07 maggio 2012

Al diavolo i conti, è la mia vita che conta!

Povero ma generoso: insiste per offrirci da bere, ci porge più volte il pacchetto di sigarette. Mentre parla gli luccicano gli occhi. Qualche volta s’inalbera, perde le staffe. Antonio F., omone simpatico dalla non più giovane età di 54 anni, origini foggiane ma stravicentino di modi e mentalità, la pazienza l’ha persa molto tempo fa. Sei anni fa ha perduto il lavoro e ora non lo ritrova più. E con esso ha perduto molte altre cose, come la moglie. Ma ci tiene a quella cosa chiamata dignità «A 48 anni non posso più correre da un lavoretto all’altro, col rischio di farmi licenziare dopo qualche mese perché la ditta non ha più bisogno di me». Perché negli ultimi anni questa è stata la vita di Antonio, vittima esemplare della precarietà. Che, statistiche alla mano, qui nel Vicentino sarà meno invasiva che altrove, ma fa pagare prezzi altissimi non solo a giovani alla ricerca del primo impiego, ma anche ad adulti finiti nel girone della disoccupazione. «Facevo l’agente assicurativo. Mi piaceva, benchè io avessi una qualifica di impiantista elettricista preso dopo un solo anno di superiori. Negli anni ’70, quand’ero ragazzo, si studiava quel tanto che bastava per imparare un mestiere». Poi, nel 1995, Antonio viene colpito da un male più diffuso di quanto si pensi: la depressione. «Fu scatenata per vicende familiari legate alla morte di mio padre. Piombai nel male oscuro, che nel 2000 mi portò alle dimissioni dall’agenzia assicurativa per la quale lavoravo. Non reggevo più il carico di lavoro». E cominciò l’odissea degli impieghi temporanei. «Pur stando male, dovevo campare, e ho dovuto fare di tutto: l’operaio, il muratore, il magazziniere. Vivere aspettando la chiamata dell’agenzia interinale non è vita. Quando ti va bene ti rinnovano il contratto ogni due mesi, e io in media ho avuto impieghi di un anno. Ogni volta devi imparare in fretta il tuo nuovo lavoro, e ci sono posti dove non ti rispettano, tanto dopo qualche mese te ne vai. Così a volte li ho mandati a quel paese io. Ho ancora una dignità». Essere sopra i 50 anni non lo aiuta di certo: è costretto a stare in casa con sua madre e a vivere col reddito dei suoi risparmi in banca e con la pensione materna. La via d’uscita, in questi casi, è il lavoro nero. «E’ una necessità. Io vorrei aprire un’impresa edile, ma mi manca il capitale iniziale, come faccio? Le banche mi sbattono la porta in faccia. Così devo cercare un lavoro da dipendente, ma vogliono solo giovani». Antonio è disilluso, è stanco dello “schifo» che ha subìto: «Non vado a votare da un pezzo, per me è tutto questo sistema che ha fallito: una volta con lo stipendio del capofamiglia davi di che vivere a moglie e figli, ti compravi una casa, un’auto e conducevi un’esistenza dignitosa. Ora il lavoro è diventato una fatica senza senso, ti fanno sgobbare per battere i cinesi. Ma chi vuoi battere, se loro hanno un’economia senza debito, senza queste maledette banche sanguisughe? Dobbiamo sacrificare la nostra vita per competere a tutti i costi?». Antonio non festeggia il Primo Maggio: «per una questione di dignità non festeggio una grande ipocrisia, non me ne frega un c… dei concerti, cosa c’è da festeggiare e da cantare? I sindacati fanno solo sceneggiate, solo la Fiom si salva. La sinistra si è venduta, fa ridere i polli. La gente si ammazza, perfino gli imprenditori si suicidano, e noi abbiamo un governo che sacrifica la vita della gente per far contenta l’Europa e la Germania! Dovrebbero passare quello che ho passato io e tanti come me, e forse capirebbero che la vita è una soltanto. Al diavolo il pareggio di bilancio, è la mia vita che conta!». di Alessio Mannino

