18 giugno 2012

Iniziate a pregare

Ancora pochi giorni di attesa per conoscere il verdetto degli ellenici, euro si o euro no, che per noi significherà euro salvezza o euro disastro. A quel punto infatti se la Grecia esigerà per pretesa politica di voler abbandonare la moneta unica, accollandosi tutti i rischi che questo comporterà per la propria economia, si produrrà un pericoloso precedente, a cui nel breve futuro altri paesi vorranno fare riferimento. La maggior parte degli italiani, complice forse i campionati di calcio europei e gli scandali del campionato italiano, non ha minimamente idea dei rischi che potrebbe vivere se le autorità sovranazionali (BCE, FMI ed Eurogruppo) non si inventeranno velocemente una exit strategy credibile. Perchè è di questo che il mondo si interroga: l'immobilismo politico europeo, quasi a voler aspettare di vedere il crash per poi intervenire all'ultimo minuto. Questo inizio settimana si è parlato di un Big Plan per salvare l'Europa: Draghi & Company ci stanno lavorando. Dovremmo essere ottimisti per una volta tanto, tuttavia siamo arrivati a questo punto perchè sino ad oggi di decisioni forti e autoritarie non se ne sono mai viste. Solo nella giornata di ieri ho ricevuto qualche centinaia di email di risparmiatori in preda ad una crisi di nervi dopo quanto è stato fatto trapelare sulle misure di possibile contenimento post elezioni greche: si va dal contigentamento dei conti correnti (come in Argentina nel 2001) sino al bando del trattato di Shenghen. Nonostante questo, ci sono ancora italiani che alle 18:30 corrono a casa per non perdersi l'Olanda che gioca con la Germania agli Europei. Mi viene da sorridere in questo momento perchè se la situazione sfuggisse di mano vedremo (forse) la finale di una competizione sportiva per l'assegnazione di un titolo europeo quando di Europa potrebbe veramente rimanere poca cosa (e questo nel giro di qualche settimana). Affannarsi adesso a cercare di aprire il conto in Svizzera o di investire sull'oro in pochi giorni non ha proprio senso: pensate che proprio il metallo giallo si sta muovendo in controtendenza con la percezione del rischio, in quanto si teme che possa essere espropriato o congelato quello detenuto dai privati per investimenti personali. Come dice il titolo, iniziate a pregare. Pregate che i greci non siano così scellerati da segare le gambe della sedia in cui sono adesso seduti, pregate che i mercati azionari ai valori attuali stiano già scontando il worst case scenario, pregate che la Merkel rinsavisca nel sonno delle prossime notti, pregate che Draghi dimostri di essere a tutto il mondo veramente Super Mario, pregate che le banche italiane in caso di addio ellenico all'euro non siano commissariate, pregate che le autorità di controllo e vigilanza dei mercati impongano la chiusura delle negoziazioni per ragioni di sicurezza nazionale (come fecero gli USA con l'attacco del 9/11), pregate che il FMI presti a dismisura quello che serva per sostenere paesi deboli come Spagna e Italia, pregate che la Cina si faccia avanti per sorreggere le quotazioni dei titoli di stato europei, pregate che qualcuno non si inventi un prelievo straordinario sui depositi a vista per drenare risorse finanziarie da devolvere al sistema bancario europeo, infine pregate che la vostra vita non finisca come quella di J.J. Braddock come raccontata nella prima parte del film Cinderella Man. Si parla tanto della fine del mondo nel 2012 causa simbiosi con il calendario maya, non so se ci sarà a fine anno la fine del genere umano, di certo se il clima in Europa non muta velocemente rischiamo di vedere la fine dell'Europa e dell'Euro. Cerchiamo di essere pragmatici: nessuno auspica la fine della moneta unica, non conviene a nessuno e pochissimi avrebbero da guadagnarci in misura sostanziale. Questo è l'unico dato di fatto a cui ci possiamo aggrappare come fosse un maniglione antipanico. Tuttavia dobbiamo anche notare come nessuno si stia autorevolmente impegnando per uscire da questa situazione paradossale di limbo finanziario in cui siamo catapultati. Forse nessuno si impegna a cercare una soluzione definitiva, perchè purtroppo non esiste la exit strategy o la medicina amara da prendere. Ci sono solo dei calmanti come gli stability bond o del cortisone come la politica di austerity. Sarà proprio per questo che dobbiamo effettivamente pregare. di Eugenio Benetazzo

