21 maggio 2012

Tecnocrazia familiare all'italiana

“…questa società senza-dio opera in modo estremamente efficiente, quantomeno ai suoi piani alti. Impiega qualunque possibile mezzo a sua disposizione, sia esso scientifico, tecnico, sociale o economico. Esercita un pressochè completo dominio nelle organizzazioni internazionali, sui circoli finanziari, nel campo delle comunicazioni di massa.” ( Padre Pedro Arupe – dell’Ordine dei Gesuiti, al Concilio Ecumenico del 17 dicembre 1965 )
Alcuni mesi fa il ministro del lavoro (che non c’è) Elsa Fornero aveva avuto la faccia tosta di prendersela con i giovani italiani che – a suo dire – rimanevano dei “mammoni” contenti di restare a casa anche fino a quarant’anni e senza un’occupazione. Ora già all’epoca qualcuno aveva sottolineato l’incongruenza di determinate dichiarazioni da parte di una esponente del governo dell’alta banca e della tecnocrazia sottolineando, prima di sparare simili cazzate (in un paese che sta letteralmente affondando nella merda, dove un giovane su tre non ha un’occupazione con punte che superano il 50 e passa per cento nelle regioni meridionali, dove più di otto milioni sono gli italiani che vivono al limite della soglia di povertà e almeno tre sono poveri tout court), di guardarsi in casa propria. Così venne fuori che Silvia Deaglio, figlia della ministra del lavoro e del giornalista Deaglio, già dall’età di 24 anni, mentre svolgeva un dottorato in Italia, ottenne l’incarico presso il giudaico Beth Israel Deaconess Medical Center ad Harvard, prestigioso e noto college di Harvard (USA). La figlia della ministra ha iniziato ad insegnare medicina a soli 30 anni, diventando associata presso l’Università di Torino sette anni più tardi con sei anni d’anticipo rispetto, vedi un po’ il ‘caso’, a quella che risulta essere la media d’accesso per questo ruolo. Il concorso lo vince a Chieti, nel 2010, alla facoltà di psicologia quindi l’approdo all’università piemontese dove insegnano, rivedi un po’ il ‘caso’, mamma e papà. Ma quello della figlia della ministra Fornero non sembra proprio essere un caso isolato all’interno del governo tecnocratico che sta affamando gli italiani, tassando i loro spiccioli e riducendo in miseria un intero paese. Michel Martone, figlio del ministro Antonio – avvocato della Cassazione e amico di Previti e Dell’Utri e già nominato dall’ex ministro Brunetta a presiedere l’authority degli scioperi ruolo dal quale fu costretto alle dimissioni dopo che il suo nome venne fatto nell’ambito dell’inchiesta sulla P3 – ha avuto una carriera universitaria particolarmente rapida: a 23 anni vince il dottorato all’Università di Modena, tre anni più tardi diventa ricercatore presso l’ateneo di Teramo, l’anno dopo è già professore associato. Al concorso, nel 2003, giunge secondo su due candidati dopo il ritiro degli altri sei. Presentò due monografie, una delle quali in edizione provvisoria (ossia non assimilabile): ottenne 4 voti favorevoli su 5 con il solo contrario di Franco Liso, contro i cinque positivi ottenuti invece dall’altra candidata 52enne con due lauree e oltre quaranta pubblicazione. Fu Martone ad ottenere il posto da ordinario. E a 37 anni è diventato viceministro dell’esecutivo Monti. E il premier? Questa sorta di novello ‘salvatore’ (…ma de che? direbbero a Roma? …) della patria, questa ‘eccellenza’ professorale chiamata al salvataggio del paese (…delle sue banche evidentemente…)? Non sembra proprio che abbia le carte in regola per ‘contarla’ ai soliti stolti italioti che vabbè siano dei fessi ma non fino al punto da credere ai miracoli in tempi di diffuso laicismo e più che diffuso scetticismo soprattutto tra e verso lorsignori della casta politico-economico-affaristico italiana. Giovanni Monti, figlio di….Mario, appare un manager rampante. A poco più di 20 anni è già – toh vedi un altro ‘caso’ – associato per il settore Investimenti bancari pressola GoldenSachs, la più potente merchant bank giudea statunitense nella quale il padre ha svolto il ruolo di international advisor per anni. Monti jr a 25 anni diventato consulente di direzione pressola Bain& Company dove rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, cioè prima del suo approdo alla Parmalat (quella di Tanzi per capirci), Giovanni Monti ha lavorato prima al Citigroup quindi alla Morgan Stanley Bank , lo stesso istituto finanziario giudeo-americano a cui il padre ha liquidato qualcosa come 2 miliardi e mezzo di titoli derivati del Tesoro nel silenzio generale. Monti jr è stato responsabile delle acquisizioni e disinvestimenti presso il Citigroup mentre alla Morgan si è occupato di transazioni economiche sui mercati europei, vicino orientali e in Africa. Divertitevi voi a cercare i curriculum vitae di questi figli di….ministri. E questi sarebbero i ‘tecnici’ che dovrebbero risollevare le sorti del paese chiedendo sacrifici su sacrifici, imponendo tasse e balzelli, aumentando oneri e imposte, soffocando pensioni, distruggendo le imprese, provocando suicidi e morti per un lavoro che non c’è ecc. ecc.??? Questi sono nient’altro che gli incaricati dalla plutocrazia finanziaria internazionale di rovinare definitivamente un paese. Questa è la casta degli usurai. La Tecnocrazia familiare all’italiana perché…saranno pure tecnocrati ma anche loro – ‘poverini’ – “tengono famiglia”…. di Dagoberto Bellucci

