25 marzo 2012

La politica ha perso il contatto con la realtà

La politica, quella con la P maiuscola, è una cosa con cui tutti dobbiamo fare i conti, se non vogliamo condannarci alla irrilevanza, alla passività, e lasciare il campo libero alle oligarchie finanziarie, industriali, religiose, che la loro politica la fanno tutti i giorni con mezzi enormi e fondamentalmente vogliono che i rapporti tra sfruttatori e struttati rimangano quelli che sono. La prima verità da gridare, manifesta oggi come mai prima, è che la maggior parte del popolo italiano, quella formata da lavoratori dipendenti, salariati e stipendiati, dai disoccupati, dai pensionati, non ha rappresentanza politica, come dimostra il fatto che il partito che li dovrebbe rappresentare, il PD, appoggia un governo che taglia le pensioni e smantella le tutele degli occupati. Non è POSSBILE che un partito che abusivamente si definisce di “sinistra” continui ad avere i voti di operai, disoccupati e pensionati, mentre l’unica strada da percorrere è quella in cui queste categorie sociali si organizzino in modo autonomo e facciano eleggere propri rappresentanti. Lo stesso dicasi per i sindacati che non rappresentano i lavoratori, ma gli interessi dei partiti politici e avallano i loro cedimenti e i loro inciuci, da abbandonare immediatamente per costituire il Sindacato Unico dei Lavoratori, autogestito dagli stessi, con regole nuove. Se è vero che solo l’8% degli italiani ha fiducia nei partiti, l’unica strada percorribile è quella di abbandonare la CASTA, vecchia, sorda, chiusa nei Palazzi, e giocare la carta della autorganizzazione e dell’autogestione da parte delle classi subalterne, su cui si è abbattuta la ferocia padronale di Confindustria e dei suoi impiegati bocconiani. L’obiettivo chiaro delle classi dominanti è avere oggi una classe lavoratrice intimidita, sottomessa, pronta ad accettare precarietà, licenziamenti, aumenti dei carichi di lavoro, meno stipendio, in nome di una globalizzazione che non dà scampo: o sei competitivo con i cinesi o sarai disoccupato. Forse sarebbe il caso di ricordare che proprio la “globalizzazione” è all’origine della grave crisi in cui siamo: è un suo frutto avvelenato la speculazione finanziaria sui subprime e derivati venuta dagli USA che ha bloccato l’economia europea, in Italia è stato permesso a decine di migliaia di imprenditori di chiudere fabbriche e delocalizzare dove la manodopera costa di meno, sempre in Italia si è accettato che i capitali fuggissero all’estero ben sapendo che la nostra economia ne avrebbe risentito, non si è più investito nella ricerca ben sapendo che ciò significa veder emigrare i migliori cervelli avviandoci sicuramente sulla strada del declino. E’ molto probabile che le panzane che il governo dei “professori” ci racconta su una manovra pensata per la “crescita” si rivelino tragicamente false e che la recessione, l’enorme debito pubblico, la fuga di imprese, capitali e cervelli, ci abbiano già condannato ad un declino inesorabile da cui non usciremo. Almeno se continueremo a restare dentro la globalizzazione e le sue regole. L’unica vera speranza, che riguarda anche il rinnovamento della politica e del sindacato, è quella di individuare una strada alternativa a quella attuale, che punti a creare nuova occupazione in settori innovativi e strategici, come quelli dell’autosufficienza energetica con le rinnovabili (fotovoltaico, eolico, idrogeno per autotrazione, risparmio energetico, biomasse, geotermico, ecc.) e dell’autosufficienza alimentare che significa spostare verso l’agricoltura milioni di addetti. Naturalmente questi settori produttivi dovrebbero essere protetti da importazioni dall’estero, rivedendo proprio le regole del liberismo che ci ha portato a questa crisi. Appare tragicomico che in questa situazione, in cui si sacrifica la vita quotidiana di lavoratori e pensionati, si mantengano impegni come quello di acquistare dagli USA 90 cacciabombardieri, si mantengano gli interventi militari nel mondo, si continui a non abolire le province, si mantenga il finanziamento pubblico ai partiti e all’editoria, si continui a pagare deputati, senatori, amministratori regionali con stipendi e vitalizi osceni, si continui ad avere rapporti economici con il Vaticano che riceve denaro pubblico in molte forme, si continui a supportare un’evasione fiscale indecente. E’ proprio un fatto che la vecchia politica ha perso il contatto con la realtà.
di Paolo De Gregorio

24 marzo 2012

Sorpresa, l’Italia regalò miliardi a Morgan Stanley: perché?

Oltre due miliardi e mezzo di euro – l’equivalente di mezza riforma delle pensioni – finiti in gran silenzio nelle casse della Morgan Stanley, super-banca americana, in virtù di una strana clausola stipulata nel lontano 1994, quando a dirigere le operazioni era un certo Mario Draghi, allora a capo dello staff tecnico del Tesoro. Ora che lo Stato italiano ha versato tutti quei soldi alla Morgan, dice Gad Lerner sul suo blog, è lecito domandarsi: chi prese all’epoca quella decisione? E in base a quali motivazioni? Secondo il “Financial Times”, negli anni ’90 la banca d’affari americana vendette al governo italiano una montagna di “titoli derivati” facendo ricorso a un’insolita clausola legale, a tutto vantaggio del colosso finanziario statunitense: libero di sciogliere l’impegno non appena avesse cessato di garantirgli maxi-rendite, scaricate poi sul debito e quindi sulle tasse degli italiani.

