09 luglio 2012

Arafat assassinato col polonio, il super-veleno degli 007

Avvelenato col polonio-210: Yasser Arafat, storico padre della causa palestinese, sarebbe morto in seguito ad avvelenamento progressivo causato dal raro metalloide altamente radioattivo, talvolta utilizzato dai servizi segreti per eliminare nemici senza lasciare tracce visibili. La presenza del polonio è stata invece riscontrata oggi, quasi otto anni dopo la sua strana morte, sugli effetti personali di Arafat: lo spazzolino da denti, gli indumenti e l’inseparabile kefiah. A dare la notizia, il portavoce dell’Istituto Svizzero di Radiofisica di Losanna. Rivelazione subito ripresa da “Al Jazeera”, in un dossier che riapre il giallo sull’improvvisa scomparsa del leader palestinese, l’11 novembre 2004 in un ospedale parigino, in seguito ad una malattia repentina e misteriosa. Già al momento del precipitoso ricovero, i funzionari francesi rifiutarono di fornire i dettagli sulle condizioni di salute del leggendario capo dell’Olp, Le ultime immagini di Yasser Arafattrincerandosi dietro le leggi sulla privacy e alimentando in tal modo il sospetto che il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, insignito nel 1994 del Premio Nobel per la Pace insieme agli israeliani Shimon Peres e Yitzhak Rabin, fosse stato avvelenato. Ipotesi e dubbi che ora trovano conferma nelle parole dei ricercatori dell’istituto elvetico, che non si sbilanciano ma confermano di aver trovato «inspiegabili ed elevate quantità di polonio-210 sugli effetti personali di Arafat, insieme a macchie di liquidi biologici». Secondo François Bochud, direttore del centro di Losanna, «per confermare i risultati e arrivare a ricostruire le cause della morte è necessario riesumare il corpo e testarlo per il polonio-210». Ma occorre procedere subito, perché il polonio è in decomposizione: «Se aspettiamo troppo a lungo, qualsiasi possibile prova sparirà». Suha, la vedova di Arafat, ha già chiesto che il corpo del marito, sepolto nella città cisgiordana di Ramallah, venga immediatamente riesumato per accertare una volta per tutte le cause reali della morte, finora misteriose. «Dobbiamo andare oltre per rivelare la verità a tutto il mondo arabo e musulmano», ha detto ai microfoni dell’emittente araba. Il negoziatore palestinese Saeb Erekat ha chiesto formalmente la creazione di una commissione d’inchiesta internazionale, sul modello di quella istituita per far luce sull’assassinio del premier libanese Rafic Hariri. Il caso ricorda la morte della spia russa Alexander Litvinenko, avvenuta a Londra nel 2006: anche in quell’occasione fu il polonio, usato come potente veleno, a causare l’atroce fine dell’ex agente dei servizi segreti russi, riparato nella capitale inglese al seguito di Boris Berezovskij, il potente oligarca che – su ordine L'agonia di Alexander Litvinenkodell’allora presidente Eltsin – organizzò la prima guerra in Cecenia finanziando una milizia mercenaria incaricata di attaccare l’esercito regolare russo per poter così simulare un’insurrezione separatista della piccola repubblica caucasica.
Arafat è stato sempre cordialmente detestato da Israele, che l’ha perseguitato per tutta la vita con la sola eccezione della “primavera” di distensione promossa da Rabin, a sua volta assassinato da un estremista ebraico. La fine del leader palestinese fu preceduta da una brutale offensiva dell’esercito israeliano contro il compound di Ramallah, residenza di Arafat. A scatenare i bombardamenti contro il presidente dell’Anp fu il suo nemico giurato Ariel Sharon, allora premier. Militante dall’età di 15 anni nell’Haganah, esercito indipendentista sionista che inaugurò la pratica del Ariel Sharonterrorismo in Medio Oriente contro l’allora protettorato coloniale britannico, Sharon divenne famoso per la spietatezza delle sue milizie anti-palestinesi che nel 1982 fecero strage di civili tra i rifugiati dei campi profughi di Sabra e Chatila, in Libano, suscitando l’orrore del mondo. La fama di criminale di guerra non ha impedito a Sharon di diventare premier, dopo aver organizzato a Gerusalemme una storica provocazione – la “passeggiata”, sotto scorta, sulla Spianata delle Moschee, sacra ai musulmani – scatenando in tal modo da Seconda Intifada palestinese, destinata a compromettere il prestigio di Arafat come uomo di pace. Colpito da un ictus, Sharon è in coma dal 4 gennaio 2006. Salito al potere nel 2001, si era subito scagliato contro Arafat, prendendo a cannonate il quartier generale di Ramallah. Un’ostinazione, quella di Sharon, indifferente alle proteste dell’Onu e della cosiddetta comunità internazionale. Fino al punto da ordinare l’assassinio di Arafat per avvelenamento, mediante l’impiego del micidiale polonio-210? di Giorgio Cattaneo