17 giugno 2012

Quelle oligarchie invisibili fantasmi della democrazia

Quando la locuzione “poteri forti” fu coniata, nei primi anni della Seconda Repubblica, si riferiva a Confindustria, a parti della magistratura, ai servizi segreti, alla massoneria, e anche ai potentati economici internazionali. Insomma, a istituzioni pubbliche e private molto diverse tra loro, e unite solo dal non avere natura rappresentativa, cioè dall’essere esterne, o a volte ostili, all’esercizio trasparente del potere, alla sua fonte originaria di legittimità (il popolo), e ai suoi canali d’espressione politica (i partiti) e istituzionale (il parlamento e il governo). Davanti a questi poteri (recentemente evocati da Mario Monti perché il suo governo avrebbe perso il loro appoggio), la democrazia rappresentativa è debole proprio in quanto potere pubblico, sfidato da forze che sono di volta in volta elitarie, segrete, nascoste, private, illegali. In quest’ottica, è il popolo a esercitare un potere fittizio, universale, artificiale, a cui si contrappongono poteri reali, opachi, ristretti, “naturali” perché fondati sull’antichissima base del privilegio. Poteri, inoltre, che non accettano il rischio dell’esercizio diretto, fosse anche nella forma dell’oligarchia; e che assumono la veste del potere indiretto, di un potere, cioè, che si cela, oppure che nega di essere potere, per non sottostare a regole comuni e per non rispondere della propria azione. All’origine della filosofia politica moderna il potere indiretto era quello esercitato sulle coscienze dalla Chiesa cattolica (non menzionata nell’elenco consueto dei poteri forti, benché lo sia, con ogni evidenza), a cui le élites laiche rispondevano con il potere dello Stato, con la costruzione della sovranità, col potere invincibile di tutti. Una questione seria, dunque, quella dei poteri forti. Una questione che un tempo si declinava da destra in termini di plutocrazia (per di più, “giudaica”) opposta alla sana forza collettiva delle nazioni, mentre da sinistra si istituiva l’antitesi fra la prassi popolare e il complotto – le “forze oscure della reazione in agguato”, secondo il lessico dei primi anni del dopoguerra; ma le leggende (non infondate) sulla Commissione Trilaterale o sul gruppo Bilderberg sono giunte fino agli anni Ottanta, insieme al mito dell’onnipotenza della Cia, del Kgb, o delle multinazionali. Una questione che è anche declinabile come la continuità, nelle diverse forme storiche, dell’eterno potere delle élites, o della legge del più forte, che la democrazia cerca di spezzare, istituendo una discontinuità: che consiste o in una strategia monistica, facendo nascere un nuovo potere dal popolo, un potere forte appunto perché non di una parte ma anzi perché di tutti, o con una sensibilità pluralistica, spingendo le classi dirigenti a competere apertamente per il consenso dei cittadini. O, anche, costruendo e organizzando poteri più forti dei poteri forti; contropoteri