16 giugno 2011

Il sionismo non c'entra




Recentemente, mi sono accorto che il discorso sulla solidarietà verso la Palestina è viziato sul piano spirituale, ideologico e intellettuale da una terminologia assai fuorviante: concetti chiave come quelli di sionismo, colonialismo e apartheid (che si sentono in ogni discussione e sono presenti in ogni testo che riguardi il conflitto), sono concetti confusi, oppure illusori. Io credo che essi esistano allo scopo di bloccare qualunque tentativo di comprendere il vero spirito e la vera ideologia che guida lo Stato Ebraico, piuttosto che per chiarire la situazione.

zion

Sionismo


Molti di noi tendono a considerare il sionismo come la forza ideologica che si nasconde dietro alle azioni israeliane. Ma non commettiamo errori: Israele non è il sionismo e l’ideologia e la politica sionista hanno ben poco a che fare con la politica e le azioni di Israele.

Bisogna capire che Israele e il sionismo sono oggi due categorie distinte. Se il sionismo era definito dai suoi fondatori come un tentativo di “trasformare l’ebreo della Diaspora in un essere umano autentico e civilizzato”, Israele, al giorno d’oggi, può solo essere visto come il prodotto concreto di tale ideologia.

Molti di voi saranno forse sorpresi nel sapere che oggi Israele non è affatto guidato, né ormai particolarmente ispirato, dal sionismo: è invece completamente assorbito dalla propria autoconservazione. Inoltre, gli israeliani non hanno poi nemmeno tutta questa familiarità con l’ideologia sionista. Per la maggior parte degli israeliani, il sionismo è poco più di un concetto obsoleto e arcaico, che potrà anche avere un significato storico, ma che possiede una rilevanza pari a zero nella vita quotidiana.

Il sionismo è, in realtà, un discorso che riguarda la Diaspora ebraica. Il suo scopo è quello di distinguere l’ebraismo mondiale che – a larga maggioranza – sostiene Israele dalle poche e sporadiche voci secolariste ebraiche che vorrebbero conservare la propria identità nazionale pur opponendosi allo Stato di Israele.

Il dibattito tra sionisti e antisionisti è, in concreto, un dibattito che ha luogo nell’ambito della Diaspora ebraica e non all’interno di Israele. Esso appartiene al regno dei discorsi sull’identità ebraica. E ha ben poco significato politico al di fuori di tale contesto.

Poiché Israele e gli israeliani sono attualmente indifferenti al sionismo, l’attività e l’ideologia “antisionista” hanno un impatto molto scarso su Israele e sugli israeliani. [1] Gli israeliani si preoccupano soltanto delle azioni dirette contro lo Stato Ebraico e le sanzioni, ad esempio, sono un problema che li coinvolge e li preoccupa enormemente. Al contrario, gli israeliani si curano assai poco di cercare soluzioni alla cosiddetta “questione ebraica”. Dal punto di vista israeliano, lo Stato Ebraico è la soluzione definitiva della “questione ebraica”. Penso si converrà che, da un punto di vista realistico e pragmatico, Israele non ha davvero risolto la “questione ebraica”, ma si è limitato a sportarla in una nuova locazione.

Perché, dunque, continuiamo a commettere il terribile errore di considerare i crimini israeliani come effetto del “sionismo”? Perché non li attribuiamo, in modo aperto e diretto, allo “Stato Ebraico”, visto che, in ultima analisi, è così che Israele definisce se stesso?

La risposta è semplice: perché in realtà non desideriamo offendere nessuno. Accettiamo che gli ebrei abbiano sofferto nel corso della loro storia e accettiamo che possediano una sensibilità unica al mondo. Per questo motivo ci auto-censuriamo spontaneamente. Rinunciamo spontaneamente alla nostra capacità di pensare in modo libero, coerente, esplicito e critico.

colonialismo

Colonialismo

Il sionismo non si identifica neppure col colonialismo. Per quanto molti attivisti intorno a noi insistano nel presentarci il sionismo come un progetto colonialista, occorre dire la verità: il colonialismo è definito dall’esistenza di una chiara relazione materiale tra una “madrepatria” e un ”insediamento coloniale”. Nel caso del sionismo, tuttavia, è impossibile determinare quale sia o sia stata la “madrepatria ebraica”. In effetti, non esiste nessuna madrepatria ebraica, né mai ne è esistita una. Il sionismo non è un progetto colonialista, né mai lo è stato. Vero è che lo Stato Ebraico manifesta alcuni caratteri del colonialismo. [2] Ma anche un paziente ammalato di cancro al cervello manifesta alcuni sintomi dell’emicrania. Una diagnosi appropriata deve mirare a scoprire le vere cause che stanno alla base dei sintomi. Fare una diagnosi significa rintracciare la vera malattia piuttosto che fornire una spiegazione superficiale esaminando un po’ di sintomi sparsi.

