21 marzo 2012

Monti, lo stalinista americano che devasterà gli italiani

I colpi di Stato? Oggi non si fanno più coi carri armati, ma con un’abile gestione extraparlamentare di magistrati, giornalisti ed economisti. «È il post-moderno, bellezza!», ironizza il filosofo Costanzo Preve, che denuncia due golpe: «Quello di Monti del 2011 non è il primo ma il secondo, dopo quello di Mani Pulite del 1992», un “colpo di stato giudiziario” per abbattere il sistema partitico della Prima Repubblica, «non certo più corrotto di quello venuto dopo, ma pur sempre garante di un certo assistenzialismo sociale e di una sovranità monetaria dello Stato nazionale, sia pure all’interno dello schieramento post-bellico americano». Stavolta non c’è stato neppure bisogno di manette: «Sono bastati i mercati internazionali e soprattutto la regia di Napolitano, il rinnegato ex-comunista passato al servizio degli americani».

Già nel ’92, aggiunge Preve nel suo dialogo con Luigi Tedeschi sulla “mutazione antropologica degli italiani” pubblicato da Arianna editrice e Stalinripreso da “Megachip”, era stato decisivo l’ex Pci nell’assestare il “colpo di Stato giudiziario extraparlamentare”, Stessi attori, sempre in prima linea: «Allora per odio verso Craxi, oggi per odio verso Berlusconi, entrambi già largamente indeboliti e delegittimati da asfissianti campagne di stampa». Orfani di Berlinguer, quelli che Preve chiama “rinnegati” si trovavano «improvvisamente privi di qualunque legittimazione storico-politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa politologica». I seguaci identitari «furono prima fanatizzati contro Craxi (il corrottone, il porcone, il maialone), e poi contro Berlusconi (il nano di Arcore, il puttaniere, il crapulone)». L’eterogenesi dei fini, segnalata da Vico, si è sposata con l’astuzia della ragione storica teorizzata da Hegel.

«La politica non è stata sconfitta solo nel 2011, perché era già stata sconfitta nel 1992», aggiunge Preve. Inoltre, l’Italia nel 2011 non è stata sconfitta solo una volta, ma due: la prima volta in Libia, dove «è stata costretta dalla Nato a fare una guerra contro i più elementari interessi nazionali ed economici, con barbarico linciaggio finale del nazionalista panarabo nasseriano Gheddafi, trasformato in feroce dittatore dai gestori simbolici monopolisti dei cosiddetti “diritti umani”». La seconda volta appunto a Roma, con il commissariamento diretto del suo governo. Destra e sinistra? Ormai sono solo «segnali stradali e simboli di costume extra-politico». Esempio: «La sinistra vota il transessuale Luxuria, mentre la destra non lo voterebbe Norberto Bobbiomai». Dicotomia ormai inesistente, eppure «continuamente reimposta, per motivi di tifo sportivo, dal ceto intellettuale».

Pura manipolazione simbolica, dice Preve, dotata di un potere inerziale ancora forte anche se non più fondato sulla realtà. «Quando Bobbio difese la dicotomia, sostenendo che la sinistra era egualitaria e la destra anti-egualitaria, descriveva uno scenario sorpassato, perché questo scenario presupponeva la sovranità monetaria dello Stato nazionale e delle scelte politiche alternative di redistribuzione dal reddito». Ora questo scenario non esiste più. Ad al suo posto, ci sono solo «questioni di gusto estetico e di snobismo culturale». La classe politica ? «Si è allineata a Monti non per responsabilità, ma proprio per il suo contrario, per deresponsabilizzazione». I politici, «ricattati dalle polemiche contro la “casta” e inseguiti dalle plebi furiose per i loro privilegi alla mensa semigratuita di Montecitorio», si sono «consegnati ad una “giunta di economisti” per cercare di zittire, almeno provvisoriamente, il linciaggio mediatico».

Quello di Monti? Un ben strano liberalismo, perché il fondamento del liberalismo nella sua moderna forma liberaldemocratica è la volontà popolare espressa da un corpo elettorale sovrano, laddove il caso della Grecia, ma anche quello della giunta Monti, ci mostra l’esatto contrario. «Nel Medioevo c’erano i Re Taumaturghi. Ma oggi il medioevo è finito, e ci sono gli Economisti Taumaturghi». Il modello capitalistico di Smith ed il modello comunista di Marx, ricorda Preve, avrebbero entrambi dovuto funzionare senza Stato, o con uno “Stato minimo” tendente verso lo zero. «Pura utopia modellistica astratta». In realtà, il comunismo di Marx nel ‘900 «funzionò unicamente con lo Stato, anzi con uno stato autoritario di partito monopolista del potere, dell’economia e della cultura». Idem il Adam Smithcapitalismo di Locke e di Smith: «Funzionò unicamente incrementando il dirigismo statale al servizio dell’accumulazione capitalistica».

