04 maggio 2012

"Sull’orlo del baratro", la crisi dell’euro secondo Alain de Benoist

Debito pubblico, crisi greca, tassi d’interesse, creazione del denaro, sovranità economica. Nel suo ultimo libro "Sull’orlo del baratro", da pochi giorni in libreria, lo scrittore francese Alain de Benoist analizza attraverso tutte queste variabili la situazione economica europea e globale. de benoist È appena uscito l'ultimo libro del pensatore francese Alain de Benoist, Sull’orlo del baratro È uscito da pochi giorni nelle librerie Sull’orlo del baratro, l’ultimo lavoro dell’autore francese Alain de Benoist. Pensatore decisamente anticonformista, da sempre vicino ai temi della decrescita, del comunitarismo e fortemente critico nei confronti del sistema socioeconomico fondato sui postulati del liberal-capitalismo, de Benoist non si è astenuto da una puntuale analisi sulla crisi dell’euro in atto, alla quale fa da sfondo un più ampio collasso del sistema-Europa. L’autore transalpino è stato recentemente in Italia per presentare il suo libro e per partecipare alla trasmissione di La7 L’infedele, dedicata alla crisi finanziaria europea. La sua disamina parte da un’inquietante previsione: la recessione iniziata nel 2008 è ben lungi dal risolversi e, alla fine, i suoi effetti saranno più devastanti del crack del 1929. La prima fase è stata caratterizzata da un deciso processo di virtualizzazione dell’economia e dalla scomparsa, di fatto, dell’economia reale. Questo è stato possibile grazie all’esplosione del debito privato. La seconda fase, che stiamo attraversando oggi, ha visto spostarsi il problema sul debito pubblico: quello dell’eurozona è aumentato del 27% negli ultimi quattro anni e oggi sono ben otto i paesi membri il cui rapporto fra debito e PIL supera l’80%. Una situazione che, conti alla mano, è più grave di quella che ha immediatamente seguito la Seconda Guerra Mondiale. De Benoist prosegue con una breve analisi del proprio paese, la Francia, impegnata fra l’altro in un delicato passaggio elettorale. Lì, il deficit è aumentato del 30% negli ultimi quattro anni e, se nel 1979 rappresentava solo il 2% del Pil, oggi è arrivato all’8,4%, a cui vanno aggiunti gli investimenti del 2011, già effettuati ma non ancora conteggiati. In questo perverso meccanismo, l’aspetto più critico è quello relativo agli interessi sul debito, che rappresentano un fardello che grava oggi e graverà in futuro sulle generazioni a venire, determinando la perdita della sovranità economica da parte dello Stato e quindi del popolo. crisi greca Da alcuni anni è in atto un’accesa guerra finanziaria, che vede gli speculatori contrapposti agli Stati nazionali L’analisi prosegue volgendo uno sguardo più generico alla crisi del debito: il passaggio dal pubblico a quello privato è avvenuto con i mastodontici piani di salvataggio che i Governi – inglese, americano e altri – hanno dovuto approntare per soccorrere le numerose banche private che hanno rischiato il default fra il 2008 e il 2009. A questo scopo, fra il 2008 e il 2010 le banche centrali hanno iniettato 500 miliardi di dollari nell’economia mondiale. Come un cane che si morde la coda, la situazione finanziaria degli Stati nazione ha cominciato a peggiorare: le entrate diminuivano e i prestiti aumentavano, secondo i meccanismi della politica di deregolamentazione che fu inaugurata negli anni ottanta dai governi Reagan e Thatcher e che per tre decenni è stata alimentata dalle lobby finanziarie internazionali. Così, il capitale è uscito dalla sfera produttiva sganciandosi dall’economia reale, i salari si sono abbassati, le barriere doganali sono state progressivamente eliminate, i prezzi hanno perso stabilità. Le conseguenze? Delocalizzazione, deindustrializzazione con conseguente disoccupazione, fuga di capitali, precarizzazione del lavoro. Si è così consolidato un sistema socioeconomico caratterizzato da una profonda disuguaglianza, in cui la ricchezza è destinata alla fetta più sottile, già benestante, della popolazione mondiale. Da alcuni anni è in atto un’accesa guerra finanziaria, che vede gli speculatori contrapposti agli Stati nazionali. Arbitri di questa contesa sono le agenzie di rating – le tre principali dominano il 90% del settore. Si tratta però di giudici tanto influenti quanto parziali: non sono indipendenti, bensì strettamente legate alle banche private, nonostante i prodotti che devono valutare siano emessi proprio da queste ultime. Inoltre, il potere che le agenzie esercitano nei confronti degli Stati è enorme, poiché esse hanno il compito di valutare la solvibilità dei prestiti. Ancora più perverso è il meccanismo di finanziamento delle operazioni di acquisto del debito pubblico, oggi in buona parte posseduto dalle banche private. Queste ultime hanno infatti prestato denaro ai governi a tassi di mercato, prendendolo però a loro volta dalle banche centrali a condizioni estremamente favorevoli. In Europa, la differenza dei tassi dei prestiti fra banche private e BCE e fra banche private e stati membri è enorme: l’1% nel primo caso, il 7% nel secondo. In questo modo gli Stati diventano volontariamente debitori degli istituti privati, ponendosi in loro potere. I regolamenti internazionali aggravano ulteriormente la situazione: per gli Stati i prestiti a lungo termine sono gravati da tassi d’interesse insostenibili; gli unici organismi che concedono tassi più contenuti sono FMI e BCE, ma la contropartita da pagare è pesantissima e consiste nell’applicazione di rigide misure di politica economica. In questo consiste l’austerity, che provoca però la diminuzione dei redditi, quindi la deflazione e, come conseguenza finale, il blocco della crescita economica. È la “strategia dello shock”: aumentano le tasse, diminuisce la spesa pubblica, vengono tagliati i servizi. In tutti i paesi che subiscono questa imposizione si verifica quindi un passaggio di sovranità, che dal popolo si trasferisce ai creditori privati. bce La differenza dei tassi dei prestiti fra banche private e BCE e fra banche private e stati membri è enorme Il rischio, che al contrario potrebbe essere interpretato come l’unica via d’uscita, è che la base reagisca: rivolte popolari contro l’austerità o decise prese di posizione dei governi finalizzate al ripudio del debito sono le opzioni. In questo senso, ciò che sta accadendo in questi mesi in Grecia non è che un’anticipazione di quanto potrebbe succedere in futuro in molti dei paesi europei, fra cui anche l’Italia. A trovarsi in pericolo è lo stesso euro: per la Grecia, così come per gli altri Stati, si tratta solo di una trappola che ha l’unico effetto di bloccare le esportazioni. Inoltre, gli aggiustamenti di politica economica non possono più appoggiarsi alla svalutazione della moneta nazionale e devono quindi colpire i prestiti e l’occupazione. In questa tragica situazione è il patrimonio fisico del paese a rischiare di scomparire o meglio di essere svenduto; per esempio per la Grecia la contropartita per gli aiuti ricevuti è stata una robusta campagna di privatizzazioni. Diminuzione del numero dei dipendenti pubblici, tagli sociali e alla sanità, stipendi dimezzati sono le altre misure di austerità imposte. Così facendo però si rinvia solo una scadenza inevitabile, la malattia non può essere curata con le stesse cause che l’hanno generata. Nel caso della Grecia, l’unica alternativa al collasso completo è l’uscita dall’euro. In Europa, così come nel paese ellenico, le uniche vittime della politica dell’austerità saranno le classi popolari e medie. Non ci saranno effetti risolutivi, poiché, molto semplicemente, nessun paese all’oggi è in grado di rimborsare il proprio debito. Il dubbio che cominciano a porsi molti è ancora più preoccupante: cosa succederà quando Stati estremamente potenti dal punto di vista geopolitico – gli Stati Uniti tanto per non fare nomi – si troveranno insolventi? Quanto ci vorrà prima che il conflitto si sposti dal piano finanziario a quello militare? di Francesco Bevilacqua