Clausola anomala, ha ammesso il sottosegretario all’istruzione Marco Rossi Doria, specie in un mercato come quello dei derivati, che per noi vale 160 Mario Draghimiliardi di euro, cioè il 10% del debito pubblico italiano. Agli attuali valori di mercato, secondo la testata finanziaria “Bloomberg”, «l’Italia avrebbe una perdita di 31 miliardi di dollari». Il primo a dare la notizia è “L’Espresso”: il 3 febbraio, Orazio Carabini scrive che – quasi di soppiatto – a inizio anno il nuovo “governo tecnico” ha dato due miliardi e mezzo alla potente Morgan Stanley. «Un’operazione su una posizione in derivati che il Tesoro non ha voluto commentare, peggiorando così le cose», scrive il blog “IcebergFinanza”, documentato “diario di bordo” a cura di Andrea Mazzalai, che ricostruisce i passaggi-chiave di questa strana vicenda.

In gran silenzio, scrive “L’Espresso”, il 3 gennaio – alla vigilia dell’Epifania – il ministero di via XX Settembre ha “estinto” una posizione in derivati che aveva con una delle grandi investment bank americane, facendo scendere l’esposizione verso l’Italia da oltre 6.000 a meno di 3.000 miliardi di dollari. Né Morgan Stanley né il Tesoro hanno voluto spiegare a “L’Espresso” il senso dell’operazione. «Inutile dire che la banca aveva un credito nei confronti dello Stato italiano e che il Tesoro era evidentemente tenuto a rimborsarlo». Molti contratti sui derivati, aggiunge Carabini, prevedono che, dopo un certo numero di anni, una delle due parti possa chiedere la chiusura della posizione: ma non accade spesso. «Altre volte sono previsti dei “termination event”, ovvero fatti che possono innescare la soluzione del Vittorio Grilli e Mario Monticontratto: per esempio il downgrade dell’Italia da parte di Standard & Poor’s».

Secondo fonti di mercato, il Tesoro avrebbe limitato i danni ricorrendo a una triangolazione: Banca Imi (gruppo Intesa Sanpaolo) sarebbe infatti subentrata a Morgan Stanley, consentendo agli americani di “alleggerirsi” rispetto alla Repubblica italiana. Poco prima, ricorda sempre “L’Espresso”, aveva fatto scalpore la riduzione della posizione in titoli italiani da parte della Deutsche Bank, seguita poi da altri grandi istituti finanziari, specie francesi: nel primo semestre del 2011, la banca tedesca si liberò di oltre 7 miliardi di euro in Btp. Per Mario Monti e il suo vice-ministro all’economia Vittorio Grilli, ex direttore generale del Tesoro, entrambi impegnati a “riportare la fiducia dei mercati” sul debitore-Italia, la richiesta di Morgan Stanley (la cui branca italiana è diretta dall’ex direttore generale del Tesoro, Domenico Siniscalco) dev’essere stata una brutta sorpresa: «L’episodio – scrive Carabini – riapre la questione della trasparenza delle operazioni in derivati che sono gestite dal Tesoro nella più totale opacità».

Nessuno, aggiunge “L’Espresso”, sa esattamente a quanto ammonti il peso dei “derivati”: una volta all’anno viene comunicato (agli uffici di statistica) il guadagno o la perdita complessivamente registrata su quel tipo di operazioni. «Infine c’è un problema di immagine per quello che è spesso chiamato il “governo dei banchieri”: dare 2,567 miliardi a Morgan Stanley mentre si stangano i pensionati e si stanziano 50 milioni per la social card non suona bene». A conti fatti, si tratterebbe di una somma colossale, pari a quasi la metà dell’Iva che gli italiani dovranno versare nel 2012: perché la grande stampa non se n’è praticamente “accorta”? Semplice, risponde Mazzalai su “IcebergFinanza”: impegnati nell’opera di “redenzione internazionale” del nostro paese, sia Monti che i giornali sapevano che una L'ex ministro Domenico Siniscalco, responsabile per l'Italia della Morgan Stanleysimile notizia – debitamente amplificata – avrebbe potuto produrre un ulteriore danno all’immagine della nostra traballante gestione contabile.

Dunque: se il lontano regista del contratto “anomalo” è Draghi, perché si scelse di favorire – a nostre spese – proprio la Morgan Stanley? Insieme al colosso di Wall Street, scrive Stefania Tamburello sul “Corriere della Sera” il 17 marzo, anche Goldman Sachs, Bank of America, Citigroup e Jp Morgan Chase hanno un’enorme esposizione sui derivati nei confronti dell’Italia: stando ai dati di “Bloomberg”, vantano un credito di 19,5 miliardi di dollari. «Cifra che, sommata agli importi relativi alle banche europee rese note nel corso degli “stress test” condotti dalla European Banking Authority, fanno salire l’ammontare complessivo a 31 miliardi di dollari». Una montagna di soldi: è come giocare con un candelotto di dinamite, sostiene “IcebergFinanza”. Che insiste: perché, poi, fare speciali condizioni di favore proprio alla Morgan Stanley? Un caso più unico che raro, segnala la Reuters.

«Queste clausolette di estinzione anticipata a favore della banca – scrive il blog di Mazzalai – sono rarità nei contratti che riguardano il rischio sovrano ed erano presenti solo nei contratti stipulati con Morgan Stanley, chissà perché». Inoltre, aggiunge il blog finanziario, sembra che nessuno conosca il motivo della discrepanza tra il prezzo pagato a Morgan Stanley (2,567 miliardi di euro) e quanto invece compare nella relazione della banca presso la Sec, cioè la commissione statunitense di controllo bancario (“Us Securities and Exchange Commission”). «Nella sostanza – conclude Mazzalai – abbiamo perso 2 miliarducci nel 2011 e quasi 4 nel periodo 2007/2010: altro che aumento dell’Iva al 23%!».

