollano la presa. A cominciare dalla politica, dove il bastone del comando è in mano a Berlusconi e Bossi, 75 e 70 anni, e appena un sindaco su sedici ne ha meno di 35. Un’età in cui all’estero diventano già leader, rottamando dei quaranta-cinquantenni che si riciclano in altri mestieri senza farla troppo lunga.

Il problema è che in Italia il narcisismo sta diventando una malattia senile. Altrove il capo di un partito (banca, ospedale, università) si congeda dal palcoscenico e scivola con tutti gli onori dietro le quinte o nella buca del suggeritore. Qui invece rimane aggrappato al proscenio con le unghie e coi denti, se è il caso anche con la dentiera. Gli incarichi consultivi, prerogativa sacrosanta dei vecchi saggi, lo deprimono. Lui vuole esserci, apparire, contare. E così innesca l’effetto-tappo: poiché si rifiuta di scendere dall’autobus, chi gli sta dietro non riesce ad avanzare e quelli ancora più dietro neppure a salire. Deve aver confuso il prolungamento della vita con quello della poltrona. Forse perché per lui solo la poltrona è vita.
di Massimo Gramellini

11 aprile 2011

Il trionfo dell’esibizionismo nell’era dei social network

Facebook ha distaccato di molto ogni altra novità e moda passeggera legata a Internet, e ha battuto tutti i record di crescita del numero degli utenti regolari. Altrettanto dicasi per il suo valore commerciale, che secondo Le Monde del 24 febbraio scorso ha ormai raggiunto la cifra inaudita di 50 miliardi di dollari. Mentre scrivo, il numero degli "utenti attivi" di Facebook ha doppiato la boa del mezzo miliardo: alcuni di essi, naturalmente, sono più attivi di altri, ma ogni giorno va su Facebook almeno la metà di tutti i suoi utenti attivi. La proprietà informa che l´utente medio di Facebook ha 130 amici (amici su Facebook), e gli utenti vi trascorrono complessivamente più di 700 miliardi di minuti al mese. Se questa cifra astronomica è troppo grande da digerire e assimilare, sarà bene far notare che, se divisa in parti uguali fra tutti gli utenti attivi di Facebook, corrisponderebbe a circa 48 minuti al giorno per ciascuno. In alternativa, potrebbe corrispondere a un totale di 16 milioni di persone che trascorrono su Facebook 7 giorni a settimana, 24 ore al giorno.
Si tratta di un successo davvero sbalorditivo secondo ogni parametro. Quando ha ideato Facebook (ma c´è chi dice abbia rubato l´idea), e l´ha poi lanciato su Internet nel febbraio del 2004 ad uso esclusivo degli studenti di Harvard, l´allora ventenne Mark Zuckerberg dev´essersi imbattuto in una specie di miniera d´oro: questo è piuttosto evidente.
Ma che cosa era quel minerale simile all´oro che il fortunato Mark ha scoperto e continua a estrarre con profitti favolosi che non cessano di accrescersi? (...)
Ciò che si è acquistato è una rete, non una "comunità". E le due cose, come si scoprirà prima o poi (a condizione, naturalmente, di non dimenticare, o non mancare di imparare, che cosa sia la "comunità", occupati come si è a crearsi reti per poi disfarle), si rassomigliano quanto il gesso e il formaggio. Appartenere a una comunità costituisce una condizione molto più sicura e affidabile, benché indubbiamente più limitante e più vincolante, che avere una rete. La comunità è qualcosa che ci osserva da presso e ci lascia poco margine di manovra: può metterci al bando e mandarci in esilio, ma non ammette dimissioni volontarie. Invece la rete può essere poco o per nulla interessata alla nostra ottemperanza alle sue norme (sempre che una rete abbia norme alle quali ottemperare, il che assai spesso non è), e quindi ci lascia molto più agio e soprattutto non ci penalizza se ne usciamo. Però sulla comunità si può contare come su un amico vero, quello che "si riconosce nel momento del bisogno". (...) Ebbene: quei nomi e quelle foto che gli utenti di Facebook chiamano "amici" ci sono vicini o lontani? Ultimamente, un entusiasta "utente attivo" di Facebook si vantava di riuscire a farsi 500 nuovi amici al giorno, più di quanti ne abbia acquistati io nei miei 85 anni di vita. Ma come osserva Robin Dunbar, che insegna antropologia evoluzionistica a Oxford, "la nostra mente non è stata predisposta (dall´evoluzione) a consentirci di avere, nel nostro mondo sociale, più di un numero assai limitato di persone". Questo numero Dunbar l´ha addirittura calcolato, scoprendo che "un essere umano non riesce a tenere in piedi più di circa 150 rapporti significativi". (...)