Poteva andare diversamente? No, perché «un mercato puro, senza intervento riequilibratore di un potere statale, getterebbe nella miseria più nera la stragrande maggioranza della popolazione». Finché sono ancora in funzione le solidarietà comunitarie pre-capitalistiche (famiglia, tribù), c’è ancora riparo, ma con la generalizzazione dell’individualismo anomico ci sarebbe solo la guerra di tutti contro tutti, come mostra il tragico esempio della Grecia di oggi. «E’ dunque del tutto triste, ma anche fisiologico, che al bel comunismo utopico ma inapplicabile di Marx succeda il comunismo autoritario ma “realistico” di Lenin e di Stalin. Ed è pertanto fisiologico che al capitalismo utopico di Locke e di Smith succeda il capitalismo oligarchico ma “realistico”, di Draghi e di Monti».

La «dittatura oligarchica dei mercati di Draghi e di Monti» è fuori dal liberismo che si studia nelle università: «Si tratta di uno scenario completamente nuovo, di un capitalismo assoluto o “speculativo”». Potremo difenderci da questa sorta di “stalinismo occidentale”? Non nel breve periodo, dice Preve: «Non possiamo aspettarci a breve termine un risveglio di coscienza e di conoscenza: troppo forti sono le forze inerziali della simulazione destra-sinistra, dell’identitarismo di partito di origine Pci, dell’antifascismo in assenza di fascismo e dell’anticomunismo in assenza di comunismo, oltre alle cantilene del politicamente corretto». Per il filosofo, «questa dittatura dei mercati è ancora relativamente nuova ed inedita, ed é normale che in questo momento domini la paura ed il ricatto del mancato pagamento dei salari e delle pensioni». La realtà? «Siamo appena all’inizio Monti e Obamadel “tempo di cottura” che la storia ci prepara: la ricetta vuole il suo tempo».

Monti coltiva un disegno pericoloso: «Vuole attuare un progetto di ingegneria antropologica tipica del fanatico liberista che è». Mettendosi consapevolmente sulla scia di chi ha definito i giovani “bamboccioni” e “sfigati”, e non vittime di un ignobile sistema di lavoro flessibile e precario, Monti vorrebbe una sorta di artificiale anglosassonizzazione forzata della figura storica dell’italiano. «Come tutti gli economisti professionali, egli è probabilmente del tutto ignaro di storia e di filosofia, che ha certamente abbandonato con la fine degli studi liceali» e quindi sembra non sapere che l’utopia dell’uomo “nuovo”, dell’uomo rinato, «non nasce affatto con l’ingegneria economica oligarchica neo-liberale e le sue ignobili porcherie sul “lavoro fisso noioso”, la cui oscenità raggiunge quella di chi mette un affamato in guardia contro i pericoli dell’obesità e del colesterolo».

Stalin fu un grande sostenitore della “creazione sovietica dell’uomo nuovo”: «Ne abbiamo visto le conseguenze a medio termine, poco più di mezzo secolo». Il progetto di “americanizzazione antropologica forzata dagli italiani”, iniziata sul piano del costume con la sconfitta militare del 1945 «addossata al solo fascismo», secondo Preve «solo ora, nel 2012, può realmente dispiegarsi senza ostacoli, con l’integrazione completa in questo progetto del ceto politico e del clero intellettuale, giornalistico ed universitario». Monti sembra “l’uomo dei tedeschi”, perché da essi mutua la politica recessiva e l’ossessione anti-keynesiana del pareggio del bilancio, Costanzo Prevema in realtà è “l’uomo degli americani”: «Si è creduto a lungo che una Europa unificata dall’euro potesse in prospettiva fare da contraltare strategico all’arroganza unipolare degli Usa, e con questo argomento l’unità europea fu “venduta” alla sinistra ed al suo variopinto circo intellettuale».

La tradizionale disattenzione degli italiani per la politica estera, «tipica di un paese privo di sovranità politica e militare», ha fatto sì che passassero praticamente inosservate le nomine dei nuovi ministri degli esteri e della difesa, «un diplomatico di carriera amico della Clinton ed un ammiraglio bombardatore in Afghanistan per conto della Nato». I due personaggi che hanno sostituito «i precedenti pittoreschi berlusconiani Frattini e La Russa», in realtà sono «servi degli Usa al cento per cento». Berlusconi? Non poteva certo piacere a Washington: non solo per il suo «stile di vita immorale di puttaniere, improponibile all’ipocrita puritanesimo Usa», ma soprattutto per i suoi “giri di valzer” con Gheddafi e con Putin, «fatti non certo per ragioni politiche o geopolitiche, ma per il vecchio fiuto del faccendiere e del venditore “chiavi in mano”». E ora, eccoci serviti. «Sono ottimista sulla nascita di anticorpi di resistenza – conclude Preve – ma ci vorrà sicuramente del tempo: probabilmente, molto più tempo di quello che resta alla nostra generazione».
di Giorgio Cattaneo