06 maggio 2012

L'ipocrisia della guerra spacciata per pace

Della guerra si colgono in genere gli aspetti eroici o drammatici. Ma la guerra non è solo potenza: «è anche inganno sottile, nascosto, come a sua volta è l'inganno della politica che deve dettare le condizioni della guerra e fissarne gli scopi». «Perché siamo così ipocriti sulla guerra?» è la domanda posta dal generale di corpo d'armata Fabio Mini nel suo ultimo libro, edito da Chiarelettere, da oggi in libreria. Mini, 69 anni, è stato capo di stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa che, a partire dal gennaio 2001, ha guidato il Comando interforze delle operazioni nei Balcani. Dall'ottobre 2002 all'ottobre 2003 è stato comandante della forza internazionale di pace a guida Nato in Kosovo (Kfor). Ormai è deciso: staremo in Afghanistan anche dopo il 2014, dopo il previsto ritiro dei soldati americani. Non si tratta di combattere il terrorismo globale tra le montagne afgane: non ci crede più nessuno. Ufficialmente dobbiamo addestrare le forze militari e di polizia afghane a badare alla sicurezza del loro paese. Visto che questo pacifico e interminabile compito è anche lo stesso che da dieci anni maschera la nostra partecipazione alla guerra in Afghanistan, viene il sospetto che sia un pretesto per continuarla. È una guerra che stiamo combattendo con onore al fianco degli americani fingendo di non vedere che l'hanno già perduta. Sono stati sconfitti sul campo di battaglia nel 2003 quando dovettero coinvolgere la Nato per l'incapacità di gestire la violenza dei talebani e la corruzione del governo che avevano instaurato. Sono sconfitti ogni giorno sul campo dell'etica militare per l'incapacità di gestire l'eccesso di potenza, la frustrazione e i comportamenti degli squilibrati. Viene il sospetto che ancora una volta si ricorra all'ipocrisia per giustificare interventi armati decisi da altri scambiando la coesione con la piaggeria. Così staremo all'infinito in Afghanistan, come in Iraq, in Libano e nei Balcani. È dal 1984 che un nostro contingente non rientra avendo concluso la missione affidata. Nel 1994 i nostri soldati e quelli di mezzo mondo si ritirarono dalla Somalia lasciandola in condizioni peggiori di quelle iniziali. Da allora abbiamo preso parte a tutte le guerre mistificate limitandoci ad avvicendare i contingenti senza mai fare un bilancio oggettivo sui risultati, sulle strategie e sui sacrifici compiuti. L'ipocrisia delle operazioni umanitarie, dell'assistenza militare, della costruzione di nuove nazioni e dell'esportazione della democrazia si è affiancata a quella della guerra e molte volte l'ha sostituita. La minaccia della guerra si è trasformata in «minaccia della pace» e molti guardano ad essa come ad una catastrofe che incombe sui grassi interessi che la guerra garantisce ai soggetti pubblici e privati uniti più o meno saldamente in