13 maggio 2011

La televisione come simbolo

La diffusa confidenza con il mezzo televisivo ha reso la sua presenza ed il suo utilizzo qualcosa di scontato, ordinario, quasi invisibile potremmo dire, un vero e proprio sottofondo della nostra esistenza. Qualcosa di criticato, amato e odiato, ma comunque ritenuto una presenza ormai comune, familiare, a tutti gli effetti “domestica”. Scriverne ancora potrebbe sembrare opera superflua, anche se siamo convinti che, astraendoci un momento dalla abituale percezione e considerando il tutto in maniera più distaccata, sia possibile ancora effettuare alcune brevi riflessioni per una migliore comprensione del fenomeno.

Ci si ponga davanti allo schermo, lo si accenda, lo si guardi, si incomincino a cambiare i canali, ad osservarne le immagini: una serie di stati d’animo, sensazioni, emozioni si presenterà prontamente, influenzando il sensorio e la psiche dell’osservatore. Immagini coerenti o incoerenti, disarticolate, realistiche o fantastiche, comuni o prese da luoghi remoti o inaccessibili, da epoche ormai passate o dall’immediatezza del presente. Immagini che permettono di vivere mille vite differenti, di immedesimarsi nelle più diverse situazioni ed eventualità della vita, di muoversi come in un sogno tra gli scenari più disparati. Cose e persone morte riprendono vita, novità piacevoli o spiacevoli si fanno conoscere, proponendosi per la prima volta alla mente ed al giudizio di chi osserva più o meno distrattamente. Ogni immagine evoca uno stato d’animo, una visione diversa del mondo, un punto di vista sempre in mutamento; una sorta di dramma onirico che si dispiega, illusorio e ipnotico in un perenne scorrere di fronte all’occhio dello spettatore.

Ecco che in tutto il suo fulgore scorre il samsara, la corrente delle forme.

In un continuo fluire, con il più totale orrore del vuoto e del silenzio, si dispiega un grande e immenso spettacolo, solo apparentemente frammentato, ma in realtà unico, una grande illusione prodotta dall’ingegno e dall’intelletto umano. Ma di fronte a questa illusione, sempre differente e sempre uguale a se stessa nel suo mutamento, non si ritroveranno forse delle analogie, a prima vista non evidenti, con il famoso velo di Maya?

Maya, ad un tempo potere divino e prodotto di questo potere, attività che permette di creare, di rendere possibili e veritieri trucchi, artifici, fantasmi e inganni dei sensi. Atto creatore, che rende manifeste le forme e che le muta poi a proprio piacimento, tramite una libera azione artistica e, potremmo dire, magica. Prerogativa divina che si riflette poi nell’ordine cosmologico, influenzando a sua volta tutte le creature, effetti anch’essi della Maya ma anche, nei limiti delle loro possibilità, agenti e produttori fenomenici.

Il mondo come opera d’arte, il mondo che produce opere d’arte, in una attività senza fine. E di riflesso, in questo gioco di specchi, si potrà comprendere come la capacità creativa e imitativa umana possa agire nei più diversi ambiti, come ad esempio quelli che costituiscono l’oggetto delle nostre riflessioni, e operare, a suo modo, avendo come fine una realizzazione autonoma di oggetti, immagini, suoni, situazioni, esistenze. Tutto questo naturalmente in un senso parziale, essendo ogni attività compiuta nella manifestazione caratterizzata da una originale ed ineludibile illusorietà – o se si preferisce da una “realtà relativa”.

Il mondo è illusorio, così come le immagini prodotte dagli uomini, perché diviene, perché sebbene di fattura divina rimane strettamente legato alla materia, dalla quale prende il sostentamento per il proprio essere. Tale la corrente delle forme, tale l’artificiale corrente della produzione umana.

Ma oltre a questo simbolismo ve n’è un altro che, anche se per certi aspetti analogo, presenta però delle sfumature decisamente più oscure. Per la sua mutevolezza, il suo dinamismo e la sua natura fondamentalmente inafferrabile, la televisione richiama l’indeterminatezza e la fluidità delle acque, viste simbolicamente nel loro aspetto più basso, di sostanza indifferenziata, principio plastico della manifestazione. Tali abissi, noti secondo alcune tradizioni come le acque inferiori, coinciderebbero con quel caos da cui emergono e ricadono nel loro ciclo vitale le forme manifestate. Come già notava Antonio Cioffi “tale luogo, esattamente come nel caso dell’apparecchio televisivo, traboccherebbe di immagini, intese come possibilità formali di ipotetici eventi di manifestazione non ancora o non più attualizzati, e di “residui” privi, per così dire, di vita propria, come cadaveri sottili cui non appartiene una realtà effettiva. Il mondo sottile è propriamente, secondo queste dottrine, il luogo d’azione dei ginn, nonché di quegli esseri infernali (tamasici, in termini indù) che, come una sorta di epidemie, possono infestare le cose, i corpi o, in modo maggiormente insidioso, le coscienze. Secondo questa prospettiva ci si troverebbe di fronte, nel caso della rappresentazione televisiva in genere, ad un capovolgimento concettuale del significato catartico che il teatro antico possedeva, alla maschera come persona sostituendosi la persona come maschera” (1).

Da questo punto di vista la televisione verrebbe quindi a svolgere una funzione, più o meno volontaria, di “fenditura nella grande muraglia”, ed essendo il suo campo d’azione proprio quel mondo sottile, intermedio tra spirito e materia, dove le influenze dello psichismo inferiore possono maggiormente e più facilmente dispiegarsi, ogni preoccupazione può essere a tale riguardo pienamente giustificata. E questo può avere un suo riflesso anche nelle applicazioni più concrete: non possiamo non sottolineare infatti come per i detentori del potere il mezzo televisivo abbia un’utilità sociale notevole, sia nella sua funzione informativa che in quella propriamente formativa, basandosi su di una sostanziale passività dell’utente, vero e proprio ricettore di messaggi che volontà superiori più o meno benevole pongono nella sua mente, e sia perciò uno dei capisaldi di tutte le forme di autorità che, sotto le più diverse etichette, comandano la società umana del tempo presente. Del resto se Nietzsche ebbe già modo di sostenere come il lavoro fosse la migliore forma di polizia, oggi vi possiamo degnamente affiancare anche la televisione, strumento che oltre a veicolare messaggi occupa materialmente molto tempo libero delle persone, distogliendole da attività potenzialmente più “scomode”; ma su questo è già stata prodotta un’abbondante letteratura, a vario titolo più o meno critica, e quindi non aggiungiamo altro, ritenendo più utile concludere con una piccola riflessione accessoria.

Si potrebbe sostenere che la televisione sia uno strumento di pluralismo, stante la varietà pressoché illimitata di scelte possibili tra i vari programmi. Questo indiscutibilmente corrisponde a verità, anche se solo da un punto di vista parziale, relativo alla pura scelta dei contenuti – che variano l’uno dall’altro in base alle indefinite gradazioni di emotività offerta – anche se da una prospettiva, per così dire, metatestuale, il messaggio è straordinariamente coerente e comune, essendo basato sullo stesso état d’esprit dominante. Osservandone la struttura infatti, tutti i programmi si rifanno a precisi schemi e valori unici, diversamente mutati e declinati secondo una quantità innumerevole di variazioni (e qui non possiamo non notare una sostanziale analogia con il mondo dei partiti politici e la grande miraggio della democrazia rappresentativa, che mette in scena una sorta di “pluralismo totalitario”). La diffusione di valori propriamente politici sarebbe ormai percepita dal pubblico come propaganda, divenendo del tutto inefficace come mezzo di cultura di massa; e quindi la rinuncia ad un messaggio direttamente politico si traduce in pratica nella diffusione di un messaggio politico indiretto basato sull’assimilazione, tramite il divertimento e l’evasione, di valori ed immagini facenti capo a quei modelli esemplari su cui si conforma o si vorrebbe conformare la società. Ed essendo l’alternativa – data la sostanziale uniformità dei contenuti – una possibilità soprattutto teorica, non possiamo concludere in altra maniera come nel constatare, di fronte al gioco caleidoscopico dell’illusione televisiva, che in realtà l’unica alternativa non sia nel cambiare canale ma nello spegnere definitivamente l’apparecchio.
di Renzo Giorgetti

Note

(1) A.Cioffi, La cinepresa di Arianna – presenza e manipolazione del mito nella cultura di massa, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1988, p.85.