20 marzo 2012

La dittatura del presente

«La crisi provocata dalla finanza ci ha rubato il futuro. Lo ha letteralmente seppellito sotto le paure del presente. Tocca a noi riprendercelo». A dirlo è Marc Augé, uno dei più celebri antropologi del mondo, nel suo ultimo libro, Futuro, (Bollati Boringhieri). Misura accuratamente le parole l´autore di Non luoghi. Non ha la veemenza né l´irruenza del tribuno, eppure dietro la sua riflessione pacata si avverte il rigore inflessibile dell´illuminista. Che lascia al mondo una speranza: quella di essere salvati dalle donne.
Perché per la maggior parte delle persone l´avvenire è diventato un incubo più che una speranza?
«Le cause sono molte, ma due mi sembrano decisive. L´accelerazione impressa alle nostre esistenze dalle nuove tecnologie e la crisi della finanza. Una miscela esplosiva che ha cambiato l´esperienza individuale e collettiva del tempo. Facendo dilagare l´incertezza, rendendo epidemico il timore di ciò che ci aspetta».
Trasformando insomma il futuro in un frutto avvelenato.
«Intossicato da un´incertezza che accomuna tutti. I giovani temono di non trovare un lavoro, di non poter progettare il loro avvenire e si sentono bloccati in un eterno presente fatto di precarietà. I loro padri invece hanno paura di perdere la pensione, l´assistenza sociale, di finire in miseria».
Il risultato è che la vita sembra impallata in un immobilismo senza uscita. Senza progresso.
«Senza più alcuna speranza di mobilità sociale. È questa la differenza con il passato. Mio nonno non aveva potuto studiare, ma era un uomo intelligente e ha investito sulla formazione dei suoi figli. Mio padre era un funzionario statale e ha voluto che io diventassi un intellettuale, realizzando in me i suoi sogni. Questo è stato possibile grazie alla scuola pubblica e all´istruzione di massa. Oggi non è più così».
Anche perché ormai la scuola riproduce le ineguaglianze, le conferma, non mira più a colmarle, a stemperarle.
«Questo è vero per la scuola come per tutti gli altri dispositivi di formazione pubblica. È il caso dell´abolizione del servizio militare che ha ridotto le occasioni di incontro, di rimescolamento e di livellamento delle diverse classi, appartenenze, culture, ceti. Così il corpo sociale è sempre più immobile, ciascuno chiuso nei propri quartieri, nelle proprie scuole, nelle proprie famiglie, con una tendenza quasi castale, premoderna».
Tipica di una civiltà che ha abolito i riti di passaggio, le tappe iniziatiche della vita, rendendo difficile costruirsi un avvenire. Così di fatto stazioniamo tutti in un perpetuo hic et nunc.
«Effettivamente noi viviamo in una sorta d´ipertrofia del presente. Che è amplificata dai media, vecchi e nuovi. In un certo senso il nostro tempo non è più lineare ma circolare. Come quello delle società primitive, come quello del mondo contadino. Fondati sull´alternanza delle stagioni. E anche noi del resto viviamo di stagioni: sportive, scolastiche, politiche».
Un´esistenza ridotta a calendario. L´opposto del tempo storico, del progresso, del sol dell´avvenire.
«È il contrario di quello che si pensa comunemente della civiltà tecnologica che sarebbe perennemente protesa verso l´innovazione. Invece siamo prigionieri di una sorta di eterno ritorno scandito non più dai rintocchi delle campane, ma dai palinsesti televisivi e dai ritmi della finanza globale. Viviamo più a lungo, ma iniziamo a vivere più tardi. Pensi alla rivoluzione francese. È stata fatta da persone che avevano poco più di vent´anni. Erano dei ragazzi ma cambiarono il corso della storia. Paradossalmente la vita più breve costringeva tutti a maturare più rapidamente».
Quindi la globalizzazione ha globalizzato anche il tempo?
«Proprio così, oggi il tempo è diventato l´unità di misura di tutto, anche dello spazio. Non parliamo più in termini di distanza chilometrica ma di tempo di percorrenza. Tre ore di volo. Due di alta velocità. Quattro di autostrada. E i nostri riferimenti sono globali, non più nazionali. Città e non paesi. Si parla di New York, Mumbai, San Paolo, Parigi. L´insieme forma una nuova geografia, un´inedita territorialità virtuale. In questo senso la tecnologia e l´economia sono più veloci e potenti della politica. E la mettono nell´angolo».
Dai non luoghi ai non tempi. È il capitalismo finanziario globale che riscrive le coordinate della realtà.
«Il capitalismo finanziario di fatto ha realizzato a suo modo l´ideale universalista del proletariato di una volta, il cosiddetto internazionalismo socialista».
Come dire, proprietari di tutto il mondo unitevi.
«Ovviamente la finanza ha trasformato l´universalismo in globalismo, in economia multinazionale. Ecco perché le ineguaglianze sono aumentate nonostante l´ingresso di nuovi protagonisti sulla scena della storia».
È anche per questo che la politica è ormai ridotta a governance, a semplice gestione di consumi e servizi?
«Sì e per giunta si tratta di cattiva gestione. È un´idea della politica da fine della storia. Con un certo modello di libero mercato e di democrazia che si mondializzano e diventano pensiero unico, non resta altro che assicurare il buon funzionamento del mercato. Così il mondo viene ridotto a un´unica immensa provincia. È l´ultimo atto di quel tramonto delle grandi narrazioni, filosofiche, politiche, nazionali, in cui Jean-François Lyotard identifica lo spirito della postmodernità».
Ma allora è tutto perduto o possiamo fare qualcosa per riprenderci il futuro?
«A dispetto delle apparenze non tutto è perduto. Intanto dei varchi importantissimi li stanno aprendo passo dopo passo la scienza e la tecnologia. Noi siamo abituati a pensare che per creare un mondo nuovo si debba prima immaginarlo. Invece le grandi invenzioni che stanno rivoluzionando le nostre vite, dalla pillola a internet, non sono nate da un´immaginazione politica o da chissà quale utopia. Non da una grande narrazione, insomma, ma semplicemente dalle ricadute concrete delle scoperte scientifiche. Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo. Stiamo diventando degli esistenzialisti pragmatici. E da questo potrebbe nascere la nuova sfida per il futuro».
Quindi grazie alla scienza e alla tecnologia il futuro lo stiamo già vivendo senza saperlo?
«Sì, ma resta da fare il passo essenziale per diventare titolari del nostro avvenire».
Cioè?
«Raccogliere fino in fondo la sfida della conoscenza. È solo il sapere che può schiuderci le porte di un domani migliore. Forse il segreto della felicità degli individui e delle società sta nel cuore delle ambizioni più vertiginose della scienza. E per realizzarle le due priorità assolute sono il potenziamento immediato dell´istruzione pubblica e il raggiungimento effettivo dell´eguaglianza fra i sessi. Detto in altre parole: la scuola e la donna».
È per questo che lei fa l´elogio del peccato originale?
«Sì e non è solo un paradosso. È grazie a Eva che l´uomo ha mangiato il frutto dell´albero della conoscenza ed è diventato uomo. Così è iniziata la nostra storia e se vogliamo che ci sia un futuro dobbiamo continuare a mangiare quel frutto. Dividendo la mela in parti uguali».
di Marino Niola