cosche, cricche, bande. Inoltre la pace mette a nudo più ancora della guerra le carenze politiche, d'idee, strategie, autonomia e dignità nazionale. Per questo è diventata una minaccia per i profittatori, i mediocri e i banditi costringendoli a spostare sulla pace l'ipocrisia della guerra. Il processo è stato paradossalmente favorito dalla nuova e generalizzata consapevolezza della sicurezza umana. La guerra è intrisa d'ipocrisia: nasce dai pretesti, quasi sempre basati su menzogne, e si conduce con l'inganno politico, strategico ed operativo. Ma mentre sul piano strategico e tattico l'inganno è rivolto al nemico, su quello politico prende di mira anche le proprie istituzioni ed i propri eserciti. La guerra è ipocrita negli scopi quando si affida alla retorica ed invece tratta concretamente d'interessi, di affari. L'ipocrisia della guerra è un'arte con i suoi esponenti geniali, mediocri e meschini; nasconde il gusto quasi lascivo di chi ordina la guerra e perfino di chi la combatte; ed infine serve a far diventare accettabile e normale tutto ciò che succede in guerra: dall'eroismo alla nefandezza. Per millenni l'ipocrisia ha servito la guerra con diligenza e tuttavia non è riuscita a eliminare i limiti derivanti dalla sua eccezionalità e dalla sua transitorietà. La prima ne ritardava l'avvio subordinandolo a una situazione che rendesse necessario il ricorso alla forza come ultima risorsa. La seconda, la transitorietà, poneva un limite alla durata dei conflitti fino a renderli illegittimi se artificiosamente prolungati. Nel tentativo di eludere tali vincoli i fautori politici, industriali e militari della guerra si sono inventati pretesti inverosimili per renderla «preventiva» e interminabile, per trarre il massimo dei profitti e dell'eccitazione dalla sua costosa e sanguinosa «normalità». Una tale distorsione della guerra ha provocato quella reazione emotiva in favore dell'etica e dell'umanità che caratterizza il nostro tempo. Forse per la prima volta nella storia la sicurezza è stata percepita in funzione e non in sostituzione dei diritti dell'uomo, della sua salute materiale e ideale, della sua dignità. All'improvviso la guerra è parsa insufficiente a soddisfare le ambizioni e le velleità politiche, a placare gli appetiti degli approfittatori e a coprire le deficienze strategiche, strutturali e operative. E allora l'ipocrisia ha reso permanente la guerra cambiandone il nome, agendo sulla pace, sulla democrazia e sulla libertà che rendono tutto più facile: le ragioni della pace e della solidarietà e le spese per conseguirle non devono essere razionali, eccezionali, limitate e neppure giustificate o sostenibili. Le forze sono composte soltanto di eroi e non necessariamente militari. La vittoria sul campo, quella che portava alla cessazione delle ostilità e della violenza, può finalmente essere evitata. O uccisa. di Fabio Mini