A nostro avviso tali riflessioni possono essere valide anche per internet, anche se ad un livello sicuramente diverso, data la sostanziale differenza tra i due mezzi e soprattutto la minore passività ed il maggiore grado di interattività che la rete necessariamente comporta.

12 maggio 2011

Un ex capo degli 007 francesi demolisce il mito del "pericolo Bin Laden"


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Ripropongo ora questo pezzo in homepage dopo oltre un anno. E' un articolo quanto mai attuale e utile per riflettere su cosa sia "al-Qa'ida" e su quanta manipolazione politica e mediatica le sia stata costruita intorno dalle grandi potenze.

«Al-Qa'ida è morta», ormai da molti anni. Lo afferma Alain Chouet, l'uomo che ha modellato l'antiterrorismo francese ai vertici dei servizi segreti d'Oltralpe proprio negli anni cruciali in cui Washington e Londra costruivano invece i miti e gli spauracchi alla base della Guerra Infinita. Il documento è davvero clamoroso, nasce da un'audizione al Senato francese, e lo trascriviamo per intero (vedi anche il VIDEO).

Nelle parole di Chouet potrete leggere – grazie al lavoro di registrazione e trascrizione del sito francese ReOpen911.info - un'analisi raffinata, ironica, acutissima, che farebbero bene a leggere anche i propagandisti della paura in servizio permanente presso i principali organi d'informazione italiani.

La relazione di Chouet si è tenuta in occasione del dibattito svoltosi a fine gennaio 2010 davanti alla Commissione Esteri. L'esperto della DGSE, con una carriera in grande misura giocata in rapporto al mondo musulmano, parla senza le rigidità della 'lingua di legno' dei diplomatici.

Mentre la grancassa dei media ribatte ancora i suoi ritmi isterici per preparare le future azioni militari (probabilmente in Iran), intanto che si nasconde il fallimento delle ultime operazioni obamiane in Afghanistan dietro incredibili bollettini trionfali, l'ascolto e la lettura di questo documento ci riporta tutti al mondo reale, dove si sbriciolano le fondamenta di tutte le narrative ufficiali sulla questione terrorismo dell'ultimo decennio.

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Trascrizione della audizione di Alain Chouet alla Commissione degli Affari Esteri del Senato, il 29 gennaio 2010

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"Queste domande non mi paiono poi così bizantine come sembrerebbe: anch'io, come un buon numero di colleghi che fanno la mia professione sparsi per il mondo, ritengo - sulla base di notizie serie e dettagliate - che sul piano operativo al-Qa'ida è morta in quelle tane per topi di Tora-Bora nel 2002.

I servizi pakistani si sono limitati poi, dal 2003 a 2008, a rifilarci qualche rimasuglio in cambio di favori o di tolleranze di varia natura.

Dei circa 400 membri attivi dell'organizzazione esistente nel 2001, meno di una cinquantina di "comparse", (eccetto Osama Ben Laden e di Ayman al-Zawahiri che non hanno avuto mai nessun ruolo sul piano operativo) sono riusciti a fuggire e nascondersi in zone remote, vivendo in condizioni di vita precarie e disponendo di mezzi di comunicazione rudimentali o incerti.

Non è con un tale dispositivo che si può attivare su scala planetaria una rete coordinata e organizzata di violenza politica. Appare del resto chiaramente che nessuno dei terroristi autori degli attentati post 11-settembre (Londra, Madrid, Charm-el-Sheikh, Bali, Casablanca, Djerba, Mumbai, eccetera) ha mai avuto contatto con l'organizzazione.

Quanto alle rivendicazioni più o meno tempistiche che sono state rilasciate di quando in quando da Bin Laden o da Zawahiri, anche supponendo di poterle realmente autentificare, esse non implicano nessun collegamento operativo, organizzativo e funzionale fra questi terroristi e le vestigia dell'organizzazione .

Tuttavia, mi vedo obbligato a constatare, anch’io come tutti gli altri, che - a forza di invocarla a ogni proposito, e spesso a sproposito, non appena viene commesso un atto di violenza da un musulmano, o non appena un musulmano si trova nel luogo sbagliato al momento sbagliato (come nella vicenda della fabbrica AZF a Tolosa) o addirittura quando non c'è neanche traccia di un musulmano (come nel caso degli attacchi all’antrace negli stati Uniti) a forza di invocarla permanentemente - un certo numero di media piuttosto approssimativi e alcuni sedicenti esperti da una parte all’altra dell'Atlantico hanno finito non tanto per risuscitarla, ma per trasformarla in una specie di “Amedeo” dell'autore Eugène Ionesco, questo morto il cui cadavere non smette di crescere e di nascondere la realtà e di cui non si sa più come sbarazzarsi. L'ostinazione incantatoria degli Occidentali nell'invocare la mitica organizzazione Al-Qa'ida, (che viene qualificata come iperterrorista non per ciò che ha fatto, ma perché ha affrontato un’iperpotenza), ha avuto rapidamente due effetti perversi:

Primo effetto: Qualsiasi contestatore violento nel mondo musulmano, tanto politico quanto di diritto comune, qualunque fossero le sue motivazioni, ha compreso rapidamente che doveva richiamarsi ad Al-Qa'ida se voleva essere preso sul serio, se voleva che la sua azione godesse di una legittimità riconosciuta dagli altri e se voleva che questa stessa azione avesse risonanza internazionale.

Parallelamente a ciò, tutti i regimi del mondo musulmano – che come ben sappiamo non sono tutti virtuosi - hanno subito ben capito che avevano tutto l’interesse a fare passare i loro oppositori ed i loro contestatori, qualunque essi fossero, per membri dell'organizzazione di Bin Laden, in modo da poterli reprimere tranquillamente e, se possibile, anche con il beneplacito degli Occidentali.

E da qui nasce una proliferazione di varie Al-Qa'ida, più o meno evocate o autoproclamate, in Afghanistan, in Iraq, in Yemen, in Somalia, in Magreb, e altrove "Al-Qa'ida nella penisola arabica”

Il principale risultato di questa dialettica imbecille è stato evidentemente quello di rafforzare il mito di una Al-Qa'ida onnipresente, rannicchiata dietro ogni musulmano, pronta a strumentalizzarlo per colpire l'Occidente in generale e gli Stati Uniti in particolare nel nome di non si sa bene quale perfidia.

Questa visione procede da moltissimi errori di valutazione e di prospettiva e soprattutto genera risposte totalmente inadatte.

Perché se Al-Qa'ida non esiste, la violenza politica islamista invece esiste, eccome. E l'Occidente non ne è che una vittima indiretta e collaterale. Gli ideologi della violenza islamica non sono degli invasati: sono persone che hanno obiettivi ben precisi. Ed il loro obiettivo non è quello di islamizzare il mondo bensì quello di prendere il potere e con esso ricchezze che gli son legate nel mondo musulmano senza che l'Occidente intervenga... Un po’ come fece all’epoca Hassan al-Tourabi in Sudan.

Così, anche se l'amor proprio degli Occidentali dovrà soffrirne, bisogna ripetere senza mai stancarsi che le principali, le più numerose e le prime vittime della violenza islamista sono i musulmani stessi.

L'epicentro di questa violenza islamista non è né in Afghanistan né in Iraq; è in Arabia Saudita. È questo paese che affrontava per primo il manifesto contro gli ebrei e i crociati che,alla fine degli anni Novanta, era il testo fondante dell'organizzazione di Bin Laden, e questo manifesto mirava alla famiglia reale saudita prima che agli ebrei e ai crociati.

Questo è anche il solo paese al mondo a portare un cognome (NdR: in riferimento ad Ibn Saud, fondatore della dinastia).