di lotta e di governo (come si diceva un tempo). Con poteri forti si intende quindi la rocciosa permanenza delle diverse forme del potere di sempre – parziali, egoiste, autointeressate – all’interno degli spazi istituzionali democratici; la loro occhiuta e lungimirante vigilanza perché nulla cambi veramente; la loro capacità di influenzare invisibilmente o indirettamente la politica visibile; di contrapporre la propria permanenza e la propria stabilità all’accidentalità, alla casualità e alla fugacità dei poteri costituiti. Si intende insomma l’impossibilità che la vita associata sia governata dalla ragione pubblica senza alcun elemento di segreto, o che sia indenne da corpose e incoercibili ragioni private – ad esempio, il “complesso militare-industriale” di cui parlava un presidente repubblicano come Eisenhower –. I poteri forti sono quindi un segno di una debolezza strutturale della politica democratica, di un limite oggettivo al suo potere, con cui è realistico accettare di dover fare i conti, senza sottomettervisi. Ma spesso sono anche un comodo alibi, un nome generico, buono a tutti gli usi, col quale una politica debole per sua colpa o imprevidenza soggettiva copre insuccessi e fallimenti di cui non si vuole assumere la responsabilità. Assi portanti della storia materiale del nostro tempo, convitati di pietra al banchetto della democrazia, in ogni caso i poteri forti oggi hanno una dislocazione extra-statale e extra-nazionale; sono le grandi case farmaceutiche padrone del biopotere globale, le agenzie di rating, la finanza internazionale (i “mercati”), le istituzioni economiche mondiali ed europee, i media di dimensione transcontinentale, le mafie pluritentacolari, le istituzioni che curano la Ricerca e Sviluppo per la Difesa delle grandi potenze, le multinazionali dei generi alimentari e dell’energia. A questi veri poteri forti si abbarbicano oggi i poteri forti di rango nazionale; che a volte – grande novità – esercitano direttamente il potere politico, in fasi d’emergenza o di estrema debolezza dei poteri istituzionali, come referenti e garanti di alcuni vitali interessi sia nazionali sia sovranazionali. E quando questi poteri locali trovano ostacoli alla propria azione, hanno la tentazione di presentarsi come abbandonate da quei poteri forti, che in realtà esse stesse incarnano e tutelano. La lotta contro i poteri forti – anche se in realtà sono soltanto categorie riottose, corporazioni egoiste – diviene così uno slogan e un alibi per gli stessi poteri forti. Che ciò dimostri ancora una volta la loro forza – la loro capacità di eludere la responsabilità politica – o piuttosto la loro debolezza e insufficienza, lo si capirà tra breve. Da subito si comprende invece che, benché forse impossibile da raggiungere pienamente, un decente obiettivo dell’azione politica dovrebbe essere che i poteri forti trovino un nuovo limite, e un orientamento, in un più forte potere di tutti. di Carlo Galli

