24 gennaio 2012

Libia-Italia: Mario Monti, cameriere della Goldman Sachs, firma la “Dichiarazione di Tripoli”


Il Presidente del Consiglio Italiano, Mario Monti, accompagnato dal ministro della Difesa Italiana, Giampaolo Di Paola e da quello degli Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata, è stato in Libia, dove ha firmato la “Dichiarazione di Tripoli”.

Questo documento, siglato ufficialmente per “rafforzare il legame di amicizia e collaborazione tra i due Paesi”, non ha alcun valore per il popolo libico.

E non ha alcun valore per due importantissimi motivi:

1) l’attuale governo fantoccio libico non ha alcuna autorità politica e non garantisce nè rappresenta l’unità del popolo libico, ma solo una fazione di esso, parte della quale è cerebrolesa (4 fanatici del “allahuakbar”, i quali con Gheddafi non riuscivano a trafficare e intrallazzare liberamente come volevano), parte della quale è infiltrata di terroristi al-qaedisti (ai quali non interessa nulla della Libia, ma solo le loro elucubrazioni psicopatico-teologiche, e che prendono orudini dal Qatar, cioè dagli USA) e parte della quale (i ratti) si è venduta apertamente ai forestieri, dai quali hanno ottenuto armi, effimero potere, la devastazione della propria terra, ed un pugno di soldi, sporchi del sangue dei fratelli .

2) i libici dovrebbero ormai averlo capito, che i contratti stipulati con l’Italia, sinchè resterà una “colonia americana”, non valgono la carta sulla quale sono stati scritti. Erano stati già stipulati contratti d’amicizia e collaborazione, di rapporti commerciali e politici con l’Italia, recentemente, non più di un paio d’anni fa, con grande esaltazione mediatica del fatto, ricevimenti in pompa magna, baciamano e scambi tra le due nazioni. E cosa è successo poi? Ha rispettato l’Italia gli accordi ancora freschi d’inchiostro? No! Appena il padrone americano ha dato l’ordine, le marionette politiche italiane hanno obbedito, concedendo il suolo italiano come base militare per gli attacchi e bombardamenti aerei compiuti ai danni della Libia, e del popolo libico, da parte di americani, francesi, quatariani, e gli italiani stessi hanno usato i propri aerei per sganciare sulla Libia centinaia di bombe, uccidendo migliaia di persone di una nazione sino a pochi mesi prima “amica”. Se solo avessero una coscienza e non una cloaca al posto del cuore, coloro che erano al comando della portaerei Italia si dovrebbero solo vergognare. Quindi, sinchè l’Italia sarà una colonia americana, gestita da un porcilaio di incapaci e corrotti, qualsiasi contratto con essa stipulato sarà da considerarsi immondizia pura.

Quanto sopra detto vale per stabilire la credibilità che si può dare ai politici italiani eletti secondo i parametri della loro perversa e deviata idea di “democrazia”.

Ma se i politici italiani al governo della nazione, come quelli odierni, non sono stati neppure “democraticamente” eletti dal popolo (neanche con elezioni truffa come quelle con cui gli italiani sono stati presi in giro per anni: basti dire che l’italiano, con l’attuale legge elettorale, non può neppure scegliere la persona da eleggere, ma solo un gruppo, e sarà poi la mafia dei partiti a decidere chi sia il più servizievole da nominare…), ma cooptati, senza elezioni popolari, tra tecnici e uomini di fiducia del gruppo bancario usuraio mondiale Goldman Sachs, nonchè appartenenti a gruppi di potere massonici, come il Gruppo Bilderberg e la Trilateral Commission, di cui Mario Monti fa parte, quale affidabilità potranno mai garantire ai partner con i quali firmano documenti a destra e manca? Zero.

Il precedente Premier italiano, Silvio Berlusconi, era certamente un uomo d’affari, e sicuramente metteva al primo posto “i suoi affari”, i quali però siccome coincidevano anche spesso con quelli italiani (per il semplice fatto che i suoi investimenti sono soprattutto in Italia), parzialmente sarebbero stati positivi, sia per l’Italia che per coloro i quali con lui stipulavano contratti: gli affari devono accontentare entrambe le parti.

Poi Berlusconi commise l’errore di pensare di poter fare “di testa sua”, di fare affari direttamente con le nazioni produttrici di gas e petrolio, illudendosi che, siccome era stato sin’ora un servo fedele, gli avrebbero lasciato un piccolo margine di manovra. Errore: un servo è un servo. Punto. E deve obbedire e fare solo gli interessi del padrone. E siccome Berlusconi era stato un po’ (ma molto poco) riluttante a bombardare la Libia, e un po’ riluttante a massacrare gli italiani di tasse e permettere alle multinazionali anglo-americane (tutte giudaico-sioniste, basta guardare i cognomi di chi le amministra e seguirne le vicende) di rubare le ricchezze italiane ancora rimaste sul mercato, ecco che scattò il ricatto finanziario, e Berlusconi perdette in un sol colpo, durante l’ultimo G20 cui partecipò, parecchi miliardi delle sue azioni in borsa.

Berlusconi capì che era tempo di dimettersi, prima di finire sul lastrico. Ed il comunista a stelle e strisce Giorgio Napolitano (che avvalora il detto popolare “l’erba gramigna non muore mai”) propose al suo posto Mario Monti. Ovviamente tutto lo schieramento politico italiano presente in Parlamento, eccezion fata per la Lega Nord, approvò con un’ovazione (specie le nuove sinistre bancarie americaniste e sioniste che scalpitano per tornare a ricoprire il loro ruolo ufficiale di parassiti di stato e zerbini del capitale apolide).

Si vide così, chiaramente, chi fosse nel libro paga della lobby banchiera: praticamente tutti, esclusa la già citata Lega Nord, e Domenico Scilipoti, che addirittura per marcare la sua disapprovazione si presentò in Parlamento con una fascia nera al braccio in segno di lutto.

Mario Monti, ormai lo sanno anche i sassi, è anche un supervisor della Goldman Sachs; quella stessa Goldman Sachs che aveva creato, attraverso un giro di agenzie di rating e borsistiche a lei collegate, seri problemi agli affari di Berlusconi nonchè la perdita di parecchi miliardi all’Italia (di risparmi dei cittadini italiani). E tutt’ora sta mettendo in ginocchio l’Europa attraverso la moderna catena usuraia di Wall Street e della Borsa mondiale. La stessa Goldman Sachs ricopre una parte importantissima nella gestione e amministrazione dell’americana FED: la stessa Federal Reserve che stampa la moneta americana per venderla al governo USA, contro la quale si era schierato Kennedy e perciò fu assassinato (poco dopo aver fatto stampare oltre 4 miliardi di dollari con la scritta “proprietà del popolo americano” e non della FED); la stessa FED alla quale invece Obama proclamava di voler attribuire maggiori poteri. Che bel Nobel…per l’usura…

La Goldman Sachs, ricordiamolo, è quella struttura diretta da menti israelite che ha abilmente rubato, potremmo dire “con destrezza” il 98% delle ricchezze finanziarie libiche.

I riferiementi a tale affermazione sono pubblici e noti alla stampa internazionale, che ne da’ notizia a questi links [1][2] - [3][4] - [5] – e molti altri ancora…ne stiamo facendo una raccolta in PDF.