Fatte le debite proporzioni, l'Arabia Saudita si trova in una situazione paragonabile a quella del primo semestre 1989. Una famiglia ha preso il potere nel 1926 accampando la sua legittimità su una ipotetica discendenza divina e usurpando la custodia dei luoghi santi dell'Islam ai suoi titolari storici appartenenti alla famiglia degli ascemiti.

Questa famiglia, i Saud, composta oggi da circa 3mila principi, esercita senza condividerlo la totalità del potere e si accaparra la totalità di una rendita astronomica che proviene dallo sfruttamento del sottosuolo più ricco al mondo in termini di idrocarburi.

Per conservare la sua legittimità di fronte a qualsiasi tipo di contestazione, la famiglia saudita ha sbarrato la strada a ogni forma di espressione democratica o pluralistica. Adotta la pratica dell'Islam più fondamentalista possibile per mettersi al riparo da ogni forma di scavalcamento in questo campo, (un poco come l'URSS che non voleva uno "scavalcamento a sinistra”, la famiglia saudita non vuole "scavalcamenti in Islam"). Col tempo però gli effetti delle enormi rendite degli idrocarburi hanno dato origine a diverse forme di commercio e di industria alle quali i principi, come tutti i principi, non avrebbero potuto far fronte senza derogare alle misure finora adottate e hanno quindi concesso dietro pagamento la partecipazione ai benefici a imprenditori non di rango in maggior parte provenienti da paesi vicini ma stranieri, ovviamente musulmani, soprattutto yemeniti e in un larga misura ai Levantini (siriani, libanesi, palestinesi).

E mentre il futuro del petrolio è incerto, questi imprenditori fanno osservare a giusto titolo (come i cittadini del Terzo Stato nel 1789), che sono loro che "mandano avanti la baracca” e preparano il futuro del paese e che in queste condizioni non sarebbe che una questione di giustizia associarli in un modo o nell'altro o all'esercizio del potere o alla gestione di una rendita che la famiglia regnante - ve lo ricordo - ritiene di diritto di sua proprietà personale.

Problema: come far passare queste rivendicazioni in un paese dove ogni forma di espressione pluralistica è esclusa per definizione? Quale legittimità può opporsi a un potere che si vanta dell’investitura divina? Quali pressioni possono essere esercitate su un regime familiare che beneficia a titolo personale dal 1945 - a seguito del patto di Quincy concluso tra il vecchio Bin Saud ed il presidente Roosevelt - della protezione politica e militare della superpotenza americana in cambio del monopolio dello sfruttamento degli idrocarburi?

È evidente che gli oppositori di questa teocrazia hanno a disposizione solo il ricorso ad una mescolanza più o meno dosata di violenza rivoluzionaria e di rilancio fondamentalista per combattere questo potere e i suoi protettori esterni. E non è dunque un caso se si trovano tra gli attivisti islamisti più violenti un numero significativo di figli di questa borghesia che sono privi di qualsiasi diritto politico ma sicuramente non dei mezzi né delle idee; e Osama Bin Laden è nel novero di costoro: si è trovato scaraventato nel campo della violenza, dell'integralismo dai nobili sauditi che ritenevano più sbrigativo fare proteggere gli interessi esterni del regno dai figli dei loro valletti piuttosto che dai propri. E’ il classico errore dei parvenus.

Nel corso delle loro picaresche avventure, questi giovani, questi figli della borghesia, hanno fatto brutti incontri, hanno subito cattive influenze, e sono ritornati in campo per addentare la mano del loro stesso padrone.

È così che fin dalla metà degli anni Ottanta, si origina un gioco al rilancio permanente di carattere religioso volto al controllo dell'Islam mondiale tra la famiglia Saud ed i suoi rivali e oppositori sia all'interno sia all'estero, (rivalità sciite-sunnite, l'Iran-Arabia...) Questo gioco al rilancio si è tradotto essenzialmente, in mancanza di risorse umane (nei servizi segreti esteri), nel solo mezzo che invece non scarseggia in Arabia: il denaro.

I fondi spesso distribuiti in modo indiscriminato a tutto il mondo musulmano e alle comunità di immigrati sono finiti nelle tasche di coloro che potevano servirsene, vale a dire in quelle dell'unica organizzazione internazionale islamista largamente ben strutturata : l’associazione dei Fratelli Musulmani e in particolare delle sue ramificazioni più trasgressive e violente, come la Jamaa Islamyyah e altri gruppi islamisti di cui l’al-Qa'ida di Bin Laden non ne era – secondo me - che una delle sue numerose espressioni. In effetti, ovunque la violenza jihadista attecchisca (nelle zone più vulnerabili del mondo musulmano), la sua genesi risale sempre alla medesima logica ternaria.

Primo elemento: un gioco al rilancio ideologico e finanziario del regime saudita...

Secondo elemento: un forte radicamento locale dell'associazione dei Fratelli Musulmani o delle sue emanazioni... che sanno mantenersi sapientemente in equilibrio tra le contraddizioni politiche, economiche e sociali, per aizzare le masse contro le autorità locali e per scoraggiare l'Occidente dal venire in loro soccorso o dall'intervenire: per essere tranquilli a casa propria bisogna rendere il mondo musulmano astioso e detestabile.

Terzo elemento: un vero debole da parte della diplomazia e dei "servizi" occidentali, americani in testa, per il sostegno nel mondo intero, spesso anche in chiave militare, in favore dei movimenti politici e fondamentalisti più reazionari sul piano religioso, usandoli come baluardi contro l'Unione Sovietica fino agli anni Novanta e anche nella politica di contenimento dell’Iran dopo gli anni Ottanta.

Questo cocktail di tre elementi provoca per ragioni molto diverse... gli stessi effetti in Pakistan, in Afghanistan, in Iraq, in Somalia, in Yemen, in l'Indonesia, nel Maghreb, nel Sahel fino alle aree di non-diritto rappresentate dalle comunità musulmane immigrate in Occidente ...

Non entrerò nei dettagli delle diverse situazioni di violenza politica, ma è logico osservare che, se queste si sviluppano tutte seguendo quasi lo stesso percorso, sta a significare che rispecchiano problematiche locali anche totalmente diverse coinvolgendo personaggi che comunicano assai poco tra loro. Se tutti si vantano di combattere sotto la stessa bandiera mitica, è perché sanno bene che quella bandiera rappresenta un formidabile spauracchio per i paesi occidentali in generale e gli Stati Uniti in particolare, che sono sempre visti come pronti a intervenire nei paesi con regimi fortemente controversi. Poi, naturalmente, Signora Benguigua, mi si potrebbe sempre obiettare che, poiché la violenza jihadista esiste realmente e cresce dappertutto secondo gli stessi schemi, poco importa che si chiami Al-Qa'ida, che non sarebbe che il nome generico di una qualche forma di violenza fondamentalista a livello mondiale. Un discreto numero di giornalisti adesso diventati più cauti ci parlano di una "Nebulosa Al-Qa'ida": il problema è che una tale confusione semantica è la fonte di tutte le risposte sbagliate e di fatto esclude qualsiasi soluzione adatta al problema.

Esistono in effetti due modi di passare alla violenza terroristica politica.

O si costituisce un gruppo politico- militare organizzato gerarchizzato (con un leader, una missione, risorse, tattiche coordinate, un programma d'azione preciso, obiettivi definiti), il che lo inquadra come un esercito di professionisti della violenza pronto ad impegnarsi in un processo di scontro tipicamente militare. È questo il caso della maggior parte dei movimenti terroristi rivoluzionari o separatisti in Europa, in Sud America, in Medio Oriente fino alla fine del XX secolo.

Oppure si ricorre alla tecnica detta del "Lone Wolf" (il lupo solitario) che consiste nel tenere un piede nella legalità e l'altro nella trasgressione giocando ideologicamente su una popolazione impressionabile per incitare i suoi elementi più fragili, più motivati a intraprendere un'azione individuale o a piccoli gruppi, colpendo dove possono, quando possono, come possono, non importa, purché tutto ciò abbia la firma del movimento e si inserisca nella strategia generale.