Non sarebbe ora di scoprire almeno qual è la posizione italiana verso la finanza mondiale nel rischioso mercato dei “derivati”? «Perfino l’indagine di due anni fa della Banca d’Italia, peraltro occasionale, fatta a seguito dei vari scandali scoppiati nella Penisola, si limitava a censire i derivati con banche residenti in Italia», scrive Alessandro Penati su “Repubblica” il 18 marzo. «Ma è noto che il Tesoro, come altre entità pubbliche, opera direttamente con controparti estere, senza passare per eventuali filiali italiane». Dunque, Giovanni Monti, figlio del premier e già uomo della Morgan Stanleyquella scattata da Bankitalia era «una foto, peraltro ingiallita, che riprendeva solo la punta dell’iceberg». Ora sappiamo che il governo italiano ha perso la sua scommessa finanziaria con la Morgan Stanley, scrive Mazzalai: «Ma se l’avesse vinta, come poteva essere certo che Morgan Stanley avrebbe avuto i soldi per pagarla?».

Questo è esattamente il “rischio controparte”. Ed è enorme, dice ancora “IcebergFinanza”: oggi, non più di sette banche controllano il mercato mondiale dei derivati “over the counter”, cioè negoziati direttamente e non in un mercato regolamentato. «Per questa ragione, dopo Lehman, è diventata buona prassi esigere il versamento bilaterale dei margini: chi potrebbe subire una perdita per la variazione di valore del derivato, non importa se la banca o il cliente, versa alla controparte un deposito a garanzia». E quindi: quale sarebbe ora la politica del Tesoro? «Credo che i cittadini italiani abbiano il diritto di sapere quale sia complessivamente l’esposizione in derivati dello Stato, e con quali banche; soprattutto perché ognuno di noi si accolla 32.500 euro di debito pubblico».

Una gestione più trasparente di queste “armi di distruzione di massa” non farebbe male, anche per evitare il sospetto di giganteschi conflitti d’interesse: proprio dalla Morgan Stanley è transitato prima del 2009 Giovanni Monti, figlio dell’attuale premier. Laureato alla Bocconi di Milano, scrive la “Gazzetta di Parma”, prima dell’approdo alla Parmalat (rilevata dalla francese Lactalis) il giovane Monti ha lavorato prima a Citigroup e poi a Morgan & Stanley: «A Citigroup è stato responsabile di acquisizioni e disinvestimenti per alcune divisioni del gruppo, mentre alla Morgan si è occupato in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York». Coincidenze? Invitabili i sospetti, aggiunge “IcebergFinanza”, di fronte a «evidenti conflitti di interesse» che «non possono essere cancellati solo con dimissioni temporanee da cariche che vengono da molto lontano», specie se chi comanda ha avuto rapporti di lavoro «con i principali responsabili di questa depressione umana, ovvero le banche d’affari», per lo più americane.

di Giorgio Cattaneo

23 marzo 2012

Noam Chomsky: il mondo ha paura di Israele, non dell’Iran

Nel numero di gennaio-febbraio della rivista “Foreign Affairs” un articolo di Matthew Kroenig intitolato “È il momento di attaccare l’Iran” spiega perché un attacco è l’opzione meno peggiore. Sui media si fa un gran parlare di un possibile attacco israeliano contro l’Iran, mentre gli Stati Uniti traccheggiano tenendo aperta l’opzione dell’aggressione, ciò che configura la sistematica violazione della carta delle Nazioni Unite, fondamento del diritto internazionale. Mano a mano che aumentano le tensioni, nell’aria aleggiano i fremiti delle guerre in Afghanistan e Iraq. La febbrile retorica della campagna per le primarie negli Usa rinforza il suono dei tamburi di guerra. Si suole attribuire alla “comunità internazionale” – nome in codice per definire gli alleati degli Stati Uniti – le preoccupazioni per l’imminente minaccia iraniana. I popoli del mondo, però, tendono a vedere le cose in modo diverso.

I paesi non-allineati, un movimento che raggruppa 120 nazioni, hanno vigorosamente appoggiato il diritto dell’Iran di arricchire l’uranio, opinione bomba atomicacondivisa dalla maggioranza della popolazione degli Stati Uniti (sondaggio “WorlPublicOpinion.org”) prima dell’asfissiante offensiva propagandistica lanciata da due anni. Cina e Russia si oppongono alla politica Usa rispetto all’Iran, come pure l’India, che ha annunciato che non rispetterà le sanzioni statunitensi e aumenterà il volume dei suoi commerci con l’Iran. Idem la Turchia. Le popolazioni europee vedono Israele come la maggior minaccia alla pace mondiale. Nel mondo arabo, a nessuno piace troppo l’Iran, però solo una minoranza molto ridotta lo considera una minaccia. Al contrario, si pensa che siano Israele e Stati Uniti le minacce principali. La maggioranza si dice convinta che la regione sarebbe più sicura se l’Iran si dotasse di armi nucleari. In Egitto, alla vigilia della primavera araba, il 90% compartiva questa opinione, secondo i sondaggi della “Brookings Institution” e di “Zogby International”.