20 maggio 2012

Soli nel mondo

L'idea di una grande Europa unita da una moneta in comune si profuse dalla consapevolezza che nel medio/lungo termine ogni nazione europea non avrebbe potuto competere da sola nel mondo, venendo schiacciata tra l'egemonia statunitense e la nuova locomotiva asiatica. Quando venne concepito l'euro pertanto ci si focalizzò solo su come difendersi e non su come attaccare con la logica che prevenire è meglio che curare. Oggi vediamo quotidianamente le conseguenze di questo modus operandi al tempo tanto razionale quanto folle. L'ansia continua che suscita la infinita vicenda greca (o tragedia nel vero senso del termine) ci porta a reagire con emotività respingendo sia l'idea di Europa unita che soprattutto la sua aberrante creatura. Tutti odiamo l'euro, per quello che ci ha provocato e per quello che ci sta facendo patire. Ricevo continuamente in questi giorni domande su che cosa e come ci si può proteggere nel qual caso si ritorni alla lira o nel qual caso la Grecia sia espulsa dall'Europa. Mi spiace dirvi che non esiste un safe heaven ovvero non esiste un cassetto sicuro: oro, immobili, governativi, valute estere, obbligazioni strutturate. Tutti inglobano una percentuale di rischio, tutti sono positivamente correlati: ad esempio l'oro dovrebbe essere già a 2.500 dollari l'oncia con quanto sta accadendo, invece sta continuamente correggendo dai massimi dello scorso anno (in questo momento quota 1550). Purtroppo da soli nel mondo non ci possiamo stare: né noi italiani, né i germanesi e né i greci, non parliamo dopo dei francesi. Sarebbe confortante ritornare e ripristinare la propria sovranità monetaria, ma temo che non sarà possibile a meno di un conflitto civile. L'establishment finanziario o per dire l'oligarchia finanziaria che ci ha imposto il commissariamento con Mario Monti non lo permetterà mai. Vedete dieci anni fa all'interno del G7 il peso delle economie occidentali arrivava a oltre il 75%, tra dieci anni sarà meno del 40% e questo deve rappresentare il dato principe per far capire che il mondo sta invertendo la polarità, ma non quella geomagnetica come ci vuole far credere il Calendario Maya, quanto piuttosto quella geoeconomica, con l'Asia che ritorna a riprendersi il ruolo che la storia millenaria gli ha sempre riconosciuto: quello di regina degli scambi e del commercio internazionale (pensiamo a Marco Polo). In questo prossimo contesto combattere da soli con una popolazione europea sempre più vecchia e con fonti di energia fossile ridicole significa perdere ancora prima di iniziare la competizione. Al momento la Grecia sta alimentando la teoria del “who is the next” ovvero chi sarà il prossimo se la repubblica ellenica se ne dovesse andare dall'Unione Europea: questa eventualità aprirebbe il peggio scenario per tutti noi europei, andando a minare quelle poche certezze che ancora diamo per scontato (risparmio, titoli di stato e pensioni). Oggi paghiamo sicuramente una discutibile fase di determinazione dei rapporti di cambio tra l'euro e le precedenti divise (qualcuno ci ha guadagnato e qualcun'altro ha comprato la vasellina), tuttavia l'errore sostanziale è stato commesso proprio da quasi tutti gli stati aderenti al progetto comunitario. Un errore sul piano istituzionale nella governance economica concretizzatosi in un ritardo continuo e vistoso nell'apportare quelle riforme atte a far metabolizzare con maggior consenso sia l'euro che la sua valenza. Le nazioni europee odiano l'euro, l'austerity che impone e i sacrifici che ne scaturiscono in quanto percepiscono il tutto come una grande supposta di antibiotico. Manca purtroppo, causa mediocrità e gelosia politica, tanto italiana, germanese, francese e greca, la capacità di vederlo ed usarlo anche come un formidabile coadiuvante multivitaminico. Nessuna forza politica ha mai puntato a far emergere le grandi potenzialità sia difensive che propulsive che potrebbe avere l'euro se opportunamente utilizzato come strumento di politica socioeconomica. di Eugenio Benetazzo