Questa tattica del Lone Wolf non è nuova, è molto antica e ben nota negli Stati Uniti ed è stata teorizzata da William Pierce nei suoi “Turner Diaries”, un bestseller negli Stati Uniti per quasi tutto il decennio degli anni Novanta e che ha ispirato la maggioranza dei violenti militanti della supremazia bianca e gli ultrafondamentalisti cristiani.

Questa tecnica è stata adottata negli attentati di Atlanta, Oklahoma City e in molti altre azioni individuali in cui il numero totale delle vittime è assai vicino se non superiore a quello delle morti dell'11 settembre.

È la stessa tecnica che è stata messa in opera da alcuni gruppi del Terzo Mondo, come i Lupi grigi in Turchia o i Fratelli Musulmani nel mondo arabo e musulmano. Se alcune forme di violenza locali nel mondo arabo si rifanno al primo modello, è sicuramente seguendo il secondo modello che funziona la violenza jihadista esercitata verso l'Occidente e verso certi regimi arabi.

Tutti i servizi di sicurezza e d'intelligence sanno benissimo che non si combatte la tecnica di Lone Wolf con mezzi militari, divisioni corazzate, o una proliferazione di misure di sicurezza indifferenziate. Ci si oppone con misure di sicurezza mirate, sostenute da iniziative politiche, sociali, economiche, educative e culturali volte a prosciugare il vivaio di potenziali volontari, interrompendone i legami con i loro sponsor ideologici e finanziari.

Non solo (e qui mi riferisco a varie relazioni del Tesoro americano), nulla di serio è stato intrapreso per cercare di bloccare il substrato finanziario e tanto meno quello ideologico della violenza jihadista ma, nel designare Al-Qa'ida, come il nemico permanente contro il quale si deve condurre una crociata per vie militari e di sicurezza del tutto inadeguate alla sua reale natura, è come se avessimo usato un mitra per uccidere una zanzara!

Ovviamente abbiamo mancato la zanzara, ma i danni collaterali sono evidenti come si può constatare ogni giorno in Iraq, Afghanistan, Somalia, Yemen ...

E il primo effetto di questa crociata perduta è stato quello di alimentare il vivaio dei volontari, di legittimare questa forma di violenza, di farne il solo referente d’azione e d’affermazione possibile in un mondo musulmano il cui immaginario collettivo è adesso traumatizzato da una legge universale dei sospetti che incombe su di loro, con occupazioni e interventi massicci, interminabili e ciechi.

Da 9 anni, l'Occidente colpisce senza discernimento in Iraq, in Afghanistan, nelle zone tribali del Pakistan, in Somalia,in Palestina naturalmente, (e ci proponiamo ora di intervenire in Yemen e perché no, già che ci siamo, anche in Iran!), ma agli occhi dei musulmani, Bin Laden la fa sempre in barba al più potente esercito del mondo e il regime islamico dell'Arabia Saudita resta tuttora sotto la protezione assoluta dell'America.

In conclusione per tentare di dare il mio apporto alla questione sollevata in questa tavola rotonda "Dove si trova Al-Qa'ida?" ecco la mia risposta: Al-Qa'ida è morta tra il 2002 e il 2004. Ma prima di morire è stata “ingravidata” dagli errori strategici dell’Occidente e dai calcoli imprevidenti di un certo numero di paesi musulmani e così ha partorito i suoi piccoli figli! Il problema per noi adesso è quello di sapere se con questi sgraditi rampolli faremo gli stessi errori alimentando così un ciclo infinito di violenze o se, tanto per mantenere il riferimento a Ionesco, noi assieme ai nostri partner arabi e musulmani sapremo arrestare la proliferazione dei rinoceronti.

Grazie.

di Alain Chouet

Testo trascritto da Arno Mansouri, direttore delle Editions Demi-Lune per ReOpen911.

Traduzione per Megachip a cura di Emanuela Waldis e Pino Cabras.

Lupi e agnelli

Si dice che in Italia il Governo non ci sia e che quando finalmente si fa notare è soltanto per peggiorare le cose. In un certo senso non si può negare questa situazione che fino a qualche tempo fa era almeno attenuata da una politica estera saggia e coraggiosa, miseramente smarritasi nel deserto libico, tra le dune iraniane e nella steppa russa. Da Tripoli ci stanno cacciando a pedate francesi e inglesi, da Teheran siamo scappati alle prime minacce degli americani e con Mosca ci siamo evirati da soli dopo le giravolte sul South Stream.Ma se è vero che il Belpaese va alla deriva senza timonieri occorre ugualmente dire che l’ammutinamento dei partiti di centro-sinistra nei luoghi della dialettica democratica non facilita l’inversione della rotta. Oggi tutto è riposto nelle mani di vertici istituzionali che utilizzano impropriamente la loro carica per smentire od ostacolare qualsiasi decisione prendano il Premier ed il suo Gabinetto. Tra i rimbrotti di un Presidente della Camera bello, abbronzato e con la stessa passione obamiana per i fondali marini e le reprimende di un Presidente della Repubblica che parla un ottimo inglese e si muove con una sospetta ed umbertina regalità atlantica, si stanno esaurendo le speranze peninsulari di evitare il decisivo assalto piratesco alla sua sovranità nazionale. I due reggenti di Montecitorio e del Quirinale stanno sopperendo allo scoordinamento dell’opposizione, incapace di formare un’unica massa d’urto contro l’odiato caimano nano (tale specie esiste davvero in natura e non soltanto in politica), utilizzando le loro esclusive prerogative istituzionali come una trappola per topi adattata ai rettili. Non c’è più quella storica sinergia tra organi dello Stato, indispensabile a tenere unita la nazione in fasi storiche delicate come quella in corso, perché esso è stato svuotato della sua identità per essere riconvertito in una agenzia di disbrigo degli affari stranieri. Inoltre, tanto Fini che Napolitano devono supplire all’immobilismo e alla mancanza di idee del principale partito della coalizione, lasciato nelle mani di un dipendente della premiata tortellineria Giovanni Rana, il quale si scuoce nel brodo delle sue correnti e si fa cucinare da un ex Pm con la vocazione per le cene segrete e i minestroni giustizialisti. Bersani, nel tentativo di tenere insieme le disiecta membra dell’alleanza, sta pure snaturando le sue qualità. Messi da parte gli studi ha preso a bighellonare sui tetti e nelle piazze come un qualunque debosciato fuori corso. Il risultato è ovviamente pessimo. Egli si atteggia a manifestante esperto ma si muove meccanicamente come un grigio burocrate di partito nel bel mezzo di un rave party. Dopo un po’ il trucco si vede e così partono bordate di fischi contro il suo mascheramento posticcio. Se B. regge ancora, nonostante la tempesta che investe lui e la sua maggioranza, lo deve pertanto all’incapacità dei suoi nemici che pure con l’aiuto di ambienti internazionali e con l’appoggio di una magistratura "persecutoria" non sono in grado di speronarlo definitivamente. Nel frattempo però a finire fuori carreggiata è il Paese che sbanda sui dossi della crisi e si avvicina pericolosamente alla scarpata. Sulla via del multipolarismo ci sono tanti crocicchi e prima ancora di giungere ai bivi dell'Epoca si deve sapere almeno dove si sta andando per non ritrovarsi al punto di partenza o persino ancora più indietro rispetto allo start. Il percorso può essere modificato strada facendo ma senza dimenticare la meta finale. Veniamo dai fasti dei secoli passati e vogliamo giungere dove il futuro riserverà all’Italia il posto che le spetta. Marciamo in cattiva compagnia e con guide corrotte che ci sviano nelle selve oscure per farci sbranare dai lupi. Non possiamo pertanto assecondare chi vuol fare di noi agnellini da banchetto che finiscono immancabilmente o sacrificati o divorati. Questo nelle storielle, figurarsi nella Storia con la S maiuscola. L'Italia merita tutt'altro finale della favola.

di Gianni Petrosillo

13 maggio 2011

La televisione come simbolo

La diffusa confidenza con il mezzo televisivo ha reso la sua presenza ed il suo utilizzo qualcosa di scontato, ordinario, quasi invisibile potremmo dire, un vero e proprio sottofondo della nostra esistenza. Qualcosa di criticato, amato e odiato, ma comunque ritenuto una presenza ormai comune, familiare, a tutti gli effetti “domestica”. Scriverne ancora potrebbe sembrare opera superflua, anche se siamo convinti che, astraendoci un momento dalla abituale percezione e considerando il tutto in maniera più distaccata, sia possibile ancora effettuare alcune brevi riflessioni per una migliore comprensione del fenomeno.