Quindi, la Israelo-Americana Goldman Sachs, che ha derubato la Libia, l’Italia e nazioni varie, che si cela quindi dietro agli interessi delle guerre USA nel mondo, essendo che i suoi interessi sono gli stessi, avrebbe messo un suo fedele servitore, Mario Monti (mentre l’altro Mario, Draghi, sempre uomo della Goldman Sachs, è stato posto a capo della Banca Europea) a mettere ordine sulla ‘scena del crimine’ libico. Il partner libico di Mario Monti è poi quell’Abdurrahim el-Keib che ben conosciamo, formatosi negli USA e con lunga esperienza in campo petrolifero presso il Petroleum Institute degli Emirati Arabi Uniti.

Bella squadretta vero?

Il trattato, tra la colonia Italia e la nuova colonia Libia, riguarda non solo accordi economici e finanziari (quelli ormai erano stati rapinati, svenduti o imposti da tempo), ma soprattutto l’apporto italiano nel controllo e repressione della Resistenza libica Verde, quella che impedisce il controllo terroristico totale del territorio libico da parte delle forze traditrici della Jamahiriya, quelle arroccate a Bengasi, e nel disarmo delle sacche ‘ribelli’, composte da quelle fazioni di Nato-mercenari che come schegge impazzite si scontrano per la spartizione del bottino e delle aree petrolifere, come si addice a vere e proprie gangs mafiose, creando ai pupazzi del NTC problemi di gestione interna del potere.

Le Forze armate italiane infatti forniranno sostegno al nuovo governo fantoccio libico del CNT (NTC). Ciò vuol dire nuove armi, militari italiani sul terreno libico, addestramento di assassini e delinquenti comuni, che hanno già fatto tornare la Libia indietro di 60 anni almeno, qualcuno dice all’età della pietra.

L’Italia dovrà fare insomma il lavoro più sporco e più rischioso, a terra, mettendo a rischio giovani vite, come già fatto in altre aree e con altre “missioni di pace”. Certamente anche qui poi ci diranno che è per “la democrazia”.

Oltre al Primo Ministro italiano Mario Monti ed al cameriere delle banche libico Abdurrahim el-Keib, erano infatto presenti i rispettivi titolari della Difesa, e stretta collaborazione è stata garantita dai titolari dei ministeri dello Sviluppo, Corrado Passera e quello dell’Interno, Annamaria Cancellieri.

Presente era anche l’amministratore dell’Eni, Paolo Scaroni. Una presenza simbolica, in quanto, rispetto al trattato di amicizia italo-libico, siglato tra Muammar Gaddafi e Silvio Berlusconi, il governo fantoccio libico del NTC ha fatto sapere che di esso sarà preservata solo la parte relativa al risarcimento che l’Italia si è impegnata a versare per il periodo coloniale. Mentre si conferma invece l’accettazione delle scuse italiane. Certo, non poteva essere diversamente. Come dicono in Italia: cornuti e mazziati, cioè traditi e bastonati.

Le commesse più ghiotte ed i contratti più importanti sono nelle mani franco-anglo-americane, e l’Italia è stata usata solo come una serva, a cui lasciare gli avanzi ed a cui affidare compiti sporchi.

I conti tornano, la rapina viene tecnicamente perfezionata: la Libia, dopo una parentesi di indipendenza e progresso in ogni campo, prosperità nazionale ed esempio di riconquista di dignità e riscatto per tutte le nazioni africane, torna ad essere la colonia di sempre. L’Italia, la sua parentesi di libertà se l’è giocata decenni e decenni fa, ed ora non le resta che servire ed obbedire agli ordini dei padroni in kippà, mediterranei e d’oltre oceano.

La dignità del popolo italiano sembra oggi però voler cercare un riscatto nelle insorgenze in corso, che dalla Sicilia stanno in questi giorni lanciando un messaggio chiaro a tutti gli italiani: liberiamoci dai parassiti delle banche, dai loro servi inutili, dal signoraggio bancario che ci sta strangolando. Riprendiamoci l’onore e la dignità, le ricchezze del nostro paese, che da sole basterebbero a dare sicurezza e serenità a tutti gli italiani. Riprendiamoci l’Italia.

Sarà un messaggio che il resto degli italiani saprà cogliere e sviluppare? Riusciranno gli italiani a liberarsi dalla morsa imposta dalla setta usuraia? Si affrancheranno da tutta la propaganda mediatica e cultura viziata, con la quale sono bombardati sin da piccoli? La speranza è che ce la possano fare. La certezza è che questa strada, per la riconquista nazionale e l’onore perso, è lastricata di dolore e sangue.

I libici, quelli veri, che sono la maggioranza della popolazione, che non si sono scordati della Libia che è stata loro distrutta, del benessere che avevano raggiunto, del rispetto che avevano conquistato tra le altre nazioni africane, che hanno visto di che pasta sono fatti i “ribelli” del NTC (un branco di vili traditori, assassini, stupratori e ladri), questo problema almeno non ce l’hanno: loro hanno già sofferto, stanno sofrendo, a migliaia e migliaia imprigionati e torturati a morte dai “liberatori”, stanno già combattendo la loro Resistenza, e le loro strade sono già lastricate di sangue. Non c’è altra strada per liberarsi dalle catene imposte senza scrupolo dai banksters gangsters stranieri e dai loro tirapiedi locali.

Gli italiani non credano che liberarsi degli strozzini planetari, che si sono impadroniti della loro terra, che si sono arroccati come un cancro maligno nei gangli del potere e nelle istituzioni, che sono radicati come sanguisughe sulla pelle della gente che lavora onestamente, sarà cosa facile e indolore: la Resistenza (1) non è un pranzo di gala.


di Filippo Fortunato Pilato


(1) la Resistenza vera, autentica, da non confondersi col termine “resistenza” usurpato dai collaborazionisti, col quale si indica invece l’Italia incaprettata e regalata agli USA del ‘Piano Marshal’…

21 gennaio 2012

Ma che cos'è il mercato? (E il complottismo?)

Risposta di Federico Zamboni a un commento di un lettore, su un tema interessante per tutti.


Gentile Federico,

apprezzo il suo scritto. Epurando l'aspetto di costume (eventuali uomini incappucciati..) dal concetto, il nodo, per dirimere lo stesso, è nel dato oggettivo. Il dato oggettivo è nella prova. Elemento questo che sposta l'evento, dall'ipotesi alla certezza.

Nell'ampliamento sematico del termine.. gli esempi di vita quotidiana da lei riportati sono giustamente congrui... E proprio da tali esempi che è possibile spostare l'asse del discorso nei seguenti termini: "I soggetti che si coalizzano per far carriera guardandosi bene dal dirlo a colleghi o superiori" sono soggetti agenti o prodotto del sistema? In altri termini: sarebbe possibile far carriera se non ci si coalizzasse? Tralascio il giudizio di valore del far carriera che mi è estraneo... Ma se la si vuole fare (la carriera) queste sono le condizioni: coalizzarsi. E nel coalizzarsi è insito l'occulto.

Ora: l'esempio è di fatto generico ma serve ad evidenziare gli aspetti del ragionamento, che per chi scrive, risiedono nel sistema, che, sempre per chi scrive è perfetto sinonimo di mercato.

E allora: le lobby che agiscono nel mercato, sono prodotto dello stesso (traendone, si intende, il maggior profitto possibile, coalizzandosi spesso con fini speculativi) o viceversa esercitano su di esso controllo e direzione? Personalmente, protendo per la prima ipotesi.