19 maggio 2012

Quella crisi prodotta dalla nostra stessa economia

"Per spiegare la crisi si parla di banche e di debito pubblico, di finanza piratesca e di speculazioni, ma tutto questo non è che la deriva di un’economia. Come le metastasi di un tumore non sono che lo sviluppo 'naturale' del tumore stesso". E intanto, mentre ci si preoccupa di salvare un modello economico fallimentare e insostenibile, si ignorano le fondamenta delle nostre vite che, inesorabilmente, stanno andando alla malora: l’aria, l’acqua, la terra. crisi economica Per spiegare la crisi si parla di banche e di debito pubblico, di finanza piratesca e di speculazioni ma tutto questo non è che la deriva di un modello economico Rimango sempre sconcertata quando leggo le analisi anche di prestigiosi economisti sulle ragioni e gli sviluppi della crisi economica. Io non sono un economista ma le cose ovvie e palesi credo di essere in grado di vederle e comprenderle. Così come non sono un geologo ma, se vedo un bosco tagliato a raso su un ripido pendio dal terreno sciolto, non ho bisogno del parere di esperti per capire in futuro cosa avrà determinato la frana di quel pendio. Può darsi che gli 'specialisti' siano svantaggiati: a furia di scrutare nel profondo si finisce, come dice Tolkien, per non vedere la realtà nel suo complesso, quella che sta alla luce del sole. Per spiegare la crisi si parla di banche e di debito pubblico, di finanza piratesca e di speculazioni ma tutto questo non è che la deriva di un’economia. Come le metastasi di un tumore non sono che lo sviluppo 'naturale' del tumore stesso. Alla base di qualsiasi economia ci sono cose concrete e semplici: le risorse materiali e il lavoro umano. In un’economia capitalista quelle risorse si chiamano 'materie prime' e/o 'merci'. In un’economia capitalista, e cioè in una società di dominio e competizione, le risorse materiali vengono sottratte all’ambiente e ai popoli che di esse vivevano senza alcuno scrupolo e senza alcun limite; il lavoro poi, in tale economia, significa il maggior sfruttamento possibile, considerati i rapporti di forza. Essendo un’economia basata sul dominio e sulla competizione, come la società che l’ha generata, è inevitabile che cerchi sempre di superare i limiti, di 'crescere'. La globalizzazione è stato un salto quantitativo e qualitativo in tale crescita: i capitalisti di tutto il mondo hanno cominciato a 'de-localizzare'. Questa parolina inventata, come tante ultimamente, per nascondere la realtà, significa di fatto far produrre le proprie merci in paesi asserviti e impoveriti, per non pagare i lavoratori ridotti ormai a poco più che schiavi. carrelli La globalizzazione è stata, fino a un certo punto del suo sviluppo, la causa di un aumento vertiginoso dei consumi nel mondo occidentale A me, e spero non solo a me, da quando la globalizzazione neoliberista ha trionfato, è sembrato chiaro che la fine dell’economia capitalista era alle porte, e proprio a causa della sua incapacità di darsi dei limiti e di rispettarli. Del resto, competizione e limiti sono in antitesi, così come sono in antitesi dominio e rispetto. La globalizzazione è stata, fino a un certo punto del suo sviluppo, la causa di un aumento vertiginoso dei consumi nel mondo occidentale, cioè in quello dominante: i paesi asserviti ci davano le loro preziose materie prima in cambio di quasi nulla, le loro popolazioni asservite lavoravano per i nostri capitalisti (detti 'imprenditori') in cambio di quasi nulla. Così noi per quattro lire potevamo comperare cibo e benzina, scarpe e vestiti, borse e mobili. Qualche inconveniente si manifestò subito: i nostri contadini, per esempio, si trovarono a dover fronteggiare la concorrenza dei prodotti agricoli che venivano dai paesi schiavi e che costavano cifre da vergogna. Arrendersi o perire. Furono costretti a rinunciare all’agricoltura o ad abbassare i prezzi a livelli schiavistici. L’Italia è piena di piccoli agricoltori che fanno il doppio lavoro: un lavoro fuori dalla loro azienda per mantenere la famiglia, l’altro nella loro campagna perché non hanno cuore di abbandonarla. Ma finché si trattava dei contadini, questi fantasmi della nostra civiltà che danno da mangiare a tutti, nessuno si mise a parlare di crisi. Come si poteva parlare di crisi mentre il potere d’acquisto degli italiani cresceva vertiginosamente e ci rotolavamo in un’orgia di consumi superflui e spreco? I bambini indiani producevano le nostre scarpe e i nostri tappeti, quelli turchi i nostri golfini, gli schiavi della Del Monte i nostri ananas… roba quasi regalata. E intanto noi lavoravamo come operai elettronici, impiegate, architetti d’interni, programmatori informatici, ma… chi si ferma è perduto. Man mano sono state 'de- localizzate' tutte le attività che era possibile delocalizzare: ci sono call center ('centralini' in italiano) di aziende occidentali in India e in Tunisia e fabbriche di mobili occidentali in Indonesia. disoccupazione Tra disoccupazione o condizioni di lavoro da terzo mondo, che fine faranno i consumatori occidentali? Tutto questo non poteva avere che una conseguenza a lungo andare: la disoccupazione dei lavoratori occidentali. E allora, se produzione, terziario e persino servizi vengono spostati nei paesi in cui i lavoratori sono sottopagati e i lavoratori occidentali possono scegliere, a quel punto, solo tra disoccupazione o condizioni di lavoro da