02 maggio 2012

A chi vanno i nostri sacrifici?

Non c'è talk-show televisivo o editoriale di giornale che non parli di "crescita". Ormai ha soppiantato lo spread nell'immaginario collettivo degli italiani. Tutti concordano che bisogna "crescere", ma nessuno dice come fare; al solito... all'italiana: basta descrivere il problema e poi aspettare che si risolva da solo... oppure che sia "sostituito" da qualche altro tema più urgente. Ebbene, oggi cercheremo di capire cosa occorre per "crescere" e lo faremo matematicamente usando l'equazione del Pil= Spese dei privati + Spese dello Stato + Saldo con l'estero. In cui: Spese delle Stato= T (Tasse) - S (Saldo del bilancio statale); Spese dei privati= Re (Reddito totale dei cittadini) - T (Tasse) - Ri (Risparmio dei cittadini); Saldo con l'estero= Es (Esportazioni) - Im (Importazioni). Sostituendo nell'equazione di prima: Pil= T - S +Re -T - Ri + Es - Im; Ovvero: Pil= Re - (Ri + S)+ (Es - Im) Come si genera la crescita, dunque? Aumentando il reddito dei cittadini; Riducendo il risparmio dei cittadini e aumentando il deficit del bilancio statale; Aumentando le esportazioni e riducendo le importazioni. Altro non c'è. Cosa può fare, principalmente, il governo per la crescita? Svalutare la moneta per favorire le esportazioni e scoraggiare le importazioni; Aumentare il deficit di bilancio. Cosa possono fare, principalmente, i cittadini per favorire la crescita? Risparmiare di meno (e quindi spendere di più); Lavorare di più (o più efficacemente) in modo da aumentare produzione e reddito. Se questa è la teoria, vediamo adesso la pratica: cosa sta facendo il governo italiano? Non può svalutare la moneta; Sta riducendo il deficit di bilancio. In un caso (svalutazione della moneta) non può intervenire e nell'altro sta facendo l'esatto contrario di ciò che dovrebbe fare. Il governo italiano, dunque, a parole "auspica" la crescita, ma nei fatti opera in modo contrario... per la decrescita. Ed i cittadini? Non possono spendere di più perché hanno paura del futuro (quindi risparmiano più che possono); Non possono lavorare di più perché perdono il lavoro e la disoccupazione aumenta in modo preoccupante. Così stando le cose il disastro è inevitabile. Come se ne esce? Nella sola maniera possibile: aumentando il deficit del bilancio statale e/o rilanciando le esportazioni. Entrambe le manovre da fare, dunque, prevedono di uscire dall'Europa che ci costringe al pareggio di bilancio (e nel prossimo futuro, di essere, addirittura, in attivo) e ci impedisce di svalutare la moneta. Ecco dimostrato, matematicamente, che la nostra sola alternativa al disastro, è l'uscita dalla UE. Il resto è conversazione da Bar, dopo qualche bianchetto e la discussione sui rigori negati alla Juventus. Perché l'ho chiamato disastro? Se il Pil decresce supponiamo del 2%, il deficit dello Stato si riduce del 3% ed il saldo con l'estero non cambia... Pil= Re - (Ri + S)+ (Es - Im); -2% = (Var% Re) - Ri + 3% . Supponiamo che Re non cambi (cioè Var%Re=0), allora Ri deve ridursi del 5%. Cos'è Ri? Il risparmio dei cittadini: la quota di ricchezza che gli italiani mettono da parte ogni anno. Il fatto di essere negativo, significa deflusso... ogni anno i cittadini italiani devono privarsi del 5% (in termini di Pil) della ricchezza che hanno accumulato nel corso degli anni. Mi capite picciotti? Tutti noi, anno dopo anno, dovremo devolvere 75 miliardi dei nostri risparmi, per "assecondare" la politica economica di questo governo. Significano 750 miliardi in 10 anni. A chi vanno quei denari? Principalmente alle banche creditrici dello Stato italiano (francesi e tedesche su tutte). Sono loro che in caso di mancato rimborso dei titoli di Stato italiani subirebbero le perdite maggiori, trascinandosi i relativi paesi (Francia e Germania su tutti) nel baratro. Mi sono spiegato? E' necessario che noi devolviamo 75 miliardi l'anno (per almeno dieci anni) dei nostri risparmi (ovvero che ci impoveriamo in maniera considerevole) per evitare che Francia e Germania facciano la nostra stessa fine... Il governo Monti, dunque, a questo è stato "chiamato"... a garantire i creditori (Francia e Germania) ed evitare che il nostro default si trasformi nel loro tracollo... Adesso vi è chiaro chi ha voluto Monti, Passera, Grilli etc... al governo? E vi anche chiaro perché non si parla di nostra uscita dalla UE? Se uscissimo, Francia e Germania subirebbero danni enormi nel futuro prossimo e in quello remoto. Questo governo, dunque, deve farci "digerire" un generale, drastico impoverimento del nostro paese per "garantire" i livelli di reddito di Francia e Germania nel presente e nel futuro. Bisogna che noi si resti in mutande, affinché francesi e tedeschi (ma sono soprattutto i tedeschi) mantengano il loro standard di vita inalterato e, anzi, nel caso dei tedeschi, migliorato. Capite a chi vanno i nostri sacrifici? Capite perché dico che dovremmo essere tutti in Piazza con le roncole ed i forconi? di G. Migliorino

