18 maggio 2012

USA banksters: il tonfo della J.P. Morgan Chase

“Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino” dice un saggio e antico proverbio. Così J.P. Morgan Chase, una delle tre maggiori banche USA con Citibank e Bank of America) ha registrato la scorsa settimana una perdita di circa due miliardi di dollari nei suoi “investimenti” sui derivati finanziari. Definirli investimenti, come fanno i media su questo argomento, è il modo più semplice per nascondere la verità, poiché si tratta di raid finanziari e usurai impostati al solo scopo di costruire un valore fittizio sul quale fare profitto. O è una “scommessa” vinta contro qualcuno che non ne sa nulla ma perde i soldi, o è una “bolla” che scoppierà in seguito. E’ rarissimo che questi “investitori professionisti” (meglio: speculatori) sbaglino nelle previsioni e quindi perdano un sacco di soldi: per comandare il gioco hanno ogni mezzo per giocare forte. Ma quando perdono fanno un tonfo, proprio come nel gioco d’azzardo. Come accaduto alla Chase. E’ poi normale che per un grosso crack debba cadere la testa del responsabile. Per questo la signora Ina R. Drew, da trent’anni alla guida del settore finanze come “Chief Investment Officer” ha presentato le dimissioni, respinte però da Mr. Jamie Dimon, l’ad della banca. Ma la grave perdita ha avuto una vasta eco ed è crollato il titolo Chase in borsa. E ora è la poltrona di Dimon, numero uno del gruppo Chase, ad essere a rischio. Eppure lui era riuscito a superare indenne persino la bufera del 2008-2009, con un prestito di 25 miliardi di dollari in aiuti statali (restituiti nel 2010) per tenere a galla la sua banca. E’ utile pero’ entrare nel dettaglio di questi “investimenti finanziari” per capire di cosa si tratti. La banca investe il denaro che ha in deposito dai correntisti per generare il reddito necessario a coprire le proprie spese (includendo in questo i dividendi da distribuire agli azionisti e i lauti guadagni dei top managers). Una delle fonti di maggior reddito è quella dell’acquisto del debito (cartolarizzato) emesso dai soggetti più disparati, privati e... Stati. Il rendimento è maggiore dove è maggiore il rischio. Rischio tuttavia assicurato (in parte) contro le possibili perdite. Il modo più usato è quello di investire proporzionalmente sui “credit default swaps” (i famigerati cds!). Per esempio quelli valorizzati nell’indice CDX.NA.IG.9 (cioè quello che ha prodotto la perdita di Chase). Questo indicatore quota il valore medio corrente di un paniere che contiene i titoli di debito (bonds) di tutta una serie di soggetti. Le banche (e gli altri speculatori) investono quindi sull’indice come se fosse un titolo di una singola impresa. Qualcuno scommette al rialzo, qualcun altro al ribasso. Ma in questo caso la Chase, con il suo sportello di Londra, ha “scommesso” troppo su questo indice, producendo una evidente distorsione del valore rappresentato. E gli altri “scommettitori” hanno preso Chase in contropiede optando sul ribasso e costringendo così Morgan Chase a chiudere le operazioni con una pesante perdita, per non restare invischiata e peggiorare ulteriormente la propria posizione. Si badi bene: la perdita, per una megabanca d’affari come J.P. Morgan Chase era ed è assorbibile senza grossi problemi. Ma sotto accusa è l’uso di uno strumento finanziario (il cds) a scopo speculativo che, al contrario, è inteso a tutelare dalle perdite i propri investimenti. Finita su tutti i giornali del mondo, la vicenda ha costretto sia la S.E.C. (Security Exchange Commission) che le Commissioni parlamentari Usa a indagare sulle attività in derivati della Chase, per “pesare” il rischio di tali speculazioni. Tanto più che Dimon era stato il capofila dei banchieri che tre anni fa riuscirono a ottenere dai legislatori uno spiraglio nel cosiddetto “Volker rule” per proseguire in questo tipo di operazioni. Ormai lo sanno anche i sassi che alle grandi banche la lezione del 2008 non è servita a niente. Continuano a speculare esattamente come prima (e anche peggio, come appare evidente da questa vicenda). di Roberto Marchesi -