I commentatori occidentali parlano molto del fatto che i dittatori arabi appoggiano la posizione Usa sull’Iran, mentre tacciono il fatto che la gran maggioranza della popolazione araba è contraria. Negli Stati Uniti alcuni osservatori hanno espresso anche, da un bel po’ di tempo, le loro preoccupazioni per l’arsenale nucleare israeliano. Il generale Lee Butler, ex-capo del comando strategico Usa, ha affermato che l’armamento nucleare israeliano è straordinariamente pericoloso. In una pubblicazione dell’esercito Usa, il tenente colonnello Warner Farr ha ricordato che «un obiettivo delle armi nucleari israeliane, che non si usa precisare ma che è Zeev Maozovvio, è “impiegarle” negli Stati uniti», presumibilmente per garantire un appoggio continuo di Washington alle politiche di Israele.

Una preoccupazione immediata, in questo momento, è che Israele cerchi di provocare qualche reazione iraniana, che a sua volta provochi un attacco Usa. Uno dei principali analisti strategici israeliani, Zeev Maoz, in “Difesa della Terra santa”, un’analisi esaustiva della politica di sicurezza ed estera israeliana, arriva alla conclusione che il saldo della politica nucleare di Israele è decisamente negativo e dannoso per la sicurezza dello Stato ebraico. E incita Israele a cercare di arrivare a un trattato regionale di proscrizione delle armi di distruzione di massa e a creare una zona libera da tali armi, come chiedeva già nel 1974 una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu.

Intanto le sanzioni occidentali contro l’Iran fanno già sentire i loro effetti soliti, causando penuria di alimenti basici non per il clero governante ma per la popolazione. Non può meravigliare che anche la valorosa opposizione iraniana condanni le sanzioni. Le sanzioni contro l’Iran potrebbero avere gli stessi effetti di quella precedenti contro l’Iraq, condannate come genocide dai rispettabili diplomatici dell’Onu che pure le amministravano, e che alla fine si dimisero come segno di protesta. In Iraq le sanzioni hanno devastato la popolazione e rafforzato Saddam Hussein, a cui probabilmente hanno evitato, almeno all’inizio, la sorte toccata alla sfilza degli altri tiranni Mahmud Ahmadinejadappoggiati da Usa e Gb, dittatori che hanno prosperato praticamente fino al giorno in cui varie rivolte interne li hanno rovesciati.

Esiste un dibattito poco credibile su ciò che costituisca esattamente la minaccia iraniana, per quanto abbiamo una risposta autorizzata, fornita dalle forze armate e dai servizi segreti Usa. I loro rapporti e audizioni davanti al Congresso hanno lasciato ben chiaro che l’Iran non costituisce nessuna minaccia militare: ha una capacità molto limitata di dispiegare le sue forze e la sua dottrina strategica è difensiva, destinata a dissuadere da un’invasione per il tempo necessario alla diplomazia per entrare in campo. Se l’Iran sta sviluppando armi nucleari (ciò che ancora non è provato), questo sarebbe parte della sua strategia di dissuasione. Il concetto dei più seri fra gli analisti israeliani e statunitensi è stato espresso con chiarezza da Bruce Riedel, un veterano con 30 anni di Cia sulle spalle, che nel gennaio scorso ha dichiarato che se lui fosse un consigliere per la sicurezza nazionale iraniano auspicherebbe certamente di avere armi nucleari come fattore di dissuasione.

Un’altra accusa dell’Occidente contro l’Iran è che la Repubblica islamica sta cercando di ampliare la sua influenza nei paesi vicini, attaccati e occupati da Stati uniti e Gran Bretagna, e che appoggia la resistenza all’aggressione israeliana in Libano e all’occupazione illegale dei territori palestinesi, sostenute dagli Usa. Al pari della sua strategia di dissuasione contro possibili atti di violenza da parte di paesi occidentali, si dice che le azioni dell’Iran costituiscono minacce intollerabili per l’ordine globale. L’opinione pubblica concorda con Maoz. L’appoggio all’idea di stabilire una zona libera dalle armi di distruzione di massa in Medio Oriente è schiacciante. Questa zona dovrebbe comprendere Iran, Israele e, preferibilmente, le altre due potenze nucleari che si sono rifiutate di entrare nel Trattato di non proliferazione Noam Chomskynucleare (Tnp) – Pakistan e India – paesi che, come Israele, hanno sviluppato i loro programmi atomici con l’aiuto Usa.

L’appoggio a questa politica nella conferenza sulla revisione del Tnp, nel maggio 2010, fu tanto forte che Washington si vide obbligata ad accettarla formalmente, però imponendo condizioni: la zona non potrà divenire effettiva prima di un accordo di pace fra Israele e i suoi vicini arabi; il programma di armamenti nucleari di Israele sarebbe esentato dalle ispezioni internazionali; nessun paese (si legga: Usa) potrebbe essere obbligato a fornire informazioni sulle installazioni e le attività nucleari israeliane, né informazioni relative a trasferimenti anteriori di tecnologia nucleare a Israele.