01 maggio 2012

Il più grande imprenditore italiano attacca le banche e ne denuncia la speculazione

È il nostro fiore all’occhiello. È forse l’unica grande azienda italiana, leader planetario nel suo specifico settore merceologico, ad essere virtuosa, solida, in espansione. Presente in 132 nazioni, ha 75.560 dipendenti, di cui 62.000 addetti che producono nel territorio della repubblica italiana. Non ha neppure un cassintegrato e non ne prevede. Il suo titolo quotato in borsa, soltanto nel 2012, è schizzato in avanti del 32%: unico titolo in positivo. Il suo fatturato si aggira intorno ai 7 miliardi di euro, superiore di un +13,1% rispetto all’anno precedente. L’azienda è nata nel 1961, ad Agordo, in provincia di Belluno, dentro un garage. La storia di questa fabbrica e del suo ideatore e fondatore è studiata oggi nel corso di management industriale all’università di Harvard come esempio pratico e vincente “del miracolo economico italiano che coniuga impresa, creatività, rischio, con una ricerca accurata del design, del gusto e del dettaglio che nasce dall’applicazione della tradizione artigiana locale”. L’azienda non ha mai visto uno sciopero, né uno scorporo, né proteste. Si chiama LUXOTTICA. Produce lenti per occhiali e li vende in tutto il mondo. Tra i suoi clienti più famosi la polizia stradale della California (i celeberrimi CHIPS) l’esercito cinese, tutta la linea occhiali di Christian Dior e Yves Saint Laurent. Produce in Italia e vende in Cina. Il suo proprietario e fondatore, Leonardo Del Vecchio, nato nel 1935 a Milano, è poco noto alla massa degli italiani. Ma il suo nome è un mito in Usa, Germania, Gran Bretagna, Cina. La sua frase più recente? “Non investiamo neppure un euro nella finanza, perché noi sappiamo come produrre, come inventare mercato, avendo come fine la ricchezza collettiva della comunità, altrimenti questo lavoro non avrebbe senso”. Alieno da conventicole, complotti, schieramenti politici di parte, corteggiato da sempre sia dalla destra che dalla sinistra (“no grazie, non mi piacciono i balli a corte” ha risposto all’ultima preghiera-convocazione alle elezioni politiche del 2008 sia al PD che al PDL che alla Lega Nord) è uscito allo scoperto per la prima volta nella sua esistenza, violando il suo codice personale fatto di discrezione, poche chiacchiere e molto lavoro intinto di creatività. “Basta con i manager mitomani finanzieri” ha detto al giornalista Daniele Manca in una esplosiva intervista pubblicata sul corriere della sera qualche giorno fa, non a caso, in Italia, volutamente passata sotto silenzio e rimasta priva del dibattito che avrebbe meritato. Ma non all’estero. Soprattutto in Usa e in Gran Bretagna dove la situazione italiana è seguita con estrema attenzione, perché Del Vecchio sta spiegando come funziona l’Italia, anzi….come non funziona l’Italia e perché, allertando il business internazionale che conta sulla situazione nel nostro paese. Vox clamantis in deserto, la sua opinione è fondamentale, soprattutto in questo momento, e per una ragione ben specifica: perché Del Vecchio è sceso in campo (non ama e non ha bisogno di visibilità) andando all’attacco del cuore della finanza italiana. Qualche notizia biografica su di lui tanto per capire che tipo sia. All’età di sette anni rimane orfano, insieme a quattro fratelli. Provenendo da famiglia disagiata, i fratelli vengono dati in affidamento. Lui, invece, finisce nei Martinitt, l’orfanotrofio milanese per poveri. All’età di 15 anni, con il diploma di scuola media, esce e va a lavorare come garzone di bottega in una fabbrica che stampa marchi di metallo. I proprietari del negozio lo aiutano e lo spingono a iscriversi ai corsi serali all’Accademia di Brera per studiare design e soprattutto incisione. A ventidue anni si trasferisce nel trentino dove trova lavoro come operaio in una fabbrica di incisioni metalliche e impara il mestiere. Dopo sei anni, all’età di 27 anni, riesce a ottenere gratis un enorme garage e capannone abbandonato nel comune di Belluno, di proprietà della regione, con la consegna di avviare un’attività per assumere personale proveniente dalle comunità montane più disagiate. E inizia, insieme a due collaboratori, a tirar su l’impresa: fabbricare occhiali all’italiana, con montature originali artigianali d’eccellenza, incise a mano, e lenti molate da lui personalmente. Vent’anni dopo è una florida azienda e va all’attacco del mercato statunitense che gli mette potenti sbarramenti. Li supera tutti. Stende la concorrenza più competitiva che si arrende. Acquista i tre più importanti marchi Usa e diventa la più potente multinazionale al mondo nel settore della produzione di occhiali. Dal 2002 è leader incontrastato. Oltre ad essere il maggior azionista di Luxottica è un importantissimo grande azionista di Unicredit e soprattutto le assicurazioni Generali. Data la sua posizione è sempre stato nel consiglio direttivo del colosso assicurativo. Tre giorni fa (ed ecco perché ne parliamo e lui ha deciso di parlarne al pubblico) si è dimesso, se n’è andato sbattendo via la porta, con un clamoroso atto d’accusa: “la mia è una protesta contro il management imprenditoriale di questo paese, composto da individui superficiali che non sanno nulla del loro lavoro, sono semplici contabili mitòmani. Mi sento davvero a disagio. Il vero problema è che quando da assicuratori si vuole diventare finanzieri comprando le più disparate partecipazioni senza comunicare nulla ai propri azionisti, non si fa un buon servizio né per l’azienda, né per gli azionisti, né per il paese. Mentre questo è un periodo in cui ciascuno dovrebbe fare il proprio dovere, ovverossia: fare ciò che sa fare. E chi crede che lo spread sia domato, si sbaglia di grosso. Basta un nulla per farlo schizzare a 600 e mandare la nazione a picco. È ciò che stanno facendo gli imprenditori italiani e le banche e i colossi assicurativi perché insistono nell’investire nella finanza: il rischio è alto ed estremo”. La considero una voce fondamentale da ascoltare, quella di Leonardo Del Vecchio. Sulla quale riflettere. Perché l’Italia ha bisogno di un incontro tra imprenditoria efficace, efficiente e virtuosa da una parte e mondo del lavoro dall’altro, uscendo fuori dalle consuete griglie di protesta che finiscono per coagulare dissenso e indignazione uscendo fuori dalla immediata necessità di emergenza di costruire alleanze solide tra le due parti sociali. Del Vecchio è sceso in campo. Nel modo giusto. Non scende in campo appoggiando un certo partito, né