17 maggio 2012

Quella crisi prodotta dalla nostra stessa economia

"Per spiegare la crisi si parla di banche e di debito pubblico, di finanza piratesca e di speculazioni, ma tutto questo non è che la deriva di un’economia. Come le metastasi di un tumore non sono che lo sviluppo 'naturale' del tumore stesso". E intanto, mentre ci si preoccupa di salvare un modello economico fallimentare e insostenibile, si ignorano le fondamenta delle nostre vite che, inesorabilmente, stanno andando alla malora: l’aria, l’acqua, la terra. crisi economica Per spiegare la crisi si parla di banche e di debito pubblico, di finanza piratesca e di speculazioni ma tutto questo non è che la deriva di un modello economico Rimango sempre sconcertata quando leggo le analisi anche di prestigiosi economisti sulle ragioni e gli sviluppi della crisi economica. Io non sono un economista ma le cose ovvie e palesi credo di essere in grado di vederle e comprenderle. Così come non sono un geologo ma, se vedo un bosco tagliato a raso su un ripido pendio dal terreno sciolto, non ho bisogno del parere di esperti per capire in futuro cosa avrà determinato la frana di quel pendio. Può darsi che gli 'specialisti' siano svantaggiati: a furia di scrutare nel profondo si finisce, come dice Tolkien, per non vedere la realtà nel suo complesso, quella che sta alla luce del sole. Per spiegare la crisi si parla di banche e di debito pubblico, di finanza piratesca e di speculazioni ma tutto questo non è che la deriva di un’economia. Come le metastasi di un tumore non sono che lo sviluppo 'naturale' del tumore stesso. Alla base di qualsiasi economia ci sono cose concrete e semplici: le risorse materiali e il lavoro umano. In un’economia capitalista quelle risorse si chiamano 'materie prime' e/o 'merci'. In un’economia capitalista, e cioè in una società di dominio e competizione, le risorse materiali vengono sottratte all’ambiente e ai popoli che di esse vivevano senza alcuno scrupolo e senza alcun limite; il lavoro poi, in tale economia, significa il maggior sfruttamento possibile, considerati i rapporti di forza. Essendo un’economia basata sul dominio e sulla competizione, come la società che l’ha generata, è inevitabile che cerchi sempre di superare i limiti, di 'crescere'. La globalizzazione è stato un salto quantitativo e qualitativo in tale crescita: i capitalisti di tutto il mondo hanno cominciato a 'de-localizzare'. Questa parolina inventata, come tante ultimamente, per nascondere la realtà, significa di fatto far produrre le proprie merci in paesi asserviti e impoveriti, per non pagare i lavoratori ridotti ormai a poco più che schiavi. carrelli La globalizzazione è stata, fino a un certo punto del suo sviluppo, la causa di un aumento vertiginoso dei consumi nel mondo occidentale A me, e spero non solo a me, da quando la globalizzazione neoliberista ha trionfato, è sembrato chiaro che la fine dell’economia capitalista era alle porte, e proprio a causa della sua incapacità di darsi dei limiti e di rispettarli. Del resto, competizione e limiti sono in antitesi, così come sono in antitesi dominio e rispetto. La globalizzazione è stata, fino a un certo punto del suo sviluppo, la causa di un aumento vertiginoso dei consumi nel mondo occidentale, cioè in quello dominante: i paesi asserviti ci davano le loro preziose materie prima in cambio di quasi nulla, le loro popolazioni asservite lavoravano per i nostri capitalisti (detti 'imprenditori') in cambio di quasi nulla. Così noi per quattro lire potevamo comperare cibo e benzina, scarpe e vestiti, borse e mobili. Qualche inconveniente si manifestò subito: i nostri contadini, per esempio, si trovarono a dover fronteggiare la concorrenza dei prodotti agricoli che venivano dai paesi schiavi e che costavano cifre da vergogna. Arrendersi o perire. Furono costretti a rinunciare all’agricoltura o ad abbassare i prezzi a livelli schiavistici. L’Italia è piena di piccoli agricoltori che fanno il doppio lavoro: un lavoro fuori dalla loro azienda per mantenere la famiglia, l’altro nella loro campagna perché non hanno cuore di abbandonarla. Ma finché si trattava dei contadini, questi fantasmi della nostra civiltà che danno da mangiare a tutti, nessuno si mise a parlare di crisi. Come si poteva parlare di crisi mentre il potere d’acquisto degli italiani cresceva vertiginosamente e ci rotolavamo in un’orgia di consumi superflui e spreco? I bambini indiani producevano le nostre scarpe e i nostri tappeti, quelli turchi i nostri golfini, gli schiavi della Del Monte i nostri ananas… roba quasi regalata. E intanto noi lavoravamo come operai elettronici, impiegate, architetti d’interni, programmatori informatici, ma… chi si ferma è perduto. Man mano sono state 'de- localizzate' tutte le attività che era possibile delocalizzare: ci sono call center ('centralini' in italiano) di aziende occidentali in India e in Tunisia e fabbriche di mobili occidentali in Indonesia. disoccupazione Tra disoccupazione o condizioni di lavoro da terzo mondo, che fine faranno i consumatori occidentali? Tutto questo non poteva avere che una conseguenza a lungo andare: la disoccupazione dei lavoratori occidentali. E allora, se produzione, terziario e persino servizi vengono spostati nei paesi in cui i lavoratori sono sottopagati e i lavoratori occidentali possono scegliere, a quel punto, solo tra disoccupazione o condizioni di lavoro da