Nella conferenza del 2010 si fissò una nuova sessione per il maggio 2012 con l’obiettivo di avanzare nella creazione di una zona libera da armi di distruzione di massa. Tuttavia con tutto il bailamme sollevato intorno all’Iran, è molto poca l’attenzione che si dà a questa opzione che pure sarebbe il modo più costruttivo per gestire le minacce nucleari nella regione: per la “comunità internazionale” la minaccia che l’Iran arrivi alla capacità nucleare; per la maggior parte del mondo, la minaccia rappresentata dall’unico Stato della regione che possieda le armi nucleari e una lunga storia di aggressioni, e dalla superpotenza che gli fa da padrino.
di Giorgio Cattaneo

(Noam Chomsky, “La bomba iraniana”, da “Il Manifesto” del 18 marzo 2012)

25 marzo 2012

La politica ha perso il contatto con la realtà

La politica, quella con la P maiuscola, è una cosa con cui tutti dobbiamo fare i conti, se non vogliamo condannarci alla irrilevanza, alla passività, e lasciare il campo libero alle oligarchie finanziarie, industriali, religiose, che la loro politica la fanno tutti i giorni con mezzi enormi e fondamentalmente vogliono che i rapporti tra sfruttatori e struttati rimangano quelli che sono. La prima verità da gridare, manifesta oggi come mai prima, è che la maggior parte del popolo italiano, quella formata da lavoratori dipendenti, salariati e stipendiati, dai disoccupati, dai pensionati, non ha rappresentanza politica, come dimostra il fatto che il partito che li dovrebbe rappresentare, il PD, appoggia un governo che taglia le pensioni e smantella le tutele degli occupati. Non è POSSBILE che un partito che abusivamente si definisce di “sinistra” continui ad avere i voti di operai, disoccupati e pensionati, mentre l’unica strada da percorrere è quella in cui queste categorie sociali si organizzino in modo autonomo e facciano eleggere propri rappresentanti. Lo stesso dicasi per i sindacati che non rappresentano i lavoratori, ma gli interessi dei partiti politici e avallano i loro cedimenti e i loro inciuci, da abbandonare immediatamente per costituire il Sindacato Unico dei Lavoratori, autogestito dagli stessi, con regole nuove. Se è vero che solo l’8% degli italiani ha fiducia nei partiti, l’unica strada percorribile è quella di abbandonare la CASTA, vecchia, sorda, chiusa nei Palazzi, e giocare la carta della autorganizzazione e dell’autogestione da parte delle classi subalterne, su cui si è abbattuta la ferocia padronale di Confindustria e dei suoi impiegati bocconiani. L’obiettivo chiaro delle classi dominanti è avere oggi una classe lavoratrice intimidita, sottomessa, pronta ad accettare precarietà, licenziamenti, aumenti dei carichi di lavoro, meno stipendio, in nome di una globalizzazione che non dà scampo: o sei competitivo con i cinesi o sarai disoccupato. Forse sarebbe il caso di ricordare che proprio la “globalizzazione” è all’origine della grave crisi in cui siamo: è un suo frutto avvelenato la speculazione finanziaria sui subprime e derivati venuta dagli USA che ha bloccato l’economia europea, in Italia è stato permesso a decine di migliaia di imprenditori di chiudere fabbriche e delocalizzare dove la manodopera costa di meno, sempre in Italia si è accettato che i capitali fuggissero all’estero ben sapendo che la nostra economia ne avrebbe risentito, non si è più investito nella ricerca ben sapendo che ciò significa veder emigrare i migliori cervelli avviandoci sicuramente sulla strada del declino. E’ molto probabile che le panzane che il governo dei “professori” ci racconta su una manovra pensata per la “crescita” si rivelino tragicamente false e che la recessione, l’enorme debito pubblico, la fuga di imprese, capitali e cervelli, ci abbiano già condannato ad un declino inesorabile da cui non usciremo. Almeno se continueremo a restare dentro la globalizzazione e le sue regole. L’unica vera speranza, che riguarda anche il rinnovamento della politica e del sindacato, è quella di individuare una strada alternativa a quella attuale, che punti a creare nuova occupazione in settori innovativi e strategici, come quelli dell’autosufficienza energetica con le rinnovabili (fotovoltaico, eolico, idrogeno per autotrazione, risparmio energetico, biomasse, geotermico, ecc.) e dell’autosufficienza alimentare che significa spostare verso l’agricoltura milioni di addetti. Naturalmente questi settori produttivi dovrebbero essere protetti da importazioni dall’estero, rivedendo proprio le regole del liberismo che ci ha portato a questa crisi. Appare tragicomico che in questa situazione, in cui si sacrifica la vita quotidiana di lavoratori e pensionati, si mantengano impegni come quello di acquistare dagli USA 90 cacciabombardieri, si mantengano gli interventi militari nel mondo, si continui a non abolire le province, si mantenga il finanziamento pubblico ai partiti e all’editoria, si continui a pagare deputati, senatori, amministratori regionali con stipendi e vitalizi osceni, si continui ad avere rapporti economici con il Vaticano che riceve denaro pubblico in molte forme, si continui a supportare un’evasione fiscale indecente. E’ proprio un fatto che la vecchia politica ha perso il contatto con la realtà.
di Paolo De Gregorio

24 marzo 2012

Sorpresa, l’Italia regalò miliardi a Morgan Stanley: perché?

Oltre due miliardi e mezzo di euro – l’equivalente di mezza riforma delle pensioni – finiti in gran silenzio nelle casse della Morgan Stanley, super-banca americana, in virtù di una strana clausola stipulata nel lontano 1994, quando a dirigere le operazioni era un certo Mario Draghi, allora a capo dello staff tecnico del Tesoro. Ora che lo Stato italiano ha versato tutti quei soldi alla Morgan, dice Gad Lerner sul suo blog, è lecito domandarsi: chi prese all’epoca quella decisione? E in base a quali motivazioni? Secondo il “Financial Times”, negli anni ’90 la banca d’affari americana vendette al governo italiano una montagna di “titoli derivati” facendo ricorso a un’insolita clausola legale, a tutto vantaggio del colosso finanziario statunitense: libero di sciogliere l’impegno non appena avesse cessato di garantirgli maxi-rendite, scaricate poi sul debito e quindi sulle tasse degli italiani.