E’ anche evidente perché a tanti fra noi piaccia questo paradigma colonialista, per quanto ingannevole esso sia: i seguaci del paradigma coloniale presumono che gli israeliani non siano diversi dai britannici, dai francesi o dagli olandesi; si limitano a celebrare i sintomi del loro espansionismo “coloniale” 100 anni dopo tutti gli altri. Inoltre, il paradigma coloniale contiene la promessa di una qualche “soluzione” al termine del percorso: nell’immaginario dei suoi sostenitori, una riconciliazione post-coloniale è solo questione di tempo.

Inoltre, mi spiace far arrabbiare molte persone alle quali voglio bene, ma lo devo dire: il sionismo è qualcosa di unico ed originale nel suo genere e non ha precedenti nella storia. Sfortunatamente, esso non è riconducibile ad alcun modello materialista, poiché l’aspirazione che fondava il sionismo era, ed è ancora, del tutto spirituale.

Dunque, perché continuiamo a commettere questo terribile errore e a confondere il sionismo col colonialismo? Perché non ci riferiamo al sionismo per ciò che esso realmente è: un progetto ideologico ebraico del tutto unico nella storia? Semplicemente perché non vogliamo offendere quei pochi ebrei che sono così gentili da schierarsi a favore della Palestina. Rispettiamo la loro sensibilità e volontariamente ce ne stiamo zitti. Faremmo qualunque cosa pur di rendere tutti felici. Dopotutto siamo un movimento per la pace.

apartheid

Apartheid

E che dire dell’apartheid? Israele è uno stato che pratica l’apartheid? In Israele si assiste in modo evidente ad una separazione razziale e ad una discriminazione legislativa. Nonostante ciò, io ritengo che Israele non possieda un sistema basato sull’apartheid, perché l’apartheid era predisposto per sfruttare le popolazioni indigene pur lasciandole vivere sul territorio. Israele, al contrario, è lì per distruggere la popolazione indigena: gli israeliani si sentirebbero sollevati se una mattina si svegliassero e scoprissero che i palestinesi hanno semplicemente abbandonato la regione.

Chi è così ingenuo da bersi la storia dell’apartheid è probabilmente convinto che Israele sia lì lì per collassare, perché è questo che la storia ci ha insegnato sull’apartheid. Di nuovo, il modello dell’apartheid ci piace perché fa sembrare Israele (relativamente) “normale”. E noi non vogliamo offendere nessuno, tantomeno i pochi ebrei che sono dalla nostra parte.

Ed ecco la domanda che vorrei rivolgere agli ebrei amanti della giustizia e agli amici sostenitori della Palestina sparsi per il mondo: credete davvero che il discorso sulla lotta contro lo Stato Ebraico dovrebbe lasciarsi condizionare dalla “sensibilità degli ebrei”? La lotta contro il nazismo si lasciò forse condizionare dalla sensibilità dei tedeschi? Abbiamo per caso tenuto conto dei punti sensibili degli Afrikaner quando facevamo campagna contro l’apartheid? Non è che per caso i tempi sono maturi per dire pane al pane? Comprendo bene l’importanza cruciale degli ebrei in questo movimento e cerco di lavorare insieme al maggior numero possibile di loro. Ma mi domando se non sia ora che gli ebrei superino la loro sensibilità e osservino la questione con gli occhi ben aperti. E non è forse ora che anche noi facciamo lo stesso? Non dovremmo forse chiedere ai sostenitori dello Stato Ebraico in cosa esattamente consista tale ”ebraicità”?

Io penso che questo sia esattamente ciò che dovremmo fare. Nell’interesse del futuro della Palestina, dobbiamo affrontare apertamente questi problemi cruciali. Credo anche che siano gli ebrei, più di chiunque altro, a doverli affrontare. Mi attendo che gli attivisti ebrei all’interno del nostro movimento si pongano a capo di questa iniziativa piuttosto che cercare di ridurla al silenzio.