terzo mondo, che fine faranno i consumatori occidentali (che sono stati le colonne della 'crescita' e dello 'sviluppo')? Il destino del Consumatore Occidentale, una volta che in Occidente scompaiono i lavoratori adeguatamente remunerati, è un fatale declino fino all’estinzione. Con quali soldi il disoccupato, il co.co.co., il sottopagato possono pagare i mobili anche se fatti in Indonesia, le scarpe pachistane, le borse cinesi? Ed ecco che la competizione e il trionfo finale dell’imperialismo economico (e non solo) hanno prodotto la propria stessa crisi. Come per tutti gli imperi, il trionfo finale, in questo caso la globalizzazione neoliberista, era solo l’inizio dell’implosione finale: un’economia basata sui consumi superflui e frenetici è riuscita, per la brama insaziabile di sviluppo e crescita insita in lei stessa, a distruggere le basi sulle quali poggiava: il consumatore occidentale e il consumismo. Questo, ovviamente, mentre già aveva impoverito anche i popoli del resto del mondo: quell’impoverimento era una delle condizioni dell’aumento del profitto capitalista e della ricchezza occidentale. E adesso? portafogli vuoto Impoverire i ceti medi, dopo i lavoratori salariati, non potrà che diminuire anche i consumi che finora avevano retto Si potrebbe dire “chi la fa l’aspetti”. Non ci siamo mai preoccupati delle crisi che il neoliberismo imponeva ai paesi di Africa, Asia, America Latina, est Europa. Non abbiamo lottato per migliori condizioni di lavoro di operai o braccianti o minatori peruviani o senegalesi. Se l’avessimo fatto, forse non avremmo subito la loro involontaria concorrenza; forse il neoliberismo sarebbe crollato prima di distruggere ambiente e società umana; forse la storia avrebbe preso un altro corso. Però coi 'se' e coi 'ma' la storia non si fa e nemmeno coi 'forse'. Adesso lo sfruttamento disumano di quei popoli si ritorce contro di noi, che finora ne avevamo beneficiato. Adesso anche i nostri governi, del tutto asserviti agli interessi del grande padronato mondiale, ci 'svendono' ai loro e nostri padroni: riducono salari e servizi sociali, aumentano tasse e vincoli in modo da distruggere anche la piccola impresa privata e il piccolo commercio, eliminano i diritti dei lavoratori. E tutto questo non farà che accelerare la conclusione: impoverire i ceti medi, dopo i lavoratori salariati, non potrà che diminuire anche i consumi che finora avevano retto. Quanto al mitico debito pubblico, le sue cause sono più semplici di quello che si vuole far credere. Le spese che hanno contribuito maggiormente all’indebitamento dell’Italia, per esempio, sono state quelle militari, quelle delle grandi opere come il TAV oltre, naturalmente, al 'mangia mangia' diffuso di ministri, parlamentari, amministratori pubblici & co. Ora, non è affatto vero che si cerchi di diminuire quel debito. Quello che il nostro governo cerca di fare, dato che le vacche grasse sono finite e non si possono più salvare capra e cavoli, è far mangiare i cavoli alla capra. I cavoli siamo noi e ci tolgono le pensioni, i trasporti pubblici, gli insegnanti di sostegno e le mense universitarie, oltre a tassarci la casa, il campo e poi tutto, compresa l’acqua del rubinetto. La capra sono i padroni, che prendono soldi dallo stato per fare i raddoppi delle autostrade, i viadotti e i tav, gli inceneritori, e a cui vengono regalate le ferrovie. crisi In questa crisi le banche hanno lo stesso ruolo dello stato capitalista-sviluppista: rubare ai poveri per dare ai ricchi In questa crisi le banche hanno lo stesso ruolo dello stato capitalista-sviluppista: rubare ai poveri per dare ai ricchi. Perché quello che nessuno dice è che le banche appartengono agli stessi che costruiscono autostrade e ferrovie ad alta velocità, dighe e palazzoni, catene di ipermercati. Le banche prestano i nostri soldi ai loro padroni per costruire i palazzoni o le catene di ipermercati; se poi i palazzi non si vendono o gli ipermercati sono in perdita, lo stato rimpingua le banche coi nostri soldi. Forse il quadro è schematico, ma a volte gli schemi aiutano a fare un po’ d’ordine. Tuttavia, a molti sembrerà strano ma io non riesco a considerare tutto questo di importanza fondamentale. Certamente è importante, condiziona e condizionerà le nostre vite, ma non è fondamentale. Alle fondamenta delle nostre vite ci sono altre cose: l’aria, l’acqua, la terra. Che stanno andando alla malora e che gli economisti non considerano. Pare anzi che non le consideri quasi nessuno, tranne i superstiti popoli 'primitivi', eppure l’ambiente naturale dovrebbe condizionare anche l’economia. Per esempio, se il petrolio sottoterra finisce, si può sempre andare a cercarlo sotto il mare; aumentano i costi ma si può aumentare anche il prezzo o farsi sovvenzionare da governi servi. Ma se la piattaforma salta in aria e la marea nera distrugge l’industria della pesca e quella del turismo? E se tempeste inaudite distruggono porti e radono al suolo migliaia di ettari di foresta di legname da esportazione? E se lo tsunami, dato che non ci sono più i mangrovieti a fermare l’onda, spazza via anche gli allevamenti di gamberetti? Qualcuno ha detto che chi crede in una crescita illimitata, in un pianeta limitato, può essere solo un folle o un economista. Voi cosa pensate, che i nostri governanti, politici, mas mediatori ovvero 'giornalisti' siano economisti o siano folli? di Sonia Savioli