Ma che cos'è il mercato? E' sicuramente l'iperproduzione di merci delle multinazionali. E' anche però l'azienda locale che produce beni o servizi. Sono le oligarchie economiche che raggiungono ampi guadagni in modo più o meno lecito, ma anche il semplice operatore finanziario che esercita una professione e consiglia i propri clienti nell'ottenere un guadagno. (Qui conosco la vostra obiezione che tende ad evidenziare che il LAVORO deve generare qualcosa di concreto... però i mercati finanziari, nella loro accezione originaria hanno anchessi un merito che è quello di finanziare le aziende). E ancora: il mercato è l'insieme dei consumatori che acquistano, guidati da desideri indotti, oggetti per sostituire inconsapevolmente desideri primari, ma anche i GAS. Il mercato è l'azienda agricola che produce prodotti biologici ma anche la multinazionale che produce grano. Il mercato, per finire, sono milioni di merci prodotte ed acquistate ma anche il prodotto La Voce del Ribelle che, piaccia o meno è anch'esso un prodotto editoriale e quindi di mercato. Che qualcuno acquista perchè ne ha bisogno, perchè lo trova utile. Perchè per qualcuno, è fonte di identità.

E che differenza c'è tra me che acquisto La voce del Ribelle e chi acquista un capo di abbigliamento di marca?

Una delle risposte è sicuramente nella finalità. Un'altra è nella possibile necessità di consapevolezza. Rimaniamo, però, attenzione, sempre nel concetto di mercato.

E allora: esiste un mercato buono ed uno cattivo? E in altri termini: esiste il giusto e lo sbagliato? Il bene e il male? O semplicemente uno è prodotto dell'altro?

La via d'uscita sono le regole. Mettere regole al mercato. Perchè solo con regole rigide e severe sarà possibile riportare il concetto al suo giusto valore che sta nell'essere uno tra i tanti aspetti dell'esistenza piuttosto che l'esistenza.

Andrea Samassa

R

Caro Andrea, sull’idea che alla base di quello che sta accadendo in campo economico e sociale ci sia un “sistema” sono d’accordo. Così come lo sono sul fatto che la quasi totalità di quelli che si adeguano ai suoi condizionamenti – subendoli per un verso e rafforzandoli per l’altro, come i detenuti che si prestano a fare da sorveglianti e tiranneggiano i loro stessi compagni di prigionia – non fanno altro che muoversi all’interno di regole che non hanno scelto e di meccanismi che li sovrastano e sui quali non hanno nessun potere di modifica.

Ma il punto, e in questo direi che divergiamo, è che secondo me questo sistema non è affatto casuale. E men che meno, al contrario di ciò che postulano i liberisti, è il riflesso di una tendenza “naturale”, e perciò insopprimibile, ad agire in termini utilitaristici, che inducono a imperniare la propria condotta – e persino la propria esistenza – su criteri analoghi a quelli di un’impresa. Si fa quello che è più vantaggioso per sé e non ci si preoccupa delle conseguenze che si producono sugli altri. La generica idea di vantaggio (che si presta anche a una declinazione psicologica, ma su questo tornerò più avanti) si irrigidisce in quella di profitto, ovverosia di beneficio misurabile sotto forma di denaro, spianando la strada alle sue versioni estremizzate che sono il massimo profitto, l’interesse usurario e la speculazione finanziaria.

Una volta che si sia assorbita in profondità questa concezione, fino a non rendersi più conto che non è affatto una modalità spontanea e universale degli esseri umani ma una costruzione teorica quanto mai opinabile, e parecchio sordida, il danno è pressoché irreversibile. I suoi pseudo valori diventeranno gli unici, o quelli dominanti, intorno ai quali organizzare (organizzare!) la propria vita. Al punto che non ci si chiederà più se una certa condotta vada giudicata alla luce di criteri diversi dal guadagno e, nella migliore delle ipotesi, dell’osservanza formale delle leggi.

Se questo sistema non è spontaneo, quindi, non è peregrino ipotizzare che esso sia stato sviluppato, se non proprio ideato a priori, da chi riteneva di potersene servire per raggiungere i propri scopi. Ed è già in questo tratto, o se si vuole in questo vizio d’origine, che affondano le radici dell’attuale, dilagante tendenza all’arbitrio e alla manipolazione. I cosiddetti “complotti”, in fin dei conti, non sono altro che questo: operazioni occulte di particolare gravità, che vengono mascherate da eventi accidentali, attribuiti a nient’altro che all’imponderabile azione delle forze in campo. Le quali, sempre secondo questa rappresentazione auto assolutoria, sono innumerevoli e nella loro essenza indipendenti l’una dall’altra, benché legate tra loro dall’obiettiva e inevitabile condivisione di certe regole del gioco. Detto in una parola, utilizzata di continuo per sintetizzare questa pretesa libertà assoluta che in quanto tale sarebbe refrattaria a qualunque regia complessiva, il celebratissimo “mercato”.

A ben riflettere, invece, la manipolazione per eccellenza è proprio quella che va al di là del caso specifico, per quanto rilevante, e si estende alla realtà nel suo insieme. Il singolo giocatore truffaldino è un semplice baro, e ha una pericolosità limitata. Quello che è davvero temibile è quello che mette in piedi un casinò. O una catena di casinò. Apparentemente sottostà a delle regole, che sono all’incirca le stesse dei suoi clienti-avversari. In realtà le regole sono fatte apposta per favorire lui. Vedi lo zero nel gioco della roulette. O l’elemento statistico negli altri giochi d’azzardo, nonché in quell’apoteosi dell’alea, e perciò dell’ottusità compulsiva di chi ci butta i propri soldi, che sono le slot-machine.

Se poi il nostro biscazziere è davvero furbo, e di solito lo è, allora non si accontenta di fare leva sulle attrattive del gioco in quanto tale, ma vi affianca una serie di ulteriori elementi di pressione psicologica. Che sono tutti, Las Vegas docet, nel segno dell’ebbrezza e dello stordimento. Ovverosia, per abbandonare l’esempio e tornare ai processi economici veri e propri, di quella smania di arricchirsi e di consumare che è l’architrave dell’istupidimento contemporaneo.

Come ricorda Jeremy Rifkin nel suo “La fine del lavoro”, a inizio Novecento i lavoratori statunitensi non erano affatto propensi a lavorare di più solo perché ne avrebbero ricavato un aumento della retribuzione. La loro scala valoriale era un’altra, e anteponeva il tempo libero da dedicare a ciò che preferivano, ivi inclusi gli affetti, al possesso di maggiori quantità di denaro. Ergo, vennero avviate delle massicce campagne pubblicitarie per enfatizzare non solo l’attrattiva di questa o quella merce, ma per instillare la convinzione che un più alto livello di consumo qualificasse in senso positivo l’acquirente e comportasse un riconoscimento sociale. E che, pertanto, fosse più che mai desiderabile.

Come la vogliamo definire, un’operazione di questa natura e di questo calibro? E perché mai non la dovremmo assimilare a un “complotto”, nel senso di una strategia, deliberata, e deteriore, e occulta, che mira a corrompere la popolazione e ad asservirla alle mire di un’oligarchia di sfruttatori?

Un’ultima considerazione, infine, riguardo all’idea che in fondo rientri tutto nel mercato, inteso come l’ambito in cui si iscrive qualsiasi attività umana imperniata sulla cessione di qualcosa che può essere oggetto di compravendita. Cito dal post: «Il mercato è l'insieme dei consumatori che acquistano, guidati da desideri indotti, oggetti per sostituire inconsapevolmente desideri primari, ma anche i GAS. Il mercato è l'azienda agricola che produce prodotti biologici ma anche la multinazionale che produce grano. Il mercato, per finire, sono milioni di merci prodotte ed acquistate ma anche il prodotto La Voce del Ribelle che, piaccia o meno è anch'esso un prodotto editoriale e quindi di mercato. Che qualcuno acquista perchè ne ha bisogno, perchè lo trova utile. Perchè per qualcuno, è fonte di identità.E che differenza c'è tra me che acquisto La voce del Ribelle e chi acquista un capo di abbigliamento di marca?».