Ci si ponga davanti allo schermo, lo si accenda, lo si guardi, si incomincino a cambiare i canali, ad osservarne le immagini: una serie di stati d’animo, sensazioni, emozioni si presenterà prontamente, influenzando il sensorio e la psiche dell’osservatore. Immagini coerenti o incoerenti, disarticolate, realistiche o fantastiche, comuni o prese da luoghi remoti o inaccessibili, da epoche ormai passate o dall’immediatezza del presente. Immagini che permettono di vivere mille vite differenti, di immedesimarsi nelle più diverse situazioni ed eventualità della vita, di muoversi come in un sogno tra gli scenari più disparati. Cose e persone morte riprendono vita, novità piacevoli o spiacevoli si fanno conoscere, proponendosi per la prima volta alla mente ed al giudizio di chi osserva più o meno distrattamente. Ogni immagine evoca uno stato d’animo, una visione diversa del mondo, un punto di vista sempre in mutamento; una sorta di dramma onirico che si dispiega, illusorio e ipnotico in un perenne scorrere di fronte all’occhio dello spettatore.

Ecco che in tutto il suo fulgore scorre il samsara, la corrente delle forme.

In un continuo fluire, con il più totale orrore del vuoto e del silenzio, si dispiega un grande e immenso spettacolo, solo apparentemente frammentato, ma in realtà unico, una grande illusione prodotta dall’ingegno e dall’intelletto umano. Ma di fronte a questa illusione, sempre differente e sempre uguale a se stessa nel suo mutamento, non si ritroveranno forse delle analogie, a prima vista non evidenti, con il famoso velo di Maya?

Maya, ad un tempo potere divino e prodotto di questo potere, attività che permette di creare, di rendere possibili e veritieri trucchi, artifici, fantasmi e inganni dei sensi. Atto creatore, che rende manifeste le forme e che le muta poi a proprio piacimento, tramite una libera azione artistica e, potremmo dire, magica. Prerogativa divina che si riflette poi nell’ordine cosmologico, influenzando a sua volta tutte le creature, effetti anch’essi della Maya ma anche, nei limiti delle loro possibilità, agenti e produttori fenomenici.

Il mondo come opera d’arte, il mondo che produce opere d’arte, in una attività senza fine. E di riflesso, in questo gioco di specchi, si potrà comprendere come la capacità creativa e imitativa umana possa agire nei più diversi ambiti, come ad esempio quelli che costituiscono l’oggetto delle nostre riflessioni, e operare, a suo modo, avendo come fine una realizzazione autonoma di oggetti, immagini, suoni, situazioni, esistenze. Tutto questo naturalmente in un senso parziale, essendo ogni attività compiuta nella manifestazione caratterizzata da una originale ed ineludibile illusorietà – o se si preferisce da una “realtà relativa”.

Il mondo è illusorio, così come le immagini prodotte dagli uomini, perché diviene, perché sebbene di fattura divina rimane strettamente legato alla materia, dalla quale prende il sostentamento per il proprio essere. Tale la corrente delle forme, tale l’artificiale corrente della produzione umana.

Ma oltre a questo simbolismo ve n’è un altro che, anche se per certi aspetti analogo, presenta però delle sfumature decisamente più oscure. Per la sua mutevolezza, il suo dinamismo e la sua natura fondamentalmente inafferrabile, la televisione richiama l’indeterminatezza e la fluidità delle acque, viste simbolicamente nel loro aspetto più basso, di sostanza indifferenziata, principio plastico della manifestazione. Tali abissi, noti secondo alcune tradizioni come le acque inferiori, coinciderebbero con quel caos da cui emergono e ricadono nel loro ciclo vitale le forme manifestate. Come già notava Antonio Cioffi “tale luogo, esattamente come nel caso dell’apparecchio televisivo, traboccherebbe di immagini, intese come possibilità formali di ipotetici eventi di manifestazione non ancora o non più attualizzati, e di “residui” privi, per così dire, di vita propria, come cadaveri sottili cui non appartiene una realtà effettiva. Il mondo sottile è propriamente, secondo queste dottrine, il luogo d’azione dei ginn, nonché di quegli esseri infernali (tamasici, in termini indù) che, come una sorta di epidemie, possono infestare le cose, i corpi o, in modo maggiormente insidioso, le coscienze. Secondo questa prospettiva ci si troverebbe di fronte, nel caso della rappresentazione televisiva in genere, ad un capovolgimento concettuale del significato catartico che il teatro antico possedeva, alla maschera come persona sostituendosi la persona come maschera” (1).

Da questo punto di vista la televisione verrebbe quindi a svolgere una funzione, più o meno volontaria, di “fenditura nella grande muraglia”, ed essendo il suo campo d’azione proprio quel mondo sottile, intermedio tra spirito e materia, dove le influenze dello psichismo inferiore possono maggiormente e più facilmente dispiegarsi, ogni preoccupazione può essere a tale riguardo pienamente giustificata. E questo può avere un suo riflesso anche nelle applicazioni più concrete: non possiamo non sottolineare infatti come per i detentori del potere il mezzo televisivo abbia un’utilità sociale notevole, sia nella sua funzione informativa che in quella propriamente formativa, basandosi su di una sostanziale passività dell’utente, vero e proprio ricettore di messaggi che volontà superiori più o meno benevole pongono nella sua mente, e sia perciò uno dei capisaldi di tutte le forme di autorità che, sotto le più diverse etichette, comandano la società umana del tempo presente. Del resto se Nietzsche ebbe già modo di sostenere come il lavoro fosse la migliore forma di polizia, oggi vi possiamo degnamente affiancare anche la televisione, strumento che oltre a veicolare messaggi occupa materialmente molto tempo libero delle persone, distogliendole da attività potenzialmente più “scomode”; ma su questo è già stata prodotta un’abbondante letteratura, a vario titolo più o meno critica, e quindi non aggiungiamo altro, ritenendo più utile concludere con una piccola riflessione accessoria.

Si potrebbe sostenere che la televisione sia uno strumento di pluralismo, stante la varietà pressoché illimitata di scelte possibili tra i vari programmi. Questo indiscutibilmente corrisponde a verità, anche se solo da un punto di vista parziale, relativo alla pura scelta dei contenuti – che variano l’uno dall’altro in base alle indefinite gradazioni di emotività offerta – anche se da una prospettiva, per così dire, metatestuale, il messaggio è straordinariamente coerente e comune, essendo basato sullo stesso état d’esprit dominante. Osservandone la struttura infatti, tutti i programmi si rifanno a precisi schemi e valori unici, diversamente mutati e declinati secondo una quantità innumerevole di variazioni (e qui non possiamo non notare una sostanziale analogia con il mondo dei partiti politici e la grande miraggio della democrazia rappresentativa, che mette in scena una sorta di “pluralismo totalitario”). La diffusione di valori propriamente politici sarebbe ormai percepita dal pubblico come propaganda, divenendo del tutto inefficace come mezzo di cultura di massa; e quindi la rinuncia ad un messaggio direttamente politico si traduce in pratica nella diffusione di un messaggio politico indiretto basato sull’assimilazione, tramite il divertimento e l’evasione, di valori ed immagini facenti capo a quei modelli esemplari su cui si conforma o si vorrebbe conformare la società. Ed essendo l’alternativa – data la sostanziale uniformità dei contenuti – una possibilità soprattutto teorica, non possiamo concludere in altra maniera come nel constatare, di fronte al gioco caleidoscopico dell’illusione televisiva, che in realtà l’unica alternativa non sia nel cambiare canale ma nello spegnere definitivamente l’apparecchio.
di Renzo Giorgetti

Note

(1) A.Cioffi, La cinepresa di Arianna – presenza e manipolazione del mito nella cultura di massa, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1988, p.85.