Partitocrazia, tasse, spending review, rivoluzione

“NOI CONTINUEREMO A MANGIARE SULLA SPESA PUBBLICA, PERCIO’ VOI DOVETE PAGARE SEMPRE PIU’ TASSE, ANCHE OLTRE IL LIVELLO ATTUALE (CA. 70% SULL’EMERSO, 50% SUL TOTALE)”. Questo è il messaggio che la politica lancia al popolo con la beffarda spending review di 2,2 miliardi su circa 300 tra spesa per acquisti di beni e servizi e spesa per opere pubbliche – una spesa che è gonfiata grosso modo del 50%, ossia della quale politici e burocrati mangiano circa la metà. Che il gonfiaggio sia di quest’ordine lo dimostrano molti elementi: dalla pratica di moltiplicare il corrispettivo degli appalti in corso d’opera, a quella di moltiplicare il costo delle forniture ospedaliere di molte volte da Milano a Palermo). La politica non rinuncia a rubare e a sprecare perché quello è il suo guadagno e la sua fonte di mezzi per comprare consensi. Perciò parla di pagare le tasse come di un dovere assoluto, metafisico, indipendentemente dall’uso che la politica ne fa: “DOVETE PAGARE LE TASSE ANCHE SE NOI LE USIAMO MALISSIMO E SE LE RUBIAMO”. Se si andasse a sindacare come le spendono, altroché pagargli le tasse, li si toglierebbe in blocco dalle spese. Lo Stato è l’azienda della partitocrazia, che attraverso di esso realizza i suoi profitti. Dal punto di vista dei politici, il conto dei profitti e delle perdite di questa loro azienda si presenta così: A- RICAVI Tributi Sanzioni pecuniarie Proventi da cessione di beni e servizi pubblici [altri] + TOTALE RICAVI B- COSTI PUBBLICI Oneri finanziari Costi legittimi: investimenti, spese sociali, spese nell’interesse del paese – per il personale, per acquisti di beni e servizi, per appalti [altri] C- COSTI POLITICI Costi illegittimi: spese clientelari per comperare i consensi – investimenti, spese sociali, spese nell’interesse del paese – per il personale, per acquisti di beni e servizi, per appalti A – B – C = UTILE INTASCABILE DAI POLITICI + Finanziamento pubblico dei partiti e dei loro organi di stampa + Proventi da corruzione + Regalie lecite - Sopravvenienze giudiziarie (parcelle legali, pene pecuniarie, risarcimenti passivi) TOTALE PROFITTI DEI POLITICI ____________ E’ chiaro, dunque, che i partiti hanno interesse ad aumentare continuamente le tasse e le multe, mentre hanno interesse a diminuire la spesa utile per il paese, onde avere più soldi per comperare i consensi e più soldi da intascarsi personalmente. Il rischio di una condanna penale, per il politico, è semplicemente il rischio di impresa, il suo rischio professionale. Come naturale, i partiti avversari si uniscono tra di loro nella difesa del loro reddito e potere. Niente è servito a cambiare le cose: non le riforme elettorali, non i cambi di maggioranza, non le indagini giudiziarie, non i partiti di protesta. Ovviamente, questo sistema non dà alcuna rappresentanza ai cittadini. Quindi lo Stato che abbiamo, con le sue regole, le sue tasse, il suo esattore Equitalia è completamente illegittimo rispetto ai principi costituzionali. Al contempo, lo spreco di circa 150 miliardi l’anno solo per i due capitoli di spesa suddetti impedisce di fare investimenti e di ridurre il debito pubblico, che esso stesso ha generato. La partitocrazia non rinuncerà mai a rubare, e neppure si lascia sostituire, quindi il paese è condannato. La soluzione, in astratto, sarebbe una rivoluzione violenta che eliminasse fisicamente la partitocrazia assieme a tutti i suoi ausiliari, e creasse le condizioni sia per la democrazia che per la legalità e per lo sviluppo. Un terzo della popolazione dichiara di sperare nella rivoluzione. La rivoluzione però non è possibile a causa dei caratteri della società italiana: mancano la fiducia sociale e la lealtà sociale necessarie per fare una rivoluzione, per costituire un movimento rivoluzionario. Per non parlare della mancanza di coraggio fisico e dell’inclinazione al servilismo infedele – altri due tipici tratti nazionali. E anche perché il ceto politico italiano è espressione della mentalità della popolazione generale. Quindi, anche considerando i rapporti col contesto europeo e mondiale, l’Italia continuerà il suo declino più o meno rapido e più o meno sussultorio, e che i capitali stranieri potranno rilevarne i pezzi utili con gli avanzi commerciali accumulati, approfittando della crisi finanziaria irreversibile del paese. La linea sostanziale della governance italiana, da molto tempo, è quindi quella di cavalcare questo processo e predisporne l’esito, nell’interesse del capitale straniero (soprattutto tedesco) che deve fare questo take-over dell’Italia, coniugando i suoi interessi con le forze reali italiane: partitocrazia, burocrazia, finanza, mafie. Oggettivamente, sono gli interessi stranieri e quelli di queste forze a venire tutelati e promossi dalle scelte politiche, soprattutto degli ultimi anni: agevolazioni alle acquisizioni di aziende e servizi strategici da parte di capitali stranieri, aumento dei soldi per spesa partitocratica e burocratica (incluse le pensioni d’oro), politiche creditizie che soffocano la piccola imprenditoria italiana normale facendo largo a quella straniera e a quella mafiosa e alla grande distribuzione perlopiù straniera. Questi sono solo alcuni esempi generici, ovviamente. Nel breve termine, queste politiche “europee” vanno a dissolvere il risparmio, il reddito e la piccola impresa nazionale, concentrando il denaro nelle mani di banche, assicurazioni, partitocrazia, mafie, così che questi soggetti potranno partecipare, assieme ai capitali stranieri, al take over del paese dopo il suo ormai non lontano collasso terminale. Ecco spiegata la logica, perfettamente realistica, di politiche economiche altrimenti assurde e inspiegabili, portate tenacemente avanti, dal centro destra come dal centro sinistra, anche dopo il loro fallimento rispetto ai loro scopi dichiarati. di Marco Della Luna