[1] “Sionismo” può essere un termine utile per fare riferimento al fenomeno del lobbismo ebraico sparso per il mondo. Può servire a fare luce sull’attività dei Sayanim e può spiegare l’inclinazione di certi ebrei di Brooklyn a fare Aliya [cioè a chiedere il trasferimento in Israele, NdT]. Può anche spiegare perché alcuni ebrei di sinistra prendano le parti delle istituzioni sioniste più fanatiche non appena qualcuno gli domanda in che cosa consista l’”ebraicità”.

[2] Si può ragionevolmente affermare che il rapporto tra i coloni israeliani della West Bank e le popolazioni indigene sia configurabile in termini coloniali.

di Gilad Atzmon

15 giugno 2011

Il berlusconismo? Abrogato


Meno male che ci sono gli italiani. Meno male che ci sono i referendum. E meno male che il risultato è stato chiaro. Non c’è un’Italia divisa in due. Non ci sono più leggi inumane, privilegi di… E non c’è più alcun dubbio: è finita l’era Berlusconi. C’è ancora – speriamo per poco – un Governo. C’è un’opposizione rinvigorita che ancora deve fare mente locale. E c’è un Paese che non ne può più.

L’importanza di questo referendum, solo intuita durante la campagna elettorale, è stata lampante per tutti appena chiuse le urne. Quando sono iniziati ad arrivare i dati ufficiali, non c’è stato nulla da interpretare: il quorum c’è, il Sì ha vinto.

Il dato elettorale dei partecipanti al voto non è di destra, di centro o di sinistra, non è voluto dai vertici e/o dalla base di questo o quel partito, non è ostile o favorevole alle casalinghe di Vigevano o all’intellettuale-artista-pop star.

E’ stato un voto di cervello, perché si parlava di questioni importanti, ed è stato un voto di pancia, con una parte sempre crescente di italiani che fanno ormai il contrario di ciò che dice il Presidente del Consiglio. “Andate al mare e non votate” ha detto quello, a mezza bocca, una volta sola e in 24 milioni si sono precipitati alle urne, nonostante la domenica estiva e il lunedì lavorativo. E’ stato un voto popolare insomma, fuori da ogni schema.

Il raggiungimento del quorum e la vittoria del Sì non hanno padrini né madrine. Non ci sono simboli di partito né liste precotte, non ci sono rappresentanti e non ci sono rappresentati, nessuno deve decidere al posto di nessun altro. Gli slogan e le strumentalizzazioni sono a zero.

Quando parliamo di referendum, parliamo di democrazia diretta. In Italia ci siamo regalati solo quello abrogativo, ma già è qualcosa. Ci è consentito di cancellare leggi che riteniamo ingiuste e l’abbiamo cancellate con un risultato incontrovertibile. Altro che amministrative, altro che vittoria di Pisapia o De Magistris. Vai a capire, a Napoli e Milano, quali indicazioni siano arrivate dai poteri forti, dai gruppi di potere, dalle consorterie, dal partito X o dal partito Y, dal leader Tizio o dal leader Caio.

Col referendum i giochi sono chiari. Nessuna analisi e nessun grafico, niente orientamenti o indici di gradimento. Nessun sondaggio commissionato al guru di turno. La maggioranza degli italiani vuole che l’acqua sia pubblica, che non venga costruita più una centrale nucleare e che i politici, anche al Governo, possano essere giudicati come tutti gli altri cittadini.

Rimane il quesito: è giusto che qualsiasi persona, al di là dell’istruzione e della competenza, possa decidere su temi così importanti e delicati? Certo, sarebbe meglio che di nucleare e di acqua e di leggi se ne occupassero tecnici specializzati, guidati da politici avveduti e preparati. Idea nobile, chissà se un giorno…

Ma l’Italia degli ultimi venti anni è ben altra cosa. Ogni decisione è presa, nel migliore dei casi, per l’interesse di pochi. Spesso a sostenerla c’è un votificio, che ci ostiniamo ancora a chiamare Parlamento, in cui soubrette e saltimbanchi cercano di vendere il proprio consenso al miglior offerente, rendendo vane le ragioni di quella minoranza – trasversale – che sogna ancora un Paese normale.

I quesiti erano cinque in realtà, lo sapevamo tutti. E gli italiani sono riusciti dove i partiti avevano fallito: abrogare il berlusconismo. Chi ancora tentenna davanti all’idea di una grande alleanza che possa ricostruire il Paese e perde tempo nel cercarsi di orientare in un mondo che, da oggi 13 Giugno, non esiste più, penso saprà che 26 milioni di persone, dopo aver dato la definitiva spallata, si aspettano qualcosa di concreto e di nuovo.

di Graziano Lanzidei

14 giugno 2011

Fukushima, la Tepco e i pescatori













La Tepco non perde occasione per fare brutta figura. L'ultima mirabolante impresa del colosso nipponico che gestisce la disastrata centrale nucleare di Fukushima ha a che fare con oltre 3.000 tonnellate di acqua radioattiva. Vorrebbero scaricarle nel Pacifico senza starci a pensare troppo. Poco importa che si fossero impegnati a ripulire i liquidi dalla contaminazione pesante per riportarli a livelli vicini alla normalità.