movimento. Non ama Monti e non lo odia. Non vuole entrare in politica come soggetto. Vuole dare uno scossone al mondo dell’imprenditoria. La sua voce è da diffondere. Perché il suo curriculum professionale ed esistenziale è il suo biglietto da visita. “Il problema dell’Italia nasce quando si vuole fare finanza. Quando, le aziende, usando i soldi degli investitori e soprattutto dei risparmiatori, comprano un pezzettino di Telecom, e un pezzetto di una banca russa; si mettono a repentaglio – come nel caso delle assicurazioni Generali – ben due miliardi di euro alleandosi con il finanziere ceko Kellner e ci si impegna con la Citylife in una percentuale che nessun immobiliarista al mondo avrebbe mai accettato, com’è avvenuto nel 2009 quando hanno investito 800 milioni in fondi di investimento greci. Miliardi di euro sono andati in fumo. Erano soldi di imprenditori italiani che avevano investito con l’idea di poter poi spostare i profitti nel mercato del lavoro per tirar su imprese e creare lavoro. I manager responsabili di questi atti perdenti sono stati tutti promossi e saldati con stipendi multi milionari. Non si va da nessuna parte, così”. È impietoso, Del Vecchio. Picchia duro. E se lo può permettere. E parlando al canale televisivo di Bloomberg, quando un giornalista americano gli ha fatto la domanda da 1 milione di dollari “Lei come si pone rispetto all’articolo 18 che in Italia è il punto dolente nello scontro tra imprenditori e lavoratori?” ne è uscito in maniera impeccabile. Ha risposto: “Un dibattito inutile, fuorviante. Personalmente, ripeto “personalmente” non mi riguarda. Su 65.000 lavoratori italiani che pago ogni mese, non c’è nessuno, neppure uno che rischia il licenziamento. Che ci sia l’art.18 così com’è, che venga abolito, modificato, cambiato, per me è irrilevante. La mia azienda funziona e ogni imprenditore – parlo di quelli veri – ha come sogno autentico quello di assumere e non di licenziare. Il paese si rialza assumendo non licenziando. E la colpa è delle banche”. È la prima volta che un grande imprenditore, un grande finanziere, un grande industriale, attacca frontalmente le banche italiane. E qui non si tratta dei bloggers che odiano Goldman Sachs o dei consueti slogan contro la finanza internazionale. Perché Del Vecchio attacca la gestione inconcludente delle banche, affidata a “personale e personalità poco affidabili”. Racconta la parabola di Alessandro Profumo che lui presenta come una favola con un brutto finale, senza fare pettegolezzi o scandali. “Finchè Unicredit e le Generali facevano le banche andava bene. Poi si sono buttati nella finanza e hanno perso la testa. Ho visto sotto i miei occhi trasformarsi Profumo. Partecipazioni, fusioni, investimenti a pioggia inutili e perdenti, con l’unico fine di agguantare soldi veloci e facili invece che produrre impresa con l’unico risultato di ottenere perdite colossali e bonus di uscita per diverse decine di milioni di euro. Le banche italiane hanno perso la testa. Ricordo il 1981. La mia azienda, dopo 20 anni, era diventata forte e solida. Avevo capito che la globalizzazione era alle porte e bisognava andare all’attacco del mercato americano. Ma non si cerca di entrare in Usa se non si è solidi finanziariamente. Abbiamo fatto le nostre ricerche e analisi e alla fine abbiamo calcolato che avevamo bisogno di una certa cifra molto alta. Mi rivolsi al Credito Italiano. Andai a parlare con Rondelli che la dirigeva. Gli dissi che volevo iniziare acquistando Avantgarde, un marchio americano che sarebbe stato il cavallo di Troia, ma non avevo i soldi. Presentai il progetto, il business plan, il programma, i rischi. Dieci giorni dopo mi convocò alla banca. Accettò. Mi presentai in Usa che mi ridevano in faccia. Dissero la cifra. Tirai fuori il libretto di assegni e firmai senza neppure chiedere lo sconto di un dollaro. Due ore dopo, l’amministratore delegato di Avantgarde mi confessò al bar penso di aver commesso il più grande errore professionale della mia vita e si ritirò dagli affari. Un anno dopo avevo restituito alla banca tutto il capitale con gli interessi composti, avevo aperto quattro nuovi stabilimenti e assunto 4.500 persone. Questo deve fare una banca. O in Italia lo capiscono e si danno una smossa, oppure si rimane alle chiacchiere e si affonda”. Del Vecchio spera e auspica che Monti intervenga molto presto nel settore che lui (e Corrado Passera) conoscono molto ma molto bene: banche e finanza italiane. E propone di far applicare un codice ferreo di regolamentazione comportamentale che imponga a tutti gli amministratori delegati di banche, fondazioni e aziende, di riferire come usano i soldi. “Alle Generali l’amministratore delegato poteva disporre investimenti fino a 300 milioni di euro senza comunicare niente a nessuno. Lo stesso a Unicredit, Intesa SanPaolo, Mps. La verità è che nessuno sa dove vanno a finire quei soldi, dove siano andati a finire i soldi. La mia azienda alla fine dell’anno si ritrova circa 700 milioni di euro da investire. Andrea Guerra che è il mio amministratore ogni volta che deve spendere cifre superiori a 1 milione di euro, informa ogni singolo membro del consiglio e manda copia a ogni importante azionista. Pretende di avere delle risposte e pretende che si discuta del suo investimento perché vuole sapere l’opinione di tutti, compreso il collegio sindacale interno e il rappresentante sindacale dei lavoratori dipendenti. Perché l’azienda è anche loro. Il loro posto dipende dalle scelte di chi dirige. Ogni decisione presa viene valutata collettivamente. Se si rischia, lo sanno tutti, l’hanno accettato. Non esistono mai sorprese. Questa è la strada. Non ne esistono altre. O si fa così, o si chiude tutti quanti, baracca e burattini”. Perché la classe politica italiana non si fa carico delle gravissime preoccupazioni di imprenditori come Del Vecchio e non interviene in proposito? Non stanno lì in parlamento ad appoggiare un gruppo di professori nel nome delle imprese e della ripresa economica? Se non ascoltano i leader che producono, che senso ha? Dov'è il Senso? Ho pensato che potesse essere interessante una voce insolita, diversa dai precari, dai disoccupati, dai licenziati, che vivono ogni giorno la propria tragedia esistenziale. Il nemico non sono le imprese. Il vero nemico è la sordità di governanti e politici che non ascoltano chi produce e conosce la verità del mercato. Quello è il vero nemico. Quella sordità è l’anti-politica. Che cosa c’entra Beppe Grillo? di Sergio Di Cori Modigliani