05 maggio 2012

Nelle banche svizzere i 50 miliardi che Monti non vuole

I soldi sono lì, a portata di mano, facili da incassare. E tutti in una volta, senza stare a racimolare un miliardo qua e uno là tra accise sulla benzina e i blitz utili, e spettacolari, come quello di ieri della Guardia di Finanza negli agriturismi in vista del ponte del Primo maggio. Nelle casse delle banche svizzere si stima ci siano almeno 150 miliardi di euro degli evasori italiani e lo Stato potrebbe prendersene fino a 50. Ma al governo non sembrano interessare. “Full compliance”, piena conformità. È questa l’espressione che toglie ogni alibi al governo Monti. Nella conferenza stampa di mezzogiorno del 17 aprile il commissario europeo alla Fiscalità, Algirdas Šemeta, spiega ai giornalisti che gli accordi di Gran Bretagna, Germania e Austria con la Svizzera sono compatibili con il diritto comunitario . E quindi nel 2013 produrranno i loro effetti. Partiamo dalla fine: il 13 aprile l’Austria firma l’accordo con la Svizzera. Funziona così: nei forzieri elvetici ci sono almeno 20 miliardi di euro Montiaustriaci frutto di evasione. I residenti austriaci titolari dei conti o i beneficiari dei trust e degli altri strumenti giuridici per nascondere le tracce, se vogliono mantenere i loro capitali in Svizzera dovranno pagare una sanzione una tantum del 30%, modulata poi a seconda della durata dei depositi, che può nella pratica oscillare tra il 15 e il 38%. È una specie di condono fiscale, è vero, ma di entità ben diversa da quel 5% applicato da Giulio Tremonti ai suoi tempi. E soprattutto gli effetti continuano: tutti i proventi dei capitali e degli altri strumenti finanziari (dai dividendi ai capital gain) saranno tassati al 25% ogni anno. La Svizzera si accolla il ruolo di esattore per conto dell’Austria e in cambio conserva il segreto bancario, l’unico vero strumento che le è rimasto per attirare i capitali nel Paese (visto che spesso derivano da evasione fiscale o altre pratiche illecite). Il governo di Berna si trova infatti sotto pressione, soprattutto dagli Stati Uniti, per rivelare i segreti dei conti bancari (celebre il caso di Ubs, che è stata costretta a farlo, in piccola parte). Preferisce quindi agire da sostituto d’imposta, ma tenere un po’ di riservatezza. Da mesi ci sono trattative tra Berna, la Germania e la Gran Bretagna che hanno raggiunto accordi simili. L’applicazione si stava complicando perché la Commissione europea temeva gli effetti distorsivi di provvedimenti che, di fatto, sanano le posizioni illecite del passato. “Ma si è trovato un escamotage, i pagamenti una tantum vengono presentati come l’acconto di quanto verrà chiesto a chi ha soldi in Svizzera dopo l’approvazione di un accordo complessivo tra i 27 Paesi Ue che il commissario Šemeta continua ad auspicare”, spiega Rita Castellani, una delle animatrici dell’iniziativa “Operazione Guardie Svizzere” per fare pressione sul governo italiano. In Germania la Spd, il partito socialdemocratico, si è opposta all’accordo negoziato dal governo di Angela Merkel e ha ottenuto condizioni ancora più punitive per gli evasori: un prelievo una tantum tra il 21 e il 41% (invece che tra il 19 e il 34) e una patrimoniale colossale del 50% per chi eredita un conto svizzero e non lo dichiara al fisco tedesco. Le associazioni dei contribuenti in Germania, Algirdas Šemetaall’inizio scettiche, ora sono entusiaste della formulazione dell’accordo e chiedono la sua immediata applicazione. I l flusso di denaro verso Berlino comincerà nel 2013. Pochi giorni fa il ministro delle Finanze elvetico, Eveline Widmer-Schlumpf, ha detto in un’intervista che “la Svizzera sta portando avanti con Italia e Francia il tema della tassazione degli asset detenuti in conti svizzeri da cittadini dei due Paesi, ma un negoziato formale deve ancora iniziare”. Il ministro del Tesoro Giulio Tremonti aveva concentrato, con un certo successo, le sue attenzioni soprattutto su San Marino. E il governo Monti ha chiarito la sua posizione all’inizio del mandato: favorevole agli accordi con la Svizzera per far pagare gli evasori ma nel quadro di un’intesa comunitaria, anche per non incorrere nel rischio di sanzioni da parte della Commissione Ue. La quale però adesso ha dato il via libera. E l’accordo fatto dall’Austria toglie ogni alibi all’Italia. A cui un po’ di gettito in più, nel 2013, farebbe comodo visto che la recessione farà diminuire le entrate attese su cui è stata impostata l’ultima manovra Salva Italia. di Mattia Feltri Il fatto quotidiano