16 giugno 2012

Autorità sovranazionali e fine degli Stati

Meno di tre mesi per salvare l’euro. Da quando è approdata alla direzione del Fondo monetario internazionale, dopo aver lasciato il ministero delle Finanze francese, Christine Lagarde è entrata così dentro il suo ruolo di banchiere da assumere i tipici vezzi e i modi di ragionare della tecnocrazia internazionale. Il primo dei quali è di pensare che la soluzione di tutti gli sconquassi dei mercati finanziari non si trovi, come sarebbe logico, nell’incominciare a stroncare la speculazione ma che possa invece essere trovato nella creazione di un governo mondiale o di una grande autorità sovranazionale, tipo appunto il Fmi, che con le buone o con le cattive, riesca a convincere gli Stati a cedergli progressivamente la loro sovranità e nell’adottare una unica moneta di riferimento. Nessuno, e meno che mai la Lagarde, si preoccupa di ricordare che un’autorità del genere finirebbe per avere ai posti di comando esponenti di punta di quel mondo bancario e finanziario anglo-americano che da un decennio tiene sotto tiro i Paesi europei per colpire l’euro e tutelare il ruolo svolto dal dollaro e dalla sterlina. Tre mesi, lo stesso periodo di tempo che un altro bandito di professione come George Soros, ha assegnato all’Unione europea “per correggere i propri errori e invertire l'attuale inerzia”. Un’affermazione che per il criminale di Wall Street significa che i Paesi europei dovrebbero fare di più per la crescita economica ricorrendo ad un maggiore indebitamento pubblico anche se questo significasse l’abbandono della linea del rigore dei conti imposta dalla Merkel, dalla Commissione europea e dalla Bce ai Paesi dell’euro per salvare la moneta unica ma che ha innescato l’attuale recessione. Per la Lagarde, i tre mesi non significano però che entro tale termine la situazione dovrebbe risolversi al meglio ma che si dovranno adottare le prime misure di una strategia sul lungo periodo che dovrebbe rendere l’euro praticamente inattaccabile. La creazione dell'Eurozona, ha ricordato, ha richiesto tempo. Si tratta di un che dovrà essere migliorato, modificato e rafforzato. Varie questioni vanno risolte, come quella della Grecia. La Lagarde non sa dire se Atene uscirà dall’euro ma in ogni caso, al di là della colorazione e dalle decisioni del nuovo governo che nascerà dalle prossime elezioni, il primo punto sul quale si deve intervenire con decisione è l’evasione fiscale che ha raggiunto livelli intollerabili. Sulla stessa linea, il vice direttore del Fmi, David Lipton, anche lui contrassegnato da un curriculum degno di un usuraio istituzionalizzato. Dopo essere stato direttore generale di Citi Group Bank, Lipton ha infatti fatto parte del National Economic Council e del National Security Council alla Casa Bianca durante l’amministrazione Clinton. A suo avviso i 100 miliardi che i fondi salva Stati dell’Unione europea verseranno per salvare le banche spagnole e ricapitalizzarle, rappresentano un importante passo ed eliminano dubbi e incertezze. Ma, in linea più generale, per l'Europa sono necessari altri passi da parte dei Paesi membri in funzione del consolidamento fiscale, che significa pareggio di cassa nel rapporto tra entrate (tasse) ed uscite finanziarie (spesa pubblica). Scontate le soluzioni prospettate dalla Commissione europea che con il suo presidente, Josè Barroso, ha auspicato la nascita di una nuova struttura burocratica. Un supervisore sovranazionale per le grandi banche dei 27 Paesi dell'Unione in funzione della nascita, entro il 2013, di una Unione Bancaria. Per il tecnocrate portoghese, il piano potrebbe essere realizzato senza metter mano agli attuali trattati europei. Esso dovrebbe comprendere uno schema per la garanzia dei depositi e un fondo di salvataggio pagato dalle istituzioni finanziarie. Oggi vi sarebbe una più chiara consapevolezza fra gli Stati membri europei sulla necessità di andare avanti nel processo di integrazione, specie nell'area dell'euro. Questa, ha insistito, è una delle lezioni da trarre dalla crisi. A Berlino, Londra e Parigi, ha concluso, i leader politici hanno cominciato a capire che l'eurozona potrà sopravvivere solo attraverso soluzioni europee comuni e una maggiore integrazione. Il fatto che Barroso abbia citato Londra, la Borsa di un Paese che non fa parte dell’euro, la dice lunga sul modo di ragionare del tecnocrate portoghese che come molti suoi colleghi non vuole ammettere quale sia oggi la posta in gioco e come la Gran Bretagna sia oggi, con gli Stati Uniti, il primo nemico operativo dell’euro. Se Barroso vuole l’Unione Bancaria, il Governatore della Banca di Francia, Christian Noyer, vuole l’Unione Finanziaria europea. Una necessità che si sarebbe resa chiara con la crisi finanziaria e con i suoi effetti. L’Unione Monetaria, ha ammonito, ha bisogno di essere sostenuta da entrambe. L’Unione Finanziaria comporterà la nascita di una autorità unificata di supervisione per seguire e controllare quelle società finanziarie che abbiano una presenza e una attività significative al di la dei confini nazionali ed europei. di Filippo Ghira