04 maggio 2012

"Sull’orlo del baratro", la crisi dell’euro secondo Alain de Benoist

Debito pubblico, crisi greca, tassi d’interesse, creazione del denaro, sovranità economica. Nel suo ultimo libro "Sull’orlo del baratro", da pochi giorni in libreria, lo scrittore francese Alain de Benoist analizza attraverso tutte queste variabili la situazione economica europea e globale. de benoist È appena uscito l'ultimo libro del pensatore francese Alain de Benoist, Sull’orlo del baratro È uscito da pochi giorni nelle librerie Sull’orlo del baratro, l’ultimo lavoro dell’autore francese Alain de Benoist. Pensatore decisamente anticonformista, da sempre vicino ai temi della decrescita, del comunitarismo e fortemente critico nei confronti del sistema socioeconomico fondato sui postulati del liberal-capitalismo, de Benoist non si è astenuto da una puntuale analisi sulla crisi dell’euro in atto, alla quale fa da sfondo un più ampio collasso del sistema-Europa. L’autore transalpino è stato recentemente in Italia per presentare il suo libro e per partecipare alla trasmissione di La7 L’infedele, dedicata alla crisi finanziaria europea. La sua disamina parte da un’inquietante previsione: la recessione iniziata nel 2008 è ben lungi dal risolversi e, alla fine, i suoi effetti saranno più devastanti del crack del 1929. La prima fase è stata caratterizzata da un deciso processo di virtualizzazione dell’economia e dalla scomparsa, di fatto, dell’economia reale. Questo è stato possibile grazie all’esplosione del debito privato. La seconda fase, che stiamo attraversando oggi, ha visto spostarsi il problema sul debito pubblico: quello dell’eurozona è aumentato del 27% negli ultimi quattro anni e oggi sono ben otto i paesi membri il cui rapporto fra debito e PIL supera l’80%. Una situazione che, conti alla mano, è più grave di quella che ha immediatamente seguito la Seconda Guerra Mondiale. De Benoist prosegue con una breve analisi del proprio paese, la Francia, impegnata fra l’altro in un delicato passaggio elettorale. Lì, il deficit è aumentato del 30% negli ultimi quattro anni e, se nel 1979 rappresentava solo il 2% del Pil, oggi è arrivato all’8,4%, a cui vanno aggiunti gli investimenti del 2011, già effettuati ma non ancora conteggiati. In questo perverso meccanismo, l’aspetto più critico è quello relativo agli interessi sul debito, che rappresentano un fardello che grava oggi e graverà in futuro sulle generazioni a venire, determinando la perdita della sovranità economica da parte dello Stato e quindi del popolo. crisi greca Da alcuni anni è in atto un’accesa guerra finanziaria, che vede gli speculatori contrapposti agli Stati nazionali L’analisi prosegue volgendo uno sguardo più generico alla crisi del debito: il passaggio dal pubblico a quello privato è avvenuto con i mastodontici piani di salvataggio che i Governi – inglese, americano e altri – hanno dovuto approntare per soccorrere le numerose banche private che hanno rischiato il default fra il 2008 e il 2009. A questo scopo, fra il 2008 e il 2010 le banche centrali hanno iniettato 500 miliardi di dollari nell’economia mondiale. Come un cane che si morde la coda, la situazione finanziaria degli Stati nazione ha cominciato a peggiorare: le entrate diminuivano e i prestiti aumentavano, secondo i meccanismi della politica di deregolamentazione che fu inaugurata negli anni ottanta dai governi Reagan e Thatcher e che per tre decenni è stata alimentata dalle lobby finanziarie internazionali. Così, il capitale è uscito dalla sfera produttiva sganciandosi dall’economia reale, i salari si sono abbassati, le barriere doganali sono state progressivamente eliminate, i prezzi hanno perso stabilità. Le conseguenze? Delocalizzazione, deindustrializzazione con conseguente disoccupazione, fuga di capitali, precarizzazione del lavoro. Si è così consolidato un sistema socioeconomico caratterizzato da una profonda disuguaglianza, in cui la ricchezza è destinata alla fetta più sottile, già benestante, della popolazione mondiale. Da alcuni anni è in atto un’accesa guerra finanziaria, che vede gli speculatori contrapposti agli Stati nazionali. Arbitri di questa contesa sono le agenzie di rating – le tre principali dominano il 90% del settore. Si tratta però di giudici tanto influenti quanto parziali: non sono indipendenti, bensì strettamente legate alle banche private, nonostante i prodotti che devono valutare siano emessi proprio da queste ultime. Inoltre, il potere che le agenzie esercitano nei confronti degli Stati è enorme, poiché esse hanno il compito di valutare la solvibilità dei prestiti. Ancora più perverso è il meccanismo di finanziamento delle operazioni di acquisto del debito pubblico, oggi in buona parte posseduto dalle banche private. Queste ultime hanno infatti prestato denaro ai governi a tassi di mercato, prendendolo però a loro volta dalle banche centrali a condizioni estremamente favorevoli. In Europa, la differenza dei tassi dei prestiti fra banche private e BCE e fra banche private e stati membri è enorme: l’1% nel primo caso, il 7% nel secondo. In questo modo gli Stati diventano volontariamente debitori degli istituti privati, ponendosi in loro potere. I regolamenti internazionali aggravano ulteriormente la situazione: per gli Stati i prestiti a lungo termine sono gravati da tassi d’interesse insostenibili; gli unici organismi che concedono tassi più contenuti sono FMI e BCE, ma la contropartita da pagare è pesantissima e consiste nell’applicazione di rigide misure di politica economica. In questo consiste l’austerity, che provoca però la diminuzione dei redditi, quindi la deflazione e, come conseguenza finale, il blocco della crescita economica. È la “strategia dello shock”: aumentano le tasse, diminuisce la spesa pubblica, vengono tagliati i servizi. In tutti i paesi che subiscono questa imposizione si verifica quindi un passaggio di sovranità, che dal popolo si trasferisce ai creditori privati. bce La differenza dei tassi dei prestiti fra banche private e BCE e fra banche private e stati membri è enorme Il rischio, che al contrario potrebbe essere interpretato come l’unica via d’uscita, è che la base reagisca: rivolte popolari contro l’austerità o decise prese di posizione dei governi finalizzate al ripudio del debito sono le opzioni. In questo senso, ciò che sta accadendo in questi mesi in Grecia non è che un’anticipazione di quanto potrebbe succedere in futuro in molti dei paesi europei, fra cui anche l’Italia. A trovarsi in pericolo è lo stesso euro: per la Grecia, così come per gli altri Stati, si tratta solo di una trappola che ha l’unico effetto di bloccare le esportazioni. Inoltre, gli aggiustamenti di politica economica non possono più appoggiarsi alla svalutazione della moneta nazionale e devono quindi colpire i prestiti e l’occupazione. In questa tragica situazione è il patrimonio fisico del paese a rischiare di scomparire o meglio di essere svenduto; per esempio per la Grecia la contropartita per gli aiuti ricevuti è stata una robusta campagna di privatizzazioni. Diminuzione del numero dei dipendenti pubblici, tagli sociali e alla sanità, stipendi dimezzati sono le altre misure di austerità imposte. Così facendo però si rinvia solo una scadenza inevitabile, la malattia non può essere curata con le stesse cause che l’hanno generata. Nel caso della Grecia, l’unica alternativa al collasso completo è l’uscita dall’euro. In Europa, così come nel paese ellenico, le uniche vittime della politica dell’austerità saranno le classi popolari e medie. Non ci saranno effetti risolutivi, poiché, molto semplicemente, nessun paese all’oggi è in grado di rimborsare il proprio debito. Il dubbio che cominciano a porsi molti è ancora più preoccupante: cosa succederà quando Stati estremamente potenti dal punto di vista geopolitico – gli Stati Uniti tanto per non fare nomi – si troveranno insolventi? Quanto ci vorrà prima che il conflitto si sposti dal piano finanziario a quello militare? di Francesco Bevilacqua