A nostro avviso tali riflessioni possono essere valide anche per internet, anche se ad un livello sicuramente diverso, data la sostanziale differenza tra i due mezzi e soprattutto la minore passività ed il maggiore grado di interattività che la rete necessariamente comporta.

12 maggio 2011

Un ex capo degli 007 francesi demolisce il mito del "pericolo Bin Laden"


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Ripropongo ora questo pezzo in homepage dopo oltre un anno. E' un articolo quanto mai attuale e utile per riflettere su cosa sia "al-Qa'ida" e su quanta manipolazione politica e mediatica le sia stata costruita intorno dalle grandi potenze.

«Al-Qa'ida è morta», ormai da molti anni. Lo afferma Alain Chouet, l'uomo che ha modellato l'antiterrorismo francese ai vertici dei servizi segreti d'Oltralpe proprio negli anni cruciali in cui Washington e Londra costruivano invece i miti e gli spauracchi alla base della Guerra Infinita. Il documento è davvero clamoroso, nasce da un'audizione al Senato francese, e lo trascriviamo per intero (vedi anche il VIDEO).

Nelle parole di Chouet potrete leggere – grazie al lavoro di registrazione e trascrizione del sito francese ReOpen911.info - un'analisi raffinata, ironica, acutissima, che farebbero bene a leggere anche i propagandisti della paura in servizio permanente presso i principali organi d'informazione italiani.

La relazione di Chouet si è tenuta in occasione del dibattito svoltosi a fine gennaio 2010 davanti alla Commissione Esteri. L'esperto della DGSE, con una carriera in grande misura giocata in rapporto al mondo musulmano, parla senza le rigidità della 'lingua di legno' dei diplomatici.

Mentre la grancassa dei media ribatte ancora i suoi ritmi isterici per preparare le future azioni militari (probabilmente in Iran), intanto che si nasconde il fallimento delle ultime operazioni obamiane in Afghanistan dietro incredibili bollettini trionfali, l'ascolto e la lettura di questo documento ci riporta tutti al mondo reale, dove si sbriciolano le fondamenta di tutte le narrative ufficiali sulla questione terrorismo dell'ultimo decennio.

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Trascrizione della audizione di Alain Chouet alla Commissione degli Affari Esteri del Senato, il 29 gennaio 2010

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"Queste domande non mi paiono poi così bizantine come sembrerebbe: anch'io, come un buon numero di colleghi che fanno la mia professione sparsi per il mondo, ritengo - sulla base di notizie serie e dettagliate - che sul piano operativo al-Qa'ida è morta in quelle tane per topi di Tora-Bora nel 2002.

I servizi pakistani si sono limitati poi, dal 2003 a 2008, a rifilarci qualche rimasuglio in cambio di favori o di tolleranze di varia natura.

Dei circa 400 membri attivi dell'organizzazione esistente nel 2001, meno di una cinquantina di "comparse", (eccetto Osama Ben Laden e di Ayman al-Zawahiri che non hanno avuto mai nessun ruolo sul piano operativo) sono riusciti a fuggire e nascondersi in zone remote, vivendo in condizioni di vita precarie e disponendo di mezzi di comunicazione rudimentali o incerti.

Non è con un tale dispositivo che si può attivare su scala planetaria una rete coordinata e organizzata di violenza politica. Appare del resto chiaramente che nessuno dei terroristi autori degli attentati post 11-settembre (Londra, Madrid, Charm-el-Sheikh, Bali, Casablanca, Djerba, Mumbai, eccetera) ha mai avuto contatto con l'organizzazione.

Quanto alle rivendicazioni più o meno tempistiche che sono state rilasciate di quando in quando da Bin Laden o da Zawahiri, anche supponendo di poterle realmente autentificare, esse non implicano nessun collegamento operativo, organizzativo e funzionale fra questi terroristi e le vestigia dell'organizzazione .

Tuttavia, mi vedo obbligato a constatare, anch’io come tutti gli altri, che - a forza di invocarla a ogni proposito, e spesso a sproposito, non appena viene commesso un atto di violenza da un musulmano, o non appena un musulmano si trova nel luogo sbagliato al momento sbagliato (come nella vicenda della fabbrica AZF a Tolosa) o addirittura quando non c'è neanche traccia di un musulmano (come nel caso degli attacchi all’antrace negli stati Uniti) a forza di invocarla permanentemente - un certo numero di media piuttosto approssimativi e alcuni sedicenti esperti da una parte all’altra dell'Atlantico hanno finito non tanto per risuscitarla, ma per trasformarla in una specie di “Amedeo” dell'autore Eugène Ionesco, questo morto il cui cadavere non smette di crescere e di nascondere la realtà e di cui non si sa più come sbarazzarsi. L'ostinazione incantatoria degli Occidentali nell'invocare la mitica organizzazione Al-Qa'ida, (che viene qualificata come iperterrorista non per ciò che ha fatto, ma perché ha affrontato un’iperpotenza), ha avuto rapidamente due effetti perversi:

Primo effetto: Qualsiasi contestatore violento nel mondo musulmano, tanto politico quanto di diritto comune, qualunque fossero le sue motivazioni, ha compreso rapidamente che doveva richiamarsi ad Al-Qa'ida se voleva essere preso sul serio, se voleva che la sua azione godesse di una legittimità riconosciuta dagli altri e se voleva che questa stessa azione avesse risonanza internazionale.

Parallelamente a ciò, tutti i regimi del mondo musulmano – che come ben sappiamo non sono tutti virtuosi - hanno subito ben capito che avevano tutto l’interesse a fare passare i loro oppositori ed i loro contestatori, qualunque essi fossero, per membri dell'organizzazione di Bin Laden, in modo da poterli reprimere tranquillamente e, se possibile, anche con il beneplacito degli Occidentali.

E da qui nasce una proliferazione di varie Al-Qa'ida, più o meno evocate o autoproclamate, in Afghanistan, in Iraq, in Yemen, in Somalia, in Magreb, e altrove "Al-Qa'ida nella penisola arabica”

Il principale risultato di questa dialettica imbecille è stato evidentemente quello di rafforzare il mito di una Al-Qa'ida onnipresente, rannicchiata dietro ogni musulmano, pronta a strumentalizzarlo per colpire l'Occidente in generale e gli Stati Uniti in particolare nel nome di non si sa bene quale perfidia.

Questa visione procede da moltissimi errori di valutazione e di prospettiva e soprattutto genera risposte totalmente inadatte.

Perché se Al-Qa'ida non esiste, la violenza politica islamista invece esiste, eccome. E l'Occidente non ne è che una vittima indiretta e collaterale. Gli ideologi della violenza islamica non sono degli invasati: sono persone che hanno obiettivi ben precisi. Ed il loro obiettivo non è quello di islamizzare il mondo bensì quello di prendere il potere e con esso ricchezze che gli son legate nel mondo musulmano senza che l'Occidente intervenga... Un po’ come fece all’epoca Hassan al-Tourabi in Sudan.

Così, anche se l'amor proprio degli Occidentali dovrà soffrirne, bisogna ripetere senza mai stancarsi che le principali, le più numerose e le prime vittime della violenza islamista sono i musulmani stessi.

L'epicentro di questa violenza islamista non è né in Afghanistan né in Iraq; è in Arabia Saudita. È questo paese che affrontava per primo il manifesto contro gli ebrei e i crociati che,alla fine degli anni Novanta, era il testo fondante dell'organizzazione di Bin Laden, e questo manifesto mirava alla famiglia reale saudita prima che agli ebrei e ai crociati.

Questo è anche il solo paese al mondo a portare un cognome (NdR: in riferimento ad Ibn Saud, fondatore della dinastia).