terzo mondo, che fine faranno i consumatori occidentali (che sono stati le colonne della 'crescita' e dello 'sviluppo')? Il destino del Consumatore Occidentale, una volta che in Occidente scompaiono i lavoratori adeguatamente remunerati, è un fatale declino fino all’estinzione. Con quali soldi il disoccupato, il co.co.co., il sottopagato possono pagare i mobili anche se fatti in Indonesia, le scarpe pachistane, le borse cinesi? Ed ecco che la competizione e il trionfo finale dell’imperialismo economico (e non solo) hanno prodotto la propria stessa crisi. Come per tutti gli imperi, il trionfo finale, in questo caso la globalizzazione neoliberista, era solo l’inizio dell’implosione finale: un’economia basata sui consumi superflui e frenetici è riuscita, per la brama insaziabile di sviluppo e crescita insita in lei stessa, a distruggere le basi sulle quali poggiava: il consumatore occidentale e il consumismo. Questo, ovviamente, mentre già aveva impoverito anche i popoli del resto del mondo: quell’impoverimento era una delle condizioni dell’aumento del profitto capitalista e della ricchezza occidentale. E adesso? portafogli vuoto Impoverire i ceti medi, dopo i lavoratori salariati, non potrà che diminuire anche i consumi che finora avevano retto Si potrebbe dire “chi la fa l’aspetti”. Non ci siamo mai preoccupati delle crisi che il neoliberismo imponeva ai paesi di Africa, Asia, America Latina, est Europa. Non abbiamo lottato per migliori condizioni di lavoro di operai o braccianti o minatori peruviani o senegalesi. Se l’avessimo fatto, forse non avremmo subito la loro involontaria concorrenza; forse il neoliberismo sarebbe crollato prima di distruggere ambiente e società umana; forse la storia avrebbe preso un altro corso. Però coi 'se' e coi 'ma' la storia non si fa e nemmeno coi 'forse'. Adesso lo sfruttamento disumano di quei popoli si ritorce contro di noi, che finora ne avevamo beneficiato. Adesso anche i nostri governi, del tutto asserviti agli interessi del grande padronato mondiale, ci 'svendono' ai loro e nostri padroni: riducono salari e servizi sociali, aumentano tasse e vincoli in modo da distruggere anche la piccola impresa privata e il piccolo commercio, eliminano i diritti dei lavoratori. E tutto questo non farà che accelerare la conclusione: impoverire i ceti medi, dopo i lavoratori salariati, non potrà che diminuire anche i consumi che finora avevano retto. Quanto al mitico debito pubblico, le sue cause sono più semplici di quello che si vuole far credere. Le spese che hanno contribuito maggiormente all’indebitamento dell’Italia, per esempio, sono state quelle militari, quelle delle grandi opere come il TAV oltre, naturalmente, al 'mangia mangia' diffuso di ministri, parlamentari, amministratori pubblici & co. Ora, non è affatto vero che si cerchi di diminuire quel debito. Quello che il nostro governo cerca di fare, dato che le vacche grasse sono finite e non si possono più salvare capra e cavoli, è far mangiare i cavoli alla capra. I cavoli siamo noi e ci tolgono le pensioni, i trasporti pubblici, gli insegnanti di sostegno e le mense universitarie, oltre a tassarci la casa, il campo e poi tutto, compresa l’acqua del rubinetto. La capra sono i padroni, che prendono soldi dallo stato per fare i raddoppi delle autostrade, i viadotti e i tav, gli inceneritori, e a cui vengono regalate le ferrovie. crisi In questa crisi le banche hanno lo stesso ruolo dello stato capitalista-sviluppista: rubare ai poveri per dare ai ricchi In questa crisi le banche hanno lo stesso ruolo dello stato capitalista-sviluppista: rubare ai poveri per dare ai ricchi. Perché quello che nessuno dice è che le banche appartengono agli stessi che costruiscono autostrade e ferrovie ad alta velocità, dighe e palazzoni, catene di ipermercati. Le banche prestano i nostri soldi ai loro padroni per costruire i palazzoni o le catene di ipermercati; se poi i palazzi non si vendono o gli ipermercati sono in perdita, lo stato rimpingua le banche coi nostri soldi. Forse il quadro è schematico, ma a volte gli schemi aiutano a fare un po’ d’ordine. Tuttavia, a molti sembrerà strano ma io non riesco a considerare tutto questo di importanza fondamentale. Certamente è importante, condiziona e condizionerà le nostre vite, ma non è fondamentale. Alle fondamenta delle nostre vite ci sono altre cose: l’aria, l’acqua, la terra. Che stanno andando alla malora e che gli economisti non considerano. Pare anzi che non le consideri quasi nessuno, tranne i superstiti popoli 'primitivi', eppure l’ambiente naturale dovrebbe condizionare anche l’economia. Per esempio, se il petrolio sottoterra finisce, si può sempre andare a cercarlo sotto il mare; aumentano i costi ma si può aumentare anche il prezzo o farsi sovvenzionare da governi servi. Ma se la piattaforma salta in aria e la marea nera distrugge l’industria della pesca e quella del turismo? E se tempeste inaudite distruggono porti e radono al suolo migliaia di ettari di foresta di legname da esportazione? E se lo tsunami, dato che non ci sono più i mangrovieti a fermare l’onda, spazza via anche gli allevamenti di gamberetti? Qualcuno ha detto che chi crede in una crescita illimitata, in un pianeta limitato, può essere solo un folle o un economista. Voi cosa pensate, che i nostri governanti, politici, mas mediatori ovvero 'giornalisti' siano economisti o siano folli? di Sonia Savioli