"Non c'è tempo", dicono, e in effetti hanno le loro ragioni. Tutti quegli ettolitri finiti nell'impianto numero due provengono direttamente dallo tsunami dello scorso 11 marzo. Quindi si tratta di acqua salata, che rischia di corrodere apparecchi e strutture. Sono a rischio la turbina del reattore e altre parti della centrale che potrebbero contenere piccole quantità di elementi dannosi come il cobalto.

E' anche vero però che non stiamo parlando di Fukushima Daiichi, lo stabilimento semidistrutto dal disastro naturale, ma di Fukushima Daini, una centrale che si trova a circa dieci chilometri dalla sua sorella maggiore e che terremoto e tsunami hanno danneggiato in modo molto meno grave.

Già ad aprile la Tepco ha rilasciato oltre 10mila tonnellate di acqua contaminata nell'oceano, ma in quel caso lo scolo mortifero proveniva dal primo impianto, il più pericoloso. Una giustificazione che comunque non era servita ad evitare che contro la società si scatenasse l'ira funesta di Corea del Sud e Cina.

Tornando ad oggi, spiega Hidehiko Nishiyama, vicedirettore generale dell'Agenzia per la sicurezza industriale e nucleare (Nisa), che supervisiona le attività della Tepco, "l'acqua contaminata presente nell'impianto di Fukushima Daini contiene elementi radioattivi come il manganese e il cobalto, che solitamente derivano dalla corrosione del metallo, ma elementi come lo iodio e il cesio, che derivano da combustibile nucleare danneggiato, non sono stati rintracciati". Insomma, liberarsi di quell'acqua non è esattamente in cima alla lista delle cose più urgenti da fare.

La Tepco però sembra avere una fretta indiavolata, non si capisce bene perché. Ma a questo punto gli sbrigativi propositi della compagnia incontrano un nemico inaspettato: l'Agenzia nipponica della Pesca. E' inutile perdere troppo tempo a riflettere sul potenziale danno all'ambiente, andiamo al sodo: con l'acqua contaminata non si vende più il pesce.

Sembra la vecchia storia della tragedia che scivola verso la farsa, ma in questo caso l'elemento grottesco è servito almeno ad evitare che si combinasse un secondo disastro per risolvere il primo.

Eppure gli scienziati le provano tutte: come ultima risorsa propongono perfino di utilizzare un minerale speciale (lo zeolite) per eliminare la radioattività. Niente. L'Agenzia della Pesca non ne vuole sapere. E così la Tepco deve fare un passo indietro. A pensarci bene, anche se il problema è serio, non occorre essere degli ingegneri, né dei pescatori, per capire che non lo si può risolvere tirando la catena.

Acqua a parte, con il passare dei giorni (e dei mesi) la situazione di Fukushima non migliora. Solo ieri nei primi due reattori di Daiichi è saltata un paio di volte la corrente elettrica. Miracolosamente la Tepco è riuscita a non interrompere il processo di raffreddamento. Nelle stesse ore il Giappone raddoppiava le stime sulle radiazioni fuoriuscite dall'impianto nella settimana successiva al cataclisma. La Nisa sostiene che in quei giorni furono dispersi nell'atmosfera circa 770mila terabecquerel (unità di misura delle radiazioni). La stima precedente era di 370mila.

Questi dati sono stati pubblicati poco prima che a Tokyo partissero i lavori della commissione di inchiesta indipendente sulla crisi nucleare. Il suo compito sarà di valutare se nelle prime fasi dell'emergenza le istituzioni e la Tepco abbiano messo in pratica tutte le misure di sicurezza più adeguate.