08 luglio 2012

Ribelle è chi rifiuta di strisciare

Che cos’è un ribelle? Ribelli si nasce o si diventa a seconda delle circostanze? Ci sono diversi tipi di ribelli? Dominique Venner. Si può essere intellettualmente indipendenti, ai margini del gregge, senza per questo essere un ribelle. Paul Morand ne è un buon esempio. Da giovane, era stato uno spirito libero, niente di più, e un favorito dalla fortuna, nei due sensi del termine. I suoi romanzi semplici avevano favorito il suo successo. Niente di ribelle e nemmeno di insolente a quell’epoca. Ciò che ha fatto di lui l’indipendente rivelato dal suo Diario è stato l’aver fatto involontariamente la scelta dei futuri perdenti tra il 1940 e il 1944 e l’aver persistito poi nelle sue repulsioni, l’essersi sentito uno straniero. Un altro esempio molto differente è quello di Ernst Jünger. Benché sia autore di unTrattato del ribelle molto influenzato dalle inquietudini della guerra fredda, Jünger non fu mai un ribelle. Nazionalista all’epoca del nazionalismo, in urto con il III Reich come buona parte della buona società, legato durante la guerra ai futuri cospiratori del 20 luglio 1944, non ha mai approvato il principio dell’attentato contro Hitler. Ciò per ragioni di ordine etico. Il suo itinerario più o meno ai margini delle mode è molto esattamente quello dell’anarca, figura di cui fu l’inventore e la perfetta incarnazione dopo il 1932. L’anarca non è un ribelle. È uno spettatore appollaiato a una tale altezza che il fango non può raggiungerlo. Al contrario di Morand o di Jünger, in seno alla generazione precedente, il poeta irlandese Padrig Pearse fu un autentico ribelle. Si può dire che lo fu per nascita. Bambino, aveva imparato le gesta dei combattenti di tutte le rivolte dell’Irlanda. Più tardi, cominciò ad associare il risveglio della lingua gaelica alla preparazione dell’insurrezione armata. Membro fondatore della prima IRA, fu il vero capo dell’insurrezione della Pasqua del 1916 a Dublino. Per questo motivo venne fucilato. Morì senza sapere che il suo sacrificio sarebbe diventato il lievito che avrebbe fatto trionfare la sua causa. Quarto esempio ancora differente, Aleksandr Solženicyn. Fino al suo arresto, nel 1945, era stato un eccellente sovietico, che si poneva poche domande su un sistema nel quale era nato, e che compiva durante la guerra il suo dovere di ufficiale riservista dell’Armata rossa senza problemi di coscienza. Il suo arresto, la scoperta del Gulag, dell’orrore accumulato dal 1917, provocarono una totale rimessa in discussione, tanto di se stesso quanto del mondo nel quale aveva vissuto fino a quel momento alla cieca. Fu allora che divenne un ribelle, anche rispetto alle società mercantili, distruttrici di ogni tradizione e di ogni vita superiore. Le ragioni di un Pearse non sono quelle di un Solženicyn, il quale ha avuto bisogno dello shock di un avvenimento seguito da un eroico sforzo interiore per diventare un ribelle. Ciò che hanno in comune, è di aver scoperto per vie differenti una incompatibilità assoluta tra il loro essere e il mondo nel quale dovevano vivere. Questa è la prima caratteristica che definisce il ribelle. La seconda è il rifiuto della fatalità. Che differenza c’è tra la ribellione, la rivolta, la dissidenza e la resistenza? D.V. La rivolta è un movimento spontaneo, provocato da una violenza ingiusta, un’ignominia, uno scandalo. Figlia dell’indignazione, è raramente durevole. La dissidenza, come l’eresia, è il fatto di separarsi da una comunità, sia essa politica, sociale, religiosa o filosofica. I suoi motivi possono essere legati al caso. Essa non implica l’inizio di una lotta. Quanto alla resistenza, al di là del senso mitico acquisito durante la guerra, significa che ci si oppone, e niente di più, a una forza o a un sistema, anche passivamente. Essere ribelli è tutt’altra cosa. Rispetto a che cosa un «ribelle» è essenzialmente… ribelle? D.V. È ribelle a ciò che gli sembra illegittimo, all’impostura o al sacrilegio. Il ribelle è legge per se stesso. Ciò fonda la sua specificità. La sua seconda caratteristica è la volontà di iniziare la lotta, anche senza speranza. Se combatte una potenza, è perché ne rifiuta la legittimità, ed aspira a un’altra legittimità, nella fattispecie a quella