18 giugno 2012

Iniziate a pregare

Ancora pochi giorni di attesa per conoscere il verdetto degli ellenici, euro si o euro no, che per noi significherà euro salvezza o euro disastro. A quel punto infatti se la Grecia esigerà per pretesa politica di voler abbandonare la moneta unica, accollandosi tutti i rischi che questo comporterà per la propria economia, si produrrà un pericoloso precedente, a cui nel breve futuro altri paesi vorranno fare riferimento. La maggior parte degli italiani, complice forse i campionati di calcio europei e gli scandali del campionato italiano, non ha minimamente idea dei rischi che potrebbe vivere se le autorità sovranazionali (BCE, FMI ed Eurogruppo) non si inventeranno velocemente una exit strategy credibile. Perchè è di questo che il mondo si interroga: l'immobilismo politico europeo, quasi a voler aspettare di vedere il crash per poi intervenire all'ultimo minuto. Questo inizio settimana si è parlato di un Big Plan per salvare l'Europa: Draghi & Company ci stanno lavorando. Dovremmo essere ottimisti per una volta tanto, tuttavia siamo arrivati a questo punto perchè sino ad oggi di decisioni forti e autoritarie non se ne sono mai viste. Solo nella giornata di ieri ho ricevuto qualche centinaia di email di risparmiatori in preda ad una crisi di nervi dopo quanto è stato fatto trapelare sulle misure di possibile contenimento post elezioni greche: si va dal contigentamento dei conti correnti (come in Argentina nel 2001) sino al bando del trattato di Shenghen. Nonostante questo, ci sono ancora italiani che alle 18:30 corrono a casa per non perdersi l'Olanda che gioca con la Germania agli Europei. Mi viene da sorridere in questo momento perchè se la situazione sfuggisse di mano vedremo (forse) la finale di una competizione sportiva per l'assegnazione di un titolo europeo quando di Europa potrebbe veramente rimanere poca cosa (e questo nel giro di qualche settimana). Affannarsi adesso a cercare di aprire il conto in Svizzera o di investire sull'oro in pochi giorni non ha proprio senso: pensate che proprio il metallo giallo si sta muovendo in controtendenza con la percezione del rischio, in quanto si teme che possa essere espropriato o congelato quello detenuto dai privati per investimenti personali. Come dice il titolo, iniziate a pregare. Pregate che i greci non siano così scellerati da segare le gambe della sedia in cui sono adesso seduti, pregate che i mercati azionari ai valori attuali stiano già scontando il worst case scenario, pregate che la Merkel rinsavisca nel sonno delle prossime notti, pregate che Draghi dimostri di essere a tutto il mondo veramente Super Mario, pregate che le banche italiane in caso di addio ellenico all'euro non siano commissariate, pregate che le autorità di controllo e vigilanza dei mercati impongano la chiusura delle negoziazioni per ragioni di sicurezza nazionale (come fecero gli USA con l'attacco del 9/11), pregate che il FMI presti a dismisura quello che serva per sostenere paesi deboli come Spagna e Italia, pregate che la Cina si faccia avanti per sorreggere le quotazioni dei titoli di stato europei, pregate che qualcuno non si inventi un prelievo straordinario sui depositi a vista per drenare risorse finanziarie da devolvere al sistema bancario europeo, infine pregate che la vostra vita non finisca come quella di J.J. Braddock come raccontata nella prima parte del film Cinderella Man. Si parla tanto della fine del mondo nel 2012 causa simbiosi con il calendario maya, non so se ci sarà a fine anno la fine del genere umano, di certo se il clima in Europa non muta velocemente rischiamo di vedere la fine dell'Europa e dell'Euro. Cerchiamo di essere pragmatici: nessuno auspica la fine della moneta unica, non conviene a nessuno e pochissimi avrebbero da guadagnarci in misura sostanziale. Questo è l'unico dato di fatto a cui ci possiamo aggrappare come fosse un maniglione antipanico. Tuttavia dobbiamo anche notare come nessuno si stia autorevolmente impegnando per uscire da questa situazione paradossale di limbo finanziario in cui siamo catapultati. Forse nessuno si impegna a cercare una soluzione definitiva, perchè purtroppo non esiste la exit strategy o la medicina amara da prendere. Ci sono solo dei calmanti come gli stability bond o del cortisone come la politica di austerity. Sarà proprio per questo che dobbiamo effettivamente pregare. di Eugenio Benetazzo