Alla guida della commissione c'è Yotaro Hatamura, professore all'università di Tokyo ed esperto nell'analisi degli errori umani. Nel corso della prima riunione, il professore ha espresso un concetto molto semplice. Anche stavolta, non serviva essere ingegneri per capire quale fosse il punto: "L'energia nucleare è pericolosa ed è stato un errore considerarla sicura".
di Carlo Musilli

16 giugno 2011

Il sionismo non c'entra




Recentemente, mi sono accorto che il discorso sulla solidarietà verso la Palestina è viziato sul piano spirituale, ideologico e intellettuale da una terminologia assai fuorviante: concetti chiave come quelli di sionismo, colonialismo e apartheid (che si sentono in ogni discussione e sono presenti in ogni testo che riguardi il conflitto), sono concetti confusi, oppure illusori. Io credo che essi esistano allo scopo di bloccare qualunque tentativo di comprendere il vero spirito e la vera ideologia che guida lo Stato Ebraico, piuttosto che per chiarire la situazione.

zion

Sionismo


Molti di noi tendono a considerare il sionismo come la forza ideologica che si nasconde dietro alle azioni israeliane. Ma non commettiamo errori: Israele non è il sionismo e l’ideologia e la politica sionista hanno ben poco a che fare con la politica e le azioni di Israele.

Bisogna capire che Israele e il sionismo sono oggi due categorie distinte. Se il sionismo era definito dai suoi fondatori come un tentativo di “trasformare l’ebreo della Diaspora in un essere umano autentico e civilizzato”, Israele, al giorno d’oggi, può solo essere visto come il prodotto concreto di tale ideologia.

Molti di voi saranno forse sorpresi nel sapere che oggi Israele non è affatto guidato, né ormai particolarmente ispirato, dal sionismo: è invece completamente assorbito dalla propria autoconservazione. Inoltre, gli israeliani non hanno poi nemmeno tutta questa familiarità con l’ideologia sionista. Per la maggior parte degli israeliani, il sionismo è poco più di un concetto obsoleto e arcaico, che potrà anche avere un significato storico, ma che possiede una rilevanza pari a zero nella vita quotidiana.

Il sionismo è, in realtà, un discorso che riguarda la Diaspora ebraica. Il suo scopo è quello di distinguere l’ebraismo mondiale che – a larga maggioranza – sostiene Israele dalle poche e sporadiche voci secolariste ebraiche che vorrebbero conservare la propria identità nazionale pur opponendosi allo Stato di Israele.

Il dibattito tra sionisti e antisionisti è, in concreto, un dibattito che ha luogo nell’ambito della Diaspora ebraica e non all’interno di Israele. Esso appartiene al regno dei discorsi sull’identità ebraica. E ha ben poco significato politico al di fuori di tale contesto.

Poiché Israele e gli israeliani sono attualmente indifferenti al sionismo, l’attività e l’ideologia “antisionista” hanno un impatto molto scarso su Israele e sugli israeliani. [1] Gli israeliani si preoccupano soltanto delle azioni dirette contro lo Stato Ebraico e le sanzioni, ad esempio, sono un problema che li coinvolge e li preoccupa enormemente. Al contrario, gli israeliani si curano assai poco di cercare soluzioni alla cosiddetta “questione ebraica”. Dal punto di vista israeliano, lo Stato Ebraico è la soluzione definitiva della “questione ebraica”. Penso si converrà che, da un punto di vista realistico e pragmatico, Israele non ha davvero risolto la “questione ebraica”, ma si è limitato a sportarla in una nuova locazione.

Perché, dunque, continuiamo a commettere il terribile errore di considerare i crimini israeliani come effetto del “sionismo”? Perché non li attribuiamo, in modo aperto e diretto, allo “Stato Ebraico”, visto che, in ultima analisi, è così che Israele definisce se stesso?

La risposta è semplice: perché in realtà non desideriamo offendere nessuno. Accettiamo che gli ebrei abbiano sofferto nel corso della loro storia e accettiamo che possediano una sensibilità unica al mondo. Per questo motivo ci auto-censuriamo spontaneamente. Rinunciamo spontaneamente alla nostra capacità di pensare in modo libero, coerente, esplicito e critico.

colonialismo

Colonialismo

Il sionismo non si identifica neppure col colonialismo. Per quanto molti attivisti intorno a noi insistano nel presentarci il sionismo come un progetto colonialista, occorre dire la verità: il colonialismo è definito dall’esistenza di una chiara relazione materiale tra una “madrepatria” e un ”insediamento coloniale”. Nel caso del sionismo, tuttavia, è impossibile determinare quale sia o sia stata la “madrepatria ebraica”. In effetti, non esiste nessuna madrepatria ebraica, né mai ne è esistita una. Il sionismo non è un progetto colonialista, né mai lo è stato. Vero è che lo Stato Ebraico manifesta alcuni caratteri del colonialismo. [2] Ma anche un paziente ammalato di cancro al cervello manifesta alcuni sintomi dell’emicrania. Una diagnosi appropriata deve mirare a scoprire le vere cause che stanno alla base dei sintomi. Fare una diagnosi significa rintracciare la vera malattia piuttosto che fornire una spiegazione superficiale esaminando un po’ di sintomi sparsi.