Clausola anomala, ha ammesso il sottosegretario all’istruzione Marco Rossi Doria, specie in un mercato come quello dei derivati, che per noi vale 160 Mario Draghimiliardi di euro, cioè il 10% del debito pubblico italiano. Agli attuali valori di mercato, secondo la testata finanziaria “Bloomberg”, «l’Italia avrebbe una perdita di 31 miliardi di dollari». Il primo a dare la notizia è “L’Espresso”: il 3 febbraio, Orazio Carabini scrive che – quasi di soppiatto – a inizio anno il nuovo “governo tecnico” ha dato due miliardi e mezzo alla potente Morgan Stanley. «Un’operazione su una posizione in derivati che il Tesoro non ha voluto commentare, peggiorando così le cose», scrive il blog “IcebergFinanza”, documentato “diario di bordo” a cura di Andrea Mazzalai, che ricostruisce i passaggi-chiave di questa strana vicenda.

In gran silenzio, scrive “L’Espresso”, il 3 gennaio – alla vigilia dell’Epifania – il ministero di via XX Settembre ha “estinto” una posizione in derivati che aveva con una delle grandi investment bank americane, facendo scendere l’esposizione verso l’Italia da oltre 6.000 a meno di 3.000 miliardi di dollari. Né Morgan Stanley né il Tesoro hanno voluto spiegare a “L’Espresso” il senso dell’operazione. «Inutile dire che la banca aveva un credito nei confronti dello Stato italiano e che il Tesoro era evidentemente tenuto a rimborsarlo». Molti contratti sui derivati, aggiunge Carabini, prevedono che, dopo un certo numero di anni, una delle due parti possa chiedere la chiusura della posizione: ma non accade spesso. «Altre volte sono previsti dei “termination event”, ovvero fatti che possono innescare la soluzione del Vittorio Grilli e Mario Monticontratto: per esempio il downgrade dell’Italia da parte di Standard & Poor’s».

Secondo fonti di mercato, il Tesoro avrebbe limitato i danni ricorrendo a una triangolazione: Banca Imi (gruppo Intesa Sanpaolo) sarebbe infatti subentrata a Morgan Stanley, consentendo agli americani di “alleggerirsi” rispetto alla Repubblica italiana. Poco prima, ricorda sempre “L’Espresso”, aveva fatto scalpore la riduzione della posizione in titoli italiani da parte della Deutsche Bank, seguita poi da altri grandi istituti finanziari, specie francesi: nel primo semestre del 2011, la banca tedesca si liberò di oltre 7 miliardi di euro in Btp. Per Mario Monti e il suo vice-ministro all’economia Vittorio Grilli, ex direttore generale del Tesoro, entrambi impegnati a “riportare la fiducia dei mercati” sul debitore-Italia, la richiesta di Morgan Stanley (la cui branca italiana è diretta dall’ex direttore generale del Tesoro, Domenico Siniscalco) dev’essere stata una brutta sorpresa: «L’episodio – scrive Carabini – riapre la questione della trasparenza delle operazioni in derivati che sono gestite dal Tesoro nella più totale opacità».

Nessuno, aggiunge “L’Espresso”, sa esattamente a quanto ammonti il peso dei “derivati”: una volta all’anno viene comunicato (agli uffici di statistica) il guadagno o la perdita complessivamente registrata su quel tipo di operazioni. «Infine c’è un problema di immagine per quello che è spesso chiamato il “governo dei banchieri”: dare 2,567 miliardi a Morgan Stanley mentre si stangano i pensionati e si stanziano 50 milioni per la social card non suona bene». A conti fatti, si tratterebbe di una somma colossale, pari a quasi la metà dell’Iva che gli italiani dovranno versare nel 2012: perché la grande stampa non se n’è praticamente “accorta”? Semplice, risponde Mazzalai su “IcebergFinanza”: impegnati nell’opera di “redenzione internazionale” del nostro paese, sia Monti che i giornali sapevano che una L'ex ministro Domenico Siniscalco, responsabile per l'Italia della Morgan Stanleysimile notizia – debitamente amplificata – avrebbe potuto produrre un ulteriore danno all’immagine della nostra traballante gestione contabile.

Dunque: se il lontano regista del contratto “anomalo” è Draghi, perché si scelse di favorire – a nostre spese – proprio la Morgan Stanley? Insieme al colosso di Wall Street, scrive Stefania Tamburello sul “Corriere della Sera” il 17 marzo, anche Goldman Sachs, Bank of America, Citigroup e Jp Morgan Chase hanno un’enorme esposizione sui derivati nei confronti dell’Italia: stando ai dati di “Bloomberg”, vantano un credito di 19,5 miliardi di dollari. «Cifra che, sommata agli importi relativi alle banche europee rese note nel corso degli “stress test” condotti dalla European Banking Authority, fanno salire l’ammontare complessivo a 31 miliardi di dollari». Una montagna di soldi: è come giocare con un candelotto di dinamite, sostiene “IcebergFinanza”. Che insiste: perché, poi, fare speciali condizioni di favore proprio alla Morgan Stanley? Un caso più unico che raro, segnala la Reuters.

«Queste clausolette di estinzione anticipata a favore della banca – scrive il blog di Mazzalai – sono rarità nei contratti che riguardano il rischio sovrano ed erano presenti solo nei contratti stipulati con Morgan Stanley, chissà perché». Inoltre, aggiunge il blog finanziario, sembra che nessuno conosca il motivo della discrepanza tra il prezzo pagato a Morgan Stanley (2,567 miliardi di euro) e quanto invece compare nella relazione della banca presso la Sec, cioè la commissione statunitense di controllo bancario (“Us Securities and Exchange Commission”). «Nella sostanza – conclude Mazzalai – abbiamo perso 2 miliarducci nel 2011 e quasi 4 nel periodo 2007/2010: altro che aumento dell’Iva al 23%!».