17 giugno 2012

Quelle oligarchie invisibili fantasmi della democrazia

Quando la locuzione “poteri forti” fu coniata, nei primi anni della Seconda Repubblica, si riferiva a Confindustria, a parti della magistratura, ai servizi segreti, alla massoneria, e anche ai potentati economici internazionali. Insomma, a istituzioni pubbliche e private molto diverse tra loro, e unite solo dal non avere natura rappresentativa, cioè dall’essere esterne, o a volte ostili, all’esercizio trasparente del potere, alla sua fonte originaria di legittimità (il popolo), e ai suoi canali d’espressione politica (i partiti) e istituzionale (il parlamento e il governo). Davanti a questi poteri (recentemente evocati da Mario Monti perché il suo governo avrebbe perso il loro appoggio), la democrazia rappresentativa è debole proprio in quanto potere pubblico, sfidato da forze che sono di volta in volta elitarie, segrete, nascoste, private, illegali. In quest’ottica, è il popolo a esercitare un potere fittizio, universale, artificiale, a cui si contrappongono poteri reali, opachi, ristretti, “naturali” perché fondati sull’antichissima base del privilegio. Poteri, inoltre, che non accettano il rischio dell’esercizio diretto, fosse anche nella forma dell’oligarchia; e che assumono la veste del potere indiretto, di un potere, cioè, che si cela, oppure che nega di essere potere, per non sottostare a regole comuni e per non rispondere della propria azione. All’origine della filosofia politica moderna il potere indiretto era quello esercitato sulle coscienze dalla Chiesa cattolica (non menzionata nell’elenco consueto dei poteri forti, benché lo sia, con ogni evidenza), a cui le élites laiche rispondevano con il potere dello Stato, con la costruzione della sovranità, col potere invincibile di tutti. Una questione seria, dunque, quella dei poteri forti. Una questione che un tempo si declinava da destra in termini di plutocrazia (per di più, “giudaica”) opposta alla sana forza collettiva delle nazioni, mentre da sinistra si istituiva l’antitesi fra la prassi popolare e il complotto – le “forze oscure della reazione in agguato”, secondo il lessico dei primi anni del dopoguerra; ma le leggende (non infondate) sulla Commissione Trilaterale o sul gruppo Bilderberg sono giunte fino agli anni Ottanta, insieme al mito dell’onnipotenza della Cia, del Kgb, o delle multinazionali. Una questione che è anche declinabile come la continuità, nelle diverse forme storiche, dell’eterno potere delle élites, o della legge del più forte, che la democrazia cerca di spezzare, istituendo una discontinuità: che consiste o in una strategia monistica, facendo nascere un nuovo potere dal popolo, un potere forte appunto perché non di una parte ma anzi perché di tutti, o con una sensibilità pluralistica, spingendo le classi dirigenti a competere apertamente per il consenso dei cittadini. O, anche, costruendo e organizzando poteri più forti dei poteri forti; contropoteri