E’ anche evidente perché a tanti fra noi piaccia questo paradigma colonialista, per quanto ingannevole esso sia: i seguaci del paradigma coloniale presumono che gli israeliani non siano diversi dai britannici, dai francesi o dagli olandesi; si limitano a celebrare i sintomi del loro espansionismo “coloniale” 100 anni dopo tutti gli altri. Inoltre, il paradigma coloniale contiene la promessa di una qualche “soluzione” al termine del percorso: nell’immaginario dei suoi sostenitori, una riconciliazione post-coloniale è solo questione di tempo.

Inoltre, mi spiace far arrabbiare molte persone alle quali voglio bene, ma lo devo dire: il sionismo è qualcosa di unico ed originale nel suo genere e non ha precedenti nella storia. Sfortunatamente, esso non è riconducibile ad alcun modello materialista, poiché l’aspirazione che fondava il sionismo era, ed è ancora, del tutto spirituale.

Dunque, perché continuiamo a commettere questo terribile errore e a confondere il sionismo col colonialismo? Perché non ci riferiamo al sionismo per ciò che esso realmente è: un progetto ideologico ebraico del tutto unico nella storia? Semplicemente perché non vogliamo offendere quei pochi ebrei che sono così gentili da schierarsi a favore della Palestina. Rispettiamo la loro sensibilità e volontariamente ce ne stiamo zitti. Faremmo qualunque cosa pur di rendere tutti felici. Dopotutto siamo un movimento per la pace.

apartheid

Apartheid

E che dire dell’apartheid? Israele è uno stato che pratica l’apartheid? In Israele si assiste in modo evidente ad una separazione razziale e ad una discriminazione legislativa. Nonostante ciò, io ritengo che Israele non possieda un sistema basato sull’apartheid, perché l’apartheid era predisposto per sfruttare le popolazioni indigene pur lasciandole vivere sul territorio. Israele, al contrario, è lì per distruggere la popolazione indigena: gli israeliani si sentirebbero sollevati se una mattina si svegliassero e scoprissero che i palestinesi hanno semplicemente abbandonato la regione.

Chi è così ingenuo da bersi la storia dell’apartheid è probabilmente convinto che Israele sia lì lì per collassare, perché è questo che la storia ci ha insegnato sull’apartheid. Di nuovo, il modello dell’apartheid ci piace perché fa sembrare Israele (relativamente) “normale”. E noi non vogliamo offendere nessuno, tantomeno i pochi ebrei che sono dalla nostra parte.

Ed ecco la domanda che vorrei rivolgere agli ebrei amanti della giustizia e agli amici sostenitori della Palestina sparsi per il mondo: credete davvero che il discorso sulla lotta contro lo Stato Ebraico dovrebbe lasciarsi condizionare dalla “sensibilità degli ebrei”? La lotta contro il nazismo si lasciò forse condizionare dalla sensibilità dei tedeschi? Abbiamo per caso tenuto conto dei punti sensibili degli Afrikaner quando facevamo campagna contro l’apartheid? Non è che per caso i tempi sono maturi per dire pane al pane? Comprendo bene l’importanza cruciale degli ebrei in questo movimento e cerco di lavorare insieme al maggior numero possibile di loro. Ma mi domando se non sia ora che gli ebrei superino la loro sensibilità e osservino la questione con gli occhi ben aperti. E non è forse ora che anche noi facciamo lo stesso? Non dovremmo forse chiedere ai sostenitori dello Stato Ebraico in cosa esattamente consista tale ”ebraicità”?

Io penso che questo sia esattamente ciò che dovremmo fare. Nell’interesse del futuro della Palestina, dobbiamo affrontare apertamente questi problemi cruciali. Credo anche che siano gli ebrei, più di chiunque altro, a doverli affrontare. Mi attendo che gli attivisti ebrei all’interno del nostro movimento si pongano a capo di questa iniziativa piuttosto che cercare di ridurla al silenzio.