Le "reti di amicizie" supportate elettronicamente promettevano di spezzare le recalcitranti limitazioni alla socievolezza fissate dal nostro patrimonio genetico. Ebbene, dice Dunbar, non le hanno spezzate e non le spezzeranno: la promessa può soltanto essere disattesa. «È vero», ha scritto lo studioso lo scorso 25 dicembre nella sua rubrica sul New York Times, «con la propria pagina di Facebook si può fare amicizia con 500, 1000, persino 5000 persone. Ma tutte, eccetto quel nucleo di 150, non sono che semplici voyeur che mettono il naso nella tua vita quotidiana». Tra quei mille amici su Facebook, i "rapporti significativi" – mantenuti per mezzo di un servizio elettronico oppure vissuti off-line – sono calmierati, come prima, dai limiti invalicabili del "numero di Dunbar". Il vero servizio reso da Facebook e da altri siti "sociali" simili è dunque il mantenimento del nucleo di amici nelle condizioni del mondo attuale, un mondo ad elevata mobilità, che si muove in fretta e cambia rapidamente... (...)
Dunbar ha ragione quando sostiene che i succedanei elettronici del rapporto faccia a faccia hanno aggiornato il retaggio dell´età della pietra, cioè hanno adattato i modi e i mezzi dei rapporti umani ai requisiti della nostra nouvel âge. Mi sembra però che trascuri un fatto, e cioè che nel corso di tale adattamento, quei modi e quei mezzi sono stati anche modificati in notevole misura, e di conseguenza anche i "rapporti significativi" hanno cambiato significato. Altrettanto deve aver fatto il contenuto del concetto di "numero di Dunbar". A meno che tale contenuto non si esaurisca precisamente e unicamente nel numero. Il punto è che, indipendentemente dal fatto che il numero di persone con cui si può stabilire un "rapporto significativo" non sia variato nel corso dei millenni, il contenuto richiesto per rendere "significativi" i rapporti umani dev´essere cambiato in notevole misura, e in modo particolarmente drastico in questi ultimi trenta-quarant´anni… Esso si è modificato al punto che, come ipotizza lo psichiatra e psicoanalista Serge Tisseron, i rapporti considerati "significativi" sono passati dall´intimité all´extimité, cioè dall´intimità a ciò che egli chiama "estimità". (...)
L´avvento della società-confessionale ha segnato il trionfo definitivo di quella invenzione squisitamente moderna che è la privacy – ma ha anche segnato l´inizio delle sue vertiginose cadute dalla vetta della sua gloria. Trionfo che si è rivelato una vittoria di Pirro, naturalmente, visto che la privacy ha invaso, conquistato e colonizzato la sfera pubblica, ma al prezzo di perdere il suo diritto alla segretezza, suo tratto distintivo e privilegio più caro e più gelosamente difeso.
Analogamente ad altre categorie di beni personali, infatti, la segretezza è per definizione quella parte di conoscenza la cui condivisione con altri è rifiutata o proibita e/o strettamente controllata. La segretezza, per così dire, traccia e contrassegna i confini della privacy, essendo quest´ultima la sfera destinata ad essere propria, il territorio della propria sovranità indivisa, entro il quale si ha il potere totale e indivisibile di decidere "che cosa sono e chi sono", e a partire dalla quale si possono lanciare e rilanciare le campagne per far riconoscere e rispettare le proprie decisioni e mantenerle tali. In una sorprendente inversione a U rispetto alle abitudini dei nostri antenati, però, abbiamo perso il fegato, l´energia e soprattutto la volontà di persistere nella difesa di quei diritti, di quegli insostituibili elementi costitutivi dell´autonomia individuale. Quel che ci spaventa