Non ci siamo. La Voce del Ribelle non è affatto un prodotto, nel senso che non nasce per conseguire un profitto. Come ha spiegato tante e tante volte Valerio Lo Monaco, quello che noi definiamo “abbonamento”, come si usa dire in ambito editoriale, è in realtà un contributo alla nostra iniziativa, che non si prefigge alcuno scopo di lucro. Noi siamo costretti, nostro malgrado, a fissare un “prezzo” per poter disporre delle risorse necessarie a proseguire l’attività e magari a migliorarla, ma il nostro obiettivo non è certo incassare il più possibile. Saremmo degli idioti assoluti, se fosse così. Perché ci saremmo scelti un mercato che praticamente non esiste, e che d’altronde noi non facciamo nulla per creare, o ampliare, accattivandoci i potenziali lettori a colpi di proclami massimalisti e di requisitorie che fanno leva sull’emotività.

E allora, per rispondere alle domande finali, la risposta è sì. Secondo me esistono eccome «un mercato buono e uno cattivo». Quello che specula sull’avidità materiale, e sull’insicurezza psicologica, è il mercato cattivo. L’altro, che si concentra sul valore intrinseco di ciò che crea (“crea”, non “produce”), è quello buono. E lo è, innanzitutto, perché non nasce come mercato, e dunque per vendere qualcosa a qualcuno e ritrarne un profitto, ma come occasione di scambio reciproco. Il tempo di uno ha generato un bene. Il tempo di un altro ne ha generato uno diverso. Il denaro, finché non si tramuta nel mostro incontrollabile e autoreferenziale che sappiamo, sostituisce il baratto. Ma non ne dimentica la funzione. Non ne tradisce lo spirito. E non esclude il piacere, la gioia, la libertà assoluta e rinfrancante del dono.

di Federico Zamboni

20 gennaio 2012

L'inganno delle liberalizzazioni: siamo cittadini o consumatori?

Rivolta tassisti
La strategia del governo sembra essere quella del "divide et impera": attaccare la cittadinanza sotto la forma di categorie di consumo

“Divide et impera” dicevano gli antichi romani, che usavano la locuzione per intendere il loro modo di governare il territorio italiano e di evitare rivolte da parte delle popolazioni italiche sottomesse. Due millenni e mezzo dopo la strategia sembra essere ancora valida, ed è utilizzata comunemente dal potere. Ne è un esempio il decreto liberalizzazioni che verrà varato oggi.

Dopo la cosiddetta manovra 'salva-Italia', che colpiva tutti più o meno indiscriminatamente – senza ombra della tanto sbandierata equità – dalle parti di palazzo Chigi devono aver pensato che era cosa assai rischiosa inimicarsi l'intera popolazione, coesa, tutta assieme.

Ed ecco che nel nuovo decreto liberalizzazioni si adotta la strategia del motto latino. Non si attacca più un'indistinta cittadinanza, ma tanti suoi piccoli sottogruppi diversi: le categorie. Ciascuna di loro, vedendo i propri interessi attaccati, sarà così portata a reagire separatamente.

Prendiamo l'esempio dei tassisti. Il decreto prevede la liberalizzazione delle licenze, e l'annullamento della territorialità. Chi è in possesso di una licenza adesso – l'avrà pagata attorno ai 150mila euro, prezzo medio in Italia – con ogni probabilità si sarà immaginato, al momento dell'acquisto, di rivenderla a fine carriera, facendosi così una sorta di pensione, o buonuscita che dir si voglia. E la territorialità, ovvero del fatto che ogni licenza fosse limitata ad un determinato territorio in cui esercitare, serviva a proteggere il lavoro dei tassisti “autoctoni”, nei periodi di maggior richiesta.

Dunque immaginiamoci un tassista giunto più o meno ad età pensionabile, senza grandi risparmi da parte. Egli immaginava di trascorrere in pace la vecchiaia grazie ai soldi della licenza, che a suo tempo pagò una cifra ragguardevole, ed invece si ritrova con niente in mano e costretto a lavorare in condizioni peggiori di quelle a cui è sempre stato abituato, gettato nella mischia della competizione nazionale. Non ha diritto di protestare?

E il discorso fatto per i tassisti vale anche per i benzinai, che annunciano scioperi prolungati – fino a dieci giorni – per protesta contro la scelta di intervenire sull'esclusiva di fornitura nella rete carburanti, che rischia di schiacciare gli esercenti fra i pesi dei colossi petroliferi e le richieste dei mercati.

Ma per gli altri cittadini – per i cittadini non tassisti e non benzinai – queste proteste non sono che potenziali disagi. Il fatto è che le categorie sono facili da attaccare. Basta chiamarle caste, convincere i cittadini che quelli di cui godono sono dei privilegi che ricadono sulle loro spalle, che i servizi che offrono potrebbero essere molto più economici ed il gioco è fatto. Con l'aiuto dei media mainstream, si può così far sorgere nella cittadinanza una certa insofferenza nei confronti delle categorie, i cui membri ci appariranno come estremamente egoisti: arroccati a difesa dei propri interessi senza pensare al bene del paese.

Ma osservando la situazione più da vicino ci si accorge che non è così. Pur procedendo separatamente, per compartimenti stagni, la manovra del governo sta compiendo un furto complessivo dei diritti dei lavoratori (e dei cittadini), in nome di più generici diritti dei consumatori. Si sta in pratica compiendo un passo enorme da uno “stato di diritto”, dove ad essere tutelati sono i cittadini in quanto tali, ad uno “stato di mercato”, dove i cittadini sono tutelati solo nella loro dimensione di consumatori.

Il problema è che, se da un lato ci attaccano separatamente, perché ciascuno di noi apparterrà ad una soltanto delle categorie che via via passeranno sotto la macina delle liberalizzazioni, dall'altro si promettono benefici comuni, in quanto tutti rientriamo nella odiosa categoria dei consumatori. Dunque, a meno che non sia la nostra categoria ad essere attaccata in quel preciso momento, con ogni probabilità ci schiereremo dall'altra parte, dal lato dei consumatori, pronti ad attaccare i privilegi delle caste.

Ma siamo davvero consumatori prima che cittadini? E siamo sicuri che il libero mercato sia lo strumento adatto per regolare al meglio le nostre necessità? Torniamo per un attimo ai tassisti. Cosa comporteranno le liberalizzazioni? Probabilmente molti più taxi in giro, a prezzi sicuramente più economici. E chi li utilizzerà? In parte chi fino ad ora si spostava con il proprio mezzo; in buona parte – una parte probabilmente maggiore – chi utilizzava per convenienza, o per mancanza di mezzi propri, i mezzi pubblici.

Ma ha senso, proprio adesso, in piena crisi ambientale, con l'aria delle città sempre più irrespirabile, le riserve di petrolio mondiali giunte agli sgoccioli – e posizionate in luoghi sempre più difficili da raggiungere – incentivare il trasporto privato? Non preferiremmo piuttosto – come cittadini non come consumatori – avere un servizio di trasporto pubblico efficiente, di cui usufruire tutti a costi accessibili, e limitare i taxi ed i mezzi privati alle emergenze ed alle eventualità?

Ma i mercati non ascoltano i cittadini ma solo i consumatori. Non sanno cosa “è meglio”, solo cosa è “più conveniente”. Sono un meccanismo ottuso, che risponde soltanto a stimoli economici. È contro questo sistema che dobbiamo ribellarci, tutti assieme, mettendo da parte le categorie. Essere cittadini, una volta tanto.

di Andrea Degl'Innocenti

24 gennaio 2012

Libia-Italia: Mario Monti, cameriere della Goldman Sachs, firma la “Dichiarazione di Tripoli”


Il Presidente del Consiglio Italiano, Mario Monti, accompagnato dal ministro della Difesa Italiana, Giampaolo Di Paola e da quello degli Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata, è stato in Libia, dove ha firmato la “Dichiarazione di Tripoli”.