Non sarebbe ora di scoprire almeno qual è la posizione italiana verso la finanza mondiale nel rischioso mercato dei “derivati”? «Perfino l’indagine di due anni fa della Banca d’Italia, peraltro occasionale, fatta a seguito dei vari scandali scoppiati nella Penisola, si limitava a censire i derivati con banche residenti in Italia», scrive Alessandro Penati su “Repubblica” il 18 marzo. «Ma è noto che il Tesoro, come altre entità pubbliche, opera direttamente con controparti estere, senza passare per eventuali filiali italiane». Dunque, Giovanni Monti, figlio del premier e già uomo della Morgan Stanleyquella scattata da Bankitalia era «una foto, peraltro ingiallita, che riprendeva solo la punta dell’iceberg». Ora sappiamo che il governo italiano ha perso la sua scommessa finanziaria con la Morgan Stanley, scrive Mazzalai: «Ma se l’avesse vinta, come poteva essere certo che Morgan Stanley avrebbe avuto i soldi per pagarla?».

Questo è esattamente il “rischio controparte”. Ed è enorme, dice ancora “IcebergFinanza”: oggi, non più di sette banche controllano il mercato mondiale dei derivati “over the counter”, cioè negoziati direttamente e non in un mercato regolamentato. «Per questa ragione, dopo Lehman, è diventata buona prassi esigere il versamento bilaterale dei margini: chi potrebbe subire una perdita per la variazione di valore del derivato, non importa se la banca o il cliente, versa alla controparte un deposito a garanzia». E quindi: quale sarebbe ora la politica del Tesoro? «Credo che i cittadini italiani abbiano il diritto di sapere quale sia complessivamente l’esposizione in derivati dello Stato, e con quali banche; soprattutto perché ognuno di noi si accolla 32.500 euro di debito pubblico».

Una gestione più trasparente di queste “armi di distruzione di massa” non farebbe male, anche per evitare il sospetto di giganteschi conflitti d’interesse: proprio dalla Morgan Stanley è transitato prima del 2009 Giovanni Monti, figlio dell’attuale premier. Laureato alla Bocconi di Milano, scrive la “Gazzetta di Parma”, prima dell’approdo alla Parmalat (rilevata dalla francese Lactalis) il giovane Monti ha lavorato prima a Citigroup e poi a Morgan & Stanley: «A Citigroup è stato responsabile di acquisizioni e disinvestimenti per alcune divisioni del gruppo, mentre alla Morgan si è occupato in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York». Coincidenze? Invitabili i sospetti, aggiunge “IcebergFinanza”, di fronte a «evidenti conflitti di interesse» che «non possono essere cancellati solo con dimissioni temporanee da cariche che vengono da molto lontano», specie se chi comanda ha avuto rapporti di lavoro «con i principali responsabili di questa depressione umana, ovvero le banche d’affari», per lo più americane.

di Giorgio Cattaneo

23 marzo 2012

Noam Chomsky: il mondo ha paura di Israele, non dell’Iran

Nel numero di gennaio-febbraio della rivista “Foreign Affairs” un articolo di Matthew Kroenig intitolato “È il momento di attaccare l’Iran” spiega perché un attacco è l’opzione meno peggiore. Sui media si fa un gran parlare di un possibile attacco israeliano contro l’Iran, mentre gli Stati Uniti traccheggiano tenendo aperta l’opzione dell’aggressione, ciò che configura la sistematica violazione della carta delle Nazioni Unite, fondamento del diritto internazionale. Mano a mano che aumentano le tensioni, nell’aria aleggiano i fremiti delle guerre in Afghanistan e Iraq. La febbrile retorica della campagna per le primarie negli Usa rinforza il suono dei tamburi di guerra. Si suole attribuire alla “comunità internazionale” – nome in codice per definire gli alleati degli Stati Uniti – le preoccupazioni per l’imminente minaccia iraniana. I popoli del mondo, però, tendono a vedere le cose in modo diverso.

I paesi non-allineati, un movimento che raggruppa 120 nazioni, hanno vigorosamente appoggiato il diritto dell’Iran di arricchire l’uranio, opinione bomba atomicacondivisa dalla maggioranza della popolazione degli Stati Uniti (sondaggio “WorlPublicOpinion.org”) prima dell’asfissiante offensiva propagandistica lanciata da due anni. Cina e Russia si oppongono alla politica Usa rispetto all’Iran, come pure l’India, che ha annunciato che non rispetterà le sanzioni statunitensi e aumenterà il volume dei suoi commerci con l’Iran. Idem la Turchia. Le popolazioni europee vedono Israele come la maggior minaccia alla pace mondiale. Nel mondo arabo, a nessuno piace troppo l’Iran, però solo una minoranza molto ridotta lo considera una minaccia. Al contrario, si pensa che siano Israele e Stati Uniti le minacce principali. La maggioranza si dice convinta che la regione sarebbe più sicura se l’Iran si dotasse di armi nucleari. In Egitto, alla vigilia della primavera araba, il 90% compartiva questa opinione, secondo i sondaggi della “Brookings Institution” e di “Zogby International”.