17 marzo 2012

Amica Banca

Se qualcuno, per colpevole miopia, avesse ancora nutrito dei dubbi riguardo ai veri mandanti del golpe portato avanti da Mario Monti e dalla congrega di (ex?) banchieri che compongono il suo governo, da oggi non potrà più fingersi ipovedente o afflitto da bariacusia, ma sarà costretto a prender coscienza della realtà.
In un sistema dove tutto è costruito in funzione degli interessi delle banche, dalle grandi opere alle piccole leggine, dagli aiuti di stato miliardari ai cavilli burocratici. In un paese dove ormai tutti i cittadini sono stati costretti coercitivamente ad aprire almeno un conto corrente bancario e dotarsi di carta di credito. Dove prelevare il proprio denaro alla sportello è diventato esercizio simile all’accensione di un finanziamento, con tanto di interrogatorio concernente la destinazione d’uso del tuo denaro. Dove per chiudere un conto corrente occorre accendere un mutuo e operazioni che costano qualche tocco di tastiera vengono “vendute” al prezzo di decine di euro. Dove gli interessi sui conti correnti non esistono più, ma il mantenimento in vita degli stessi ti salassa ogni mese, come se invece di aver depositato denaro tuo stessi disponendo di un prestito. Dove anche l’ultimo pensionato è stato costretto a forza dall’usuraio ad accendere un conto corrente bancario, se vuole ancora vedere la sua misera pensione.
Le banche si lamentano, fanno i capricci, puntano i piedi e ritengono che il loro governo le abbia danneggiate….


Già, danneggiate, colpite nei loro interessi, defraudate del loro diritti, ostacolate in qualche misura nell’operazione di trasferimento di ricchezza dalle tasche dei cittadini ai loro forzieri, che portano avanti con costanza e cura certosina.
Un danno tanto ingiusto quanto inaccettabile, inflitto loro proprio dalla congrega di tecno banchieri che noi paghiamo profumatamente per rappresentarli. Quando nel decreto con cui ha liberammazzato l’Italia, Mario Monti, in un eccesso di “umanità” che non gli appartiene, ha ritenuto doveroso omaggiare i pensionati (che aveva costretto ad aprire un conto corrente) dell’elemosina consistente nella gratuità degli stessi, per coloro che percepivano meno di 1500 euro.

Ma stiamo scherzando? Da quando in qua banche ed usurai, sia pur in circostanze eccezionali, dovrebbero essere costretti a lavorare gratis? Si cancelli subito quella norma o non risponderemo delle nostre azioni, hanno tuonato sdegnati i vertici dell’Abi.


Richiamato all’ordine per la disattenzione e reduce dalla tirata di orecchie, Mario Monti in tutta fretta ha ribadito che rimedierà immediatamente a tanta lesa maestà. In pochi giorni sarà pronto un decreto che imporrà anche ai pensionati a reddito basso di pagare la rata del conto corrente.