21 maggio 2012

Tecnocrazia familiare all'italiana

“…questa società senza-dio opera in modo estremamente efficiente, quantomeno ai suoi piani alti. Impiega qualunque possibile mezzo a sua disposizione, sia esso scientifico, tecnico, sociale o economico. Esercita un pressochè completo dominio nelle organizzazioni internazionali, sui circoli finanziari, nel campo delle comunicazioni di massa.” ( Padre Pedro Arupe – dell’Ordine dei Gesuiti, al Concilio Ecumenico del 17 dicembre 1965 )
Alcuni mesi fa il ministro del lavoro (che non c’è) Elsa Fornero aveva avuto la faccia tosta di prendersela con i giovani italiani che – a suo dire – rimanevano dei “mammoni” contenti di restare a casa anche fino a quarant’anni e senza un’occupazione. Ora già all’epoca qualcuno aveva sottolineato l’incongruenza di determinate dichiarazioni da parte di una esponente del governo dell’alta banca e della tecnocrazia sottolineando, prima di sparare simili cazzate (in un paese che sta letteralmente affondando nella merda, dove un giovane su tre non ha un’occupazione con punte che superano il 50 e passa per cento nelle regioni meridionali, dove più di otto milioni sono gli italiani che vivono al limite della soglia di povertà e almeno tre sono poveri tout court), di guardarsi in casa propria. Così venne fuori che Silvia Deaglio, figlia della ministra del lavoro e del giornalista Deaglio, già dall’età di 24 anni, mentre svolgeva un dottorato in Italia, ottenne l’incarico presso il giudaico Beth Israel Deaconess Medical Center ad Harvard, prestigioso e noto college di Harvard (USA). La figlia della ministra ha iniziato ad insegnare medicina a soli 30 anni, diventando associata presso l’Università di Torino sette anni più tardi con sei anni d’anticipo rispetto, vedi un po’ il ‘caso’, a quella che risulta essere la media d’accesso per questo ruolo. Il concorso lo vince a Chieti, nel 2010, alla facoltà di psicologia quindi l’approdo all’università piemontese dove insegnano, rivedi un po’ il ‘caso’, mamma e papà. Ma quello della figlia della ministra Fornero non sembra proprio essere un caso isolato all’interno del governo tecnocratico che sta affamando gli italiani, tassando i loro spiccioli e riducendo in miseria un intero paese. Michel Martone, figlio del ministro Antonio – avvocato della Cassazione e amico di Previti e Dell’Utri e già nominato dall’ex ministro Brunetta a presiedere l’authority degli scioperi ruolo dal quale fu costretto alle dimissioni dopo che il suo nome venne fatto nell’ambito dell’inchiesta sulla P3 – ha avuto una carriera universitaria particolarmente rapida: a 23 anni vince il dottorato all’Università di Modena, tre anni più tardi diventa ricercatore presso l’ateneo di Teramo, l’anno dopo è già professore associato. Al concorso, nel 2003, giunge secondo su due candidati dopo il ritiro degli altri sei. Presentò due monografie, una delle quali in edizione provvisoria (ossia non assimilabile): ottenne 4 voti favorevoli su 5 con il solo contrario di Franco Liso, contro i cinque positivi ottenuti invece dall’altra candidata 52enne con due lauree e oltre quaranta pubblicazione. Fu Martone ad ottenere il posto da ordinario. E a 37 anni è diventato viceministro dell’esecutivo Monti. E il premier? Questa sorta di novello ‘salvatore’ (…ma de che? direbbero a Roma? …) della patria, questa ‘eccellenza’ professorale chiamata al salvataggio del paese (…delle sue banche evidentemente…)? Non sembra proprio che abbia le carte in regola per ‘contarla’ ai soliti stolti italioti che vabbè siano dei fessi ma non fino al punto da credere ai miracoli in tempi di diffuso laicismo e più che diffuso scetticismo soprattutto tra e verso lorsignori della casta politico-economico-affaristico italiana. Giovanni Monti, figlio di….Mario, appare un manager rampante. A poco più di 20 anni è già – toh vedi un altro ‘caso’ – associato per il settore Investimenti bancari pressola GoldenSachs, la più potente merchant bank giudea statunitense nella quale il padre ha svolto il ruolo di international advisor per anni. Monti jr a 25 anni diventato consulente di direzione pressola Bain& Company dove rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, cioè prima del suo approdo alla Parmalat (quella di Tanzi per capirci), Giovanni Monti ha lavorato prima al Citigroup quindi alla Morgan Stanley Bank , lo stesso istituto finanziario giudeo-americano a cui il padre ha liquidato qualcosa come 2 miliardi e mezzo di titoli derivati del Tesoro nel silenzio generale. Monti jr è stato responsabile delle acquisizioni e disinvestimenti presso il Citigroup mentre alla Morgan si è occupato di transazioni economiche sui mercati europei, vicino orientali e in Africa. Divertitevi voi a cercare i curriculum vitae di questi figli di….ministri. E questi sarebbero i ‘tecnici’ che dovrebbero risollevare le sorti del paese chiedendo sacrifici su sacrifici, imponendo tasse e balzelli, aumentando oneri e imposte, soffocando pensioni, distruggendo le imprese, provocando suicidi e morti per un lavoro che non c’è ecc. ecc.??? Questi sono nient’altro che gli incaricati dalla plutocrazia finanziaria internazionale di rovinare definitivamente un paese. Questa è la casta degli usurai. La Tecnocrazia familiare all’italiana perché…saranno pure tecnocrati ma anche loro – ‘poverini’ – “tengono famiglia”…. di Dagoberto Bellucci

