12 gennaio 2013

Un nuovo principe per un nuovo principio nazionale



Pochi giorni di campagna elettorale sono bastati per intuire che i partiti e i candidati, vecchi e nuovisti (nuovi è parola impropria), non hanno la minima percezione della situazione reale in cui ci troviamo e giocano ai piccoli chimici per invertire la tendenza dei sondaggi, o sventolare i propri tendaggi di scena (un tempo, tali insegne si sarebbero chiamate bandiere ma, dopo la presunta fine delle ideologie, sono scomparsi i grandi confronti e non sono rimasti nemmeno i corti orizzonti, al di là del vergognoso spettacolo delle opposte tifoserie da stadio), per recuperare/incrementare consensi.
La fase politica è talmente grave che ci vorrebbe una nuova formazione politica (della quale non c’è evidenza, altro che Grillo e il suo movimento “irretito” nella rete) con le idee chiare sull’avvenire dell’Italia e sulle sorti geopolitiche del Paese, al fine di rifondare lo Stato e ridare speranza ai cittadini. E’ questo il compito storico che abbiamo di fronte, generazione di un altro Stato e dei suoi compiti, tattici e strategici, nonché riconfigurazione del corpo collettivo nazionale intorno a queste priorità epocali. I nostri sono tempi eccezionali che richiedono soluzioni straordinarie e chiunque si limiti ad amministrare l’esistente, o a cimentarsi nel piccolo cabotaggio politicistico, è complice di un sabotaggio pubblico devastante.
Anziché tutto ciò, dunque, qui si continua traccheggiare, a discutere se sia opportuno o meno imbarcare il Centro nella Sinistra, la Lega nel Centro-destra e le ali estreme dappertutto, purché in posizione di complemento, per impedire all’altro schieramento di spuntarla, in quanto se vince Bersani sarà schiavo del soviettismo (?) di Vendola, se vince Berlusconi prevarrà il razzismo leghista e storaciano, mentre, se l’ago della bilancia dovesse essere la lista “cinica” di Monti perderebbero tutti, prelati e finanzieri esclusi. Nel frattempo, restiamo incatenati all’idiozia ragionieristica di questi inetti che da vent’anni dimostrano di essere dei marziani a Roma. Costoro fanno calcoli sul vuoto che non contemplano programmi di cambiamento e piani di rigenerazione dello spirito sociale, ormai polverizzato da lustri di abusi, sotto specie di soprusi partitocratici interni e razzie speculative esterne. Insomma, la democrazia ridotta a votificio per scegliere incompetenti, la cui unica aspirazione è quella di fare le mezze maniche dell’Ue, i passacarte degli organismi internazionali, tanto politici che economici, e gli interessi della propria miserabile bottega.
Al punto in cui siamo giunti, piuttosto, dovremmo chiudere con questi principianti e ricompattarci intorno ad un “Principe figlio di un principio collettivo” che si dimostri in grado di spazzare via i parassiti da ogni sfera sociale e di ricostituire gli apparati statali, predisponendoli ai duri confronti internazionali, alle sfide globali e alle istanze autoctone che decreteranno la posizione, di subordinazione o di indipendenza (o almeno di autonomia), sullo scacchiere mondiale di ogni singolo Paese o area di Paesi, per i prossimi anni. Una sfida enorme sulla quale ci giochiamo la libertà duratura o la sottomissione permanente.
So che molti storceranno il naso nel sentir parlare di Principe e grideranno al fascismo, ma non di questo si tratta, sebbene si renderanno obbligatori atti di “potenza” e di “prepotenza” per scrollarsi di dosso i saprofiti che hanno prosciugato il sangue del popolo. La violenza sarà nelle stesse decisioni trasformative (e non in azioni d’imperio autoreferenziali, come nei dispostimi) che andranno prese per raschiare il marciume e la muffa incrostatisi, da tanti decenni, sulla vita sociale italiana.
Penso, solo per fare un esempio, all’interruzione di quell’emorragia di fondi pubblici, dirottati per lunghe annate, verso le Imprese Decotte di precedenti ondate tecnologiche (definitivamente esauritesi) e la Grande Finanza parassitaria, acciocché venisse garantita la sopravvivenza di gruppi banco-industriali in stretto collegamento con i vertici politici, che non portavano sviluppo all’Italia e sottraevano risorse per i settori più innovativi e strategici.
I veri sperperi di denaro dei contribuenti sono questi, prim’ancora delle ruberie della cosiddetta “casta” e dei trasferimenti statali ai servizi generali che costituiscono il cuore del Welfare State. Sicuramente, anche in quest’ultimo campo sono stati compiuti degli eccessi ed occorrerà razionalizzare e modernizzare ma non si può arrivare al paradosso di tagliare lo Stato Sociale, lasciando inalterate le citate regalie private, danneggiando così due volte i cittadini, prima con il foraggiamento, coi soldi di tutti, di aziende che, nonostante i sussidi non riusciranno a restare sul mercato, e poi restringendo il campo della gratuità e dell’efficienza delle prestazioni istituzionali nella sanità, nell’istruzione, nell’occupazione ecc. ecc. a svantaggio della comunità.  Quindi, finché non vi saranno Agende o dichiarazioni programmatiche che conterranno queste richieste inaggirabili, ogni discorso sarà, e delle due l’una, o una presa in giro o un friggimento di aria da parte di uomini che si danno delle arie non avendo altro nel cervello.
Tornando alla disquisizione sul Principe e chiarendone meglio il significato citeremo Antonio Gramsci, affinché si possa comprendere la portata dell’affermazione: “Il moderno principe… non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione.”
Il grande politico sardo, dunque, non concede nulla al fanatismo carismatico e leaderistico che rappresenta, al più, una reazione emotiva, di labile durata, ai drammi della fase storica, la quale, et pour cause, sfocia nella restaurazione o nella mera riorganizzazione formale degli apparati statali (soprattutto di quelli corazzati di coercizione) non risolutiva dei problemi reali. Gramsci crede, invece, in qualcosa di più consistente ed adeguato ai tempi che si esprime in maniera vasta ed organica, al fine di assicurare la rifondazione della macchina statale, poiché l’obiettivo è, appunto, quello di costruire diverse strutture nazionali e sociali adatte ad affrontare le competizioni contemporanee. Nulla a che vedere, pertanto, con le derive autoritarie che, semmai, appartengono all’attualità tecnocratica, dei tecnici ma anche dei politici. Occorre, in sostanza, rifare l’Italia con un atto creativo e originale, espressione di una volontà collettiva generata ex novo da un nuovo blocco sociale incaricatosi, per spinta d’idee, di proposte e di massa d’urto sociale, di risollevare i destini dello Stivale, percorrendo strade mai battute e facendo sue iniziative accantonate da gruppi dirigenti passivi e corrotti.
Questa volontà collettiva esiste oggi, almeno in nuce? A nostro parere sì e si intravede, seppur flebile e marginalizzata, in quei comparti che hanno resistito alla svendita del patrimonio pubblico e delle imprese strategiche, in quei segmenti della popolazione produttiva che, senza attaccarsi alla mammella pubblica, mandano avanti l’economia e lavorano, a testa bassa, nonostante le difficoltà, ai quali manca, tuttavia, la cultura politica per sentirsi protagonisti di un mutamento da perseguire. Certo, studiando meglio la struttura economica italiana, facendo l’analisi storica del passato e del presente politico, sceverando più perspicuamente la composizione del ceto medio, ora ridotto ad una categoria ripostiglio indistinta, sarà possibile trovare e, persino, inventare quelle colleganze indispensabili a far germogliare il soggetto politico di cui abbisogniamo per l’insorgenza e la risorgenza nazionale.
“Producendo” teoricamente e scovando nella prassi politica i punti di contatto, gli anelli di congiunzione tra sezioni del lavoro autonomo e dipendente, tra piccoli e medi imprenditori e tra drappelli al timone delle imprese di punta sensibili all’argomento, questa volontà nazionale forse prenderà tangibilità e sostanza.
Quelli che ci governano adesso e che si ripropongono alla guida del Belpaese sono un ostacolo alla palingenesi richiesta e non comprendono la portata delle minacce planetarie nella presente epoca multipolare. Anzi, qualcuno lavora apertamente per renderci succubi di trame “aliene” e di obblighi stranieri, che sono tali perché loro sono fiacchi ed arrendevoli. Soltanto un moderno Principe, nel senso qui accennato, ci potrà salvare.