07 maggio 2012

Al diavolo i conti, è la mia vita che conta!

Povero ma generoso: insiste per offrirci da bere, ci porge più volte il pacchetto di sigarette. Mentre parla gli luccicano gli occhi. Qualche volta s’inalbera, perde le staffe. Antonio F., omone simpatico dalla non più giovane età di 54 anni, origini foggiane ma stravicentino di modi e mentalità, la pazienza l’ha persa molto tempo fa. Sei anni fa ha perduto il lavoro e ora non lo ritrova più. E con esso ha perduto molte altre cose, come la moglie. Ma ci tiene a quella cosa chiamata dignità «A 48 anni non posso più correre da un lavoretto all’altro, col rischio di farmi licenziare dopo qualche mese perché la ditta non ha più bisogno di me». Perché negli ultimi anni questa è stata la vita di Antonio, vittima esemplare della precarietà. Che, statistiche alla mano, qui nel Vicentino sarà meno invasiva che altrove, ma fa pagare prezzi altissimi non solo a giovani alla ricerca del primo impiego, ma anche ad adulti finiti nel girone della disoccupazione. «Facevo l’agente assicurativo. Mi piaceva, benchè io avessi una qualifica di impiantista elettricista preso dopo un solo anno di superiori. Negli anni ’70, quand’ero ragazzo, si studiava quel tanto che bastava per imparare un mestiere». Poi, nel 1995, Antonio viene colpito da un male più diffuso di quanto si pensi: la depressione. «Fu scatenata per vicende familiari legate alla morte di mio padre. Piombai nel male oscuro, che nel 2000 mi portò alle dimissioni dall’agenzia assicurativa per la quale lavoravo. Non reggevo più il carico di lavoro». E cominciò l’odissea degli impieghi temporanei. «Pur stando male, dovevo campare, e ho dovuto fare di tutto: l’operaio, il muratore, il magazziniere. Vivere aspettando la chiamata dell’agenzia interinale non è vita. Quando ti va bene ti rinnovano il contratto ogni due mesi, e io in media ho avuto impieghi di un anno. Ogni volta devi imparare in fretta il tuo nuovo lavoro, e ci sono posti dove non ti rispettano, tanto dopo qualche mese te ne vai. Così a volte li ho mandati a quel paese io. Ho ancora una dignità». Essere sopra i 50 anni non lo aiuta di certo: è costretto a stare in casa con sua madre e a vivere col reddito dei suoi risparmi in banca e con la pensione materna. La via d’uscita, in questi casi, è il lavoro nero. «E’ una necessità. Io vorrei aprire un’impresa edile, ma mi manca il capitale iniziale, come faccio? Le banche mi sbattono la porta in faccia. Così devo cercare un lavoro da dipendente, ma vogliono solo giovani». Antonio è disilluso, è stanco dello “schifo» che ha subìto: «Non vado a votare da un pezzo, per me è tutto questo sistema che ha fallito: una volta con lo stipendio del capofamiglia davi di che vivere a moglie e figli, ti compravi una casa, un’auto e conducevi un’esistenza dignitosa. Ora il lavoro è diventato una fatica senza senso, ti fanno sgobbare per battere i cinesi. Ma chi vuoi battere, se loro hanno un’economia senza debito, senza queste maledette banche sanguisughe? Dobbiamo sacrificare la nostra vita per competere a tutti i costi?». Antonio non festeggia il Primo Maggio: «per una questione di dignità non festeggio una grande ipocrisia, non me ne frega un c… dei concerti, cosa c’è da festeggiare e da cantare? I sindacati fanno solo sceneggiate, solo la Fiom si salva. La sinistra si è venduta, fa ridere i polli. La gente si ammazza, perfino gli imprenditori si suicidano, e noi abbiamo un governo che sacrifica la vita della gente per far contenta l’Europa e la Germania! Dovrebbero passare quello che ho passato io e tanti come me, e forse capirebbero che la vita è una soltanto. Al diavolo il pareggio di bilancio, è la mia vita che conta!». di Alessio Mannino