Questo documento, siglato ufficialmente per “rafforzare il legame di amicizia e collaborazione tra i due Paesi”, non ha alcun valore per il popolo libico.

E non ha alcun valore per due importantissimi motivi:

1) l’attuale governo fantoccio libico non ha alcuna autorità politica e non garantisce nè rappresenta l’unità del popolo libico, ma solo una fazione di esso, parte della quale è cerebrolesa (4 fanatici del “allahuakbar”, i quali con Gheddafi non riuscivano a trafficare e intrallazzare liberamente come volevano), parte della quale è infiltrata di terroristi al-qaedisti (ai quali non interessa nulla della Libia, ma solo le loro elucubrazioni psicopatico-teologiche, e che prendono orudini dal Qatar, cioè dagli USA) e parte della quale (i ratti) si è venduta apertamente ai forestieri, dai quali hanno ottenuto armi, effimero potere, la devastazione della propria terra, ed un pugno di soldi, sporchi del sangue dei fratelli .

2) i libici dovrebbero ormai averlo capito, che i contratti stipulati con l’Italia, sinchè resterà una “colonia americana”, non valgono la carta sulla quale sono stati scritti. Erano stati già stipulati contratti d’amicizia e collaborazione, di rapporti commerciali e politici con l’Italia, recentemente, non più di un paio d’anni fa, con grande esaltazione mediatica del fatto, ricevimenti in pompa magna, baciamano e scambi tra le due nazioni. E cosa è successo poi? Ha rispettato l’Italia gli accordi ancora freschi d’inchiostro? No! Appena il padrone americano ha dato l’ordine, le marionette politiche italiane hanno obbedito, concedendo il suolo italiano come base militare per gli attacchi e bombardamenti aerei compiuti ai danni della Libia, e del popolo libico, da parte di americani, francesi, quatariani, e gli italiani stessi hanno usato i propri aerei per sganciare sulla Libia centinaia di bombe, uccidendo migliaia di persone di una nazione sino a pochi mesi prima “amica”. Se solo avessero una coscienza e non una cloaca al posto del cuore, coloro che erano al comando della portaerei Italia si dovrebbero solo vergognare. Quindi, sinchè l’Italia sarà una colonia americana, gestita da un porcilaio di incapaci e corrotti, qualsiasi contratto con essa stipulato sarà da considerarsi immondizia pura.

Quanto sopra detto vale per stabilire la credibilità che si può dare ai politici italiani eletti secondo i parametri della loro perversa e deviata idea di “democrazia”.

Ma se i politici italiani al governo della nazione, come quelli odierni, non sono stati neppure “democraticamente” eletti dal popolo (neanche con elezioni truffa come quelle con cui gli italiani sono stati presi in giro per anni: basti dire che l’italiano, con l’attuale legge elettorale, non può neppure scegliere la persona da eleggere, ma solo un gruppo, e sarà poi la mafia dei partiti a decidere chi sia il più servizievole da nominare…), ma cooptati, senza elezioni popolari, tra tecnici e uomini di fiducia del gruppo bancario usuraio mondiale Goldman Sachs, nonchè appartenenti a gruppi di potere massonici, come il Gruppo Bilderberg e la Trilateral Commission, di cui Mario Monti fa parte, quale affidabilità potranno mai garantire ai partner con i quali firmano documenti a destra e manca? Zero.

Il precedente Premier italiano, Silvio Berlusconi, era certamente un uomo d’affari, e sicuramente metteva al primo posto “i suoi affari”, i quali però siccome coincidevano anche spesso con quelli italiani (per il semplice fatto che i suoi investimenti sono soprattutto in Italia), parzialmente sarebbero stati positivi, sia per l’Italia che per coloro i quali con lui stipulavano contratti: gli affari devono accontentare entrambe le parti.

Poi Berlusconi commise l’errore di pensare di poter fare “di testa sua”, di fare affari direttamente con le nazioni produttrici di gas e petrolio, illudendosi che, siccome era stato sin’ora un servo fedele, gli avrebbero lasciato un piccolo margine di manovra. Errore: un servo è un servo. Punto. E deve obbedire e fare solo gli interessi del padrone. E siccome Berlusconi era stato un po’ (ma molto poco) riluttante a bombardare la Libia, e un po’ riluttante a massacrare gli italiani di tasse e permettere alle multinazionali anglo-americane (tutte giudaico-sioniste, basta guardare i cognomi di chi le amministra e seguirne le vicende) di rubare le ricchezze italiane ancora rimaste sul mercato, ecco che scattò il ricatto finanziario, e Berlusconi perdette in un sol colpo, durante l’ultimo G20 cui partecipò, parecchi miliardi delle sue azioni in borsa.

Berlusconi capì che era tempo di dimettersi, prima di finire sul lastrico. Ed il comunista a stelle e strisce Giorgio Napolitano (che avvalora il detto popolare “l’erba gramigna non muore mai”) propose al suo posto Mario Monti. Ovviamente tutto lo schieramento politico italiano presente in Parlamento, eccezion fata per la Lega Nord, approvò con un’ovazione (specie le nuove sinistre bancarie americaniste e sioniste che scalpitano per tornare a ricoprire il loro ruolo ufficiale di parassiti di stato e zerbini del capitale apolide).

Si vide così, chiaramente, chi fosse nel libro paga della lobby banchiera: praticamente tutti, esclusa la già citata Lega Nord, e Domenico Scilipoti, che addirittura per marcare la sua disapprovazione si presentò in Parlamento con una fascia nera al braccio in segno di lutto.

Mario Monti, ormai lo sanno anche i sassi, è anche un supervisor della Goldman Sachs; quella stessa Goldman Sachs che aveva creato, attraverso un giro di agenzie di rating e borsistiche a lei collegate, seri problemi agli affari di Berlusconi nonchè la perdita di parecchi miliardi all’Italia (di risparmi dei cittadini italiani). E tutt’ora sta mettendo in ginocchio l’Europa attraverso la moderna catena usuraia di Wall Street e della Borsa mondiale. La stessa Goldman Sachs ricopre una parte importantissima nella gestione e amministrazione dell’americana FED: la stessa Federal Reserve che stampa la moneta americana per venderla al governo USA, contro la quale si era schierato Kennedy e perciò fu assassinato (poco dopo aver fatto stampare oltre 4 miliardi di dollari con la scritta “proprietà del popolo americano” e non della FED); la stessa FED alla quale invece Obama proclamava di voler attribuire maggiori poteri. Che bel Nobel…per l’usura…

La Goldman Sachs, ricordiamolo, è quella struttura diretta da menti israelite che ha abilmente rubato, potremmo dire “con destrezza” il 98% delle ricchezze finanziarie libiche.

I riferiementi a tale affermazione sono pubblici e noti alla stampa internazionale, che ne da’ notizia a questi links [1][2] - [3][4] - [5] – e molti altri ancora…ne stiamo facendo una raccolta in PDF.