al giorno d´oggi non è tanto la possibilità del tradimento o della violazione della privacy, quanto il suo opposto, cioè la prospettiva che tutte le vie d´uscita possano venire bloccate. L´area della privacy si trasforma così in un luogo di carcerazione, e il proprietario dello spazio privato è condannato a cuocere nel suo brodo, costretto in una condizione contrassegnata dall´assenza di avidi ascoltatori bramosi di estrarre e strappare i nostri segreti dai bastioni della privacy, di gettarli in pasto al pubblico, di farne una proprietà condivisa da tutti e che tutti desiderano condividere. A quanto sembra non proviamo più gioia ad avere segreti, a meno che non si tratti di quel genere di segreti in grado di esaltare il nostro ego attirando l´attenzione dei ricercatori e degli autori dei talk-show televisivi, delle prime pagine dei tabloid e delle copertine delle riviste su carta patinata. (...).
In Gran Bretagna, paese arretrato di cyber-anni rispetto all´Estremo Oriente in termini di diffusione e utilizzo di apparecchiature elettroniche di avanguardia, gli utenti forse si affidano ancora al social networking per manifestare la loro libertà di scelta e addirittura lo ritengono uno strumento di ribellione e auto-affermazione giovanile. Ma in Corea del Sud, per esempio, dove la maggior parte della vita sociale è già abitualmente mediata da apparecchiature elettroniche (o, piuttosto, dove la vita sociale è già stata trasformata in vita elettronica o cyber-vita, e dove la "vita sociale" per buona parte si trascorre principalmente in compagnia di un computer, di un iPod o di un cellulare e solo secondariamente in compagnia di altri esseri in carne e ossa), ai giovani è del tutto evidente che non hanno neanche un briciolo di scelta: là dove vivono, vivere la vita sociale per via elettronica non è più una scelta ma una necessità, un "prendere o lasciare". La "morte sociale" attende quei pochi che ancora non si sono collegati a Cyworld, leader del mercato sudcoreano in fatto di cultura show-and-tell. (...)
I teenager equipaggiati di confessionali elettronici portatili non sono che apprendisti in formazione e formati all´arte di vivere in una società-confessionale, una società notoria per aver cancellato il confine che un tempo separava pubblico e privato, per aver fatto dell´esposizione pubblica del privato una virtù pubblica e un dovere, e per aver spazzato via dalla comunicazione pubblica qualsiasi cosa resista a lasciarsi ridurre a confidenze private, insieme a coloro che si rifiutano di farle. (...) Essere membri della società dei consumatori è un arduo compito, un percorso in salita che non finisce mai. Il timore di non riuscire a conformarsi è stato soppiantato dal timore dell´inadeguatezza, ma non per questo si è fatto meno tormentoso. I mercati dei consumatori sono bramosi di capitalizzare questo timore, e le industrie che sfornano beni di consumo si contendono lo status di guide/aiutanti più affidabili per i loro clienti, sottoposti allo sforzo incessante di essere all´altezza del compito. Sono i mercati a fornire gli "attrezzi", cioè gli strumenti indispensabili per "auto-fabbricarsi": un lavoro che ciascuno esegue da sé. E in realtà, le merci che i mercati rappresentano come "attrezzi" destinati a essere usati dai singoli per prendere decisioni non sono che decisioni già prese. Quelle merci sono state approntate ben prima che il singolo si trovasse dinanzi al dovere (rappresentato come opportunità) di decidere. È quindi assurdo pensare che quegli strumenti rendano possibile una scelta individuale delle finalità. Al contrario, essi non sono che cristallizzazioni di un´irresistibile "necessità" che gli esseri umani, oggi come un tempo, sono tenuti a imparare, cui devono obbedire, e cui devono imparare a obbedire per essere liberi…
Ma allora, lo strabiliante successo di Facebook non sarà dovuto al fatto di aver creato il mercato su cui, ogni giorno, necessità e libertà di scelta s´incontrano?
di Zygmunt Bauman
(Traduzione di Marina Astrologo)