18 maggio 2012

USA banksters: il tonfo della J.P. Morgan Chase

“Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino” dice un saggio e antico proverbio. Così J.P. Morgan Chase, una delle tre maggiori banche USA con Citibank e Bank of America) ha registrato la scorsa settimana una perdita di circa due miliardi di dollari nei suoi “investimenti” sui derivati finanziari. Definirli investimenti, come fanno i media su questo argomento, è il modo più semplice per nascondere la verità, poiché si tratta di raid finanziari e usurai impostati al solo scopo di costruire un valore fittizio sul quale fare profitto. O è una “scommessa” vinta contro qualcuno che non ne sa nulla ma perde i soldi, o è una “bolla” che scoppierà in seguito. E’ rarissimo che questi “investitori professionisti” (meglio: speculatori) sbaglino nelle previsioni e quindi perdano un sacco di soldi: per comandare il gioco hanno ogni mezzo per giocare forte. Ma quando perdono fanno un tonfo, proprio come nel gioco d’azzardo. Come accaduto alla Chase. E’ poi normale che per un grosso crack debba cadere la testa del responsabile. Per questo la signora Ina R. Drew, da trent’anni alla guida del settore finanze come “Chief Investment Officer” ha presentato le dimissioni, respinte però da Mr. Jamie Dimon, l’ad della banca. Ma la grave perdita ha avuto una vasta eco ed è crollato il titolo Chase in borsa. E ora è la poltrona di Dimon, numero uno del gruppo Chase, ad essere a rischio. Eppure lui era riuscito a superare indenne persino la bufera del 2008-2009, con un prestito di 25 miliardi di dollari in aiuti statali (restituiti nel 2010) per tenere a galla la sua banca. E’ utile pero’ entrare nel dettaglio di questi “investimenti finanziari” per capire di cosa si tratti. La banca investe il denaro che ha in deposito dai correntisti per generare il reddito necessario a coprire le proprie spese (includendo in questo i dividendi da distribuire agli azionisti e i lauti guadagni dei top managers). Una delle fonti di maggior reddito è quella dell’acquisto del debito (cartolarizzato) emesso dai soggetti più disparati, privati e... Stati. Il rendimento è maggiore dove è maggiore il rischio. Rischio tuttavia assicurato (in parte) contro le possibili perdite. Il modo più usato è quello di investire proporzionalmente sui “credit default swaps” (i famigerati cds!). Per esempio quelli valorizzati nell’indice CDX.NA.IG.9 (cioè quello che ha prodotto la perdita di Chase). Questo indicatore quota il valore medio corrente di un paniere che contiene i titoli di debito (bonds) di tutta una serie di soggetti. Le banche (e gli altri speculatori) investono quindi sull’indice come se fosse un titolo di una singola impresa. Qualcuno scommette al rialzo, qualcun altro al ribasso. Ma in questo caso la Chase, con il suo sportello di Londra, ha “scommesso” troppo su questo indice, producendo una evidente distorsione del valore rappresentato. E gli altri “scommettitori” hanno preso Chase in contropiede optando sul ribasso e costringendo così Morgan Chase a chiudere le operazioni con una pesante perdita, per non restare invischiata e peggiorare ulteriormente la propria posizione. Si badi bene: la perdita, per una megabanca d’affari come J.P. Morgan Chase era ed è assorbibile senza grossi problemi. Ma sotto accusa è l’uso di uno strumento finanziario (il cds) a scopo speculativo che, al contrario, è inteso a tutelare dalle perdite i propri investimenti. Finita su tutti i giornali del mondo, la vicenda ha costretto sia la S.E.C. (Security Exchange Commission) che le Commissioni parlamentari Usa a indagare sulle attività in derivati della Chase, per “pesare” il rischio di tali speculazioni. Tanto più che Dimon era stato il capofila dei banchieri che tre anni fa riuscirono a ottenere dai legislatori uno spiraglio nel cosiddetto “Volker rule” per proseguire in questo tipo di operazioni. Ormai lo sanno anche i sassi che alle grandi banche la lezione del 2008 non è servita a niente. Continuano a speculare esattamente come prima (e anche peggio, come appare evidente da questa vicenda). di Roberto Marchesi -