di Gianni Petrosillo 

11 gennaio 2013

Il denaro






Beninteso, tutti preferiscono averne un po’ di più che un po’ di meno. «Il denaro non dà la felicità, ma vi contribuisce», dice l’adagio popolare. Bisognerebbe tuttavia sapere che cos’è la felicità. Nel 1905, Max Weber scriveva: «Un uomo non desidera “per natura” guadagnare sempre più denaro: vuole semplicemente vivere come è abituato a vivere e guadagnare quanto gli occorre per farlo». In seguito, numerose inchieste hanno mostrato una relativa dissociazione tra la crescita del livello di vita e quella del livello di soddisfazione degli individui: superata una certa soglia, avere di più non rende più felici. Nel 1974, i lavori di Richard Easterlin avevano stabilito che il livello medio di soddisfazione dichiarato dalle popolazioni era rimasto praticamente lo stesso dal 1945, malgrado lo spettacolare aumento della ricchezza nei Paesi sviluppati (questo “paradosso di Easterlin” è stato nuovamente confermato recentemente). Ben nota è anche l’incapacità degli indici che misurano la crescita materiale, come il PIL, di valutare il benessere reale; soprattutto sul piano collettivo, poiché non esiste una funzione dall’indiscutibile valore che permetta di associare le preferenze individuali alle preferenze sociali.
È allettante vedere nel denaro solo uno strumento di potenza. Purtroppo, il vecchio progetto di una radicale dissociazione tra il potere e la ricchezza (o si è ricchi o si è potenti) resterà ancora a lungo un sogno. Una volta si diventava ricchi perché si era potenti, oggi si è potenti perché si è ricchi. L’accumulazione del denaro è presto divenuta non il mezzo dell’espansione commerciale, come alcuni credono, ma lo scopo stesso della produzione delle merci. La Forma-Capitale non ha altro oggetto che l’illimitatezza del profitto, l’accumulazione infinita del denaro. La capacità di accumulare denaro dà evidentemente un potere discrezionale a coloro che la possiedono. La speculazione monetaria domina la governance mondiale. E il brigantaggio speculativo resta il metodo di captazione preferito dal capitalismo.
Il denaro non si confonde tuttavia con la moneta. La nascita della moneta è spiegabile con lo sviluppo dello scambio commerciale. È soltanto nello scambio, infatti, che gli oggetti acquistano una dimensione di economicità, ed è ugualmente nello scambio che il valore economico si trova dotato di una completa oggettività, perché i beni scambiati sfuggono allora alla soggettività di un unico individuo per misurarsi con la relazione esistente tra soggettività differenti. In quanto equivalente generale, la moneta è intrinsecamente unificatrice. Riportando tutti i beni a un denominatore comune, essa rende allo stesso tempo gli scambi omogenei, come già constatava Aristotele: «Tutte le cose che vengono scambiate debbono essere in qualche modo paragonabili. La moneta è stata inventata a questo scopo e diventa, in un certo senso, un intermediario, perché misura tutte le cose». Creando una prospettiva a partire dalla quale le cose più differenti possono essere valutate con un numero, la moneta le rende in qualche modo uguali: essa riporta tutte le qualità che le distinguono a una semplice logica del più e del meno. Il denaro è quel metro di misura universale che permette di assicurare l’equivalenza astratta di tutte le merci; è l’equivalente generale che riconduce tutte le qualità a una valutazione quantitativa, dato che il valore commerciale è capace solo di operare una differenziazione quantitativa.
Nello stesso tempo, però, lo scambio rende uguale anche la personalità di coloro che lo esercitano. Rivelando la compatibilità delle loro offerte e delle loro domande, instaura l’interscambiabilità dei loro desideri e, a lungo andare, l’interscambiabilità degli uomini che sono il luogo di questi desideri. «Il regno del denaro», osserva Jean-Joseph Goux, «è il regno della misura unica, a partire dalla quale tutte le cose e tutte le attività umane possono essere valutate […] Appare qui chiaramente una certa configurazione monoteistica della forma valore equivalente generale. La razionalità monetaria, fondata sull’unico metro di misura dei valori, fa sistema con una certa monovalenza teologica». Monoteismo del mercato. «Il denaro», scrive Marx, «è la merce che ha come carattere l’alienazione assoluta, perché è il prodotto dell’alienazione universale di tutte le altre merci».
Il denaro non è dunque semplicemente denaro, ma molto di più, e crederlo “neutro” sarebbe l’errore più grande. Come la scienza, la tecnica o il linguaggio, il denaro non è neutro. Già ventitré secoli fa, Aristotele osservava che «la cupidigia dell’umanità è insaziabile». “Insaziabile”, questa è la parola; non ce n’è mai abbastanza e, dato che non ce n’è mai abbastanza, non può evidentemente mai essercene troppo. Quello del denaro è un desiderio che non può mai essere soddisfatto perché si nutre di se stesso. La sua quantità, qualunque essa sia, può infatti sempre essere aumentata di una unità, cosicché il meglio vi si confonde sempre con il più. Non se ne ha mai abbastanza, di ciò di cui si può avere sempre di più. Proprio per questo, le antiche religioni europee hanno continuamente messo in guardia contro la passione del denaro in sé, con il mito di Gullveig, il mito di Mida, il mito dell’Anello di Policrate; lo stesso “declino degli dèi” (ragnarökr) è la conseguenza di una bramosia (l “oro del Reno”).
«Corriamo il rischio», scriveva alcuni anni fa Michel Winock, «di vedere il denaro, il successo finanziario, divenire l’unico metro della considerazione sociale, l’unico scopo della vita». Siamo arrivati proprio a questo punto. Ai giorni nostri, il denaro mette tutti d’accordo. La destra ne è diventata da molto tempo la serva. La sinistra istituzionale, con il pretesto del “realismo”, ha clamorosamente aderito all’economia di mercato, ossia alla gestione liberale del capitale. Il linguaggio dell’economia è divenuto onnipresente. Il denaro è ormai il punto di passaggio obbligato di tutte le forme di desiderio che si esprimono nel registro commerciale. Il sistema del denaro, tuttavia, non durerà a lungo. Il denaro perirà attraverso il denaro, ossia attraverso l’iperinflazione, il fallimento e l’indebitamento eccessivo. Allora si capirà, forse, che si è ricchi davvero solo di ciò che si è donato.