13 aprile 2011

Il “dopo Geronzi”. La finanza sulle nostre teste

Per la stragrande maggioranza dei cittadini le modifiche nei CdA delle banche e affini sono notizie che appaiono remote e sostanzialmente incomprensibili. Ma è proprio in quegli ambiti riservati ed esclusivi che si gioca la partita più delicata: quella del controllo dei capitali, dalle cui strategie deriva tutto il resto



Ma a te, trentenne precario, casalinga alla terza settimana del mese, piccolo imprenditore strangolato dalle banche, a te cosa importa se Giovanni Galateri di Genola diventerà il nuovo presidente delle Assicurazioni Generali dopo Cesare Geronzi si è dimesso? Niente. Per te che fatichi per sopravvivere non c’è nessuna “svolta epocale”.

Geronzi è la personificazione di un certo modo, paludato e impastoiato con i partiti, di fare finanza e di un certo mondo, a metà fra Chiesa e Berlusconi, tutto romano e di potere. Rappresenta uno dei volti del cosiddetto salotto buono. Ma l’uomo della strada ne era escluso prima e resterà escluso anche dopo la sua uscita di scena. Perciò le paginate dedicate agli intrighi e ai retroscena delle dimissioni di Geronzi (accusato di falso e bancarotta per il crac Cirio) sono esercizio autoreferenziale offensivo per la gente che a che fare con la vita vera.

Le beghe fra banchieri, industriali e manager riguardano una dimensione parallela tutta loro. Il guaio è che le manovre che la agitano e la squassano, nel linguaggio incomprensibile e nell’aura semi-occulta in cui è avvolta, rappresentano i movimenti della classe dominante che giù per li rami investono l’esistenza di tutti noi, ignari e incoscienti sudditi. Il quotidiano spettacolo della politica è la facciata visibile, ma dietro le quinte questi signori grigi e azzimati sconosciuti ai più decidono con le loro lotte gli assetti del potere reale, quello finanziario. Sono i finanzieri ad avere le chiavi della cassa, e in una società totalmente regolata in base alla quantità di denaro chi tiene i cordoni della borsa è il padrone.

Ecco perché, se nulla cambia per il cittadino comune, al cittadino informato serve sapere cosa gli combinano sopra la testa. Semplificando, Geronzi, un passato da banchiere andreottiano, personaggio trasversale perchè “centrista”, già dominus della decisiva Mediobanca, vicino al premier, aveva scontentato un po’ tutti dopo il suo arrivo al vertice delle Generali appena un anno fa. Il suo disegno era fare del Leone di Trieste, prima forza finanziaria del paese, l’indiscussa centrale di comando al fine di gestire il potere secondo metodi tipicamente romani (alla Fazio, per capirci), che non a macinare affari.

Il suo disegno era funzionale alla conquista berlusconiana della stanza dei bottoni: in Mediobanca, prima azionista di Generali, il capo del governo è presente nel board tramite sua figlia Marina, il sodale Tarek Ben Ammar, l’amico Salvatore Ligresti e il fido Ennio Doris. L’influente ministro dell’economia Giulio Tremonti aveva inizialmente appoggiato la presidenza Geronzi. Ora è stato uno dei suoi affossatori in contrasto con Gianni Letta, ombra di Silvio e diretto rivale di Giulio nel conflitto interno al governo (vedi il braccio di ferro sulle nomine nelle società pubbliche, di cui abbiamo scritto mercoledì scorso). Contro Geronzi la guerra è stata scatenata sulla piazza mediatica dal bulldozer Diego Della Valle, alleato di ferro dell’ambizioso Luca Cordero di Montezemolo. Ma anche il costruttore ed editore Caltagirone (vicino a Casini), per non dire di Palenzona (Unicredit, centrosinistra) hanno dato il via libera al siluramento.

Politicamente, a perderci è stato dunque Berlusconi, che oltretutto si vede sempre più insidiato in casa dall’infido Tremonti. Ma a perderci è anche, nient’affatto paradossalmente, Gianni Bazoli (Intesa), l’eminenza della finanza cattolica lombarda legata al centrosinistra, che con Geronzi aveva creato un filo rosso per mantenere l’equilibrio generale. Ciò, ad esempio, ha garantito che non venissero toccati i delicatissimi pesi e contrappesi nel patto che governa il Corriere della Sera, preda ambita da chi coltiva sogni di gloria. E il sospetto è che a coltivarne uno di portata storica è il duo Della Valle-Montezemolo: il famigerato Terzo Polo che pare si stia preparando è un progetta che mira a colpire e in prospettiva sostituire il blocco berlusconiano, d’accordo con la sinistra non casualmente chiamata “bancaria” per la sua contiguità con le maggiori banche (Intesa, Unicredit). La partita avrà il suo vero finale a fine anno, quando si dovrà rinnovare l’accordo di controllo di Mediobanca.