[1] “Sionismo” può essere un termine utile per fare riferimento al fenomeno del lobbismo ebraico sparso per il mondo. Può servire a fare luce sull’attività dei Sayanim e può spiegare l’inclinazione di certi ebrei di Brooklyn a fare Aliya [cioè a chiedere il trasferimento in Israele, NdT]. Può anche spiegare perché alcuni ebrei di sinistra prendano le parti delle istituzioni sioniste più fanatiche non appena qualcuno gli domanda in che cosa consista l’”ebraicità”.

[2] Si può ragionevolmente affermare che il rapporto tra i coloni israeliani della West Bank e le popolazioni indigene sia configurabile in termini coloniali.

di Gilad Atzmon

15 giugno 2011

Il berlusconismo? Abrogato


Meno male che ci sono gli italiani. Meno male che ci sono i referendum. E meno male che il risultato è stato chiaro. Non c’è un’Italia divisa in due. Non ci sono più leggi inumane, privilegi di… E non c’è più alcun dubbio: è finita l’era Berlusconi. C’è ancora – speriamo per poco – un Governo. C’è un’opposizione rinvigorita che ancora deve fare mente locale. E c’è un Paese che non ne può più.

L’importanza di questo referendum, solo intuita durante la campagna elettorale, è stata lampante per tutti appena chiuse le urne. Quando sono iniziati ad arrivare i dati ufficiali, non c’è stato nulla da interpretare: il quorum c’è, il Sì ha vinto.

Il dato elettorale dei partecipanti al voto non è di destra, di centro o di sinistra, non è voluto dai vertici e/o dalla base di questo o quel partito, non è ostile o favorevole alle casalinghe di Vigevano o all’intellettuale-artista-pop star.

E’ stato un voto di cervello, perché si parlava di questioni importanti, ed è stato un voto di pancia, con una parte sempre crescente di italiani che fanno ormai il contrario di ciò che dice il Presidente del Consiglio. “Andate al mare e non votate” ha detto quello, a mezza bocca, una volta sola e in 24 milioni si sono precipitati alle urne, nonostante la domenica estiva e il lunedì lavorativo. E’ stato un voto popolare insomma, fuori da ogni schema.

Il raggiungimento del quorum e la vittoria del Sì non hanno padrini né madrine. Non ci sono simboli di partito né liste precotte, non ci sono rappresentanti e non ci sono rappresentati, nessuno deve decidere al posto di nessun altro. Gli slogan e le strumentalizzazioni sono a zero.

Quando parliamo di referendum, parliamo di democrazia diretta. In Italia ci siamo regalati solo quello abrogativo, ma già è qualcosa. Ci è consentito di cancellare leggi che riteniamo ingiuste e l’abbiamo cancellate con un risultato incontrovertibile. Altro che amministrative, altro che vittoria di Pisapia o De Magistris. Vai a capire, a Napoli e Milano, quali indicazioni siano arrivate dai poteri forti, dai gruppi di potere, dalle consorterie, dal partito X o dal partito Y, dal leader Tizio o dal leader Caio.

Col referendum i giochi sono chiari. Nessuna analisi e nessun grafico, niente orientamenti o indici di gradimento. Nessun sondaggio commissionato al guru di turno. La maggioranza degli italiani vuole che l’acqua sia pubblica, che non venga costruita più una centrale nucleare e che i politici, anche al Governo, possano essere giudicati come tutti gli altri cittadini.

Rimane il quesito: è giusto che qualsiasi persona, al di là dell’istruzione e della competenza, possa decidere su temi così importanti e delicati? Certo, sarebbe meglio che di nucleare e di acqua e di leggi se ne occupassero tecnici specializzati, guidati da politici avveduti e preparati. Idea nobile, chissà se un giorno…

Ma l’Italia degli ultimi venti anni è ben altra cosa. Ogni decisione è presa, nel migliore dei casi, per l’interesse di pochi. Spesso a sostenerla c’è un votificio, che ci ostiniamo ancora a chiamare Parlamento, in cui soubrette e saltimbanchi cercano di vendere il proprio consenso al miglior offerente, rendendo vane le ragioni di quella minoranza – trasversale – che sogna ancora un Paese normale.

I quesiti erano cinque in realtà, lo sapevamo tutti. E gli italiani sono riusciti dove i partiti avevano fallito: abrogare il berlusconismo. Chi ancora tentenna davanti all’idea di una grande alleanza che possa ricostruire il Paese e perde tempo nel cercarsi di orientare in un mondo che, da oggi 13 Giugno, non esiste più, penso saprà che 26 milioni di persone, dopo aver dato la definitiva spallata, si aspettano qualcosa di concreto e di nuovo.

di Graziano Lanzidei

14 giugno 2011

Fukushima, la Tepco e i pescatori













La Tepco non perde occasione per fare brutta figura. L'ultima mirabolante impresa del colosso nipponico che gestisce la disastrata centrale nucleare di Fukushima ha a che fare con oltre 3.000 tonnellate di acqua radioattiva. Vorrebbero scaricarle nel Pacifico senza starci a pensare troppo. Poco importa che si fossero impegnati a ripulire i liquidi dalla contaminazione pesante per riportarli a livelli vicini alla normalità.