di Alain de Benoist 

08 gennaio 2013

Grandi banche indagate per frode







In questi giorni di fine 2012 le grandi banche internazionali, soprattutto quelle europee, sembrano infastidite. Si lamentano dei controlli più attenti, ma da loro ritenuti troppo invadenti, da parte degli organi di vigilanza.

L’ultimo caso riguarda l’UBS, la più grande banca svizzera, che ha accettato di patteggiare e di pagare oltre un miliardo e mezzo di dollari di multa per chiudere il caso dello scandalo-truffa del Libor!

In merito si ricordi che alcuni mesi fa, la SEC, la lenta e burocratica agenzia di controllo americana, e l’inglese British Financial Service Authority denunciarono una ventina di banche internazionali per aver manipolato il famoso London Interbank Offered Rate (Libor), cioè il tasso che stabilisce la base per definire tutti gli altri tassi di interesse applicati sui mercati finanziari. Erano quelle del cosiddetto cartello delle “too big to fail”: le inglesi Barclays, HSBC, Royal Bank of Scotland, la Deutsche Bank tedesca e le americane, JP Morgan, Citigroup e Bank of America.

Dal 2005 al 2007 le banche in questione avevano gonfiato i loro dati per far salire il Libor e incassare sui tassi alti. Dopo lo scoppio della crisi hanno invece giocato i loro dati al ribasso per mascherare le proprie difficoltà e abbassare il costo dei prestiti di cui avevano bisogno per sopravvivere. Hanno quindi semplicemente fornito informazioni fasulle a proprio profitto.  

Sei mesi fa, la Barclays, ritenuta una delle capofila di tale “frode organizzata”, ha pagato 450 milioni di dollari di multa per chiudere la faccenda. Adesso è toccato all’UBS.

Di primo acchito le multe sembrano molto salate. In realtà, per tali banche sono solo dei fastidiosi esborsi, a fronte degli enormi profitti incassati negli anni della “grande truffa”.

Si stima infatti che circa 800 trilioni di dollari di prodotti finanziari, a cominciare dai derivati Otc, siano legati all’andamento del Libor. Perciò la sola manipolazione di uno 0,01% equivale mediamente a 80 miliardi di dollari all’anno di profitti da spartire tra i grandi operatori finanziari.

Inoltre, come sappiamo dai dati della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea e dell’Office of the Comptroller of the Currency (Occ) americano, sono state, e lo sono tuttora, sempre le stesse banche indagate per la truffa del Libor a controllare la quasi totalità delle operazioni finanziarie globali. 

Vi sono poi le indagini nei confronti della Deutsche Bank, i cui uffici sono stati “visitati” per ben due volte in pochi giorni dagli investigatori delle polizia tedesca che ha sequestrato montagne di documenti.

Uno degli scandali-truffa riguarda una evasione fiscale per circa 300 milioni di euro frutto del commercio dei certificati CO2 nei mesi a cavallo del 2009-10. Uno schema tristemente noto anche in Italia, su cui sarebbe doveroso indagare.

Per l’intera Europa l’Europol stima una truffa ed una evasione fiscale legata ai certificati CO2 per oltre 5 miliardi di euro! Oramai si specula e si truffa anche sull’aria che respiriamo!