dell’anima o dello spirito. Quali modelli di «ribelli» offrirebbe, scegliendoli nella storia e nella letteratura? D.V. Di primo acchito, penso all’Antigone di Sofocle. Con lei, siamo nello spazio della legittimità sacra. Antigone è ribelle per fedeltà. Sfida il decreto di Creonte per rispetto della tradizione e del comandamento divino – la sepoltura dei morti – trasgredito dal re. Poco importa che Creonte abbia le sue ragioni. Il loro prezzo è un sacrilegio. Antigone crede dunque di essere legittimata nella sua ribellione. Per invocare altri esempi, ho solo l’imbarazzo della scelta. Durante la guerra di secessione americana, gli yankees designarono i loro avversari sudisti con il nome di ribelli, rebs. Era della buona propaganda, ma falsa. La Costituzione degli Stati Uniti riconosceva, infatti, agli Stati membri il diritto di secessione. E le forme costituzionali erano state rispettate dagli Stati del Sud. Il generale Robert Lee, un virginiano, futuro comandante in capo degli eserciti confederati, non si considerava un ribelle. Dopo la sua resa, nell’aprile del 1865, si sforzò di riconciliare il Sud con il Nord. In quel momento insorsero i veri ribelli, donne e uomini che, dopo la sconfitta, continuarono la lotta contro l’occupazione del Sud da parte degli eserciti nordisti e dei loro protetti. Alcuni, come Jesse James, cascarono nel banditismo. Altri trasmisero ai loro figli una tradizione che ebbe una grande posterità letteraria. LeggendoGli invitti, il più bel romanzo di William Faulkner, si scopre, ad esempio, l’affascinante ritratto di una giovane ribelle, Drusilla, sempre certa del suo buon diritto e dell’illegittimità dei vincitori. Come si può essere ribelli oggi? D.V. Mi chiedo soprattutto come si possa non esserlo! Esistere, significa combattere ciò che mi nega. Essere ribelli non è collezionare libri empi, sognare fantasmagorici complotti o la resistenza partigiana nelle Cevenne. Significa essere norma per se stessi. E attenervisi, a qualunque costo. Badare a non guarire mai dalla propria giovinezza. Preferire inimicarsi il mondo intero, piuttosto che strisciare. Praticare anche, come un corsaro e senza vergogna, il diritto di preda. Saccheggiare nell’epoca tutto ciò che è possibile convertire alla propria norma, senza fermarsi alle apparenze. Nella sconfitta, non porsi mai il problema dell’inutilità di un combattimento perduto. Si pensi a Padrig Pearse. Ho ricordato Solženicyn che incarnò la spada magica di cui parla Jünger, «la spada magica che fa impallidire la potenza dei tiranni». In questo, egli è unico e inimitabile. Eppure, era debitore a persone meno grandi di lui. E ciò incita a riflettere. In Arcipelago Gulag, ha narrato le circostanze della sua «rivelazione». Nel 1945, c’era una decina di detenuti nella stessa cella della prigione di Butyrki, a Mosca, volti smunti e corpi abbandonati. Tra i detenuti, uno solo era differente. Era una ex guardia bianca, il colonnello Constantin Iassevic. Si voleva fargli pagare il suo impegno nella guerra civile, nel 1919. E Solženicyn dice che il colonnello, senza parlare del suo passato, mostrava con tutto il suo atteggiamento che per lui la lotta non era finita. Mentre nella mente degli altri detenuti regnava il caos, egli aveva visibilmente un punto di vista chiaro e netto sul mondo che lo circondava. La nettezza della sua posizione dava al suo corpo, malgrado l’età, solidità, scioltezza, energia. Era l’unico a spruzzarsi con acqua fredda ogni mattina, mentre gli altri detenuti marcivano nella loro sporcizia e si lamentavano. Un anno dopo, trasferito di nuovo nella stessa prigione di Mosca, Solženicyn venne a sapere che l’ex colonnello bianco era stato appena giustiziato. «Dunque, era questo che vedeva attraverso i muri, con i suoi occhi rimasti giovani […] Ma l’incoercibile sensazione di essere rimasto fedele alla via che si era tracciata gli conferiva una forza poco comune». Meditando su questo episodio, mi dico che, non riuscendo ad immaginare di poter mai diventare un altro Solženicyn, ognuno di noi può quantomeno essere l’immagine del vecchio colonnello bianco. di Dominique Venner Dominique Venner, autore di Le cœur rebelle, intervista ripresa dal numero 308 di Diorama, con traduzione di Giuseppe Giaccio.