17 maggio 2012

Quella crisi prodotta dalla nostra stessa economia

"Per spiegare la crisi si parla di banche e di debito pubblico, di finanza piratesca e di speculazioni, ma tutto questo non è che la deriva di un’economia. Come le metastasi di un tumore non sono che lo sviluppo 'naturale' del tumore stesso". E intanto, mentre ci si preoccupa di salvare un modello economico fallimentare e insostenibile, si ignorano le fondamenta delle nostre vite che, inesorabilmente, stanno andando alla malora: l’aria, l’acqua, la terra. crisi economica Per spiegare la crisi si parla di banche e di debito pubblico, di finanza piratesca e di speculazioni ma tutto questo non è che la deriva di un modello economico Rimango sempre sconcertata quando leggo le analisi anche di prestigiosi economisti sulle ragioni e gli sviluppi della crisi economica. Io non sono un economista ma le cose ovvie e palesi credo di essere in grado di vederle e comprenderle. Così come non sono un geologo ma, se vedo un bosco tagliato a raso su un ripido pendio dal terreno sciolto, non ho bisogno del parere di esperti per capire in futuro cosa avrà determinato la frana di quel pendio. Può darsi che gli 'specialisti' siano svantaggiati: a furia di scrutare nel profondo si finisce, come dice Tolkien, per non vedere la realtà nel suo complesso, quella che sta alla luce del sole. Per spiegare la crisi si parla di banche e di debito pubblico, di finanza piratesca e di speculazioni ma tutto questo non è che la deriva di un’economia. Come le metastasi di un tumore non sono che lo sviluppo 'naturale' del tumore stesso. Alla base di qualsiasi economia ci sono cose concrete e semplici: le risorse materiali e il lavoro umano. In un’economia capitalista quelle risorse si chiamano 'materie prime' e/o 'merci'. In un’economia capitalista, e cioè in una società di dominio e competizione, le risorse materiali vengono sottratte all’ambiente e ai popoli che di esse vivevano senza alcuno scrupolo e senza alcun limite; il lavoro poi, in tale economia, significa il maggior sfruttamento possibile, considerati i rapporti di forza. Essendo un’economia basata sul dominio e sulla competizione, come la società che l’ha generata, è inevitabile che cerchi sempre di superare i limiti, di 'crescere'. La globalizzazione è stato un salto quantitativo e qualitativo in tale crescita: i capitalisti di tutto il mondo hanno cominciato a 'de-localizzare'. Questa parolina inventata, come tante ultimamente, per nascondere la realtà, significa di fatto far produrre le proprie merci in paesi asserviti e impoveriti, per non pagare i lavoratori ridotti ormai a poco più che schiavi. carrelli La globalizzazione è stata, fino a un certo punto del suo sviluppo, la causa di un aumento vertiginoso dei consumi nel mondo occidentale A me, e spero non solo a me, da quando la globalizzazione neoliberista ha trionfato, è sembrato chiaro che la fine dell’economia capitalista era alle porte, e proprio a causa della sua incapacità di darsi dei limiti e di rispettarli. Del resto, competizione e limiti sono in antitesi, così come sono in antitesi dominio e rispetto. La globalizzazione è stata, fino a un certo punto del suo sviluppo, la causa di un aumento vertiginoso dei consumi nel mondo occidentale, cioè in quello dominante: i paesi asserviti ci davano le loro preziose materie prima in cambio di quasi nulla, le loro popolazioni asservite lavoravano per i nostri capitalisti (detti 'imprenditori') in cambio di quasi nulla. Così noi per quattro lire potevamo comperare cibo e benzina, scarpe e vestiti, borse e mobili. Qualche inconveniente si manifestò subito: i nostri contadini, per esempio, si trovarono a dover fronteggiare la concorrenza dei prodotti agricoli che venivano dai paesi schiavi e che costavano cifre da vergogna. Arrendersi o perire. Furono costretti a rinunciare all’agricoltura o ad abbassare i prezzi a livelli schiavistici. L’Italia è piena di piccoli agricoltori che fanno il doppio lavoro: un lavoro fuori dalla loro azienda per mantenere la famiglia, l’altro nella loro campagna perché non hanno cuore di abbandonarla. Ma finché si trattava dei contadini, questi fantasmi della nostra civiltà che danno da mangiare a tutti, nessuno si mise a parlare di crisi. Come si poteva parlare di crisi mentre il potere d’acquisto degli italiani cresceva vertiginosamente e ci rotolavamo in un’orgia di consumi superflui e spreco? I bambini indiani producevano le nostre scarpe e i nostri tappeti, quelli turchi i nostri golfini, gli schiavi della Del Monte i nostri ananas… roba quasi regalata. E intanto noi lavoravamo come operai elettronici, impiegate, architetti d’interni, programmatori informatici, ma… chi si ferma è perduto. Man mano sono state 'de- localizzate' tutte le attività che era possibile delocalizzare: ci sono call center ('centralini' in italiano) di aziende occidentali in India e in Tunisia e fabbriche di mobili occidentali in Indonesia. disoccupazione Tra disoccupazione o condizioni di lavoro da terzo mondo, che fine faranno i consumatori occidentali? Tutto questo non poteva avere che una conseguenza a lungo andare: la disoccupazione dei lavoratori occidentali. E allora, se produzione, terziario e persino servizi vengono spostati nei paesi in cui i lavoratori sono sottopagati e i lavoratori occidentali possono scegliere, a quel punto, solo tra disoccupazione o condizioni di lavoro da