02 maggio 2012

A chi vanno i nostri sacrifici?

Non c'è talk-show televisivo o editoriale di giornale che non parli di "crescita". Ormai ha soppiantato lo spread nell'immaginario collettivo degli italiani. Tutti concordano che bisogna "crescere", ma nessuno dice come fare; al solito... all'italiana: basta descrivere il problema e poi aspettare che si risolva da solo... oppure che sia "sostituito" da qualche altro tema più urgente. Ebbene, oggi cercheremo di capire cosa occorre per "crescere" e lo faremo matematicamente usando l'equazione del Pil= Spese dei privati + Spese dello Stato + Saldo con l'estero. In cui: Spese delle Stato= T (Tasse) - S (Saldo del bilancio statale); Spese dei privati= Re (Reddito totale dei cittadini) - T (Tasse) - Ri (Risparmio dei cittadini); Saldo con l'estero= Es (Esportazioni) - Im (Importazioni). Sostituendo nell'equazione di prima: Pil= T - S +Re -T - Ri + Es - Im; Ovvero: Pil= Re - (Ri + S)+ (Es - Im) Come si genera la crescita, dunque? Aumentando il reddito dei cittadini; Riducendo il risparmio dei cittadini e aumentando il deficit del bilancio statale; Aumentando le esportazioni e riducendo le importazioni. Altro non c'è. Cosa può fare, principalmente, il governo per la crescita? Svalutare la moneta per favorire le esportazioni e scoraggiare le importazioni; Aumentare il deficit di bilancio. Cosa possono fare, principalmente, i cittadini per favorire la crescita? Risparmiare di meno (e quindi spendere di più); Lavorare di più (o più efficacemente) in modo da aumentare produzione e reddito. Se questa è la teoria, vediamo adesso la pratica: cosa sta facendo il governo italiano? Non può svalutare la moneta; Sta riducendo il deficit di bilancio. In un caso (svalutazione della moneta) non può intervenire e nell'altro sta facendo l'esatto contrario di ciò che dovrebbe fare. Il governo italiano, dunque, a parole "auspica" la crescita, ma nei fatti opera in modo contrario... per la decrescita. Ed i cittadini? Non possono spendere di più perché hanno paura del futuro (quindi risparmiano più che possono); Non possono lavorare di più perché perdono il lavoro e la disoccupazione aumenta in modo preoccupante. Così stando le cose il disastro è inevitabile. Come se ne esce? Nella sola maniera possibile: aumentando il deficit del bilancio statale e/o rilanciando le esportazioni. Entrambe le manovre da fare, dunque, prevedono di uscire dall'Europa che ci costringe al pareggio di bilancio (e nel prossimo futuro, di essere, addirittura, in attivo) e ci impedisce di svalutare la moneta. Ecco dimostrato, matematicamente, che la nostra sola alternativa al disastro, è l'uscita dalla UE. Il resto è conversazione da Bar, dopo qualche bianchetto e la discussione sui rigori negati alla Juventus. Perché l'ho chiamato disastro? Se il Pil decresce supponiamo del 2%, il deficit dello Stato si riduce del 3% ed il saldo con l'estero non cambia... Pil= Re - (Ri + S)+ (Es - Im); -2% = (Var% Re) - Ri + 3% . Supponiamo che Re non cambi (cioè Var%Re=0), allora Ri deve ridursi del 5%. Cos'è Ri? Il risparmio dei cittadini: la quota di ricchezza che gli italiani mettono da parte ogni anno. Il fatto di essere negativo, significa deflusso... ogni anno i cittadini italiani devono privarsi del 5% (in termini di Pil) della ricchezza che hanno accumulato nel corso degli anni. Mi capite picciotti? Tutti noi, anno dopo anno, dovremo devolvere 75 miliardi dei nostri risparmi, per "assecondare" la politica economica di questo governo. Significano 750 miliardi in 10 anni. A chi vanno quei denari? Principalmente alle banche creditrici dello Stato italiano (francesi e tedesche su tutte). Sono loro che in caso di mancato rimborso dei titoli di Stato italiani subirebbero le perdite maggiori, trascinandosi i relativi paesi (Francia e Germania su tutti) nel baratro. Mi sono spiegato? E' necessario che noi devolviamo 75 miliardi l'anno (per almeno dieci anni) dei nostri risparmi (ovvero che ci impoveriamo in maniera considerevole) per evitare che Francia e Germania facciano la nostra stessa fine... Il governo Monti, dunque, a questo è stato "chiamato"... a garantire i creditori (Francia e Germania) ed evitare che il nostro default si trasformi nel loro tracollo... Adesso vi è chiaro chi ha voluto Monti, Passera, Grilli etc... al governo? E vi anche chiaro perché non si parla di nostra uscita dalla UE? Se uscissimo, Francia e Germania subirebbero danni enormi nel futuro prossimo e in quello remoto. Questo governo, dunque, deve farci "digerire" un generale, drastico impoverimento del nostro paese per "garantire" i livelli di reddito di Francia e Germania nel presente e nel futuro. Bisogna che noi si resti in mutande, affinché francesi e tedeschi (ma sono soprattutto i tedeschi) mantengano il loro standard di vita inalterato e, anzi, nel caso dei tedeschi, migliorato. Capite a chi vanno i nostri sacrifici? Capite perché dico che dovremmo essere tutti in Piazza con le roncole ed i forconi? di G. Migliorino