07 luglio 2012

Di fronte al baratro

Di fronte al baratro è giusto porsi la domanda “Che fare?”. C'è chi dice che non possiamo far altro che sederci sulla sponda e guardare. C'è chi invece prova, anche solo ad immaginare, una via d'uscita. Alain De Benoist è tra questi. Immagina un diverso paradigma perché, prima o dopo la catastrofe, occorre qualcuno che sappia cosa volere e da che parte andare. A questo proposito ci sono già posizioni diverse. Una prima posizione (via riformista) è quella di chi ritiene che i problemi posti dal capitalismo finanziario saranno avviati a soluzione quando emergerà un nuovo antagonista in grado di abbassargli la cresta. Si tratta di costringere il capitalismo ad un nuovo compromesso. Si tratta in realtà di un orizzonte neoriformista e la rabbia degli iindignados sembra non oltrepassarlo. Una seconda posizione (via altermondialista) è quella di chi vede nelle odierne tendenze capitalistiche, pur criticate fortemente, un fenomeno sostanzialmente positivo, che farebbe piazza pulita di ciò che rimane del vecchio mondo preesistente alla globalizzazione, conterrebbe cioè nuove possibilità di liberazione e favorirebbe l'avvento di una moltitudine, ovvero di una nuova “soggettività”, capace di legare “la singolarità al comune”. De Benoist fa parte di un terzo gruppo di persone che ritiene che solo costruendo un nuovo paradigma che ponga al centro il concetto di limite e di bene comune, sarà possibile ritrovare il bandolo della matassa. Egli sostiene che è il capitalismo stesso, la Forma-Capitale, che va combattuto. Nella sua storia il capitalismo ha attraversato diverse fasi. Il primo capitalismo si sforzava di comprimere il più possibile i salari, rischiando spesso di vedere la crescita rallentata o interrotta per crisi di sovrapproduzione. Il compromesso fordista ha permesso poi, ai capitalisti, di capire che il profitto poteva aumentare con l'avvento del consumo di massa e il riformismo. Dalla crisi del '29 alla seconda guerra mondiale e poi alla guerra fredda, si è realizzato questo compromesso e lo sviluppo del capitalismo è rimasto sostanzialmente inserito entro spazi nazionali, con Stati assistenziali, keynesiani e sociali. Ora questa situazione si è completamente sfaldata per il fatto che negli anni Ottanta si è inaugurata la terza fase, quella del “turbocapitalismo”, caratterizzato dalla “autonomizzazione” del capitale finanziario e dall'accresciuto potere dei detentori del capitale, soprattutto degli azionisti. In un certo senso si tratta di un ritorno al primo capitalismo, quello delle origini, avvenuto nel sistema globalizzato attraverso la messa in concorrenza dei lavoratori e la completa mobilità dei capitali.. Oggi i margini di manovra, iscritti principalmente in quadri nazionali, sono quasi impotenti. La pauperizzazione delle classi popolari e del ceto medio si espande. Secondo Alain De Benoist “è impossibile ridurre il sistema capitalistico a una semplice forma economica e considerare la Forma-Capitale nel suo solo aspetto finanziario. Esistono un'antropologia del capitalismo, un tipo d'uomo capitalista, un immaginario capitalista, una civiltà capitalista, un modo di vivere capitalista e, fino a quando non si romperà con il capitalismo in quanto “fatto sociale totale” e non si rimetterà in discussione “l'insieme dei modi di vivere alienati, strutturalmente legati all'immaginario capitalistico della crescita e del consumo illimitato” (Jean-Claude Michéa), sarà vano pretendere di lottare contro il capitale. Il motore del capitalismo è il profitto mentre gli uomini vengono considerati interscambiabili, merce fra le altre merci. Il capitalismo aspira ad un immenso mercato omogeneo, considera superfluo tutto ciò che non si lascia ridurre a calcolo, vuole produrre un uomo unidimensionale, senza vita interiore né immaginario, che aspiri alla “felicità” attraverso l'avere.Il disoccupato “inutile al mondo” è in qualche modo affetto da indegnità nazionale. De Benoist conclude Il suo libro “Sull'orlo del baratro” con un richiamo al popolo, senza idealizzarlo come naturalmente buono, ma ritenendolo il depositario privilegiato della “comune decenza”, tipica delle persone comuni, fatta di senso dell'onore, lealtà, onestà, benevolenza, generosità, propensione all'aiuto reciproco, fiducia, senso del bene comune, adesione alla logica del dono e del controdono. Questa posizione è di destra e di sinistra. A me sta bene. di Daniela Salvini