Come si vede, una normale storia dell’inaccessibile empireo dei potenti. Una storia di potere che non è in nostro potere. Come non lo è niente, nella pseudo-democrazia dove una ventina di persone a capo di tre o quattro consigli di amministrazione decretano la sorte di un intero paese senza che noi, quaggiù in basso, possiamo dire o fare alcunché.
di Alessio Mannino

12 aprile 2011

Diversamente giovani. Il problema è che in Italia il narcisismo sta diventando una malattia senile

Prematuramente estromesso dal risiko del potere all’alba dei 76 anni, il banchiere Cesare Geronzi marchia i suoi successori col nomignolo irridente di «gioventù anziana». In effetti molti eterni delfini sembrano condividere il destino di Carlo d’Inghilterra, invecchiato in sala d’attesa, o quello di certi «enfant prodige» che col tempo smarriscono il «prodige» e si tengono solo l’«enfant». Se però oggi persino un sessantenne può sembrare un giovanotto arrembante è perché i «diversamente giovani» non mollano la presa. A cominciare dalla politica, dove il bastone del comando è in mano a Berlusconi e Bossi, 75 e 70 anni, e appena un sindaco su sedici ne ha meno di 35. Un’età in cui all’estero diventano già leader, rottamando dei quaranta-cinquantenni che si riciclano in altri mestieri senza farla troppo lunga.

Il problema è che in Italia il narcisismo sta diventando una malattia senile. Altrove il capo di un partito (banca, ospedale, università) si congeda dal palcoscenico e scivola con tutti gli onori dietro le quinte o nella buca del suggeritore. Qui invece rimane aggrappato al proscenio con le unghie e coi denti, se è il caso anche con la dentiera. Gli incarichi consultivi, prerogativa sacrosanta dei vecchi saggi, lo deprimono. Lui vuole esserci, apparire, contare. E così innesca l’effetto-tappo: poiché si rifiuta di scendere dall’autobus, chi gli sta dietro non riesce ad avanzare e quelli ancora più dietro neppure a salire. Deve aver confuso il prolungamento della vita con quello della poltrona. Forse perché per lui solo la poltrona è vita.
di Massimo Gramellini