di lotta e di governo (come si diceva un tempo). Con poteri forti si intende quindi la rocciosa permanenza delle diverse forme del potere di sempre – parziali, egoiste, autointeressate – all’interno degli spazi istituzionali democratici; la loro occhiuta e lungimirante vigilanza perché nulla cambi veramente; la loro capacità di influenzare invisibilmente o indirettamente la politica visibile; di contrapporre la propria permanenza e la propria stabilità all’accidentalità, alla casualità e alla fugacità dei poteri costituiti. Si intende insomma l’impossibilità che la vita associata sia governata dalla ragione pubblica senza alcun elemento di segreto, o che sia indenne da corpose e incoercibili ragioni private – ad esempio, il “complesso militare-industriale” di cui parlava un presidente repubblicano come Eisenhower –. I poteri forti sono quindi un segno di una debolezza strutturale della politica democratica, di un limite oggettivo al suo potere, con cui è realistico accettare di dover fare i conti, senza sottomettervisi. Ma spesso sono anche un comodo alibi, un nome generico, buono a tutti gli usi, col quale una politica debole per sua colpa o imprevidenza soggettiva copre insuccessi e fallimenti di cui non si vuole assumere la responsabilità. Assi portanti della storia materiale del nostro tempo, convitati di pietra al banchetto della democrazia, in ogni caso i poteri forti oggi hanno una dislocazione extra-statale e extra-nazionale; sono le grandi case farmaceutiche padrone del biopotere globale, le agenzie di rating, la finanza internazionale (i “mercati”), le istituzioni economiche mondiali ed europee, i media di dimensione transcontinentale, le mafie pluritentacolari, le istituzioni che curano la Ricerca e Sviluppo per la Difesa delle grandi potenze, le multinazionali dei generi alimentari e dell’energia. A questi veri poteri forti si abbarbicano oggi i poteri forti di rango nazionale; che a volte – grande novità – esercitano direttamente il potere politico, in fasi d’emergenza o di estrema debolezza dei poteri istituzionali, come referenti e garanti di alcuni vitali interessi sia nazionali sia sovranazionali. E quando questi poteri locali trovano ostacoli alla propria azione, hanno la tentazione di presentarsi come abbandonate da quei poteri forti, che in realtà esse stesse incarnano e tutelano. La lotta contro i poteri forti – anche se in realtà sono soltanto categorie riottose, corporazioni egoiste – diviene così uno slogan e un alibi per gli stessi poteri forti. Che ciò dimostri ancora una volta la loro forza – la loro capacità di eludere la responsabilità politica – o piuttosto la loro debolezza e insufficienza, lo si capirà tra breve. Da subito si comprende invece che, benché forse impossibile da raggiungere pienamente, un decente obiettivo dell’azione politica dovrebbe essere che i poteri forti trovino un nuovo limite, e un orientamento, in un più forte potere di tutti. di Carlo Galli