09 luglio 2012

Arafat assassinato col polonio, il super-veleno degli 007

Avvelenato col polonio-210: Yasser Arafat, storico padre della causa palestinese, sarebbe morto in seguito ad avvelenamento progressivo causato dal raro metalloide altamente radioattivo, talvolta utilizzato dai servizi segreti per eliminare nemici senza lasciare tracce visibili. La presenza del polonio è stata invece riscontrata oggi, quasi otto anni dopo la sua strana morte, sugli effetti personali di Arafat: lo spazzolino da denti, gli indumenti e l’inseparabile kefiah. A dare la notizia, il portavoce dell’Istituto Svizzero di Radiofisica di Losanna. Rivelazione subito ripresa da “Al Jazeera”, in un dossier che riapre il giallo sull’improvvisa scomparsa del leader palestinese, l’11 novembre 2004 in un ospedale parigino, in seguito ad una malattia repentina e misteriosa. Già al momento del precipitoso ricovero, i funzionari francesi rifiutarono di fornire i dettagli sulle condizioni di salute del leggendario capo dell’Olp, Le ultime immagini di Yasser Arafattrincerandosi dietro le leggi sulla privacy e alimentando in tal modo il sospetto che il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, insignito nel 1994 del Premio Nobel per la Pace insieme agli israeliani Shimon Peres e Yitzhak Rabin, fosse stato avvelenato. Ipotesi e dubbi che ora trovano conferma nelle parole dei ricercatori dell’istituto elvetico, che non si sbilanciano ma confermano di aver trovato «inspiegabili ed elevate quantità di polonio-210 sugli effetti personali di Arafat, insieme a macchie di liquidi biologici». Secondo François Bochud, direttore del centro di Losanna, «per confermare i risultati e arrivare a ricostruire le cause della morte è necessario riesumare il corpo e testarlo per il polonio-210». Ma occorre procedere subito, perché il polonio è in decomposizione: «Se aspettiamo troppo a lungo, qualsiasi possibile prova sparirà». Suha, la vedova di Arafat, ha già chiesto che il corpo del marito, sepolto nella città cisgiordana di Ramallah, venga immediatamente riesumato per accertare una volta per tutte le cause reali della morte, finora misteriose. «Dobbiamo andare oltre per rivelare la verità a tutto il mondo arabo e musulmano», ha detto ai microfoni dell’emittente araba. Il negoziatore palestinese Saeb Erekat ha chiesto formalmente la creazione di una commissione d’inchiesta internazionale, sul modello di quella istituita per far luce sull’assassinio del premier libanese Rafic Hariri. Il caso ricorda la morte della spia russa Alexander Litvinenko, avvenuta a Londra nel 2006: anche in quell’occasione fu il polonio, usato come potente veleno, a causare l’atroce fine dell’ex agente dei servizi segreti russi, riparato nella capitale inglese al seguito di Boris Berezovskij, il potente oligarca che – su ordine L'agonia di Alexander Litvinenkodell’allora presidente Eltsin – organizzò la prima guerra in Cecenia finanziando una milizia mercenaria incaricata di attaccare l’esercito regolare russo per poter così simulare un’insurrezione separatista della piccola repubblica caucasica.
Arafat è stato sempre cordialmente detestato da Israele, che l’ha perseguitato per tutta la vita con la sola eccezione della “primavera” di distensione promossa da Rabin, a sua volta assassinato da un estremista ebraico. La fine del leader palestinese fu preceduta da una brutale offensiva dell’esercito israeliano contro il compound di Ramallah, residenza di Arafat. A scatenare i bombardamenti contro il presidente dell’Anp fu il suo nemico giurato Ariel Sharon, allora premier. Militante dall’età di 15 anni nell’Haganah, esercito indipendentista sionista che inaugurò la pratica del Ariel Sharonterrorismo in Medio Oriente contro l’allora protettorato coloniale britannico, Sharon divenne famoso per la spietatezza delle sue milizie anti-palestinesi che nel 1982 fecero strage di civili tra i rifugiati dei campi profughi di Sabra e Chatila, in Libano, suscitando l’orrore del mondo. La fama di criminale di guerra non ha impedito a Sharon di diventare premier, dopo aver organizzato a Gerusalemme una storica provocazione – la “passeggiata”, sotto scorta, sulla Spianata delle Moschee, sacra ai musulmani – scatenando in tal modo da Seconda Intifada palestinese, destinata a compromettere il prestigio di Arafat come uomo di pace. Colpito da un ictus, Sharon è in coma dal 4 gennaio 2006. Salito al potere nel 2001, si era subito scagliato contro Arafat, prendendo a cannonate il quartier generale di Ramallah. Un’ostinazione, quella di Sharon, indifferente alle proteste dell’Onu e della cosiddetta comunità internazionale. Fino al punto da ordinare l’assassinio di Arafat per avvelenamento, mediante l’impiego del micidiale polonio-210? di Giorgio Cattaneo