11 aprile 2011

Il trionfo dell’esibizionismo nell’era dei social network

Facebook ha distaccato di molto ogni altra novità e moda passeggera legata a Internet, e ha battuto tutti i record di crescita del numero degli utenti regolari. Altrettanto dicasi per il suo valore commerciale, che secondo Le Monde del 24 febbraio scorso ha ormai raggiunto la cifra inaudita di 50 miliardi di dollari. Mentre scrivo, il numero degli "utenti attivi" di Facebook ha doppiato la boa del mezzo miliardo: alcuni di essi, naturalmente, sono più attivi di altri, ma ogni giorno va su Facebook almeno la metà di tutti i suoi utenti attivi. La proprietà informa che l´utente medio di Facebook ha 130 amici (amici su Facebook), e gli utenti vi trascorrono complessivamente più di 700 miliardi di minuti al mese. Se questa cifra astronomica è troppo grande da digerire e assimilare, sarà bene far notare che, se divisa in parti uguali fra tutti gli utenti attivi di Facebook, corrisponderebbe a circa 48 minuti al giorno per ciascuno. In alternativa, potrebbe corrispondere a un totale di 16 milioni di persone che trascorrono su Facebook 7 giorni a settimana, 24 ore al giorno.
Si tratta di un successo davvero sbalorditivo secondo ogni parametro. Quando ha ideato Facebook (ma c´è chi dice abbia rubato l´idea), e l´ha poi lanciato su Internet nel febbraio del 2004 ad uso esclusivo degli studenti di Harvard, l´allora ventenne Mark Zuckerberg dev´essersi imbattuto in una specie di miniera d´oro: questo è piuttosto evidente.
Ma che cosa era quel minerale simile all´oro che il fortunato Mark ha scoperto e continua a estrarre con profitti favolosi che non cessano di accrescersi? (...)
Ciò che si è acquistato è una rete, non una "comunità". E le due cose, come si scoprirà prima o poi (a condizione, naturalmente, di non dimenticare, o non mancare di imparare, che cosa sia la "comunità", occupati come si è a crearsi reti per poi disfarle), si rassomigliano quanto il gesso e il formaggio. Appartenere a una comunità costituisce una condizione molto più sicura e affidabile, benché indubbiamente più limitante e più vincolante, che avere una rete. La comunità è qualcosa che ci osserva da presso e ci lascia poco margine di manovra: può metterci al bando e mandarci in esilio, ma non ammette dimissioni volontarie. Invece la rete può essere poco o per nulla interessata alla nostra ottemperanza alle sue norme (sempre che una rete abbia norme alle quali ottemperare, il che assai spesso non è), e quindi ci lascia molto più agio e soprattutto non ci penalizza se ne usciamo. Però sulla comunità si può contare come su un amico vero, quello che "si riconosce nel momento del bisogno". (...) Ebbene: quei nomi e quelle foto che gli utenti di Facebook chiamano "amici" ci sono vicini o lontani? Ultimamente, un entusiasta "utente attivo" di Facebook si vantava di riuscire a farsi 500 nuovi amici al giorno, più di quanti ne abbia acquistati io nei miei 85 anni di vita. Ma come osserva Robin Dunbar, che insegna antropologia evoluzionistica a Oxford, "la nostra mente non è stata predisposta (dall´evoluzione) a consentirci di avere, nel nostro mondo sociale, più di un numero assai limitato di persone". Questo numero Dunbar l´ha addirittura calcolato, scoprendo che "un essere umano non riesce a tenere in piedi più di circa 150 rapporti significativi". (...)
Le "reti di amicizie" supportate elettronicamente promettevano di spezzare le recalcitranti limitazioni alla socievolezza fissate dal nostro patrimonio genetico. Ebbene, dice Dunbar, non le hanno spezzate e non le spezzeranno: la promessa può soltanto essere disattesa. «È vero», ha scritto lo studioso lo scorso 25 dicembre nella sua rubrica sul New York Times, «con la propria pagina di Facebook si può fare amicizia con 500, 1000, persino 5000 persone. Ma tutte, eccetto quel nucleo di 150, non sono che semplici voyeur che mettono il naso nella tua vita quotidiana». Tra quei mille amici su Facebook, i "rapporti significativi" – mantenuti per mezzo di un servizio elettronico oppure vissuti off-line – sono calmierati, come prima, dai limiti invalicabili del "numero di Dunbar". Il vero servizio reso da Facebook e da altri siti "sociali" simili è dunque il mantenimento del nucleo di amici nelle condizioni del mondo attuale, un mondo ad elevata mobilità, che si muove in fretta e cambia rapidamente... (...)
Dunbar ha ragione quando sostiene che i succedanei elettronici del rapporto faccia a faccia hanno aggiornato il retaggio dell´età della pietra, cioè hanno adattato i modi e i mezzi dei rapporti umani ai requisiti della nostra nouvel âge. Mi sembra però che trascuri un fatto, e cioè che nel corso di tale adattamento, quei modi e quei mezzi sono stati anche modificati in notevole misura, e di conseguenza anche i "rapporti significativi" hanno cambiato significato. Altrettanto deve aver fatto il contenuto del concetto di "numero di Dunbar". A meno che tale contenuto non si esaurisca precisamente e unicamente nel numero. Il punto è che, indipendentemente dal fatto che il numero di persone con cui si può stabilire un "rapporto significativo" non sia variato nel corso dei millenni, il contenuto richiesto per rendere "significativi" i rapporti umani dev´essere cambiato in notevole misura, e in modo particolarmente drastico in questi ultimi trenta-quarant´anni… Esso si è modificato al punto che, come ipotizza lo psichiatra e psicoanalista Serge Tisseron, i rapporti considerati "significativi" sono passati dall´intimité all´extimité, cioè dall´intimità a ciò che egli chiama "estimità". (...)