Ma cosa vuole questa gentaglia senza arte né parte, composta da disoccupati, nullafacenti e pensionati? Il nostro sangue?
Noi lavoriamo (mica come loro) e abbiamo diritto al nostro profitto. Permettiamo ancora che giustificandone la ragione ritirino il denaro dai conti correnti, abbiamo messo a governarli i nostri uomini migliori, facciamo prestito a chi non ne ha bisogno e agli altri diciamo di arrangiarsi senza neppure sputare loro in faccia e non sono mai contenti.
Che brutta razza di ingrati questi italiani!
di Marco Cedolin

21 marzo 2012

Monti, lo stalinista americano che devasterà gli italiani

I colpi di Stato? Oggi non si fanno più coi carri armati, ma con un’abile gestione extraparlamentare di magistrati, giornalisti ed economisti. «È il post-moderno, bellezza!», ironizza il filosofo Costanzo Preve, che denuncia due golpe: «Quello di Monti del 2011 non è il primo ma il secondo, dopo quello di Mani Pulite del 1992», un “colpo di stato giudiziario” per abbattere il sistema partitico della Prima Repubblica, «non certo più corrotto di quello venuto dopo, ma pur sempre garante di un certo assistenzialismo sociale e di una sovranità monetaria dello Stato nazionale, sia pure all’interno dello schieramento post-bellico americano». Stavolta non c’è stato neppure bisogno di manette: «Sono bastati i mercati internazionali e soprattutto la regia di Napolitano, il rinnegato ex-comunista passato al servizio degli americani».

Già nel ’92, aggiunge Preve nel suo dialogo con Luigi Tedeschi sulla “mutazione antropologica degli italiani” pubblicato da Arianna editrice e Stalinripreso da “Megachip”, era stato decisivo l’ex Pci nell’assestare il “colpo di Stato giudiziario extraparlamentare”, Stessi attori, sempre in prima linea: «Allora per odio verso Craxi, oggi per odio verso Berlusconi, entrambi già largamente indeboliti e delegittimati da asfissianti campagne di stampa». Orfani di Berlinguer, quelli che Preve chiama “rinnegati” si trovavano «improvvisamente privi di qualunque legittimazione storico-politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa politologica». I seguaci identitari «furono prima fanatizzati contro Craxi (il corrottone, il porcone, il maialone), e poi contro Berlusconi (il nano di Arcore, il puttaniere, il crapulone)». L’eterogenesi dei fini, segnalata da Vico, si è sposata con l’astuzia della ragione storica teorizzata da Hegel.

«La politica non è stata sconfitta solo nel 2011, perché era già stata sconfitta nel 1992», aggiunge Preve. Inoltre, l’Italia nel 2011 non è stata sconfitta solo una volta, ma due: la prima volta in Libia, dove «è stata costretta dalla Nato a fare una guerra contro i più elementari interessi nazionali ed economici, con barbarico linciaggio finale del nazionalista panarabo nasseriano Gheddafi, trasformato in feroce dittatore dai gestori simbolici monopolisti dei cosiddetti “diritti umani”». La seconda volta appunto a Roma, con il commissariamento diretto del suo governo. Destra e sinistra? Ormai sono solo «segnali stradali e simboli di costume extra-politico». Esempio: «La sinistra vota il transessuale Luxuria, mentre la destra non lo voterebbe Norberto Bobbiomai». Dicotomia ormai inesistente, eppure «continuamente reimposta, per motivi di tifo sportivo, dal ceto intellettuale».

Pura manipolazione simbolica, dice Preve, dotata di un potere inerziale ancora forte anche se non più fondato sulla realtà. «Quando Bobbio difese la dicotomia, sostenendo che la sinistra era egualitaria e la destra anti-egualitaria, descriveva uno scenario sorpassato, perché questo scenario presupponeva la sovranità monetaria dello Stato nazionale e delle scelte politiche alternative di redistribuzione dal reddito». Ora questo scenario non esiste più. Ad al suo posto, ci sono solo «questioni di gusto estetico e di snobismo culturale». La classe politica ? «Si è allineata a Monti non per responsabilità, ma proprio per il suo contrario, per deresponsabilizzazione». I politici, «ricattati dalle polemiche contro la “casta” e inseguiti dalle plebi furiose per i loro privilegi alla mensa semigratuita di Montecitorio», si sono «consegnati ad una “giunta di economisti” per cercare di zittire, almeno provvisoriamente, il linciaggio mediatico».

Quello di Monti? Un ben strano liberalismo, perché il fondamento del liberalismo nella sua moderna forma liberaldemocratica è la volontà popolare espressa da un corpo elettorale sovrano, laddove il caso della Grecia, ma anche quello della giunta Monti, ci mostra l’esatto contrario. «Nel Medioevo c’erano i Re Taumaturghi. Ma oggi il medioevo è finito, e ci sono gli Economisti Taumaturghi». Il modello capitalistico di Smith ed il modello comunista di Marx, ricorda Preve, avrebbero entrambi dovuto funzionare senza Stato, o con uno “Stato minimo” tendente verso lo zero. «Pura utopia modellistica astratta». In realtà, il comunismo di Marx nel ‘900 «funzionò unicamente con lo Stato, anzi con uno stato autoritario di partito monopolista del potere, dell’economia e della cultura». Idem il Adam Smithcapitalismo di Locke e di Smith: «Funzionò unicamente incrementando il dirigismo statale al servizio dell’accumulazione capitalistica».