08 luglio 2012

Ribelle è chi rifiuta di strisciare

Che cos’è un ribelle? Ribelli si nasce o si diventa a seconda delle circostanze? Ci sono diversi tipi di ribelli? Dominique Venner. Si può essere intellettualmente indipendenti, ai margini del gregge, senza per questo essere un ribelle. Paul Morand ne è un buon esempio. Da giovane, era stato uno spirito libero, niente di più, e un favorito dalla fortuna, nei due sensi del termine. I suoi romanzi semplici avevano favorito il suo successo. Niente di ribelle e nemmeno di insolente a quell’epoca. Ciò che ha fatto di lui l’indipendente rivelato dal suo Diario è stato l’aver fatto involontariamente la scelta dei futuri perdenti tra il 1940 e il 1944 e l’aver persistito poi nelle sue repulsioni, l’essersi sentito uno straniero. Un altro esempio molto differente è quello di Ernst Jünger. Benché sia autore di unTrattato del ribelle molto influenzato dalle inquietudini della guerra fredda, Jünger non fu mai un ribelle. Nazionalista all’epoca del nazionalismo, in urto con il III Reich come buona parte della buona società, legato durante la guerra ai futuri cospiratori del 20 luglio 1944, non ha mai approvato il principio dell’attentato contro Hitler. Ciò per ragioni di ordine etico. Il suo itinerario più o meno ai margini delle mode è molto esattamente quello dell’anarca, figura di cui fu l’inventore e la perfetta incarnazione dopo il 1932. L’anarca non è un ribelle. È uno spettatore appollaiato a una tale altezza che il fango non può raggiungerlo. Al contrario di Morand o di Jünger, in seno alla generazione precedente, il poeta irlandese Padrig Pearse fu un autentico ribelle. Si può dire che lo fu per nascita. Bambino, aveva imparato le gesta dei combattenti di tutte le rivolte dell’Irlanda. Più tardi, cominciò ad associare il risveglio della lingua gaelica alla preparazione dell’insurrezione armata. Membro fondatore della prima IRA, fu il vero capo dell’insurrezione della Pasqua del 1916 a Dublino. Per questo motivo venne fucilato. Morì senza sapere che il suo sacrificio sarebbe diventato il lievito che avrebbe fatto trionfare la sua causa. Quarto esempio ancora differente, Aleksandr Solženicyn. Fino al suo arresto, nel 1945, era stato un eccellente sovietico, che si poneva poche domande su un sistema nel quale era nato, e che compiva durante la guerra il suo dovere di ufficiale riservista dell’Armata rossa senza problemi di coscienza. Il suo arresto, la scoperta del Gulag, dell’orrore accumulato dal 1917, provocarono una totale rimessa in discussione, tanto di se stesso quanto del mondo nel quale aveva vissuto fino a quel momento alla cieca. Fu allora che divenne un ribelle, anche rispetto alle società mercantili, distruttrici di ogni tradizione e di ogni vita superiore. Le ragioni di un Pearse non sono quelle di un Solženicyn, il quale ha avuto bisogno dello shock di un avvenimento seguito da un eroico sforzo interiore per diventare un ribelle. Ciò che hanno in comune, è di aver scoperto per vie differenti una incompatibilità assoluta tra il loro essere e il mondo nel quale dovevano vivere. Questa è la prima caratteristica che definisce il ribelle. La seconda è il rifiuto della fatalità. Che differenza c’è tra la ribellione, la rivolta, la dissidenza e la resistenza? D.V. La rivolta è un movimento spontaneo, provocato da una violenza ingiusta, un’ignominia, uno scandalo. Figlia dell’indignazione, è raramente durevole. La dissidenza, come l’eresia, è il fatto di separarsi da una comunità, sia essa politica, sociale, religiosa o filosofica. I suoi motivi possono essere legati al caso. Essa non implica l’inizio di una lotta. Quanto alla resistenza, al di là del senso mitico acquisito durante la guerra, significa che ci si oppone, e niente di più, a una forza o a un sistema, anche passivamente. Essere ribelli è tutt’altra cosa. Rispetto a che cosa un «ribelle» è essenzialmente… ribelle? D.V. È ribelle a ciò che gli sembra illegittimo, all’impostura o al sacrilegio. Il ribelle è legge per se stesso. Ciò fonda la sua specificità. La sua seconda caratteristica è la volontà di iniziare la lotta, anche senza speranza. Se combatte una potenza, è perché ne rifiuta la legittimità, ed aspira a un’altra legittimità, nella fattispecie a quella