A seguito di accordi internazionali e dei tanti movimenti e dibattiti sulle questioni ambientali e climatiche, l’UE ha stabilito un “Emissions Trading System” che assegna un tetto di emissione di anidride carbonica ad ogni impresa e ad ogni impianto di produzione di energia. In pratica si è creato un mercato per acquistare certificati-permessi per maggiori emissioni e per vendere eventuali surplus. Su ciò si è innestato anche un mercato di derivati.

I casi della Barclays, dell’UBS, della Deutsche Bank, così come quello precedente dell’inglese HSBC coinvolta anche nel riciclaggio dei soldi della droga tra Messico e Stati Uniti, sembrano assegnare un ruolo centrale nel malaffare alle banche europee. Ma in realtà sappiamo quanto pesantemente siano state coinvolte le maggiori banche americane nelle truffe dei mutui sub prime e dei prodotti finanziari strutturati.

Tutte queste banche continuano a giocare sul ricatto di essere “too big to fail” per sottrarsi alle indagini ed a ogni forma di regolamentazione. Le frodi venute alla luce provano che il loro comportamento, già responsabile della crisi finanziaria ed economica globale, non è minimamente cambiato.

In relazione a ciò ed al progressivo peggioramento della situazione economica e finanziaria delle economie degli Usa e dell’Europa saranno determinanti le decisioni che il rieletto presidente Obama prenderà entro i prossimi mesi.

Se, con l’indispensabile collaborazione dell’UE, saprà operare con la stessa determinazione di Franklin Delano Roosevelt del 1933 nel mezzo della Grande Depressione allora potremo costruire la necessaria riforma della finanza e dell’economia e rimettere in moto la ripresa del sistema produttivo. 

Se invece il presidente americano sarà tenuto sotto scacco dalle lobby di Wall Street e dei vari “gattopardi”, come è avvenuto nel suo primo mandato, allora dovremo essere consapevoli che una seconda e più violenta crisi sistemica potrà verificarsi.

Di questo ovviamente dovranno preoccuparsi anche il prossimo governo e le autorità europee. 