16 giugno 2012

Autorità sovranazionali e fine degli Stati

Meno di tre mesi per salvare l’euro. Da quando è approdata alla direzione del Fondo monetario internazionale, dopo aver lasciato il ministero delle Finanze francese, Christine Lagarde è entrata così dentro il suo ruolo di banchiere da assumere i tipici vezzi e i modi di ragionare della tecnocrazia internazionale. Il primo dei quali è di pensare che la soluzione di tutti gli sconquassi dei mercati finanziari non si trovi, come sarebbe logico, nell’incominciare a stroncare la speculazione ma che possa invece essere trovato nella creazione di un governo mondiale o di una grande autorità sovranazionale, tipo appunto il Fmi, che con le buone o con le cattive, riesca a convincere gli Stati a cedergli progressivamente la loro sovranità e nell’adottare una unica moneta di riferimento. Nessuno, e meno che mai la Lagarde, si preoccupa di ricordare che un’autorità del genere finirebbe per avere ai posti di comando esponenti di punta di quel mondo bancario e finanziario anglo-americano che da un decennio tiene sotto tiro i Paesi europei per colpire l’euro e tutelare il ruolo svolto dal dollaro e dalla sterlina. Tre mesi, lo stesso periodo di tempo che un altro bandito di professione come George Soros, ha assegnato all’Unione europea “per correggere i propri errori e invertire l'attuale inerzia”. Un’affermazione che per il criminale di Wall Street significa che i Paesi europei dovrebbero fare di più per la crescita economica ricorrendo ad un maggiore indebitamento pubblico anche se questo significasse l’abbandono della linea del rigore dei conti imposta dalla Merkel, dalla Commissione europea e dalla Bce ai Paesi dell’euro per salvare la moneta unica ma che ha innescato l’attuale recessione. Per la Lagarde, i tre mesi non significano però che entro tale termine la situazione dovrebbe risolversi al meglio ma che si dovranno adottare le prime misure di una strategia sul lungo periodo che dovrebbe rendere l’euro praticamente inattaccabile. La creazione dell'Eurozona, ha ricordato, ha richiesto tempo. Si tratta di un che dovrà essere migliorato, modificato e rafforzato. Varie questioni vanno risolte, come quella della Grecia. La Lagarde non sa dire se Atene uscirà dall’euro ma in ogni caso, al di là della colorazione e dalle decisioni del nuovo governo che nascerà dalle prossime elezioni, il primo punto sul quale si deve intervenire con decisione è l’evasione fiscale che ha raggiunto livelli intollerabili. Sulla stessa linea, il vice direttore del Fmi, David Lipton, anche lui contrassegnato da un curriculum degno di un usuraio istituzionalizzato. Dopo essere stato direttore generale di Citi Group Bank, Lipton ha infatti fatto parte del National Economic Council e del National Security Council alla Casa Bianca durante l’amministrazione Clinton. A suo avviso i 100 miliardi che i fondi salva Stati dell’Unione europea verseranno per salvare le banche spagnole e ricapitalizzarle, rappresentano un importante passo ed eliminano dubbi e incertezze. Ma, in linea più generale, per l'Europa sono necessari altri passi da parte dei Paesi membri in funzione del consolidamento fiscale, che significa pareggio di cassa nel rapporto tra entrate (tasse) ed uscite finanziarie (spesa pubblica). Scontate le soluzioni prospettate dalla Commissione europea che con il suo presidente, Josè Barroso, ha auspicato la nascita di una nuova struttura burocratica. Un supervisore sovranazionale per le grandi banche dei 27 Paesi dell'Unione in funzione della nascita, entro il 2013, di una Unione Bancaria. Per il tecnocrate portoghese, il piano potrebbe essere realizzato senza metter mano agli attuali trattati europei. Esso dovrebbe comprendere uno schema per la garanzia dei depositi e un fondo di salvataggio pagato dalle istituzioni finanziarie. Oggi vi sarebbe una più chiara consapevolezza fra gli Stati membri europei sulla necessità di andare avanti nel processo di integrazione, specie nell'area dell'euro. Questa, ha insistito, è una delle lezioni da trarre dalla crisi. A Berlino, Londra e Parigi, ha concluso, i leader politici hanno cominciato a capire che l'eurozona potrà sopravvivere solo attraverso soluzioni europee comuni e una maggiore integrazione. Il fatto che Barroso abbia citato Londra, la Borsa di un Paese che non fa parte dell’euro, la dice lunga sul modo di ragionare del tecnocrate portoghese che come molti suoi colleghi non vuole ammettere quale sia oggi la posta in gioco e come la Gran Bretagna sia oggi, con gli Stati Uniti, il primo nemico operativo dell’euro. Se Barroso vuole l’Unione Bancaria, il Governatore della Banca di Francia, Christian Noyer, vuole l’Unione Finanziaria europea. Una necessità che si sarebbe resa chiara con la crisi finanziaria e con i suoi effetti. L’Unione Monetaria, ha ammonito, ha bisogno di essere sostenuta da entrambe. L’Unione Finanziaria comporterà la nascita di una autorità unificata di supervisione per seguire e controllare quelle società finanziarie che abbiano una presenza e una attività significative al di la dei confini nazionali ed europei. di Filippo Ghira