dell’anima o dello spirito. Quali modelli di «ribelli» offrirebbe, scegliendoli nella storia e nella letteratura? D.V. Di primo acchito, penso all’Antigone di Sofocle. Con lei, siamo nello spazio della legittimità sacra. Antigone è ribelle per fedeltà. Sfida il decreto di Creonte per rispetto della tradizione e del comandamento divino – la sepoltura dei morti – trasgredito dal re. Poco importa che Creonte abbia le sue ragioni. Il loro prezzo è un sacrilegio. Antigone crede dunque di essere legittimata nella sua ribellione. Per invocare altri esempi, ho solo l’imbarazzo della scelta. Durante la guerra di secessione americana, gli yankees designarono i loro avversari sudisti con il nome di ribelli, rebs. Era della buona propaganda, ma falsa. La Costituzione degli Stati Uniti riconosceva, infatti, agli Stati membri il diritto di secessione. E le forme costituzionali erano state rispettate dagli Stati del Sud. Il generale Robert Lee, un virginiano, futuro comandante in capo degli eserciti confederati, non si considerava un ribelle. Dopo la sua resa, nell’aprile del 1865, si sforzò di riconciliare il Sud con il Nord. In quel momento insorsero i veri ribelli, donne e uomini che, dopo la sconfitta, continuarono la lotta contro l’occupazione del Sud da parte degli eserciti nordisti e dei loro protetti. Alcuni, come Jesse James, cascarono nel banditismo. Altri trasmisero ai loro figli una tradizione che ebbe una grande posterità letteraria. LeggendoGli invitti, il più bel romanzo di William Faulkner, si scopre, ad esempio, l’affascinante ritratto di una giovane ribelle, Drusilla, sempre certa del suo buon diritto e dell’illegittimità dei vincitori. Come si può essere ribelli oggi? D.V. Mi chiedo soprattutto come si possa non esserlo! Esistere, significa combattere ciò che mi nega. Essere ribelli non è collezionare libri empi, sognare fantasmagorici complotti o la resistenza partigiana nelle Cevenne. Significa essere norma per se stessi. E attenervisi, a qualunque costo. Badare a non guarire mai dalla propria giovinezza. Preferire inimicarsi il mondo intero, piuttosto che strisciare. Praticare anche, come un corsaro e senza vergogna, il diritto di preda. Saccheggiare nell’epoca tutto ciò che è possibile convertire alla propria norma, senza fermarsi alle apparenze. Nella sconfitta, non porsi mai il problema dell’inutilità di un combattimento perduto. Si pensi a Padrig Pearse. Ho ricordato Solženicyn che incarnò la spada magica di cui parla Jünger, «la spada magica che fa impallidire la potenza dei tiranni». In questo, egli è unico e inimitabile. Eppure, era debitore a persone meno grandi di lui. E ciò incita a riflettere. In Arcipelago Gulag, ha narrato le circostanze della sua «rivelazione». Nel 1945, c’era una decina di detenuti nella stessa cella della prigione di Butyrki, a Mosca, volti smunti e corpi abbandonati. Tra i detenuti, uno solo era differente. Era una ex guardia bianca, il colonnello Constantin Iassevic. Si voleva fargli pagare il suo impegno nella guerra civile, nel 1919. E Solženicyn dice che il colonnello, senza parlare del suo passato, mostrava con tutto il suo atteggiamento che per lui la lotta non era finita. Mentre nella mente degli altri detenuti regnava il caos, egli aveva visibilmente un punto di vista chiaro e netto sul mondo che lo circondava. La nettezza della sua posizione dava al suo corpo, malgrado l’età, solidità, scioltezza, energia. Era l’unico a spruzzarsi con acqua fredda ogni mattina, mentre gli altri detenuti marcivano nella loro sporcizia e si lamentavano. Un anno dopo, trasferito di nuovo nella stessa prigione di Mosca, Solženicyn venne a sapere che l’ex colonnello bianco era stato appena giustiziato. «Dunque, era questo che vedeva attraverso i muri, con i suoi occhi rimasti giovani […] Ma l’incoercibile sensazione di essere rimasto fedele alla via che si era tracciata gli conferiva una forza poco comune». Meditando su questo episodio, mi dico che, non riuscendo ad immaginare di poter mai diventare un altro Solženicyn, ognuno di noi può quantomeno essere l’immagine del vecchio colonnello bianco. di Dominique Venner Dominique Venner, autore di Le cœur rebelle, intervista ripresa dal numero 308 di Diorama, con traduzione di Giuseppe Giaccio.