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi 

12 gennaio 2013

Un nuovo principe per un nuovo principio nazionale



Pochi giorni di campagna elettorale sono bastati per intuire che i partiti e i candidati, vecchi e nuovisti (nuovi è parola impropria), non hanno la minima percezione della situazione reale in cui ci troviamo e giocano ai piccoli chimici per invertire la tendenza dei sondaggi, o sventolare i propri tendaggi di scena (un tempo, tali insegne si sarebbero chiamate bandiere ma, dopo la presunta fine delle ideologie, sono scomparsi i grandi confronti e non sono rimasti nemmeno i corti orizzonti, al di là del vergognoso spettacolo delle opposte tifoserie da stadio), per recuperare/incrementare consensi.
La fase politica è talmente grave che ci vorrebbe una nuova formazione politica (della quale non c’è evidenza, altro che Grillo e il suo movimento “irretito” nella rete) con le idee chiare sull’avvenire dell’Italia e sulle sorti geopolitiche del Paese, al fine di rifondare lo Stato e ridare speranza ai cittadini. E’ questo il compito storico che abbiamo di fronte, generazione di un altro Stato e dei suoi compiti, tattici e strategici, nonché riconfigurazione del corpo collettivo nazionale intorno a queste priorità epocali. I nostri sono tempi eccezionali che richiedono soluzioni straordinarie e chiunque si limiti ad amministrare l’esistente, o a cimentarsi nel piccolo cabotaggio politicistico, è complice di un sabotaggio pubblico devastante.
Anziché tutto ciò, dunque, qui si continua traccheggiare, a discutere se sia opportuno o meno imbarcare il Centro nella Sinistra, la Lega nel Centro-destra e le ali estreme dappertutto, purché in posizione di complemento, per impedire all’altro schieramento di spuntarla, in quanto se vince Bersani sarà schiavo del soviettismo (?) di Vendola, se vince Berlusconi prevarrà il razzismo leghista e storaciano, mentre, se l’ago della bilancia dovesse essere la lista “cinica” di Monti perderebbero tutti, prelati e finanzieri esclusi. Nel frattempo, restiamo incatenati all’idiozia ragionieristica di questi inetti che da vent’anni dimostrano di essere dei marziani a Roma. Costoro fanno calcoli sul vuoto che non contemplano programmi di cambiamento e piani di rigenerazione dello spirito sociale, ormai polverizzato da lustri di abusi, sotto specie di soprusi partitocratici interni e razzie speculative esterne. Insomma, la democrazia ridotta a votificio per scegliere incompetenti, la cui unica aspirazione è quella di fare le mezze maniche dell’Ue, i passacarte degli organismi internazionali, tanto politici che economici, e gli interessi della propria miserabile bottega.
Al punto in cui siamo giunti, piuttosto, dovremmo chiudere con questi principianti e ricompattarci intorno ad un “Principe figlio di un principio collettivo” che si dimostri in grado di spazzare via i parassiti da ogni sfera sociale e di ricostituire gli apparati statali, predisponendoli ai duri confronti internazionali, alle sfide globali e alle istanze autoctone che decreteranno la posizione, di subordinazione o di indipendenza (o almeno di autonomia), sullo scacchiere mondiale di ogni singolo Paese o area di Paesi, per i prossimi anni. Una sfida enorme sulla quale ci giochiamo la libertà duratura o la sottomissione permanente.
So che molti storceranno il naso nel sentir parlare di Principe e grideranno al fascismo, ma non di questo si tratta, sebbene si renderanno obbligatori atti di “potenza” e di “prepotenza” per scrollarsi di dosso i saprofiti che hanno prosciugato il sangue del popolo. La violenza sarà nelle stesse decisioni trasformative (e non in azioni d’imperio autoreferenziali, come nei dispostimi) che andranno prese per raschiare il marciume e la muffa incrostatisi, da tanti decenni, sulla vita sociale italiana.
Penso, solo per fare un esempio, all’interruzione di quell’emorragia di fondi pubblici, dirottati per lunghe annate, verso le Imprese Decotte di precedenti ondate tecnologiche (definitivamente esauritesi) e la Grande Finanza parassitaria, acciocché venisse garantita la sopravvivenza di gruppi banco-industriali in stretto collegamento con i vertici politici, che non portavano sviluppo all’Italia e sottraevano risorse per i settori più innovativi e strategici.