Quindi, la Israelo-Americana Goldman Sachs, che ha derubato la Libia, l’Italia e nazioni varie, che si cela quindi dietro agli interessi delle guerre USA nel mondo, essendo che i suoi interessi sono gli stessi, avrebbe messo un suo fedele servitore, Mario Monti (mentre l’altro Mario, Draghi, sempre uomo della Goldman Sachs, è stato posto a capo della Banca Europea) a mettere ordine sulla ‘scena del crimine’ libico. Il partner libico di Mario Monti è poi quell’Abdurrahim el-Keib che ben conosciamo, formatosi negli USA e con lunga esperienza in campo petrolifero presso il Petroleum Institute degli Emirati Arabi Uniti.

Bella squadretta vero?

Il trattato, tra la colonia Italia e la nuova colonia Libia, riguarda non solo accordi economici e finanziari (quelli ormai erano stati rapinati, svenduti o imposti da tempo), ma soprattutto l’apporto italiano nel controllo e repressione della Resistenza libica Verde, quella che impedisce il controllo terroristico totale del territorio libico da parte delle forze traditrici della Jamahiriya, quelle arroccate a Bengasi, e nel disarmo delle sacche ‘ribelli’, composte da quelle fazioni di Nato-mercenari che come schegge impazzite si scontrano per la spartizione del bottino e delle aree petrolifere, come si addice a vere e proprie gangs mafiose, creando ai pupazzi del NTC problemi di gestione interna del potere.

Le Forze armate italiane infatti forniranno sostegno al nuovo governo fantoccio libico del CNT (NTC). Ciò vuol dire nuove armi, militari italiani sul terreno libico, addestramento di assassini e delinquenti comuni, che hanno già fatto tornare la Libia indietro di 60 anni almeno, qualcuno dice all’età della pietra.

L’Italia dovrà fare insomma il lavoro più sporco e più rischioso, a terra, mettendo a rischio giovani vite, come già fatto in altre aree e con altre “missioni di pace”. Certamente anche qui poi ci diranno che è per “la democrazia”.

Oltre al Primo Ministro italiano Mario Monti ed al cameriere delle banche libico Abdurrahim el-Keib, erano infatto presenti i rispettivi titolari della Difesa, e stretta collaborazione è stata garantita dai titolari dei ministeri dello Sviluppo, Corrado Passera e quello dell’Interno, Annamaria Cancellieri.

Presente era anche l’amministratore dell’Eni, Paolo Scaroni. Una presenza simbolica, in quanto, rispetto al trattato di amicizia italo-libico, siglato tra Muammar Gaddafi e Silvio Berlusconi, il governo fantoccio libico del NTC ha fatto sapere che di esso sarà preservata solo la parte relativa al risarcimento che l’Italia si è impegnata a versare per il periodo coloniale. Mentre si conferma invece l’accettazione delle scuse italiane. Certo, non poteva essere diversamente. Come dicono in Italia: cornuti e mazziati, cioè traditi e bastonati.

Le commesse più ghiotte ed i contratti più importanti sono nelle mani franco-anglo-americane, e l’Italia è stata usata solo come una serva, a cui lasciare gli avanzi ed a cui affidare compiti sporchi.

I conti tornano, la rapina viene tecnicamente perfezionata: la Libia, dopo una parentesi di indipendenza e progresso in ogni campo, prosperità nazionale ed esempio di riconquista di dignità e riscatto per tutte le nazioni africane, torna ad essere la colonia di sempre. L’Italia, la sua parentesi di libertà se l’è giocata decenni e decenni fa, ed ora non le resta che servire ed obbedire agli ordini dei padroni in kippà, mediterranei e d’oltre oceano.

La dignità del popolo italiano sembra oggi però voler cercare un riscatto nelle insorgenze in corso, che dalla Sicilia stanno in questi giorni lanciando un messaggio chiaro a tutti gli italiani: liberiamoci dai parassiti delle banche, dai loro servi inutili, dal signoraggio bancario che ci sta strangolando. Riprendiamoci l’onore e la dignità, le ricchezze del nostro paese, che da sole basterebbero a dare sicurezza e serenità a tutti gli italiani. Riprendiamoci l’Italia.

Sarà un messaggio che il resto degli italiani saprà cogliere e sviluppare? Riusciranno gli italiani a liberarsi dalla morsa imposta dalla setta usuraia? Si affrancheranno da tutta la propaganda mediatica e cultura viziata, con la quale sono bombardati sin da piccoli? La speranza è che ce la possano fare. La certezza è che questa strada, per la riconquista nazionale e l’onore perso, è lastricata di dolore e sangue.

I libici, quelli veri, che sono la maggioranza della popolazione, che non si sono scordati della Libia che è stata loro distrutta, del benessere che avevano raggiunto, del rispetto che avevano conquistato tra le altre nazioni africane, che hanno visto di che pasta sono fatti i “ribelli” del NTC (un branco di vili traditori, assassini, stupratori e ladri), questo problema almeno non ce l’hanno: loro hanno già sofferto, stanno sofrendo, a migliaia e migliaia imprigionati e torturati a morte dai “liberatori”, stanno già combattendo la loro Resistenza, e le loro strade sono già lastricate di sangue. Non c’è altra strada per liberarsi dalle catene imposte senza scrupolo dai banksters gangsters stranieri e dai loro tirapiedi locali.

Gli italiani non credano che liberarsi degli strozzini planetari, che si sono impadroniti della loro terra, che si sono arroccati come un cancro maligno nei gangli del potere e nelle istituzioni, che sono radicati come sanguisughe sulla pelle della gente che lavora onestamente, sarà cosa facile e indolore: la Resistenza (1) non è un pranzo di gala.


di Filippo Fortunato Pilato


(1) la Resistenza vera, autentica, da non confondersi col termine “resistenza” usurpato dai collaborazionisti, col quale si indica invece l’Italia incaprettata e regalata agli USA del ‘Piano Marshal’…

21 gennaio 2012

Ma che cos'è il mercato? (E il complottismo?)

Risposta di Federico Zamboni a un commento di un lettore, su un tema interessante per tutti.


Gentile Federico,

apprezzo il suo scritto. Epurando l'aspetto di costume (eventuali uomini incappucciati..) dal concetto, il nodo, per dirimere lo stesso, è nel dato oggettivo. Il dato oggettivo è nella prova. Elemento questo che sposta l'evento, dall'ipotesi alla certezza.

Nell'ampliamento sematico del termine.. gli esempi di vita quotidiana da lei riportati sono giustamente congrui... E proprio da tali esempi che è possibile spostare l'asse del discorso nei seguenti termini: "I soggetti che si coalizzano per far carriera guardandosi bene dal dirlo a colleghi o superiori" sono soggetti agenti o prodotto del sistema? In altri termini: sarebbe possibile far carriera se non ci si coalizzasse? Tralascio il giudizio di valore del far carriera che mi è estraneo... Ma se la si vuole fare (la carriera) queste sono le condizioni: coalizzarsi. E nel coalizzarsi è insito l'occulto.

Ora: l'esempio è di fatto generico ma serve ad evidenziare gli aspetti del ragionamento, che per chi scrive, risiedono nel sistema, che, sempre per chi scrive è perfetto sinonimo di mercato.

E allora: le lobby che agiscono nel mercato, sono prodotto dello stesso (traendone, si intende, il maggior profitto possibile, coalizzandosi spesso con fini speculativi) o viceversa esercitano su di esso controllo e direzione? Personalmente, protendo per la prima ipotesi.