01 maggio 2012

Il più grande imprenditore italiano attacca le banche e ne denuncia la speculazione

È il nostro fiore all’occhiello. È forse l’unica grande azienda italiana, leader planetario nel suo specifico settore merceologico, ad essere virtuosa, solida, in espansione. Presente in 132 nazioni, ha 75.560 dipendenti, di cui 62.000 addetti che producono nel territorio della repubblica italiana. Non ha neppure un cassintegrato e non ne prevede. Il suo titolo quotato in borsa, soltanto nel 2012, è schizzato in avanti del 32%: unico titolo in positivo. Il suo fatturato si aggira intorno ai 7 miliardi di euro, superiore di un +13,1% rispetto all’anno precedente. L’azienda è nata nel 1961, ad Agordo, in provincia di Belluno, dentro un garage. La storia di questa fabbrica e del suo ideatore e fondatore è studiata oggi nel corso di management industriale all’università di Harvard come esempio pratico e vincente “del miracolo economico italiano che coniuga impresa, creatività, rischio, con una ricerca accurata del design, del gusto e del dettaglio che nasce dall’applicazione della tradizione artigiana locale”. L’azienda non ha mai visto uno sciopero, né uno scorporo, né proteste. Si chiama LUXOTTICA. Produce lenti per occhiali e li vende in tutto il mondo. Tra i suoi clienti più famosi la polizia stradale della California (i celeberrimi CHIPS) l’esercito cinese, tutta la linea occhiali di Christian Dior e Yves Saint Laurent. Produce in Italia e vende in Cina. Il suo proprietario e fondatore, Leonardo Del Vecchio, nato nel 1935 a Milano, è poco noto alla massa degli italiani. Ma il suo nome è un mito in Usa, Germania, Gran Bretagna, Cina. La sua frase più recente? “Non investiamo neppure un euro nella finanza, perché noi sappiamo come produrre, come inventare mercato, avendo come fine la ricchezza collettiva della comunità, altrimenti questo lavoro non avrebbe senso”. Alieno da conventicole, complotti, schieramenti politici di parte, corteggiato da sempre sia dalla destra che dalla sinistra (“no grazie, non mi piacciono i balli a corte” ha risposto all’ultima preghiera-convocazione alle elezioni politiche del 2008 sia al PD che al PDL che alla Lega Nord) è uscito allo scoperto per la prima volta nella sua esistenza, violando il suo codice personale fatto di discrezione, poche chiacchiere e molto lavoro intinto di creatività. “Basta con i manager mitomani finanzieri” ha detto al giornalista Daniele Manca in una esplosiva intervista pubblicata sul corriere della sera qualche giorno fa, non a caso, in Italia, volutamente passata sotto silenzio e rimasta priva del dibattito che avrebbe meritato. Ma non all’estero. Soprattutto in Usa e in Gran Bretagna dove la situazione italiana è seguita con estrema attenzione, perché Del Vecchio sta spiegando come funziona l’Italia, anzi….come non funziona l’Italia e perché, allertando il business internazionale che conta sulla situazione nel nostro paese. Vox clamantis in deserto, la sua opinione è fondamentale, soprattutto in questo momento, e per una ragione ben specifica: perché Del Vecchio è sceso in campo (non ama e non ha bisogno di visibilità) andando all’attacco del cuore della finanza italiana. Qualche notizia biografica su di lui tanto per capire che tipo sia. All’età di sette anni rimane orfano, insieme a quattro fratelli. Provenendo da famiglia disagiata, i fratelli vengono dati in affidamento. Lui, invece, finisce nei Martinitt, l’orfanotrofio milanese per poveri. All’età di 15 anni, con il diploma di scuola media, esce e va a lavorare come garzone di bottega in una fabbrica che stampa marchi di metallo. I proprietari del negozio lo aiutano e lo spingono a iscriversi ai corsi serali all’Accademia di Brera per studiare design e soprattutto incisione. A ventidue anni si trasferisce nel trentino dove trova lavoro come operaio in una fabbrica di incisioni metalliche e impara il mestiere. Dopo sei anni, all’età di 27 anni, riesce a ottenere gratis un enorme garage e capannone abbandonato nel comune di Belluno, di proprietà della regione, con la consegna di avviare un’attività per assumere personale proveniente dalle comunità montane più disagiate. E inizia, insieme a due collaboratori, a tirar su l’impresa: fabbricare occhiali all’italiana, con montature originali artigianali d’eccellenza, incise a mano, e lenti molate da lui personalmente. Vent’anni dopo è una florida azienda e va all’attacco del mercato statunitense che gli mette potenti sbarramenti. Li supera tutti. Stende la concorrenza più competitiva che si arrende. Acquista i tre più importanti marchi Usa e diventa la più potente multinazionale al mondo nel settore della produzione di occhiali. Dal 2002 è leader incontrastato. Oltre ad essere il maggior azionista di Luxottica è un importantissimo grande azionista di Unicredit e soprattutto le assicurazioni Generali. Data la sua posizione è sempre stato nel consiglio direttivo del colosso assicurativo. Tre giorni fa (ed ecco perché ne parliamo e lui ha deciso di parlarne al pubblico) si è dimesso, se n’è andato sbattendo via la porta, con un clamoroso atto d’accusa: “la mia è una protesta contro il management imprenditoriale di questo paese, composto da individui superficiali che non sanno nulla del loro lavoro, sono semplici contabili mitòmani. Mi sento davvero a disagio. Il vero problema è che quando da assicuratori si vuole diventare finanzieri comprando le più disparate partecipazioni senza comunicare nulla ai propri azionisti, non si fa un buon servizio né per l’azienda, né per gli azionisti, né per il paese. Mentre questo è un periodo in cui ciascuno dovrebbe fare il proprio dovere, ovverossia: fare ciò che sa fare. E chi crede che lo spread sia domato, si sbaglia di grosso. Basta un nulla per farlo schizzare a 600 e mandare la nazione a picco. È ciò che stanno facendo gli imprenditori italiani e le banche e i colossi assicurativi perché insistono nell’investire nella finanza: il rischio è alto ed estremo”. La considero una voce fondamentale da ascoltare, quella di Leonardo Del Vecchio. Sulla quale riflettere. Perché l’Italia ha bisogno di un incontro tra imprenditoria efficace, efficiente e virtuosa da una parte e mondo del lavoro dall’altro, uscendo fuori dalle consuete griglie di protesta che finiscono per coagulare dissenso e indignazione uscendo fuori dalla immediata necessità di emergenza di costruire alleanze solide tra le due parti sociali. Del Vecchio è sceso in campo. Nel modo giusto. Non scende in campo appoggiando un certo partito, né