Fatte le debite proporzioni, l'Arabia Saudita si trova in una situazione paragonabile a quella del primo semestre 1989. Una famiglia ha preso il potere nel 1926 accampando la sua legittimità su una ipotetica discendenza divina e usurpando la custodia dei luoghi santi dell'Islam ai suoi titolari storici appartenenti alla famiglia degli ascemiti.

Questa famiglia, i Saud, composta oggi da circa 3mila principi, esercita senza condividerlo la totalità del potere e si accaparra la totalità di una rendita astronomica che proviene dallo sfruttamento del sottosuolo più ricco al mondo in termini di idrocarburi.

Per conservare la sua legittimità di fronte a qualsiasi tipo di contestazione, la famiglia saudita ha sbarrato la strada a ogni forma di espressione democratica o pluralistica. Adotta la pratica dell'Islam più fondamentalista possibile per mettersi al riparo da ogni forma di scavalcamento in questo campo, (un poco come l'URSS che non voleva uno "scavalcamento a sinistra”, la famiglia saudita non vuole "scavalcamenti in Islam"). Col tempo però gli effetti delle enormi rendite degli idrocarburi hanno dato origine a diverse forme di commercio e di industria alle quali i principi, come tutti i principi, non avrebbero potuto far fronte senza derogare alle misure finora adottate e hanno quindi concesso dietro pagamento la partecipazione ai benefici a imprenditori non di rango in maggior parte provenienti da paesi vicini ma stranieri, ovviamente musulmani, soprattutto yemeniti e in un larga misura ai Levantini (siriani, libanesi, palestinesi).

E mentre il futuro del petrolio è incerto, questi imprenditori fanno osservare a giusto titolo (come i cittadini del Terzo Stato nel 1789), che sono loro che "mandano avanti la baracca” e preparano il futuro del paese e che in queste condizioni non sarebbe che una questione di giustizia associarli in un modo o nell'altro o all'esercizio del potere o alla gestione di una rendita che la famiglia regnante - ve lo ricordo - ritiene di diritto di sua proprietà personale.

Problema: come far passare queste rivendicazioni in un paese dove ogni forma di espressione pluralistica è esclusa per definizione? Quale legittimità può opporsi a un potere che si vanta dell’investitura divina? Quali pressioni possono essere esercitate su un regime familiare che beneficia a titolo personale dal 1945 - a seguito del patto di Quincy concluso tra il vecchio Bin Saud ed il presidente Roosevelt - della protezione politica e militare della superpotenza americana in cambio del monopolio dello sfruttamento degli idrocarburi?

È evidente che gli oppositori di questa teocrazia hanno a disposizione solo il ricorso ad una mescolanza più o meno dosata di violenza rivoluzionaria e di rilancio fondamentalista per combattere questo potere e i suoi protettori esterni. E non è dunque un caso se si trovano tra gli attivisti islamisti più violenti un numero significativo di figli di questa borghesia che sono privi di qualsiasi diritto politico ma sicuramente non dei mezzi né delle idee; e Osama Bin Laden è nel novero di costoro: si è trovato scaraventato nel campo della violenza, dell'integralismo dai nobili sauditi che ritenevano più sbrigativo fare proteggere gli interessi esterni del regno dai figli dei loro valletti piuttosto che dai propri. E’ il classico errore dei parvenus.

Nel corso delle loro picaresche avventure, questi giovani, questi figli della borghesia, hanno fatto brutti incontri, hanno subito cattive influenze, e sono ritornati in campo per addentare la mano del loro stesso padrone.

È così che fin dalla metà degli anni Ottanta, si origina un gioco al rilancio permanente di carattere religioso volto al controllo dell'Islam mondiale tra la famiglia Saud ed i suoi rivali e oppositori sia all'interno sia all'estero, (rivalità sciite-sunnite, l'Iran-Arabia...) Questo gioco al rilancio si è tradotto essenzialmente, in mancanza di risorse umane (nei servizi segreti esteri), nel solo mezzo che invece non scarseggia in Arabia: il denaro.

I fondi spesso distribuiti in modo indiscriminato a tutto il mondo musulmano e alle comunità di immigrati sono finiti nelle tasche di coloro che potevano servirsene, vale a dire in quelle dell'unica organizzazione internazionale islamista largamente ben strutturata : l’associazione dei Fratelli Musulmani e in particolare delle sue ramificazioni più trasgressive e violente, come la Jamaa Islamyyah e altri gruppi islamisti di cui l’al-Qa'ida di Bin Laden non ne era – secondo me - che una delle sue numerose espressioni. In effetti, ovunque la violenza jihadista attecchisca (nelle zone più vulnerabili del mondo musulmano), la sua genesi risale sempre alla medesima logica ternaria.

Primo elemento: un gioco al rilancio ideologico e finanziario del regime saudita...

Secondo elemento: un forte radicamento locale dell'associazione dei Fratelli Musulmani o delle sue emanazioni... che sanno mantenersi sapientemente in equilibrio tra le contraddizioni politiche, economiche e sociali, per aizzare le masse contro le autorità locali e per scoraggiare l'Occidente dal venire in loro soccorso o dall'intervenire: per essere tranquilli a casa propria bisogna rendere il mondo musulmano astioso e detestabile.

Terzo elemento: un vero debole da parte della diplomazia e dei "servizi" occidentali, americani in testa, per il sostegno nel mondo intero, spesso anche in chiave militare, in favore dei movimenti politici e fondamentalisti più reazionari sul piano religioso, usandoli come baluardi contro l'Unione Sovietica fino agli anni Novanta e anche nella politica di contenimento dell’Iran dopo gli anni Ottanta.

Questo cocktail di tre elementi provoca per ragioni molto diverse... gli stessi effetti in Pakistan, in Afghanistan, in Iraq, in Somalia, in Yemen, in l'Indonesia, nel Maghreb, nel Sahel fino alle aree di non-diritto rappresentate dalle comunità musulmane immigrate in Occidente ...

Non entrerò nei dettagli delle diverse situazioni di violenza politica, ma è logico osservare che, se queste si sviluppano tutte seguendo quasi lo stesso percorso, sta a significare che rispecchiano problematiche locali anche totalmente diverse coinvolgendo personaggi che comunicano assai poco tra loro. Se tutti si vantano di combattere sotto la stessa bandiera mitica, è perché sanno bene che quella bandiera rappresenta un formidabile spauracchio per i paesi occidentali in generale e gli Stati Uniti in particolare, che sono sempre visti come pronti a intervenire nei paesi con regimi fortemente controversi. Poi, naturalmente, Signora Benguigua, mi si potrebbe sempre obiettare che, poiché la violenza jihadista esiste realmente e cresce dappertutto secondo gli stessi schemi, poco importa che si chiami Al-Qa'ida, che non sarebbe che il nome generico di una qualche forma di violenza fondamentalista a livello mondiale. Un discreto numero di giornalisti adesso diventati più cauti ci parlano di una "Nebulosa Al-Qa'ida": il problema è che una tale confusione semantica è la fonte di tutte le risposte sbagliate e di fatto esclude qualsiasi soluzione adatta al problema.

Esistono in effetti due modi di passare alla violenza terroristica politica.

O si costituisce un gruppo politico- militare organizzato gerarchizzato (con un leader, una missione, risorse, tattiche coordinate, un programma d'azione preciso, obiettivi definiti), il che lo inquadra come un esercito di professionisti della violenza pronto ad impegnarsi in un processo di scontro tipicamente militare. È questo il caso della maggior parte dei movimenti terroristi rivoluzionari o separatisti in Europa, in Sud America, in Medio Oriente fino alla fine del XX secolo.

Oppure si ricorre alla tecnica detta del "Lone Wolf" (il lupo solitario) che consiste nel tenere un piede nella legalità e l'altro nella trasgressione giocando ideologicamente su una popolazione impressionabile per incitare i suoi elementi più fragili, più motivati a intraprendere un'azione individuale o a piccoli gruppi, colpendo dove possono, quando possono, come possono, non importa, purché tutto ciò abbia la firma del movimento e si inserisca nella strategia generale.