"Non c'è tempo", dicono, e in effetti hanno le loro ragioni. Tutti quegli ettolitri finiti nell'impianto numero due provengono direttamente dallo tsunami dello scorso 11 marzo. Quindi si tratta di acqua salata, che rischia di corrodere apparecchi e strutture. Sono a rischio la turbina del reattore e altre parti della centrale che potrebbero contenere piccole quantità di elementi dannosi come il cobalto.

E' anche vero però che non stiamo parlando di Fukushima Daiichi, lo stabilimento semidistrutto dal disastro naturale, ma di Fukushima Daini, una centrale che si trova a circa dieci chilometri dalla sua sorella maggiore e che terremoto e tsunami hanno danneggiato in modo molto meno grave.

Già ad aprile la Tepco ha rilasciato oltre 10mila tonnellate di acqua contaminata nell'oceano, ma in quel caso lo scolo mortifero proveniva dal primo impianto, il più pericoloso. Una giustificazione che comunque non era servita ad evitare che contro la società si scatenasse l'ira funesta di Corea del Sud e Cina.

Tornando ad oggi, spiega Hidehiko Nishiyama, vicedirettore generale dell'Agenzia per la sicurezza industriale e nucleare (Nisa), che supervisiona le attività della Tepco, "l'acqua contaminata presente nell'impianto di Fukushima Daini contiene elementi radioattivi come il manganese e il cobalto, che solitamente derivano dalla corrosione del metallo, ma elementi come lo iodio e il cesio, che derivano da combustibile nucleare danneggiato, non sono stati rintracciati". Insomma, liberarsi di quell'acqua non è esattamente in cima alla lista delle cose più urgenti da fare.

La Tepco però sembra avere una fretta indiavolata, non si capisce bene perché. Ma a questo punto gli sbrigativi propositi della compagnia incontrano un nemico inaspettato: l'Agenzia nipponica della Pesca. E' inutile perdere troppo tempo a riflettere sul potenziale danno all'ambiente, andiamo al sodo: con l'acqua contaminata non si vende più il pesce.

Sembra la vecchia storia della tragedia che scivola verso la farsa, ma in questo caso l'elemento grottesco è servito almeno ad evitare che si combinasse un secondo disastro per risolvere il primo.

Eppure gli scienziati le provano tutte: come ultima risorsa propongono perfino di utilizzare un minerale speciale (lo zeolite) per eliminare la radioattività. Niente. L'Agenzia della Pesca non ne vuole sapere. E così la Tepco deve fare un passo indietro. A pensarci bene, anche se il problema è serio, non occorre essere degli ingegneri, né dei pescatori, per capire che non lo si può risolvere tirando la catena.

Acqua a parte, con il passare dei giorni (e dei mesi) la situazione di Fukushima non migliora. Solo ieri nei primi due reattori di Daiichi è saltata un paio di volte la corrente elettrica. Miracolosamente la Tepco è riuscita a non interrompere il processo di raffreddamento. Nelle stesse ore il Giappone raddoppiava le stime sulle radiazioni fuoriuscite dall'impianto nella settimana successiva al cataclisma. La Nisa sostiene che in quei giorni furono dispersi nell'atmosfera circa 770mila terabecquerel (unità di misura delle radiazioni). La stima precedente era di 370mila.

Questi dati sono stati pubblicati poco prima che a Tokyo partissero i lavori della commissione di inchiesta indipendente sulla crisi nucleare. Il suo compito sarà di valutare se nelle prime fasi dell'emergenza le istituzioni e la Tepco abbiano messo in pratica tutte le misure di sicurezza più adeguate.

Alla guida della commissione c'è Yotaro Hatamura, professore all'università di Tokyo ed esperto nell'analisi degli errori umani. Nel corso della prima riunione, il professore ha espresso un concetto molto semplice. Anche stavolta, non serviva essere ingegneri per capire quale fosse il punto: "L'energia nucleare è pericolosa ed è stato un errore considerarla sicura".
di Carlo Musilli