terzo mondo, che fine faranno i consumatori occidentali (che sono stati le colonne della 'crescita' e dello 'sviluppo')? Il destino del Consumatore Occidentale, una volta che in Occidente scompaiono i lavoratori adeguatamente remunerati, è un fatale declino fino all’estinzione. Con quali soldi il disoccupato, il co.co.co., il sottopagato possono pagare i mobili anche se fatti in Indonesia, le scarpe pachistane, le borse cinesi? Ed ecco che la competizione e il trionfo finale dell’imperialismo economico (e non solo) hanno prodotto la propria stessa crisi. Come per tutti gli imperi, il trionfo finale, in questo caso la globalizzazione neoliberista, era solo l’inizio dell’implosione finale: un’economia basata sui consumi superflui e frenetici è riuscita, per la brama insaziabile di sviluppo e crescita insita in lei stessa, a distruggere le basi sulle quali poggiava: il consumatore occidentale e il consumismo. Questo, ovviamente, mentre già aveva impoverito anche i popoli del resto del mondo: quell’impoverimento era una delle condizioni dell’aumento del profitto capitalista e della ricchezza occidentale. E adesso? portafogli vuoto Impoverire i ceti medi, dopo i lavoratori salariati, non potrà che diminuire anche i consumi che finora avevano retto Si potrebbe dire “chi la fa l’aspetti”. Non ci siamo mai preoccupati delle crisi che il neoliberismo imponeva ai paesi di Africa, Asia, America Latina, est Europa. Non abbiamo lottato per migliori condizioni di lavoro di operai o braccianti o minatori peruviani o senegalesi. Se l’avessimo fatto, forse non avremmo subito la loro involontaria concorrenza; forse il neoliberismo sarebbe crollato prima di distruggere ambiente e società umana; forse la storia avrebbe preso un altro corso. Però coi 'se' e coi 'ma' la storia non si fa e nemmeno coi 'forse'. Adesso lo sfruttamento disumano di quei popoli si ritorce contro di noi, che finora ne avevamo beneficiato. Adesso anche i nostri governi, del tutto asserviti agli interessi del grande padronato mondiale, ci 'svendono' ai loro e nostri padroni: riducono salari e servizi sociali, aumentano tasse e vincoli in modo da distruggere anche la piccola impresa privata e il piccolo commercio, eliminano i diritti dei lavoratori. E tutto questo non farà che accelerare la conclusione: impoverire i ceti medi, dopo i lavoratori salariati, non potrà che diminuire anche i consumi che finora avevano retto. Quanto al mitico debito pubblico, le sue cause sono più semplici di quello che si vuole far credere. Le spese che hanno contribuito maggiormente all’indebitamento dell’Italia, per esempio, sono state quelle militari, quelle delle grandi opere come il TAV oltre, naturalmente, al 'mangia mangia' diffuso di ministri, parlamentari, amministratori pubblici & co. Ora, non è affatto vero che si cerchi di diminuire quel debito. Quello che il nostro governo cerca di fare, dato che le vacche grasse sono finite e non si possono più salvare capra e cavoli, è far mangiare i cavoli alla capra. I cavoli siamo noi e ci tolgono le pensioni, i trasporti pubblici, gli insegnanti di sostegno e le mense universitarie, oltre a tassarci la casa, il campo e poi tutto, compresa l’acqua del rubinetto. La capra sono i padroni, che prendono soldi dallo stato per fare i raddoppi delle autostrade, i viadotti e i tav, gli inceneritori, e a cui vengono regalate le ferrovie. crisi In questa crisi le banche hanno lo stesso ruolo dello stato capitalista-sviluppista: rubare ai poveri per dare ai ricchi In questa crisi le banche hanno lo stesso ruolo dello stato capitalista-sviluppista: rubare ai poveri per dare ai ricchi. Perché quello che nessuno dice è che le banche appartengono agli stessi che costruiscono autostrade e ferrovie ad alta velocità, dighe e palazzoni, catene di ipermercati. Le banche prestano i nostri soldi ai loro padroni per costruire i palazzoni o le catene di ipermercati; se poi i palazzi non si vendono o gli ipermercati sono in perdita, lo stato rimpingua le banche coi nostri soldi. Forse il quadro è schematico, ma a volte gli schemi aiutano a fare un po’ d’ordine. Tuttavia, a molti sembrerà strano ma io non riesco a considerare tutto questo di importanza fondamentale. Certamente è importante, condiziona e condizionerà le nostre vite, ma non è fondamentale. Alle fondamenta delle nostre vite ci sono altre cose: l’aria, l’acqua, la terra. Che stanno andando alla malora e che gli economisti non considerano. Pare anzi che non le consideri quasi nessuno, tranne i superstiti popoli 'primitivi', eppure l’ambiente naturale dovrebbe condizionare anche l’economia. Per esempio, se il petrolio sottoterra finisce, si può sempre andare a cercarlo sotto il mare; aumentano i costi ma si può aumentare anche il prezzo o farsi sovvenzionare da governi servi. Ma se la piattaforma salta in aria e la marea nera distrugge l’industria della pesca e quella del turismo? E se tempeste inaudite distruggono porti e radono al suolo migliaia di ettari di foresta di legname da esportazione? E se lo tsunami, dato che non ci sono più i mangrovieti a fermare l’onda, spazza via anche gli allevamenti di gamberetti? Qualcuno ha detto che chi crede in una crescita illimitata, in un pianeta limitato, può essere solo un folle o un economista. Voi cosa pensate, che i nostri governanti, politici, mas mediatori ovvero 'giornalisti' siano economisti o siano folli? di Sonia Savioli