L´avvento della società-confessionale ha segnato il trionfo definitivo di quella invenzione squisitamente moderna che è la privacy – ma ha anche segnato l´inizio delle sue vertiginose cadute dalla vetta della sua gloria. Trionfo che si è rivelato una vittoria di Pirro, naturalmente, visto che la privacy ha invaso, conquistato e colonizzato la sfera pubblica, ma al prezzo di perdere il suo diritto alla segretezza, suo tratto distintivo e privilegio più caro e più gelosamente difeso.
Analogamente ad altre categorie di beni personali, infatti, la segretezza è per definizione quella parte di conoscenza la cui condivisione con altri è rifiutata o proibita e/o strettamente controllata. La segretezza, per così dire, traccia e contrassegna i confini della privacy, essendo quest´ultima la sfera destinata ad essere propria, il territorio della propria sovranità indivisa, entro il quale si ha il potere totale e indivisibile di decidere "che cosa sono e chi sono", e a partire dalla quale si possono lanciare e rilanciare le campagne per far riconoscere e rispettare le proprie decisioni e mantenerle tali. In una sorprendente inversione a U rispetto alle abitudini dei nostri antenati, però, abbiamo perso il fegato, l´energia e soprattutto la volontà di persistere nella difesa di quei diritti, di quegli insostituibili elementi costitutivi dell´autonomia individuale. Quel che ci spaventa al giorno d´oggi non è tanto la possibilità del tradimento o della violazione della privacy, quanto il suo opposto, cioè la prospettiva che tutte le vie d´uscita possano venire bloccate. L´area della privacy si trasforma così in un luogo di carcerazione, e il proprietario dello spazio privato è condannato a cuocere nel suo brodo, costretto in una condizione contrassegnata dall´assenza di avidi ascoltatori bramosi di estrarre e strappare i nostri segreti dai bastioni della privacy, di gettarli in pasto al pubblico, di farne una proprietà condivisa da tutti e che tutti desiderano condividere. A quanto sembra non proviamo più gioia ad avere segreti, a meno che non si tratti di quel genere di segreti in grado di esaltare il nostro ego attirando l´attenzione dei ricercatori e degli autori dei talk-show televisivi, delle prime pagine dei tabloid e delle copertine delle riviste su carta patinata. (...).
In Gran Bretagna, paese arretrato di cyber-anni rispetto all´Estremo Oriente in termini di diffusione e utilizzo di apparecchiature elettroniche di avanguardia, gli utenti forse si affidano ancora al social networking per manifestare la loro libertà di scelta e addirittura lo ritengono uno strumento di ribellione e auto-affermazione giovanile. Ma in Corea del Sud, per esempio, dove la maggior parte della vita sociale è già abitualmente mediata da apparecchiature elettroniche (o, piuttosto, dove la vita sociale è già stata trasformata in vita elettronica o cyber-vita, e dove la "vita sociale" per buona parte si trascorre principalmente in compagnia di un computer, di un iPod o di un cellulare e solo secondariamente in compagnia di altri esseri in carne e ossa), ai giovani è del tutto evidente che non hanno neanche un briciolo di scelta: là dove vivono, vivere la vita sociale per via elettronica non è più una scelta ma una necessità, un "prendere o lasciare". La "morte sociale" attende quei pochi che ancora non si sono collegati a Cyworld, leader del mercato sudcoreano in fatto di cultura show-and-tell. (...)
I teenager equipaggiati di confessionali elettronici portatili non sono che apprendisti in formazione e formati all´arte di vivere in una società-confessionale, una società notoria per aver cancellato il confine che un tempo separava pubblico e privato, per aver fatto dell´esposizione pubblica del privato una virtù pubblica e un dovere, e per aver spazzato via dalla comunicazione pubblica qualsiasi cosa resista a lasciarsi ridurre a confidenze private, insieme a coloro che si rifiutano di farle. (...) Essere membri della società dei consumatori è un arduo compito, un percorso in salita che non finisce mai. Il timore di non riuscire a conformarsi è stato soppiantato dal timore dell´inadeguatezza, ma non per questo si è fatto meno tormentoso. I mercati dei consumatori sono bramosi di capitalizzare questo timore, e le industrie che sfornano beni di consumo si contendono lo status di guide/aiutanti più affidabili per i loro clienti, sottoposti allo sforzo incessante di essere all´altezza del compito. Sono i mercati a fornire gli "attrezzi", cioè gli strumenti indispensabili per "auto-fabbricarsi": un lavoro che ciascuno esegue da sé. E in realtà, le merci che i mercati rappresentano come "attrezzi" destinati a essere usati dai singoli per prendere decisioni non sono che decisioni già prese. Quelle merci sono state approntate ben prima che il singolo si trovasse dinanzi al dovere (rappresentato come opportunità) di decidere. È quindi assurdo pensare che quegli strumenti rendano possibile una scelta individuale delle finalità. Al contrario, essi non sono che cristallizzazioni di un´irresistibile "necessità" che gli esseri umani, oggi come un tempo, sono tenuti a imparare, cui devono obbedire, e cui devono imparare a obbedire per essere liberi…
Ma allora, lo strabiliante successo di Facebook non sarà dovuto al fatto di aver creato il mercato su cui, ogni giorno, necessità e libertà di scelta s´incontrano?
di Zygmunt Bauman
(Traduzione di Marina Astrologo)