07 luglio 2012

Di fronte al baratro

Di fronte al baratro è giusto porsi la domanda “Che fare?”. C'è chi dice che non possiamo far altro che sederci sulla sponda e guardare. C'è chi invece prova, anche solo ad immaginare, una via d'uscita. Alain De Benoist è tra questi. Immagina un diverso paradigma perché, prima o dopo la catastrofe, occorre qualcuno che sappia cosa volere e da che parte andare. A questo proposito ci sono già posizioni diverse. Una prima posizione (via riformista) è quella di chi ritiene che i problemi posti dal capitalismo finanziario saranno avviati a soluzione quando emergerà un nuovo antagonista in grado di abbassargli la cresta. Si tratta di costringere il capitalismo ad un nuovo compromesso. Si tratta in realtà di un orizzonte neoriformista e la rabbia degli iindignados sembra non oltrepassarlo. Una seconda posizione (via altermondialista) è quella di chi vede nelle odierne tendenze capitalistiche, pur criticate fortemente, un fenomeno sostanzialmente positivo, che farebbe piazza pulita di ciò che rimane del vecchio mondo preesistente alla globalizzazione, conterrebbe cioè nuove possibilità di liberazione e favorirebbe l'avvento di una moltitudine, ovvero di una nuova “soggettività”, capace di legare “la singolarità al comune”. De Benoist fa parte di un terzo gruppo di persone che ritiene che solo costruendo un nuovo paradigma che ponga al centro il concetto di limite e di bene comune, sarà possibile ritrovare il bandolo della matassa. Egli sostiene che è il capitalismo stesso, la Forma-Capitale, che va combattuto. Nella sua storia il capitalismo ha attraversato diverse fasi. Il primo capitalismo si sforzava di comprimere il più possibile i salari, rischiando spesso di vedere la crescita rallentata o interrotta per crisi di sovrapproduzione. Il compromesso fordista ha permesso poi, ai capitalisti, di capire che il profitto poteva aumentare con l'avvento del consumo di massa e il riformismo. Dalla crisi del '29 alla seconda guerra mondiale e poi alla guerra fredda, si è realizzato questo compromesso e lo sviluppo del capitalismo è rimasto sostanzialmente inserito entro spazi nazionali, con Stati assistenziali, keynesiani e sociali. Ora questa situazione si è completamente sfaldata per il fatto che negli anni Ottanta si è inaugurata la terza fase, quella del “turbocapitalismo”, caratterizzato dalla “autonomizzazione” del capitale finanziario e dall'accresciuto potere dei detentori del capitale, soprattutto degli azionisti. In un certo senso si tratta di un ritorno al primo capitalismo, quello delle origini, avvenuto nel sistema globalizzato attraverso la messa in concorrenza dei lavoratori e la completa mobilità dei capitali.. Oggi i margini di manovra, iscritti principalmente in quadri nazionali, sono quasi impotenti. La pauperizzazione delle classi popolari e del ceto medio si espande. Secondo Alain De Benoist “è impossibile ridurre il sistema capitalistico a una semplice forma economica e considerare la Forma-Capitale nel suo solo aspetto finanziario. Esistono un'antropologia del capitalismo, un tipo d'uomo capitalista, un immaginario capitalista, una civiltà capitalista, un modo di vivere capitalista e, fino a quando non si romperà con il capitalismo in quanto “fatto sociale totale” e non si rimetterà in discussione “l'insieme dei modi di vivere alienati, strutturalmente legati all'immaginario capitalistico della crescita e del consumo illimitato” (Jean-Claude Michéa), sarà vano pretendere di lottare contro il capitale. Il motore del capitalismo è il profitto mentre gli uomini vengono considerati interscambiabili, merce fra le altre merci. Il capitalismo aspira ad un immenso mercato omogeneo, considera superfluo tutto ciò che non si lascia ridurre a calcolo, vuole produrre un uomo unidimensionale, senza vita interiore né immaginario, che aspiri alla “felicità” attraverso l'avere.Il disoccupato “inutile al mondo” è in qualche modo affetto da indegnità nazionale. De Benoist conclude Il suo libro “Sull'orlo del baratro” con un richiamo al popolo, senza idealizzarlo come naturalmente buono, ma ritenendolo il depositario privilegiato della “comune decenza”, tipica delle persone comuni, fatta di senso dell'onore, lealtà, onestà, benevolenza, generosità, propensione all'aiuto reciproco, fiducia, senso del bene comune, adesione alla logica del dono e del controdono. Questa posizione è di destra e di sinistra. A me sta bene. di Daniela Salvini