06 maggio 2012

L'ipocrisia della guerra spacciata per pace

Della guerra si colgono in genere gli aspetti eroici o drammatici. Ma la guerra non è solo potenza: «è anche inganno sottile, nascosto, come a sua volta è l'inganno della politica che deve dettare le condizioni della guerra e fissarne gli scopi». «Perché siamo così ipocriti sulla guerra?» è la domanda posta dal generale di corpo d'armata Fabio Mini nel suo ultimo libro, edito da Chiarelettere, da oggi in libreria. Mini, 69 anni, è stato capo di stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa che, a partire dal gennaio 2001, ha guidato il Comando interforze delle operazioni nei Balcani. Dall'ottobre 2002 all'ottobre 2003 è stato comandante della forza internazionale di pace a guida Nato in Kosovo (Kfor). Ormai è deciso: staremo in Afghanistan anche dopo il 2014, dopo il previsto ritiro dei soldati americani. Non si tratta di combattere il terrorismo globale tra le montagne afgane: non ci crede più nessuno. Ufficialmente dobbiamo addestrare le forze militari e di polizia afghane a badare alla sicurezza del loro paese. Visto che questo pacifico e interminabile compito è anche lo stesso che da dieci anni maschera la nostra partecipazione alla guerra in Afghanistan, viene il sospetto che sia un pretesto per continuarla. È una guerra che stiamo combattendo con onore al fianco degli americani fingendo di non vedere che l'hanno già perduta. Sono stati sconfitti sul campo di battaglia nel 2003 quando dovettero coinvolgere la Nato per l'incapacità di gestire la violenza dei talebani e la corruzione del governo che avevano instaurato. Sono sconfitti ogni giorno sul campo dell'etica militare per l'incapacità di gestire l'eccesso di potenza, la frustrazione e i comportamenti degli squilibrati. Viene il sospetto che ancora una volta si ricorra all'ipocrisia per giustificare interventi armati decisi da altri scambiando la coesione con la piaggeria. Così staremo all'infinito in Afghanistan, come in Iraq, in Libano e nei Balcani. È dal 1984 che un nostro contingente non rientra avendo concluso la missione affidata. Nel 1994 i nostri soldati e quelli di mezzo mondo si ritirarono dalla Somalia lasciandola in condizioni peggiori di quelle iniziali. Da allora abbiamo preso parte a tutte le guerre mistificate limitandoci ad avvicendare i contingenti senza mai fare un bilancio oggettivo sui risultati, sulle strategie e sui sacrifici compiuti. L'ipocrisia delle operazioni umanitarie, dell'assistenza militare, della costruzione di nuove nazioni e dell'esportazione della democrazia si è affiancata a quella della guerra e molte volte l'ha sostituita. La minaccia della guerra si è trasformata in «minaccia della pace» e molti guardano ad essa come ad una catastrofe che incombe sui grassi interessi che la guerra garantisce ai soggetti pubblici e privati uniti più o meno saldamente in cosche, cricche, bande. Inoltre la pace mette a nudo più ancora della guerra le carenze politiche, d'idee, strategie, autonomia e dignità nazionale. Per questo è diventata una minaccia per i profittatori, i mediocri e i banditi costringendoli a spostare sulla pace l'ipocrisia della guerra. Il processo è stato paradossalmente favorito dalla nuova e generalizzata consapevolezza della sicurezza umana. La guerra è intrisa d'ipocrisia: nasce dai pretesti, quasi sempre basati su menzogne, e si conduce con l'inganno politico, strategico ed operativo. Ma mentre sul piano strategico e tattico l'inganno è rivolto al nemico, su quello politico prende di mira anche le proprie istituzioni ed i propri eserciti. La guerra è ipocrita negli scopi quando si affida alla retorica ed invece tratta concretamente d'interessi, di affari. L'ipocrisia della guerra è un'arte con i suoi esponenti geniali, mediocri e meschini; nasconde il gusto quasi lascivo di chi ordina la guerra e perfino di chi la combatte; ed infine serve a far diventare accettabile e normale tutto ciò che succede in guerra: dall'eroismo alla nefandezza. Per millenni l'ipocrisia ha servito la guerra con diligenza e tuttavia non è riuscita a eliminare i limiti derivanti dalla sua eccezionalità e dalla sua transitorietà. La prima ne ritardava l'avvio subordinandolo a una situazione che rendesse necessario il ricorso alla forza come ultima risorsa. La seconda, la transitorietà, poneva un limite alla durata dei conflitti fino a renderli illegittimi se artificiosamente prolungati. Nel tentativo di eludere tali vincoli i fautori politici, industriali e militari della guerra si sono inventati pretesti inverosimili per renderla «preventiva» e interminabile, per trarre il massimo dei profitti e dell'eccitazione dalla sua costosa e sanguinosa «normalità». Una tale distorsione della guerra ha provocato quella reazione emotiva in favore dell'etica e dell'umanità che caratterizza il nostro tempo. Forse per la prima volta nella storia la sicurezza è stata percepita in funzione e non in sostituzione dei diritti dell'uomo, della sua salute materiale e ideale, della sua dignità. All'improvviso la guerra è parsa insufficiente a soddisfare le ambizioni e le velleità politiche, a placare gli appetiti degli approfittatori e a coprire le deficienze strategiche, strutturali e operative. E allora l'ipocrisia ha reso permanente la guerra cambiandone il nome, agendo sulla pace, sulla democrazia e sulla libertà che rendono tutto più facile: le ragioni della pace e della solidarietà e le spese per conseguirle non devono essere razionali, eccezionali, limitate e neppure giustificate o sostenibili. Le forze sono composte soltanto di eroi e non necessariamente militari. La vittoria sul campo, quella che portava alla cessazione delle ostilità e della violenza, può finalmente essere evitata. O uccisa. di Fabio Mini