20 maggio 2012

Soli nel mondo

L'idea di una grande Europa unita da una moneta in comune si profuse dalla consapevolezza che nel medio/lungo termine ogni nazione europea non avrebbe potuto competere da sola nel mondo, venendo schiacciata tra l'egemonia statunitense e la nuova locomotiva asiatica. Quando venne concepito l'euro pertanto ci si focalizzò solo su come difendersi e non su come attaccare con la logica che prevenire è meglio che curare. Oggi vediamo quotidianamente le conseguenze di questo modus operandi al tempo tanto razionale quanto folle. L'ansia continua che suscita la infinita vicenda greca (o tragedia nel vero senso del termine) ci porta a reagire con emotività respingendo sia l'idea di Europa unita che soprattutto la sua aberrante creatura. Tutti odiamo l'euro, per quello che ci ha provocato e per quello che ci sta facendo patire. Ricevo continuamente in questi giorni domande su che cosa e come ci si può proteggere nel qual caso si ritorni alla lira o nel qual caso la Grecia sia espulsa dall'Europa. Mi spiace dirvi che non esiste un safe heaven ovvero non esiste un cassetto sicuro: oro, immobili, governativi, valute estere, obbligazioni strutturate. Tutti inglobano una percentuale di rischio, tutti sono positivamente correlati: ad esempio l'oro dovrebbe essere già a 2.500 dollari l'oncia con quanto sta accadendo, invece sta continuamente correggendo dai massimi dello scorso anno (in questo momento quota 1550). Purtroppo da soli nel mondo non ci possiamo stare: né noi italiani, né i germanesi e né i greci, non parliamo dopo dei francesi. Sarebbe confortante ritornare e ripristinare la propria sovranità monetaria, ma temo che non sarà possibile a meno di un conflitto civile. L'establishment finanziario o per dire l'oligarchia finanziaria che ci ha imposto il commissariamento con Mario Monti non lo permetterà mai. Vedete dieci anni fa all'interno del G7 il peso delle economie occidentali arrivava a oltre il 75%, tra dieci anni sarà meno del 40% e questo deve rappresentare il dato principe per far capire che il mondo sta invertendo la polarità, ma non quella geomagnetica come ci vuole far credere il Calendario Maya, quanto piuttosto quella geoeconomica, con l'Asia che ritorna a riprendersi il ruolo che la storia millenaria gli ha sempre riconosciuto: quello di regina degli scambi e del commercio internazionale (pensiamo a Marco Polo). In questo prossimo contesto combattere da soli con una popolazione europea sempre più vecchia e con fonti di energia fossile ridicole significa perdere ancora prima di iniziare la competizione. Al momento la Grecia sta alimentando la teoria del “who is the next” ovvero chi sarà il prossimo se la repubblica ellenica se ne dovesse andare dall'Unione Europea: questa eventualità aprirebbe il peggio scenario per tutti noi europei, andando a minare quelle poche certezze che ancora diamo per scontato (risparmio, titoli di stato e pensioni). Oggi paghiamo sicuramente una discutibile fase di determinazione dei rapporti di cambio tra l'euro e le precedenti divise (qualcuno ci ha guadagnato e qualcun'altro ha comprato la vasellina), tuttavia l'errore sostanziale è stato commesso proprio da quasi tutti gli stati aderenti al progetto comunitario. Un errore sul piano istituzionale nella governance economica concretizzatosi in un ritardo continuo e vistoso nell'apportare quelle riforme atte a far metabolizzare con maggior consenso sia l'euro che la sua valenza. Le nazioni europee odiano l'euro, l'austerity che impone e i sacrifici che ne scaturiscono in quanto percepiscono il tutto come una grande supposta di antibiotico. Manca purtroppo, causa mediocrità e gelosia politica, tanto italiana, germanese, francese e greca, la capacità di vederlo ed usarlo anche come un formidabile coadiuvante multivitaminico. Nessuna forza politica ha mai puntato a far emergere le grandi potenzialità sia difensive che propulsive che potrebbe avere l'euro se opportunamente utilizzato come strumento di politica socioeconomica. di Eugenio Benetazzo