Partitocrazia, tasse, spending review, rivoluzione

“NOI CONTINUEREMO A MANGIARE SULLA SPESA PUBBLICA, PERCIO’ VOI DOVETE PAGARE SEMPRE PIU’ TASSE, ANCHE OLTRE IL LIVELLO ATTUALE (CA. 70% SULL’EMERSO, 50% SUL TOTALE)”. Questo è il messaggio che la politica lancia al popolo con la beffarda spending review di 2,2 miliardi su circa 300 tra spesa per acquisti di beni e servizi e spesa per opere pubbliche – una spesa che è gonfiata grosso modo del 50%, ossia della quale politici e burocrati mangiano circa la metà. Che il gonfiaggio sia di quest’ordine lo dimostrano molti elementi: dalla pratica di moltiplicare il corrispettivo degli appalti in corso d’opera, a quella di moltiplicare il costo delle forniture ospedaliere di molte volte da Milano a Palermo). La politica non rinuncia a rubare e a sprecare perché quello è il suo guadagno e la sua fonte di mezzi per comprare consensi. Perciò parla di pagare le tasse come di un dovere assoluto, metafisico, indipendentemente dall’uso che la politica ne fa: “DOVETE PAGARE LE TASSE ANCHE SE NOI LE USIAMO MALISSIMO E SE LE RUBIAMO”. Se si andasse a sindacare come le spendono, altroché pagargli le tasse, li si toglierebbe in blocco dalle spese. Lo Stato è l’azienda della partitocrazia, che attraverso di esso realizza i suoi profitti. Dal punto di vista dei politici, il conto dei profitti e delle perdite di questa loro azienda si presenta così: A- RICAVI Tributi Sanzioni pecuniarie Proventi da cessione di beni e servizi pubblici [altri] + TOTALE RICAVI B- COSTI PUBBLICI Oneri finanziari Costi legittimi: investimenti, spese sociali, spese nell’interesse del paese – per il personale, per acquisti di beni e servizi, per appalti [altri] C- COSTI POLITICI Costi illegittimi: spese clientelari per comperare i consensi – investimenti, spese sociali, spese nell’interesse del paese – per il personale, per acquisti di beni e servizi, per appalti A – B – C = UTILE INTASCABILE DAI POLITICI + Finanziamento pubblico dei partiti e dei loro organi di stampa + Proventi da corruzione + Regalie lecite - Sopravvenienze giudiziarie (parcelle legali, pene pecuniarie, risarcimenti passivi) TOTALE PROFITTI DEI POLITICI ____________ E’ chiaro, dunque, che i partiti hanno interesse ad aumentare continuamente le tasse e le multe, mentre hanno interesse a diminuire la spesa utile per il paese, onde avere più soldi per comperare i consensi e più soldi da intascarsi personalmente. Il rischio di una condanna penale, per il politico, è semplicemente il rischio di impresa, il suo rischio professionale. Come naturale, i partiti avversari si uniscono tra di loro nella difesa del loro reddito e potere. Niente è servito a cambiare le cose: non le riforme elettorali, non i cambi di maggioranza, non le indagini giudiziarie, non i partiti di protesta. Ovviamente, questo sistema non dà alcuna rappresentanza ai cittadini. Quindi lo Stato che abbiamo, con le sue regole, le sue tasse, il suo esattore Equitalia è completamente illegittimo rispetto ai principi costituzionali. Al contempo, lo spreco di circa 150 miliardi l’anno solo per i due capitoli di spesa suddetti impedisce di fare investimenti e di ridurre il debito pubblico, che esso stesso ha generato. La partitocrazia non rinuncerà mai a rubare, e neppure si lascia sostituire, quindi il paese è condannato. La soluzione, in astratto, sarebbe una rivoluzione violenta che eliminasse fisicamente la partitocrazia assieme a tutti i suoi ausiliari, e creasse le condizioni sia per la democrazia che per la legalità e per lo sviluppo. Un terzo della popolazione dichiara di sperare nella rivoluzione. La rivoluzione però non è possibile a causa dei caratteri della società italiana: mancano la fiducia sociale e la lealtà sociale necessarie per fare una rivoluzione, per costituire un movimento rivoluzionario. Per non parlare della mancanza di coraggio fisico e dell’inclinazione al servilismo infedele – altri due tipici tratti nazionali. E anche perché il ceto politico italiano è espressione della mentalità della popolazione generale. Quindi, anche considerando i rapporti col contesto europeo e mondiale, l’Italia continuerà il suo declino più o meno rapido e più o meno sussultorio, e che i capitali stranieri potranno rilevarne i pezzi utili con gli avanzi commerciali accumulati, approfittando della crisi finanziaria irreversibile del paese. La linea sostanziale della governance italiana, da molto tempo, è quindi quella di cavalcare questo processo e predisporne l’esito, nell’interesse del capitale straniero (soprattutto tedesco) che deve fare questo take-over dell’Italia, coniugando i suoi interessi con le forze reali italiane: partitocrazia, burocrazia, finanza, mafie. Oggettivamente, sono gli interessi stranieri e quelli di queste forze a venire tutelati e promossi dalle scelte politiche, soprattutto degli ultimi anni: agevolazioni alle acquisizioni di aziende e servizi strategici da parte di capitali stranieri, aumento dei soldi per spesa partitocratica e burocratica (incluse le pensioni d’oro), politiche creditizie che soffocano la piccola imprenditoria italiana normale facendo largo a quella straniera e a quella mafiosa e alla grande distribuzione perlopiù straniera. Questi sono solo alcuni esempi generici, ovviamente. Nel breve termine, queste politiche “europee” vanno a dissolvere il risparmio, il reddito e la piccola impresa nazionale, concentrando il denaro nelle mani di banche, assicurazioni, partitocrazia, mafie, così che questi soggetti potranno partecipare, assieme ai capitali stranieri, al take over del paese dopo il suo ormai non lontano collasso terminale. Ecco spiegata la logica, perfettamente realistica, di politiche economiche altrimenti assurde e inspiegabili, portate tenacemente avanti, dal centro destra come dal centro sinistra, anche dopo il loro fallimento rispetto ai loro scopi dichiarati. di Marco Della Luna