05 maggio 2012

Nelle banche svizzere i 50 miliardi che Monti non vuole

I soldi sono lì, a portata di mano, facili da incassare. E tutti in una volta, senza stare a racimolare un miliardo qua e uno là tra accise sulla benzina e i blitz utili, e spettacolari, come quello di ieri della Guardia di Finanza negli agriturismi in vista del ponte del Primo maggio. Nelle casse delle banche svizzere si stima ci siano almeno 150 miliardi di euro degli evasori italiani e lo Stato potrebbe prendersene fino a 50. Ma al governo non sembrano interessare. “Full compliance”, piena conformità. È questa l’espressione che toglie ogni alibi al governo Monti. Nella conferenza stampa di mezzogiorno del 17 aprile il commissario europeo alla Fiscalità, Algirdas Šemeta, spiega ai giornalisti che gli accordi di Gran Bretagna, Germania e Austria con la Svizzera sono compatibili con il diritto comunitario . E quindi nel 2013 produrranno i loro effetti. Partiamo dalla fine: il 13 aprile l’Austria firma l’accordo con la Svizzera. Funziona così: nei forzieri elvetici ci sono almeno 20 miliardi di euro Montiaustriaci frutto di evasione. I residenti austriaci titolari dei conti o i beneficiari dei trust e degli altri strumenti giuridici per nascondere le tracce, se vogliono mantenere i loro capitali in Svizzera dovranno pagare una sanzione una tantum del 30%, modulata poi a seconda della durata dei depositi, che può nella pratica oscillare tra il 15 e il 38%. È una specie di condono fiscale, è vero, ma di entità ben diversa da quel 5% applicato da Giulio Tremonti ai suoi tempi. E soprattutto gli effetti continuano: tutti i proventi dei capitali e degli altri strumenti finanziari (dai dividendi ai capital gain) saranno tassati al 25% ogni anno. La Svizzera si accolla il ruolo di esattore per conto dell’Austria e in cambio conserva il segreto bancario, l’unico vero strumento che le è rimasto per attirare i capitali nel Paese (visto che spesso derivano da evasione fiscale o altre pratiche illecite). Il governo di Berna si trova infatti sotto pressione, soprattutto dagli Stati Uniti, per rivelare i segreti dei conti bancari (celebre il caso di Ubs, che è stata costretta a farlo, in piccola parte). Preferisce quindi agire da sostituto d’imposta, ma tenere un po’ di riservatezza. Da mesi ci sono trattative tra Berna, la Germania e la Gran Bretagna che hanno raggiunto accordi simili. L’applicazione si stava complicando perché la Commissione europea temeva gli effetti distorsivi di provvedimenti che, di fatto, sanano le posizioni illecite del passato. “Ma si è trovato un escamotage, i pagamenti una tantum vengono presentati come l’acconto di quanto verrà chiesto a chi ha soldi in Svizzera dopo l’approvazione di un accordo complessivo tra i 27 Paesi Ue che il commissario Šemeta continua ad auspicare”, spiega Rita Castellani, una delle animatrici dell’iniziativa “Operazione Guardie Svizzere” per fare pressione sul governo italiano. In Germania la Spd, il partito socialdemocratico, si è opposta all’accordo negoziato dal governo di Angela Merkel e ha ottenuto condizioni ancora più punitive per gli evasori: un prelievo una tantum tra il 21 e il 41% (invece che tra il 19 e il 34) e una patrimoniale colossale del 50% per chi eredita un conto svizzero e non lo dichiara al fisco tedesco. Le associazioni dei contribuenti in Germania, Algirdas Šemetaall’inizio scettiche, ora sono entusiaste della formulazione dell’accordo e chiedono la sua immediata applicazione. I l flusso di denaro verso Berlino comincerà nel 2013. Pochi giorni fa il ministro delle Finanze elvetico, Eveline Widmer-Schlumpf, ha detto in un’intervista che “la Svizzera sta portando avanti con Italia e Francia il tema della tassazione degli asset detenuti in conti svizzeri da cittadini dei due Paesi, ma un negoziato formale deve ancora iniziare”. Il ministro del Tesoro Giulio Tremonti aveva concentrato, con un certo successo, le sue attenzioni soprattutto su San Marino. E il governo Monti ha chiarito la sua posizione all’inizio del mandato: favorevole agli accordi con la Svizzera per far pagare gli evasori ma nel quadro di un’intesa comunitaria, anche per non incorrere nel rischio di sanzioni da parte della Commissione Ue. La quale però adesso ha dato il via libera. E l’accordo fatto dall’Austria toglie ogni alibi all’Italia. A cui un po’ di gettito in più, nel 2013, farebbe comodo visto che la recessione farà diminuire le entrate attese su cui è stata impostata l’ultima manovra Salva Italia. di Mattia Feltri Il fatto quotidiano