19 maggio 2012

Quella crisi prodotta dalla nostra stessa economia

"Per spiegare la crisi si parla di banche e di debito pubblico, di finanza piratesca e di speculazioni, ma tutto questo non è che la deriva di un’economia. Come le metastasi di un tumore non sono che lo sviluppo 'naturale' del tumore stesso". E intanto, mentre ci si preoccupa di salvare un modello economico fallimentare e insostenibile, si ignorano le fondamenta delle nostre vite che, inesorabilmente, stanno andando alla malora: l’aria, l’acqua, la terra. crisi economica Per spiegare la crisi si parla di banche e di debito pubblico, di finanza piratesca e di speculazioni ma tutto questo non è che la deriva di un modello economico Rimango sempre sconcertata quando leggo le analisi anche di prestigiosi economisti sulle ragioni e gli sviluppi della crisi economica. Io non sono un economista ma le cose ovvie e palesi credo di essere in grado di vederle e comprenderle. Così come non sono un geologo ma, se vedo un bosco tagliato a raso su un ripido pendio dal terreno sciolto, non ho bisogno del parere di esperti per capire in futuro cosa avrà determinato la frana di quel pendio. Può darsi che gli 'specialisti' siano svantaggiati: a furia di scrutare nel profondo si finisce, come dice Tolkien, per non vedere la realtà nel suo complesso, quella che sta alla luce del sole. Per spiegare la crisi si parla di banche e di debito pubblico, di finanza piratesca e di speculazioni ma tutto questo non è che la deriva di un’economia. Come le metastasi di un tumore non sono che lo sviluppo 'naturale' del tumore stesso. Alla base di qualsiasi economia ci sono cose concrete e semplici: le risorse materiali e il lavoro umano. In un’economia capitalista quelle risorse si chiamano 'materie prime' e/o 'merci'. In un’economia capitalista, e cioè in una società di dominio e competizione, le risorse materiali vengono sottratte all’ambiente e ai popoli che di esse vivevano senza alcuno scrupolo e senza alcun limite; il lavoro poi, in tale economia, significa il maggior sfruttamento possibile, considerati i rapporti di forza. Essendo un’economia basata sul dominio e sulla competizione, come la società che l’ha generata, è inevitabile che cerchi sempre di superare i limiti, di 'crescere'. La globalizzazione è stato un salto quantitativo e qualitativo in tale crescita: i capitalisti di tutto il mondo hanno cominciato a 'de-localizzare'. Questa parolina inventata, come tante ultimamente, per nascondere la realtà, significa di fatto far produrre le proprie merci in paesi asserviti e impoveriti, per non pagare i lavoratori ridotti ormai a poco più che schiavi. carrelli La globalizzazione è stata, fino a un certo punto del suo sviluppo, la causa di un aumento vertiginoso dei consumi nel mondo occidentale A me, e spero non solo a me, da quando la globalizzazione neoliberista ha trionfato, è sembrato chiaro che la fine dell’economia capitalista era alle porte, e proprio a causa della sua incapacità di darsi dei limiti e di rispettarli. Del resto, competizione e limiti sono in antitesi, così come sono in antitesi dominio e rispetto. La globalizzazione è stata, fino a un certo punto del suo sviluppo, la causa di un aumento vertiginoso dei consumi nel mondo occidentale, cioè in quello dominante: i paesi asserviti ci davano le loro preziose materie prima in cambio di quasi nulla, le loro popolazioni asservite lavoravano per i nostri capitalisti (detti 'imprenditori') in cambio di quasi nulla. Così noi per quattro lire potevamo comperare cibo e benzina, scarpe e vestiti, borse e mobili. Qualche inconveniente si manifestò subito: i nostri contadini, per esempio, si trovarono a dover fronteggiare la concorrenza dei prodotti agricoli che venivano dai paesi schiavi e che costavano cifre da vergogna. Arrendersi o perire. Furono costretti a rinunciare all’agricoltura o ad abbassare i prezzi a livelli schiavistici. L’Italia è piena di piccoli agricoltori che fanno il doppio lavoro: un lavoro fuori dalla loro azienda per mantenere la famiglia, l’altro nella loro campagna perché non hanno cuore di abbandonarla. Ma finché si trattava dei contadini, questi fantasmi della nostra civiltà che danno da mangiare a tutti, nessuno si mise a parlare di crisi. Come si poteva parlare di crisi mentre il potere d’acquisto degli italiani cresceva vertiginosamente e ci rotolavamo in un’orgia di consumi superflui e spreco? I bambini indiani producevano le nostre scarpe e i nostri tappeti, quelli turchi i nostri golfini, gli schiavi della Del Monte i nostri ananas… roba quasi regalata. E intanto noi lavoravamo come operai elettronici, impiegate, architetti d’interni, programmatori informatici, ma… chi si ferma è perduto. Man mano sono state 'de- localizzate' tutte le attività che era possibile delocalizzare: ci sono call center ('centralini' in italiano) di aziende occidentali in India e in Tunisia e fabbriche di mobili occidentali in Indonesia. disoccupazione Tra disoccupazione o condizioni di lavoro da terzo mondo, che fine faranno i consumatori occidentali? Tutto questo non poteva avere che una conseguenza a lungo andare: la disoccupazione dei lavoratori occidentali. E allora, se produzione, terziario e persino servizi vengono spostati nei paesi in cui i lavoratori sono sottopagati e i lavoratori occidentali possono scegliere, a quel punto, solo tra disoccupazione o condizioni di lavoro da