Questa tattica del Lone Wolf non è nuova, è molto antica e ben nota negli Stati Uniti ed è stata teorizzata da William Pierce nei suoi “Turner Diaries”, un bestseller negli Stati Uniti per quasi tutto il decennio degli anni Novanta e che ha ispirato la maggioranza dei violenti militanti della supremazia bianca e gli ultrafondamentalisti cristiani.

Questa tecnica è stata adottata negli attentati di Atlanta, Oklahoma City e in molti altre azioni individuali in cui il numero totale delle vittime è assai vicino se non superiore a quello delle morti dell'11 settembre.

È la stessa tecnica che è stata messa in opera da alcuni gruppi del Terzo Mondo, come i Lupi grigi in Turchia o i Fratelli Musulmani nel mondo arabo e musulmano. Se alcune forme di violenza locali nel mondo arabo si rifanno al primo modello, è sicuramente seguendo il secondo modello che funziona la violenza jihadista esercitata verso l'Occidente e verso certi regimi arabi.

Tutti i servizi di sicurezza e d'intelligence sanno benissimo che non si combatte la tecnica di Lone Wolf con mezzi militari, divisioni corazzate, o una proliferazione di misure di sicurezza indifferenziate. Ci si oppone con misure di sicurezza mirate, sostenute da iniziative politiche, sociali, economiche, educative e culturali volte a prosciugare il vivaio di potenziali volontari, interrompendone i legami con i loro sponsor ideologici e finanziari.

Non solo (e qui mi riferisco a varie relazioni del Tesoro americano), nulla di serio è stato intrapreso per cercare di bloccare il substrato finanziario e tanto meno quello ideologico della violenza jihadista ma, nel designare Al-Qa'ida, come il nemico permanente contro il quale si deve condurre una crociata per vie militari e di sicurezza del tutto inadeguate alla sua reale natura, è come se avessimo usato un mitra per uccidere una zanzara!

Ovviamente abbiamo mancato la zanzara, ma i danni collaterali sono evidenti come si può constatare ogni giorno in Iraq, Afghanistan, Somalia, Yemen ...

E il primo effetto di questa crociata perduta è stato quello di alimentare il vivaio dei volontari, di legittimare questa forma di violenza, di farne il solo referente d’azione e d’affermazione possibile in un mondo musulmano il cui immaginario collettivo è adesso traumatizzato da una legge universale dei sospetti che incombe su di loro, con occupazioni e interventi massicci, interminabili e ciechi.

Da 9 anni, l'Occidente colpisce senza discernimento in Iraq, in Afghanistan, nelle zone tribali del Pakistan, in Somalia,in Palestina naturalmente, (e ci proponiamo ora di intervenire in Yemen e perché no, già che ci siamo, anche in Iran!), ma agli occhi dei musulmani, Bin Laden la fa sempre in barba al più potente esercito del mondo e il regime islamico dell'Arabia Saudita resta tuttora sotto la protezione assoluta dell'America.

In conclusione per tentare di dare il mio apporto alla questione sollevata in questa tavola rotonda "Dove si trova Al-Qa'ida?" ecco la mia risposta: Al-Qa'ida è morta tra il 2002 e il 2004. Ma prima di morire è stata “ingravidata” dagli errori strategici dell’Occidente e dai calcoli imprevidenti di un certo numero di paesi musulmani e così ha partorito i suoi piccoli figli! Il problema per noi adesso è quello di sapere se con questi sgraditi rampolli faremo gli stessi errori alimentando così un ciclo infinito di violenze o se, tanto per mantenere il riferimento a Ionesco, noi assieme ai nostri partner arabi e musulmani sapremo arrestare la proliferazione dei rinoceronti.

Grazie.

di Alain Chouet

Testo trascritto da Arno Mansouri, direttore delle Editions Demi-Lune per ReOpen911.

Traduzione per Megachip a cura di Emanuela Waldis e Pino Cabras.

Lupi e agnelli

Si dice che in Italia il Governo non ci sia e che quando finalmente si fa notare è soltanto per peggiorare le cose. In un certo senso non si può negare questa situazione che fino a qualche tempo fa era almeno attenuata da una politica estera saggia e coraggiosa, miseramente smarritasi nel deserto libico, tra le dune iraniane e nella steppa russa. Da Tripoli ci stanno cacciando a pedate francesi e inglesi, da Teheran siamo scappati alle prime minacce degli americani e con Mosca ci siamo evirati da soli dopo le giravolte sul South Stream.Ma se è vero che il Belpaese va alla deriva senza timonieri occorre ugualmente dire che l’ammutinamento dei partiti di centro-sinistra nei luoghi della dialettica democratica non facilita l’inversione della rotta. Oggi tutto è riposto nelle mani di vertici istituzionali che utilizzano impropriamente la loro carica per smentire od ostacolare qualsiasi decisione prendano il Premier ed il suo Gabinetto. Tra i rimbrotti di un Presidente della Camera bello, abbronzato e con la stessa passione obamiana per i fondali marini e le reprimende di un Presidente della Repubblica che parla un ottimo inglese e si muove con una sospetta ed umbertina regalità atlantica, si stanno esaurendo le speranze peninsulari di evitare il decisivo assalto piratesco alla sua sovranità nazionale. I due reggenti di Montecitorio e del Quirinale stanno sopperendo allo scoordinamento dell’opposizione, incapace di formare un’unica massa d’urto contro l’odiato caimano nano (tale specie esiste davvero in natura e non soltanto in politica), utilizzando le loro esclusive prerogative istituzionali come una trappola per topi adattata ai rettili. Non c’è più quella storica sinergia tra organi dello Stato, indispensabile a tenere unita la nazione in fasi storiche delicate come quella in corso, perché esso è stato svuotato della sua identità per essere riconvertito in una agenzia di disbrigo degli affari stranieri. Inoltre, tanto Fini che Napolitano devono supplire all’immobilismo e alla mancanza di idee del principale partito della coalizione, lasciato nelle mani di un dipendente della premiata tortellineria Giovanni Rana, il quale si scuoce nel brodo delle sue correnti e si fa cucinare da un ex Pm con la vocazione per le cene segrete e i minestroni giustizialisti. Bersani, nel tentativo di tenere insieme le disiecta membra dell’alleanza, sta pure snaturando le sue qualità. Messi da parte gli studi ha preso a bighellonare sui tetti e nelle piazze come un qualunque debosciato fuori corso. Il risultato è ovviamente pessimo. Egli si atteggia a manifestante esperto ma si muove meccanicamente come un grigio burocrate di partito nel bel mezzo di un rave party. Dopo un po’ il trucco si vede e così partono bordate di fischi contro il suo mascheramento posticcio. Se B. regge ancora, nonostante la tempesta che investe lui e la sua maggioranza, lo deve pertanto all’incapacità dei suoi nemici che pure con l’aiuto di ambienti internazionali e con l’appoggio di una magistratura "persecutoria" non sono in grado di speronarlo definitivamente. Nel frattempo però a finire fuori carreggiata è il Paese che sbanda sui dossi della crisi e si avvicina pericolosamente alla scarpata. Sulla via del multipolarismo ci sono tanti crocicchi e prima ancora di giungere ai bivi dell'Epoca si deve sapere almeno dove si sta andando per non ritrovarsi al punto di partenza o persino ancora più indietro rispetto allo start. Il percorso può essere modificato strada facendo ma senza dimenticare la meta finale. Veniamo dai fasti dei secoli passati e vogliamo giungere dove il futuro riserverà all’Italia il posto che le spetta. Marciamo in cattiva compagnia e con guide corrotte che ci sviano nelle selve oscure per farci sbranare dai lupi. Non possiamo pertanto assecondare chi vuol fare di noi agnellini da banchetto che finiscono immancabilmente o sacrificati o divorati. Questo nelle storielle, figurarsi nella Storia con la S maiuscola. L'Italia merita tutt'altro finale della favola.

di Gianni Petrosillo