I commentatori occidentali parlano molto del fatto che i dittatori arabi appoggiano la posizione Usa sull’Iran, mentre tacciono il fatto che la gran maggioranza della popolazione araba è contraria. Negli Stati Uniti alcuni osservatori hanno espresso anche, da un bel po’ di tempo, le loro preoccupazioni per l’arsenale nucleare israeliano. Il generale Lee Butler, ex-capo del comando strategico Usa, ha affermato che l’armamento nucleare israeliano è straordinariamente pericoloso. In una pubblicazione dell’esercito Usa, il tenente colonnello Warner Farr ha ricordato che «un obiettivo delle armi nucleari israeliane, che non si usa precisare ma che è Zeev Maozovvio, è “impiegarle” negli Stati uniti», presumibilmente per garantire un appoggio continuo di Washington alle politiche di Israele.

Una preoccupazione immediata, in questo momento, è che Israele cerchi di provocare qualche reazione iraniana, che a sua volta provochi un attacco Usa. Uno dei principali analisti strategici israeliani, Zeev Maoz, in “Difesa della Terra santa”, un’analisi esaustiva della politica di sicurezza ed estera israeliana, arriva alla conclusione che il saldo della politica nucleare di Israele è decisamente negativo e dannoso per la sicurezza dello Stato ebraico. E incita Israele a cercare di arrivare a un trattato regionale di proscrizione delle armi di distruzione di massa e a creare una zona libera da tali armi, come chiedeva già nel 1974 una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu.

Intanto le sanzioni occidentali contro l’Iran fanno già sentire i loro effetti soliti, causando penuria di alimenti basici non per il clero governante ma per la popolazione. Non può meravigliare che anche la valorosa opposizione iraniana condanni le sanzioni. Le sanzioni contro l’Iran potrebbero avere gli stessi effetti di quella precedenti contro l’Iraq, condannate come genocide dai rispettabili diplomatici dell’Onu che pure le amministravano, e che alla fine si dimisero come segno di protesta. In Iraq le sanzioni hanno devastato la popolazione e rafforzato Saddam Hussein, a cui probabilmente hanno evitato, almeno all’inizio, la sorte toccata alla sfilza degli altri tiranni Mahmud Ahmadinejadappoggiati da Usa e Gb, dittatori che hanno prosperato praticamente fino al giorno in cui varie rivolte interne li hanno rovesciati.

Esiste un dibattito poco credibile su ciò che costituisca esattamente la minaccia iraniana, per quanto abbiamo una risposta autorizzata, fornita dalle forze armate e dai servizi segreti Usa. I loro rapporti e audizioni davanti al Congresso hanno lasciato ben chiaro che l’Iran non costituisce nessuna minaccia militare: ha una capacità molto limitata di dispiegare le sue forze e la sua dottrina strategica è difensiva, destinata a dissuadere da un’invasione per il tempo necessario alla diplomazia per entrare in campo. Se l’Iran sta sviluppando armi nucleari (ciò che ancora non è provato), questo sarebbe parte della sua strategia di dissuasione. Il concetto dei più seri fra gli analisti israeliani e statunitensi è stato espresso con chiarezza da Bruce Riedel, un veterano con 30 anni di Cia sulle spalle, che nel gennaio scorso ha dichiarato che se lui fosse un consigliere per la sicurezza nazionale iraniano auspicherebbe certamente di avere armi nucleari come fattore di dissuasione.

Un’altra accusa dell’Occidente contro l’Iran è che la Repubblica islamica sta cercando di ampliare la sua influenza nei paesi vicini, attaccati e occupati da Stati uniti e Gran Bretagna, e che appoggia la resistenza all’aggressione israeliana in Libano e all’occupazione illegale dei territori palestinesi, sostenute dagli Usa. Al pari della sua strategia di dissuasione contro possibili atti di violenza da parte di paesi occidentali, si dice che le azioni dell’Iran costituiscono minacce intollerabili per l’ordine globale. L’opinione pubblica concorda con Maoz. L’appoggio all’idea di stabilire una zona libera dalle armi di distruzione di massa in Medio Oriente è schiacciante. Questa zona dovrebbe comprendere Iran, Israele e, preferibilmente, le altre due potenze nucleari che si sono rifiutate di entrare nel Trattato di non proliferazione Noam Chomskynucleare (Tnp) – Pakistan e India – paesi che, come Israele, hanno sviluppato i loro programmi atomici con l’aiuto Usa.

L’appoggio a questa politica nella conferenza sulla revisione del Tnp, nel maggio 2010, fu tanto forte che Washington si vide obbligata ad accettarla formalmente, però imponendo condizioni: la zona non potrà divenire effettiva prima di un accordo di pace fra Israele e i suoi vicini arabi; il programma di armamenti nucleari di Israele sarebbe esentato dalle ispezioni internazionali; nessun paese (si legga: Usa) potrebbe essere obbligato a fornire informazioni sulle installazioni e le attività nucleari israeliane, né informazioni relative a trasferimenti anteriori di tecnologia nucleare a Israele.

Nella conferenza del 2010 si fissò una nuova sessione per il maggio 2012 con l’obiettivo di avanzare nella creazione di una zona libera da armi di distruzione di massa. Tuttavia con tutto il bailamme sollevato intorno all’Iran, è molto poca l’attenzione che si dà a questa opzione che pure sarebbe il modo più costruttivo per gestire le minacce nucleari nella regione: per la “comunità internazionale” la minaccia che l’Iran arrivi alla capacità nucleare; per la maggior parte del mondo, la minaccia rappresentata dall’unico Stato della regione che possieda le armi nucleari e una lunga storia di aggressioni, e dalla superpotenza che gli fa da padrino.
di Giorgio Cattaneo

(Noam Chomsky, “La bomba iraniana”, da “Il Manifesto” del 18 marzo 2012)