Poteva andare diversamente? No, perché «un mercato puro, senza intervento riequilibratore di un potere statale, getterebbe nella miseria più nera la stragrande maggioranza della popolazione». Finché sono ancora in funzione le solidarietà comunitarie pre-capitalistiche (famiglia, tribù), c’è ancora riparo, ma con la generalizzazione dell’individualismo anomico ci sarebbe solo la guerra di tutti contro tutti, come mostra il tragico esempio della Grecia di oggi. «E’ dunque del tutto triste, ma anche fisiologico, che al bel comunismo utopico ma inapplicabile di Marx succeda il comunismo autoritario ma “realistico” di Lenin e di Stalin. Ed è pertanto fisiologico che al capitalismo utopico di Locke e di Smith succeda il capitalismo oligarchico ma “realistico”, di Draghi e di Monti».

La «dittatura oligarchica dei mercati di Draghi e di Monti» è fuori dal liberismo che si studia nelle università: «Si tratta di uno scenario completamente nuovo, di un capitalismo assoluto o “speculativo”». Potremo difenderci da questa sorta di “stalinismo occidentale”? Non nel breve periodo, dice Preve: «Non possiamo aspettarci a breve termine un risveglio di coscienza e di conoscenza: troppo forti sono le forze inerziali della simulazione destra-sinistra, dell’identitarismo di partito di origine Pci, dell’antifascismo in assenza di fascismo e dell’anticomunismo in assenza di comunismo, oltre alle cantilene del politicamente corretto». Per il filosofo, «questa dittatura dei mercati è ancora relativamente nuova ed inedita, ed é normale che in questo momento domini la paura ed il ricatto del mancato pagamento dei salari e delle pensioni». La realtà? «Siamo appena all’inizio Monti e Obamadel “tempo di cottura” che la storia ci prepara: la ricetta vuole il suo tempo».

Monti coltiva un disegno pericoloso: «Vuole attuare un progetto di ingegneria antropologica tipica del fanatico liberista che è». Mettendosi consapevolmente sulla scia di chi ha definito i giovani “bamboccioni” e “sfigati”, e non vittime di un ignobile sistema di lavoro flessibile e precario, Monti vorrebbe una sorta di artificiale anglosassonizzazione forzata della figura storica dell’italiano. «Come tutti gli economisti professionali, egli è probabilmente del tutto ignaro di storia e di filosofia, che ha certamente abbandonato con la fine degli studi liceali» e quindi sembra non sapere che l’utopia dell’uomo “nuovo”, dell’uomo rinato, «non nasce affatto con l’ingegneria economica oligarchica neo-liberale e le sue ignobili porcherie sul “lavoro fisso noioso”, la cui oscenità raggiunge quella di chi mette un affamato in guardia contro i pericoli dell’obesità e del colesterolo».

Stalin fu un grande sostenitore della “creazione sovietica dell’uomo nuovo”: «Ne abbiamo visto le conseguenze a medio termine, poco più di mezzo secolo». Il progetto di “americanizzazione antropologica forzata dagli italiani”, iniziata sul piano del costume con la sconfitta militare del 1945 «addossata al solo fascismo», secondo Preve «solo ora, nel 2012, può realmente dispiegarsi senza ostacoli, con l’integrazione completa in questo progetto del ceto politico e del clero intellettuale, giornalistico ed universitario». Monti sembra “l’uomo dei tedeschi”, perché da essi mutua la politica recessiva e l’ossessione anti-keynesiana del pareggio del bilancio, Costanzo Prevema in realtà è “l’uomo degli americani”: «Si è creduto a lungo che una Europa unificata dall’euro potesse in prospettiva fare da contraltare strategico all’arroganza unipolare degli Usa, e con questo argomento l’unità europea fu “venduta” alla sinistra ed al suo variopinto circo intellettuale».

La tradizionale disattenzione degli italiani per la politica estera, «tipica di un paese privo di sovranità politica e militare», ha fatto sì che passassero praticamente inosservate le nomine dei nuovi ministri degli esteri e della difesa, «un diplomatico di carriera amico della Clinton ed un ammiraglio bombardatore in Afghanistan per conto della Nato». I due personaggi che hanno sostituito «i precedenti pittoreschi berlusconiani Frattini e La Russa», in realtà sono «servi degli Usa al cento per cento». Berlusconi? Non poteva certo piacere a Washington: non solo per il suo «stile di vita immorale di puttaniere, improponibile all’ipocrita puritanesimo Usa», ma soprattutto per i suoi “giri di valzer” con Gheddafi e con Putin, «fatti non certo per ragioni politiche o geopolitiche, ma per il vecchio fiuto del faccendiere e del venditore “chiavi in mano”». E ora, eccoci serviti. «Sono ottimista sulla nascita di anticorpi di resistenza – conclude Preve – ma ci vorrà sicuramente del tempo: probabilmente, molto più tempo di quello che resta alla nostra generazione».
di Giorgio Cattaneo