I veri sperperi di denaro dei contribuenti sono questi, prim’ancora delle ruberie della cosiddetta “casta” e dei trasferimenti statali ai servizi generali che costituiscono il cuore del Welfare State. Sicuramente, anche in quest’ultimo campo sono stati compiuti degli eccessi ed occorrerà razionalizzare e modernizzare ma non si può arrivare al paradosso di tagliare lo Stato Sociale, lasciando inalterate le citate regalie private, danneggiando così due volte i cittadini, prima con il foraggiamento, coi soldi di tutti, di aziende che, nonostante i sussidi non riusciranno a restare sul mercato, e poi restringendo il campo della gratuità e dell’efficienza delle prestazioni istituzionali nella sanità, nell’istruzione, nell’occupazione ecc. ecc. a svantaggio della comunità.  Quindi, finché non vi saranno Agende o dichiarazioni programmatiche che conterranno queste richieste inaggirabili, ogni discorso sarà, e delle due l’una, o una presa in giro o un friggimento di aria da parte di uomini che si danno delle arie non avendo altro nel cervello.
Tornando alla disquisizione sul Principe e chiarendone meglio il significato citeremo Antonio Gramsci, affinché si possa comprendere la portata dell’affermazione: “Il moderno principe… non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione.”
Il grande politico sardo, dunque, non concede nulla al fanatismo carismatico e leaderistico che rappresenta, al più, una reazione emotiva, di labile durata, ai drammi della fase storica, la quale, et pour cause, sfocia nella restaurazione o nella mera riorganizzazione formale degli apparati statali (soprattutto di quelli corazzati di coercizione) non risolutiva dei problemi reali. Gramsci crede, invece, in qualcosa di più consistente ed adeguato ai tempi che si esprime in maniera vasta ed organica, al fine di assicurare la rifondazione della macchina statale, poiché l’obiettivo è, appunto, quello di costruire diverse strutture nazionali e sociali adatte ad affrontare le competizioni contemporanee. Nulla a che vedere, pertanto, con le derive autoritarie che, semmai, appartengono all’attualità tecnocratica, dei tecnici ma anche dei politici. Occorre, in sostanza, rifare l’Italia con un atto creativo e originale, espressione di una volontà collettiva generata ex novo da un nuovo blocco sociale incaricatosi, per spinta d’idee, di proposte e di massa d’urto sociale, di risollevare i destini dello Stivale, percorrendo strade mai battute e facendo sue iniziative accantonate da gruppi dirigenti passivi e corrotti.
Questa volontà collettiva esiste oggi, almeno in nuce? A nostro parere sì e si intravede, seppur flebile e marginalizzata, in quei comparti che hanno resistito alla svendita del patrimonio pubblico e delle imprese strategiche, in quei segmenti della popolazione produttiva che, senza attaccarsi alla mammella pubblica, mandano avanti l’economia e lavorano, a testa bassa, nonostante le difficoltà, ai quali manca, tuttavia, la cultura politica per sentirsi protagonisti di un mutamento da perseguire. Certo, studiando meglio la struttura economica italiana, facendo l’analisi storica del passato e del presente politico, sceverando più perspicuamente la composizione del ceto medio, ora ridotto ad una categoria ripostiglio indistinta, sarà possibile trovare e, persino, inventare quelle colleganze indispensabili a far germogliare il soggetto politico di cui abbisogniamo per l’insorgenza e la risorgenza nazionale.
“Producendo” teoricamente e scovando nella prassi politica i punti di contatto, gli anelli di congiunzione tra sezioni del lavoro autonomo e dipendente, tra piccoli e medi imprenditori e tra drappelli al timone delle imprese di punta sensibili all’argomento, questa volontà nazionale forse prenderà tangibilità e sostanza.
Quelli che ci governano adesso e che si ripropongono alla guida del Belpaese sono un ostacolo alla palingenesi richiesta e non comprendono la portata delle minacce planetarie nella presente epoca multipolare. Anzi, qualcuno lavora apertamente per renderci succubi di trame “aliene” e di obblighi stranieri, che sono tali perché loro sono fiacchi ed arrendevoli. Soltanto un moderno Principe, nel senso qui accennato, ci potrà salvare.