movimento. Non ama Monti e non lo odia. Non vuole entrare in politica come soggetto. Vuole dare uno scossone al mondo dell’imprenditoria. La sua voce è da diffondere. Perché il suo curriculum professionale ed esistenziale è il suo biglietto da visita. “Il problema dell’Italia nasce quando si vuole fare finanza. Quando, le aziende, usando i soldi degli investitori e soprattutto dei risparmiatori, comprano un pezzettino di Telecom, e un pezzetto di una banca russa; si mettono a repentaglio – come nel caso delle assicurazioni Generali – ben due miliardi di euro alleandosi con il finanziere ceko Kellner e ci si impegna con la Citylife in una percentuale che nessun immobiliarista al mondo avrebbe mai accettato, com’è avvenuto nel 2009 quando hanno investito 800 milioni in fondi di investimento greci. Miliardi di euro sono andati in fumo. Erano soldi di imprenditori italiani che avevano investito con l’idea di poter poi spostare i profitti nel mercato del lavoro per tirar su imprese e creare lavoro. I manager responsabili di questi atti perdenti sono stati tutti promossi e saldati con stipendi multi milionari. Non si va da nessuna parte, così”. È impietoso, Del Vecchio. Picchia duro. E se lo può permettere. E parlando al canale televisivo di Bloomberg, quando un giornalista americano gli ha fatto la domanda da 1 milione di dollari “Lei come si pone rispetto all’articolo 18 che in Italia è il punto dolente nello scontro tra imprenditori e lavoratori?” ne è uscito in maniera impeccabile. Ha risposto: “Un dibattito inutile, fuorviante. Personalmente, ripeto “personalmente” non mi riguarda. Su 65.000 lavoratori italiani che pago ogni mese, non c’è nessuno, neppure uno che rischia il licenziamento. Che ci sia l’art.18 così com’è, che venga abolito, modificato, cambiato, per me è irrilevante. La mia azienda funziona e ogni imprenditore – parlo di quelli veri – ha come sogno autentico quello di assumere e non di licenziare. Il paese si rialza assumendo non licenziando. E la colpa è delle banche”. È la prima volta che un grande imprenditore, un grande finanziere, un grande industriale, attacca frontalmente le banche italiane. E qui non si tratta dei bloggers che odiano Goldman Sachs o dei consueti slogan contro la finanza internazionale. Perché Del Vecchio attacca la gestione inconcludente delle banche, affidata a “personale e personalità poco affidabili”. Racconta la parabola di Alessandro Profumo che lui presenta come una favola con un brutto finale, senza fare pettegolezzi o scandali. “Finchè Unicredit e le Generali facevano le banche andava bene. Poi si sono buttati nella finanza e hanno perso la testa. Ho visto sotto i miei occhi trasformarsi Profumo. Partecipazioni, fusioni, investimenti a pioggia inutili e perdenti, con l’unico fine di agguantare soldi veloci e facili invece che produrre impresa con l’unico risultato di ottenere perdite colossali e bonus di uscita per diverse decine di milioni di euro. Le banche italiane hanno perso la testa. Ricordo il 1981. La mia azienda, dopo 20 anni, era diventata forte e solida. Avevo capito che la globalizzazione era alle porte e bisognava andare all’attacco del mercato americano. Ma non si cerca di entrare in Usa se non si è solidi finanziariamente. Abbiamo fatto le nostre ricerche e analisi e alla fine abbiamo calcolato che avevamo bisogno di una certa cifra molto alta. Mi rivolsi al Credito Italiano. Andai a parlare con Rondelli che la dirigeva. Gli dissi che volevo iniziare acquistando Avantgarde, un marchio americano che sarebbe stato il cavallo di Troia, ma non avevo i soldi. Presentai il progetto, il business plan, il programma, i rischi. Dieci giorni dopo mi convocò alla banca. Accettò. Mi presentai in Usa che mi ridevano in faccia. Dissero la cifra. Tirai fuori il libretto di assegni e firmai senza neppure chiedere lo sconto di un dollaro. Due ore dopo, l’amministratore delegato di Avantgarde mi confessò al bar penso di aver commesso il più grande errore professionale della mia vita e si ritirò dagli affari. Un anno dopo avevo restituito alla banca tutto il capitale con gli interessi composti, avevo aperto quattro nuovi stabilimenti e assunto 4.500 persone. Questo deve fare una banca. O in Italia lo capiscono e si danno una smossa, oppure si rimane alle chiacchiere e si affonda”. Del Vecchio spera e auspica che Monti intervenga molto presto nel settore che lui (e Corrado Passera) conoscono molto ma molto bene: banche e finanza italiane. E propone di far applicare un codice ferreo di regolamentazione comportamentale che imponga a tutti gli amministratori delegati di banche, fondazioni e aziende, di riferire come usano i soldi. “Alle Generali l’amministratore delegato poteva disporre investimenti fino a 300 milioni di euro senza comunicare niente a nessuno. Lo stesso a Unicredit, Intesa SanPaolo, Mps. La verità è che nessuno sa dove vanno a finire quei soldi, dove siano andati a finire i soldi. La mia azienda alla fine dell’anno si ritrova circa 700 milioni di euro da investire. Andrea Guerra che è il mio amministratore ogni volta che deve spendere cifre superiori a 1 milione di euro, informa ogni singolo membro del consiglio e manda copia a ogni importante azionista. Pretende di avere delle risposte e pretende che si discuta del suo investimento perché vuole sapere l’opinione di tutti, compreso il collegio sindacale interno e il rappresentante sindacale dei lavoratori dipendenti. Perché l’azienda è anche loro. Il loro posto dipende dalle scelte di chi dirige. Ogni decisione presa viene valutata collettivamente. Se si rischia, lo sanno tutti, l’hanno accettato. Non esistono mai sorprese. Questa è la strada. Non ne esistono altre. O si fa così, o si chiude tutti quanti, baracca e burattini”. Perché la classe politica italiana non si fa carico delle gravissime preoccupazioni di imprenditori come Del Vecchio e non interviene in proposito? Non stanno lì in parlamento ad appoggiare un gruppo di professori nel nome delle imprese e della ripresa economica? Se non ascoltano i leader che producono, che senso ha? Dov'è il Senso? Ho pensato che potesse essere interessante una voce insolita, diversa dai precari, dai disoccupati, dai licenziati, che vivono ogni giorno la propria tragedia esistenziale. Il nemico non sono le imprese. Il vero nemico è la sordità di governanti e politici che non ascoltano chi produce e conosce la verità del mercato. Quello è il vero nemico. Quella sordità è l’anti-politica. Che cosa c’entra Beppe Grillo? di Sergio Di Cori Modigliani