Ma che cos'è il mercato? E' sicuramente l'iperproduzione di merci delle multinazionali. E' anche però l'azienda locale che produce beni o servizi. Sono le oligarchie economiche che raggiungono ampi guadagni in modo più o meno lecito, ma anche il semplice operatore finanziario che esercita una professione e consiglia i propri clienti nell'ottenere un guadagno. (Qui conosco la vostra obiezione che tende ad evidenziare che il LAVORO deve generare qualcosa di concreto... però i mercati finanziari, nella loro accezione originaria hanno anchessi un merito che è quello di finanziare le aziende). E ancora: il mercato è l'insieme dei consumatori che acquistano, guidati da desideri indotti, oggetti per sostituire inconsapevolmente desideri primari, ma anche i GAS. Il mercato è l'azienda agricola che produce prodotti biologici ma anche la multinazionale che produce grano. Il mercato, per finire, sono milioni di merci prodotte ed acquistate ma anche il prodotto La Voce del Ribelle che, piaccia o meno è anch'esso un prodotto editoriale e quindi di mercato. Che qualcuno acquista perchè ne ha bisogno, perchè lo trova utile. Perchè per qualcuno, è fonte di identità.

E che differenza c'è tra me che acquisto La voce del Ribelle e chi acquista un capo di abbigliamento di marca?

Una delle risposte è sicuramente nella finalità. Un'altra è nella possibile necessità di consapevolezza. Rimaniamo, però, attenzione, sempre nel concetto di mercato.

E allora: esiste un mercato buono ed uno cattivo? E in altri termini: esiste il giusto e lo sbagliato? Il bene e il male? O semplicemente uno è prodotto dell'altro?

La via d'uscita sono le regole. Mettere regole al mercato. Perchè solo con regole rigide e severe sarà possibile riportare il concetto al suo giusto valore che sta nell'essere uno tra i tanti aspetti dell'esistenza piuttosto che l'esistenza.

Andrea Samassa

R

Caro Andrea, sull’idea che alla base di quello che sta accadendo in campo economico e sociale ci sia un “sistema” sono d’accordo. Così come lo sono sul fatto che la quasi totalità di quelli che si adeguano ai suoi condizionamenti – subendoli per un verso e rafforzandoli per l’altro, come i detenuti che si prestano a fare da sorveglianti e tiranneggiano i loro stessi compagni di prigionia – non fanno altro che muoversi all’interno di regole che non hanno scelto e di meccanismi che li sovrastano e sui quali non hanno nessun potere di modifica.

Ma il punto, e in questo direi che divergiamo, è che secondo me questo sistema non è affatto casuale. E men che meno, al contrario di ciò che postulano i liberisti, è il riflesso di una tendenza “naturale”, e perciò insopprimibile, ad agire in termini utilitaristici, che inducono a imperniare la propria condotta – e persino la propria esistenza – su criteri analoghi a quelli di un’impresa. Si fa quello che è più vantaggioso per sé e non ci si preoccupa delle conseguenze che si producono sugli altri. La generica idea di vantaggio (che si presta anche a una declinazione psicologica, ma su questo tornerò più avanti) si irrigidisce in quella di profitto, ovverosia di beneficio misurabile sotto forma di denaro, spianando la strada alle sue versioni estremizzate che sono il massimo profitto, l’interesse usurario e la speculazione finanziaria.

Una volta che si sia assorbita in profondità questa concezione, fino a non rendersi più conto che non è affatto una modalità spontanea e universale degli esseri umani ma una costruzione teorica quanto mai opinabile, e parecchio sordida, il danno è pressoché irreversibile. I suoi pseudo valori diventeranno gli unici, o quelli dominanti, intorno ai quali organizzare (organizzare!) la propria vita. Al punto che non ci si chiederà più se una certa condotta vada giudicata alla luce di criteri diversi dal guadagno e, nella migliore delle ipotesi, dell’osservanza formale delle leggi.

Se questo sistema non è spontaneo, quindi, non è peregrino ipotizzare che esso sia stato sviluppato, se non proprio ideato a priori, da chi riteneva di potersene servire per raggiungere i propri scopi. Ed è già in questo tratto, o se si vuole in questo vizio d’origine, che affondano le radici dell’attuale, dilagante tendenza all’arbitrio e alla manipolazione. I cosiddetti “complotti”, in fin dei conti, non sono altro che questo: operazioni occulte di particolare gravità, che vengono mascherate da eventi accidentali, attribuiti a nient’altro che all’imponderabile azione delle forze in campo. Le quali, sempre secondo questa rappresentazione auto assolutoria, sono innumerevoli e nella loro essenza indipendenti l’una dall’altra, benché legate tra loro dall’obiettiva e inevitabile condivisione di certe regole del gioco. Detto in una parola, utilizzata di continuo per sintetizzare questa pretesa libertà assoluta che in quanto tale sarebbe refrattaria a qualunque regia complessiva, il celebratissimo “mercato”.

A ben riflettere, invece, la manipolazione per eccellenza è proprio quella che va al di là del caso specifico, per quanto rilevante, e si estende alla realtà nel suo insieme. Il singolo giocatore truffaldino è un semplice baro, e ha una pericolosità limitata. Quello che è davvero temibile è quello che mette in piedi un casinò. O una catena di casinò. Apparentemente sottostà a delle regole, che sono all’incirca le stesse dei suoi clienti-avversari. In realtà le regole sono fatte apposta per favorire lui. Vedi lo zero nel gioco della roulette. O l’elemento statistico negli altri giochi d’azzardo, nonché in quell’apoteosi dell’alea, e perciò dell’ottusità compulsiva di chi ci butta i propri soldi, che sono le slot-machine.

Se poi il nostro biscazziere è davvero furbo, e di solito lo è, allora non si accontenta di fare leva sulle attrattive del gioco in quanto tale, ma vi affianca una serie di ulteriori elementi di pressione psicologica. Che sono tutti, Las Vegas docet, nel segno dell’ebbrezza e dello stordimento. Ovverosia, per abbandonare l’esempio e tornare ai processi economici veri e propri, di quella smania di arricchirsi e di consumare che è l’architrave dell’istupidimento contemporaneo.

Come ricorda Jeremy Rifkin nel suo “La fine del lavoro”, a inizio Novecento i lavoratori statunitensi non erano affatto propensi a lavorare di più solo perché ne avrebbero ricavato un aumento della retribuzione. La loro scala valoriale era un’altra, e anteponeva il tempo libero da dedicare a ciò che preferivano, ivi inclusi gli affetti, al possesso di maggiori quantità di denaro. Ergo, vennero avviate delle massicce campagne pubblicitarie per enfatizzare non solo l’attrattiva di questa o quella merce, ma per instillare la convinzione che un più alto livello di consumo qualificasse in senso positivo l’acquirente e comportasse un riconoscimento sociale. E che, pertanto, fosse più che mai desiderabile.

Come la vogliamo definire, un’operazione di questa natura e di questo calibro? E perché mai non la dovremmo assimilare a un “complotto”, nel senso di una strategia, deliberata, e deteriore, e occulta, che mira a corrompere la popolazione e ad asservirla alle mire di un’oligarchia di sfruttatori?

Un’ultima considerazione, infine, riguardo all’idea che in fondo rientri tutto nel mercato, inteso come l’ambito in cui si iscrive qualsiasi attività umana imperniata sulla cessione di qualcosa che può essere oggetto di compravendita. Cito dal post: «Il mercato è l'insieme dei consumatori che acquistano, guidati da desideri indotti, oggetti per sostituire inconsapevolmente desideri primari, ma anche i GAS. Il mercato è l'azienda agricola che produce prodotti biologici ma anche la multinazionale che produce grano. Il mercato, per finire, sono milioni di merci prodotte ed acquistate ma anche il prodotto La Voce del Ribelle che, piaccia o meno è anch'esso un prodotto editoriale e quindi di mercato. Che qualcuno acquista perchè ne ha bisogno, perchè lo trova utile. Perchè per qualcuno, è fonte di identità.E che differenza c'è tra me che acquisto La voce del Ribelle e chi acquista un capo di abbigliamento di marca?».