di Gianni Petrosillo 

11 gennaio 2013

Il denaro






Beninteso, tutti preferiscono averne un po’ di più che un po’ di meno. «Il denaro non dà la felicità, ma vi contribuisce», dice l’adagio popolare. Bisognerebbe tuttavia sapere che cos’è la felicità. Nel 1905, Max Weber scriveva: «Un uomo non desidera “per natura” guadagnare sempre più denaro: vuole semplicemente vivere come è abituato a vivere e guadagnare quanto gli occorre per farlo». In seguito, numerose inchieste hanno mostrato una relativa dissociazione tra la crescita del livello di vita e quella del livello di soddisfazione degli individui: superata una certa soglia, avere di più non rende più felici. Nel 1974, i lavori di Richard Easterlin avevano stabilito che il livello medio di soddisfazione dichiarato dalle popolazioni era rimasto praticamente lo stesso dal 1945, malgrado lo spettacolare aumento della ricchezza nei Paesi sviluppati (questo “paradosso di Easterlin” è stato nuovamente confermato recentemente). Ben nota è anche l’incapacità degli indici che misurano la crescita materiale, come il PIL, di valutare il benessere reale; soprattutto sul piano collettivo, poiché non esiste una funzione dall’indiscutibile valore che permetta di associare le preferenze individuali alle preferenze sociali.
È allettante vedere nel denaro solo uno strumento di potenza. Purtroppo, il vecchio progetto di una radicale dissociazione tra il potere e la ricchezza (o si è ricchi o si è potenti) resterà ancora a lungo un sogno. Una volta si diventava ricchi perché si era potenti, oggi si è potenti perché si è ricchi. L’accumulazione del denaro è presto divenuta non il mezzo dell’espansione commerciale, come alcuni credono, ma lo scopo stesso della produzione delle merci. La Forma-Capitale non ha altro oggetto che l’illimitatezza del profitto, l’accumulazione infinita del denaro. La capacità di accumulare denaro dà evidentemente un potere discrezionale a coloro che la possiedono. La speculazione monetaria domina la governance mondiale. E il brigantaggio speculativo resta il metodo di captazione preferito dal capitalismo.
Il denaro non si confonde tuttavia con la moneta. La nascita della moneta è spiegabile con lo sviluppo dello scambio commerciale. È soltanto nello scambio, infatti, che gli oggetti acquistano una dimensione di economicità, ed è ugualmente nello scambio che il valore economico si trova dotato di una completa oggettività, perché i beni scambiati sfuggono allora alla soggettività di un unico individuo per misurarsi con la relazione esistente tra soggettività differenti. In quanto equivalente generale, la moneta è intrinsecamente unificatrice. Riportando tutti i beni a un denominatore comune, essa rende allo stesso tempo gli scambi omogenei, come già constatava Aristotele: «Tutte le cose che vengono scambiate debbono essere in qualche modo paragonabili. La moneta è stata inventata a questo scopo e diventa, in un certo senso, un intermediario, perché misura tutte le cose». Creando una prospettiva a partire dalla quale le cose più differenti possono essere valutate con un numero, la moneta le rende in qualche modo uguali: essa riporta tutte le qualità che le distinguono a una semplice logica del più e del meno. Il denaro è quel metro di misura universale che permette di assicurare l’equivalenza astratta di tutte le merci; è l’equivalente generale che riconduce tutte le qualità a una valutazione quantitativa, dato che il valore commerciale è capace solo di operare una differenziazione quantitativa.
Nello stesso tempo, però, lo scambio rende uguale anche la personalità di coloro che lo esercitano. Rivelando la compatibilità delle loro offerte e delle loro domande, instaura l’interscambiabilità dei loro desideri e, a lungo andare, l’interscambiabilità degli uomini che sono il luogo di questi desideri. «Il regno del denaro», osserva Jean-Joseph Goux, «è il regno della misura unica, a partire dalla quale tutte le cose e tutte le attività umane possono essere valutate […] Appare qui chiaramente una certa configurazione monoteistica della forma valore equivalente generale. La razionalità monetaria, fondata sull’unico metro di misura dei valori, fa sistema con una certa monovalenza teologica». Monoteismo del mercato. «Il denaro», scrive Marx, «è la merce che ha come carattere l’alienazione assoluta, perché è il prodotto dell’alienazione universale di tutte le altre merci».
Il denaro non è dunque semplicemente denaro, ma molto di più, e crederlo “neutro” sarebbe l’errore più grande. Come la scienza, la tecnica o il linguaggio, il denaro non è neutro. Già ventitré secoli fa, Aristotele osservava che «la cupidigia dell’umanità è insaziabile». “Insaziabile”, questa è la parola; non ce n’è mai abbastanza e, dato che non ce n’è mai abbastanza, non può evidentemente mai essercene troppo. Quello del denaro è un desiderio che non può mai essere soddisfatto perché si nutre di se stesso. La sua quantità, qualunque essa sia, può infatti sempre essere aumentata di una unità, cosicché il meglio vi si confonde sempre con il più. Non se ne ha mai abbastanza, di ciò di cui si può avere sempre di più. Proprio per questo, le antiche religioni europee hanno continuamente messo in guardia contro la passione del denaro in sé, con il mito di Gullveig, il mito di Mida, il mito dell’Anello di Policrate; lo stesso “declino degli dèi” (ragnarökr) è la conseguenza di una bramosia (l “oro del Reno”).
«Corriamo il rischio», scriveva alcuni anni fa Michel Winock, «di vedere il denaro, il successo finanziario, divenire l’unico metro della considerazione sociale, l’unico scopo della vita». Siamo arrivati proprio a questo punto. Ai giorni nostri, il denaro mette tutti d’accordo. La destra ne è diventata da molto tempo la serva. La sinistra istituzionale, con il pretesto del “realismo”, ha clamorosamente aderito all’economia di mercato, ossia alla gestione liberale del capitale. Il linguaggio dell’economia è divenuto onnipresente. Il denaro è ormai il punto di passaggio obbligato di tutte le forme di desiderio che si esprimono nel registro commerciale. Il sistema del denaro, tuttavia, non durerà a lungo. Il denaro perirà attraverso il denaro, ossia attraverso l’iperinflazione, il fallimento e l’indebitamento eccessivo. Allora si capirà, forse, che si è ricchi davvero solo di ciò che si è donato.