terzo mondo, che fine faranno i consumatori occidentali (che sono stati le colonne della 'crescita' e dello 'sviluppo')? Il destino del Consumatore Occidentale, una volta che in Occidente scompaiono i lavoratori adeguatamente remunerati, è un fatale declino fino all’estinzione. Con quali soldi il disoccupato, il co.co.co., il sottopagato possono pagare i mobili anche se fatti in Indonesia, le scarpe pachistane, le borse cinesi? Ed ecco che la competizione e il trionfo finale dell’imperialismo economico (e non solo) hanno prodotto la propria stessa crisi. Come per tutti gli imperi, il trionfo finale, in questo caso la globalizzazione neoliberista, era solo l’inizio dell’implosione finale: un’economia basata sui consumi superflui e frenetici è riuscita, per la brama insaziabile di sviluppo e crescita insita in lei stessa, a distruggere le basi sulle quali poggiava: il consumatore occidentale e il consumismo. Questo, ovviamente, mentre già aveva impoverito anche i popoli del resto del mondo: quell’impoverimento era una delle condizioni dell’aumento del profitto capitalista e della ricchezza occidentale. E adesso? portafogli vuoto Impoverire i ceti medi, dopo i lavoratori salariati, non potrà che diminuire anche i consumi che finora avevano retto Si potrebbe dire “chi la fa l’aspetti”. Non ci siamo mai preoccupati delle crisi che il neoliberismo imponeva ai paesi di Africa, Asia, America Latina, est Europa. Non abbiamo lottato per migliori condizioni di lavoro di operai o braccianti o minatori peruviani o senegalesi. Se l’avessimo fatto, forse non avremmo subito la loro involontaria concorrenza; forse il neoliberismo sarebbe crollato prima di distruggere ambiente e società umana; forse la storia avrebbe preso un altro corso. Però coi 'se' e coi 'ma' la storia non si fa e nemmeno coi 'forse'. Adesso lo sfruttamento disumano di quei popoli si ritorce contro di noi, che finora ne avevamo beneficiato. Adesso anche i nostri governi, del tutto asserviti agli interessi del grande padronato mondiale, ci 'svendono' ai loro e nostri padroni: riducono salari e servizi sociali, aumentano tasse e vincoli in modo da distruggere anche la piccola impresa privata e il piccolo commercio, eliminano i diritti dei lavoratori. E tutto questo non farà che accelerare la conclusione: impoverire i ceti medi, dopo i lavoratori salariati, non potrà che diminuire anche i consumi che finora avevano retto. Quanto al mitico debito pubblico, le sue cause sono più semplici di quello che si vuole far credere. Le spese che hanno contribuito maggiormente all’indebitamento dell’Italia, per esempio, sono state quelle militari, quelle delle grandi opere come il TAV oltre, naturalmente, al 'mangia mangia' diffuso di ministri, parlamentari, amministratori pubblici & co. Ora, non è affatto vero che si cerchi di diminuire quel debito. Quello che il nostro governo cerca di fare, dato che le vacche grasse sono finite e non si possono più salvare capra e cavoli, è far mangiare i cavoli alla capra. I cavoli siamo noi e ci tolgono le pensioni, i trasporti pubblici, gli insegnanti di sostegno e le mense universitarie, oltre a tassarci la casa, il campo e poi tutto, compresa l’acqua del rubinetto. La capra sono i padroni, che prendono soldi dallo stato per fare i raddoppi delle autostrade, i viadotti e i tav, gli inceneritori, e a cui vengono regalate le ferrovie. crisi In questa crisi le banche hanno lo stesso ruolo dello stato capitalista-sviluppista: rubare ai poveri per dare ai ricchi In questa crisi le banche hanno lo stesso ruolo dello stato capitalista-sviluppista: rubare ai poveri per dare ai ricchi. Perché quello che nessuno dice è che le banche appartengono agli stessi che costruiscono autostrade e ferrovie ad alta velocità, dighe e palazzoni, catene di ipermercati. Le banche prestano i nostri soldi ai loro padroni per costruire i palazzoni o le catene di ipermercati; se poi i palazzi non si vendono o gli ipermercati sono in perdita, lo stato rimpingua le banche coi nostri soldi. Forse il quadro è schematico, ma a volte gli schemi aiutano a fare un po’ d’ordine. Tuttavia, a molti sembrerà strano ma io non riesco a considerare tutto questo di importanza fondamentale. Certamente è importante, condiziona e condizionerà le nostre vite, ma non è fondamentale. Alle fondamenta delle nostre vite ci sono altre cose: l’aria, l’acqua, la terra. Che stanno andando alla malora e che gli economisti non considerano. Pare anzi che non le consideri quasi nessuno, tranne i superstiti popoli 'primitivi', eppure l’ambiente naturale dovrebbe condizionare anche l’economia. Per esempio, se il petrolio sottoterra finisce, si può sempre andare a cercarlo sotto il mare; aumentano i costi ma si può aumentare anche il prezzo o farsi sovvenzionare da governi servi. Ma se la piattaforma salta in aria e la marea nera distrugge l’industria della pesca e quella del turismo? E se tempeste inaudite distruggono porti e radono al suolo migliaia di ettari di foresta di legname da esportazione? E se lo tsunami, dato che non ci sono più i mangrovieti a fermare l’onda, spazza via anche gli allevamenti di gamberetti? Qualcuno ha detto che chi crede in una crescita illimitata, in un pianeta limitato, può essere solo un folle o un economista. Voi cosa pensate, che i nostri governanti, politici, mas mediatori ovvero 'giornalisti' siano economisti o siano folli? di Sonia Savioli