Non ci siamo. La Voce del Ribelle non è affatto un prodotto, nel senso che non nasce per conseguire un profitto. Come ha spiegato tante e tante volte Valerio Lo Monaco, quello che noi definiamo “abbonamento”, come si usa dire in ambito editoriale, è in realtà un contributo alla nostra iniziativa, che non si prefigge alcuno scopo di lucro. Noi siamo costretti, nostro malgrado, a fissare un “prezzo” per poter disporre delle risorse necessarie a proseguire l’attività e magari a migliorarla, ma il nostro obiettivo non è certo incassare il più possibile. Saremmo degli idioti assoluti, se fosse così. Perché ci saremmo scelti un mercato che praticamente non esiste, e che d’altronde noi non facciamo nulla per creare, o ampliare, accattivandoci i potenziali lettori a colpi di proclami massimalisti e di requisitorie che fanno leva sull’emotività.

E allora, per rispondere alle domande finali, la risposta è sì. Secondo me esistono eccome «un mercato buono e uno cattivo». Quello che specula sull’avidità materiale, e sull’insicurezza psicologica, è il mercato cattivo. L’altro, che si concentra sul valore intrinseco di ciò che crea (“crea”, non “produce”), è quello buono. E lo è, innanzitutto, perché non nasce come mercato, e dunque per vendere qualcosa a qualcuno e ritrarne un profitto, ma come occasione di scambio reciproco. Il tempo di uno ha generato un bene. Il tempo di un altro ne ha generato uno diverso. Il denaro, finché non si tramuta nel mostro incontrollabile e autoreferenziale che sappiamo, sostituisce il baratto. Ma non ne dimentica la funzione. Non ne tradisce lo spirito. E non esclude il piacere, la gioia, la libertà assoluta e rinfrancante del dono.

di Federico Zamboni

20 gennaio 2012

L'inganno delle liberalizzazioni: siamo cittadini o consumatori?

Rivolta tassisti
La strategia del governo sembra essere quella del "divide et impera": attaccare la cittadinanza sotto la forma di categorie di consumo

“Divide et impera” dicevano gli antichi romani, che usavano la locuzione per intendere il loro modo di governare il territorio italiano e di evitare rivolte da parte delle popolazioni italiche sottomesse. Due millenni e mezzo dopo la strategia sembra essere ancora valida, ed è utilizzata comunemente dal potere. Ne è un esempio il decreto liberalizzazioni che verrà varato oggi.

Dopo la cosiddetta manovra 'salva-Italia', che colpiva tutti più o meno indiscriminatamente – senza ombra della tanto sbandierata equità – dalle parti di palazzo Chigi devono aver pensato che era cosa assai rischiosa inimicarsi l'intera popolazione, coesa, tutta assieme.

Ed ecco che nel nuovo decreto liberalizzazioni si adotta la strategia del motto latino. Non si attacca più un'indistinta cittadinanza, ma tanti suoi piccoli sottogruppi diversi: le categorie. Ciascuna di loro, vedendo i propri interessi attaccati, sarà così portata a reagire separatamente.

Prendiamo l'esempio dei tassisti. Il decreto prevede la liberalizzazione delle licenze, e l'annullamento della territorialità. Chi è in possesso di una licenza adesso – l'avrà pagata attorno ai 150mila euro, prezzo medio in Italia – con ogni probabilità si sarà immaginato, al momento dell'acquisto, di rivenderla a fine carriera, facendosi così una sorta di pensione, o buonuscita che dir si voglia. E la territorialità, ovvero del fatto che ogni licenza fosse limitata ad un determinato territorio in cui esercitare, serviva a proteggere il lavoro dei tassisti “autoctoni”, nei periodi di maggior richiesta.

Dunque immaginiamoci un tassista giunto più o meno ad età pensionabile, senza grandi risparmi da parte. Egli immaginava di trascorrere in pace la vecchiaia grazie ai soldi della licenza, che a suo tempo pagò una cifra ragguardevole, ed invece si ritrova con niente in mano e costretto a lavorare in condizioni peggiori di quelle a cui è sempre stato abituato, gettato nella mischia della competizione nazionale. Non ha diritto di protestare?

E il discorso fatto per i tassisti vale anche per i benzinai, che annunciano scioperi prolungati – fino a dieci giorni – per protesta contro la scelta di intervenire sull'esclusiva di fornitura nella rete carburanti, che rischia di schiacciare gli esercenti fra i pesi dei colossi petroliferi e le richieste dei mercati.

Ma per gli altri cittadini – per i cittadini non tassisti e non benzinai – queste proteste non sono che potenziali disagi. Il fatto è che le categorie sono facili da attaccare. Basta chiamarle caste, convincere i cittadini che quelli di cui godono sono dei privilegi che ricadono sulle loro spalle, che i servizi che offrono potrebbero essere molto più economici ed il gioco è fatto. Con l'aiuto dei media mainstream, si può così far sorgere nella cittadinanza una certa insofferenza nei confronti delle categorie, i cui membri ci appariranno come estremamente egoisti: arroccati a difesa dei propri interessi senza pensare al bene del paese.

Ma osservando la situazione più da vicino ci si accorge che non è così. Pur procedendo separatamente, per compartimenti stagni, la manovra del governo sta compiendo un furto complessivo dei diritti dei lavoratori (e dei cittadini), in nome di più generici diritti dei consumatori. Si sta in pratica compiendo un passo enorme da uno “stato di diritto”, dove ad essere tutelati sono i cittadini in quanto tali, ad uno “stato di mercato”, dove i cittadini sono tutelati solo nella loro dimensione di consumatori.

Il problema è che, se da un lato ci attaccano separatamente, perché ciascuno di noi apparterrà ad una soltanto delle categorie che via via passeranno sotto la macina delle liberalizzazioni, dall'altro si promettono benefici comuni, in quanto tutti rientriamo nella odiosa categoria dei consumatori. Dunque, a meno che non sia la nostra categoria ad essere attaccata in quel preciso momento, con ogni probabilità ci schiereremo dall'altra parte, dal lato dei consumatori, pronti ad attaccare i privilegi delle caste.

Ma siamo davvero consumatori prima che cittadini? E siamo sicuri che il libero mercato sia lo strumento adatto per regolare al meglio le nostre necessità? Torniamo per un attimo ai tassisti. Cosa comporteranno le liberalizzazioni? Probabilmente molti più taxi in giro, a prezzi sicuramente più economici. E chi li utilizzerà? In parte chi fino ad ora si spostava con il proprio mezzo; in buona parte – una parte probabilmente maggiore – chi utilizzava per convenienza, o per mancanza di mezzi propri, i mezzi pubblici.

Ma ha senso, proprio adesso, in piena crisi ambientale, con l'aria delle città sempre più irrespirabile, le riserve di petrolio mondiali giunte agli sgoccioli – e posizionate in luoghi sempre più difficili da raggiungere – incentivare il trasporto privato? Non preferiremmo piuttosto – come cittadini non come consumatori – avere un servizio di trasporto pubblico efficiente, di cui usufruire tutti a costi accessibili, e limitare i taxi ed i mezzi privati alle emergenze ed alle eventualità?

Ma i mercati non ascoltano i cittadini ma solo i consumatori. Non sanno cosa “è meglio”, solo cosa è “più conveniente”. Sono un meccanismo ottuso, che risponde soltanto a stimoli economici. È contro questo sistema che dobbiamo ribellarci, tutti assieme, mettendo da parte le categorie. Essere cittadini, una volta tanto.

di Andrea Degl'Innocenti