20 marzo 2012

La dittatura del presente

«La crisi provocata dalla finanza ci ha rubato il futuro. Lo ha letteralmente seppellito sotto le paure del presente. Tocca a noi riprendercelo». A dirlo è Marc Augé, uno dei più celebri antropologi del mondo, nel suo ultimo libro, Futuro, (Bollati Boringhieri). Misura accuratamente le parole l´autore di Non luoghi. Non ha la veemenza né l´irruenza del tribuno, eppure dietro la sua riflessione pacata si avverte il rigore inflessibile dell´illuminista. Che lascia al mondo una speranza: quella di essere salvati dalle donne.
Perché per la maggior parte delle persone l´avvenire è diventato un incubo più che una speranza?
«Le cause sono molte, ma due mi sembrano decisive. L´accelerazione impressa alle nostre esistenze dalle nuove tecnologie e la crisi della finanza. Una miscela esplosiva che ha cambiato l´esperienza individuale e collettiva del tempo. Facendo dilagare l´incertezza, rendendo epidemico il timore di ciò che ci aspetta».
Trasformando insomma il futuro in un frutto avvelenato.
«Intossicato da un´incertezza che accomuna tutti. I giovani temono di non trovare un lavoro, di non poter progettare il loro avvenire e si sentono bloccati in un eterno presente fatto di precarietà. I loro padri invece hanno paura di perdere la pensione, l´assistenza sociale, di finire in miseria».
Il risultato è che la vita sembra impallata in un immobilismo senza uscita. Senza progresso.
«Senza più alcuna speranza di mobilità sociale. È questa la differenza con il passato. Mio nonno non aveva potuto studiare, ma era un uomo intelligente e ha investito sulla formazione dei suoi figli. Mio padre era un funzionario statale e ha voluto che io diventassi un intellettuale, realizzando in me i suoi sogni. Questo è stato possibile grazie alla scuola pubblica e all´istruzione di massa. Oggi non è più così».
Anche perché ormai la scuola riproduce le ineguaglianze, le conferma, non mira più a colmarle, a stemperarle.
«Questo è vero per la scuola come per tutti gli altri dispositivi di formazione pubblica. È il caso dell´abolizione del servizio militare che ha ridotto le occasioni di incontro, di rimescolamento e di livellamento delle diverse classi, appartenenze, culture, ceti. Così il corpo sociale è sempre più immobile, ciascuno chiuso nei propri quartieri, nelle proprie scuole, nelle proprie famiglie, con una tendenza quasi castale, premoderna».
Tipica di una civiltà che ha abolito i riti di passaggio, le tappe iniziatiche della vita, rendendo difficile costruirsi un avvenire. Così di fatto stazioniamo tutti in un perpetuo hic et nunc.
«Effettivamente noi viviamo in una sorta d´ipertrofia del presente. Che è amplificata dai media, vecchi e nuovi. In un certo senso il nostro tempo non è più lineare ma circolare. Come quello delle società primitive, come quello del mondo contadino. Fondati sull´alternanza delle stagioni. E anche noi del resto viviamo di stagioni: sportive, scolastiche, politiche».
Un´esistenza ridotta a calendario. L´opposto del tempo storico, del progresso, del sol dell´avvenire.
«È il contrario di quello che si pensa comunemente della civiltà tecnologica che sarebbe perennemente protesa verso l´innovazione. Invece siamo prigionieri di una sorta di eterno ritorno scandito non più dai rintocchi delle campane, ma dai palinsesti televisivi e dai ritmi della finanza globale. Viviamo più a lungo, ma iniziamo a vivere più tardi. Pensi alla rivoluzione francese. È stata fatta da persone che avevano poco più di vent´anni. Erano dei ragazzi ma cambiarono il corso della storia. Paradossalmente la vita più breve costringeva tutti a maturare più rapidamente».
Quindi la globalizzazione ha globalizzato anche il tempo?
«Proprio così, oggi il tempo è diventato l´unità di misura di tutto, anche dello spazio. Non parliamo più in termini di distanza chilometrica ma di tempo di percorrenza. Tre ore di volo. Due di alta velocità. Quattro di autostrada. E i nostri riferimenti sono globali, non più nazionali. Città e non paesi. Si parla di New York, Mumbai, San Paolo, Parigi. L´insieme forma una nuova geografia, un´inedita territorialità virtuale. In questo senso la tecnologia e l´economia sono più veloci e potenti della politica. E la mettono nell´angolo».
Dai non luoghi ai non tempi. È il capitalismo finanziario globale che riscrive le coordinate della realtà.
«Il capitalismo finanziario di fatto ha realizzato a suo modo l´ideale universalista del proletariato di una volta, il cosiddetto internazionalismo socialista».
Come dire, proprietari di tutto il mondo unitevi.
«Ovviamente la finanza ha trasformato l´universalismo in globalismo, in economia multinazionale. Ecco perché le ineguaglianze sono aumentate nonostante l´ingresso di nuovi protagonisti sulla scena della storia».
È anche per questo che la politica è ormai ridotta a governance, a semplice gestione di consumi e servizi?
«Sì e per giunta si tratta di cattiva gestione. È un´idea della politica da fine della storia. Con un certo modello di libero mercato e di democrazia che si mondializzano e diventano pensiero unico, non resta altro che assicurare il buon funzionamento del mercato. Così il mondo viene ridotto a un´unica immensa provincia. È l´ultimo atto di quel tramonto delle grandi narrazioni, filosofiche, politiche, nazionali, in cui Jean-François Lyotard identifica lo spirito della postmodernità».
Ma allora è tutto perduto o possiamo fare qualcosa per riprenderci il futuro?
«A dispetto delle apparenze non tutto è perduto. Intanto dei varchi importantissimi li stanno aprendo passo dopo passo la scienza e la tecnologia. Noi siamo abituati a pensare che per creare un mondo nuovo si debba prima immaginarlo. Invece le grandi invenzioni che stanno rivoluzionando le nostre vite, dalla pillola a internet, non sono nate da un´immaginazione politica o da chissà quale utopia. Non da una grande narrazione, insomma, ma semplicemente dalle ricadute concrete delle scoperte scientifiche. Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo. Stiamo diventando degli esistenzialisti pragmatici. E da questo potrebbe nascere la nuova sfida per il futuro».
Quindi grazie alla scienza e alla tecnologia il futuro lo stiamo già vivendo senza saperlo?
«Sì, ma resta da fare il passo essenziale per diventare titolari del nostro avvenire».
Cioè?
«Raccogliere fino in fondo la sfida della conoscenza. È solo il sapere che può schiuderci le porte di un domani migliore. Forse il segreto della felicità degli individui e delle società sta nel cuore delle ambizioni più vertiginose della scienza. E per realizzarle le due priorità assolute sono il potenziamento immediato dell´istruzione pubblica e il raggiungimento effettivo dell´eguaglianza fra i sessi. Detto in altre parole: la scuola e la donna».
È per questo che lei fa l´elogio del peccato originale?
«Sì e non è solo un paradosso. È grazie a Eva che l´uomo ha mangiato il frutto dell´albero della conoscenza ed è diventato uomo. Così è iniziata la nostra storia e se vogliamo che ci sia un futuro dobbiamo continuare a mangiare quel frutto. Dividendo la mela in parti uguali».
di Marino Niola

17 marzo 2012

Amica Banca

Se qualcuno, per colpevole miopia, avesse ancora nutrito dei dubbi riguardo ai veri mandanti del golpe portato avanti da Mario Monti e dalla congrega di (ex?) banchieri che compongono il suo governo, da oggi non potrà più fingersi ipovedente o afflitto da bariacusia, ma sarà costretto a prender coscienza della realtà.
In un sistema dove tutto è costruito in funzione degli interessi delle banche, dalle grandi opere alle piccole leggine, dagli aiuti di stato miliardari ai cavilli burocratici. In un paese dove ormai tutti i cittadini sono stati costretti coercitivamente ad aprire almeno un conto corrente bancario e dotarsi di carta di credito. Dove prelevare il proprio denaro alla sportello è diventato esercizio simile all’accensione di un finanziamento, con tanto di interrogatorio concernente la destinazione d’uso del tuo denaro. Dove per chiudere un conto corrente occorre accendere un mutuo e operazioni che costano qualche tocco di tastiera vengono “vendute” al prezzo di decine di euro. Dove gli interessi sui conti correnti non esistono più, ma il mantenimento in vita degli stessi ti salassa ogni mese, come se invece di aver depositato denaro tuo stessi disponendo di un prestito. Dove anche l’ultimo pensionato è stato costretto a forza dall’usuraio ad accendere un conto corrente bancario, se vuole ancora vedere la sua misera pensione.
Le banche si lamentano, fanno i capricci, puntano i piedi e ritengono che il loro governo le abbia danneggiate….


Già, danneggiate, colpite nei loro interessi, defraudate del loro diritti, ostacolate in qualche misura nell’operazione di trasferimento di ricchezza dalle tasche dei cittadini ai loro forzieri, che portano avanti con costanza e cura certosina.
Un danno tanto ingiusto quanto inaccettabile, inflitto loro proprio dalla congrega di tecno banchieri che noi paghiamo profumatamente per rappresentarli. Quando nel decreto con cui ha liberammazzato l’Italia, Mario Monti, in un eccesso di “umanità” che non gli appartiene, ha ritenuto doveroso omaggiare i pensionati (che aveva costretto ad aprire un conto corrente) dell’elemosina consistente nella gratuità degli stessi, per coloro che percepivano meno di 1500 euro.

Ma stiamo scherzando? Da quando in qua banche ed usurai, sia pur in circostanze eccezionali, dovrebbero essere costretti a lavorare gratis? Si cancelli subito quella norma o non risponderemo delle nostre azioni, hanno tuonato sdegnati i vertici dell’Abi.


Richiamato all’ordine per la disattenzione e reduce dalla tirata di orecchie, Mario Monti in tutta fretta ha ribadito che rimedierà immediatamente a tanta lesa maestà. In pochi giorni sarà pronto un decreto che imporrà anche ai pensionati a reddito basso di pagare la rata del conto corrente.

Ma cosa vuole questa gentaglia senza arte né parte, composta da disoccupati, nullafacenti e pensionati? Il nostro sangue?
Noi lavoriamo (mica come loro) e abbiamo diritto al nostro profitto. Permettiamo ancora che giustificandone la ragione ritirino il denaro dai conti correnti, abbiamo messo a governarli i nostri uomini migliori, facciamo prestito a chi non ne ha bisogno e agli altri diciamo di arrangiarsi senza neppure sputare loro in faccia e non sono mai contenti.
Che brutta razza di ingrati questi italiani!
di Marco Cedolin