di Alain de Benoist 

08 gennaio 2013

Grandi banche indagate per frode







In questi giorni di fine 2012 le grandi banche internazionali, soprattutto quelle europee, sembrano infastidite. Si lamentano dei controlli più attenti, ma da loro ritenuti troppo invadenti, da parte degli organi di vigilanza.

L’ultimo caso riguarda l’UBS, la più grande banca svizzera, che ha accettato di patteggiare e di pagare oltre un miliardo e mezzo di dollari di multa per chiudere il caso dello scandalo-truffa del Libor!

In merito si ricordi che alcuni mesi fa, la SEC, la lenta e burocratica agenzia di controllo americana, e l’inglese British Financial Service Authority denunciarono una ventina di banche internazionali per aver manipolato il famoso London Interbank Offered Rate (Libor), cioè il tasso che stabilisce la base per definire tutti gli altri tassi di interesse applicati sui mercati finanziari. Erano quelle del cosiddetto cartello delle “too big to fail”: le inglesi Barclays, HSBC, Royal Bank of Scotland, la Deutsche Bank tedesca e le americane, JP Morgan, Citigroup e Bank of America.

Dal 2005 al 2007 le banche in questione avevano gonfiato i loro dati per far salire il Libor e incassare sui tassi alti. Dopo lo scoppio della crisi hanno invece giocato i loro dati al ribasso per mascherare le proprie difficoltà e abbassare il costo dei prestiti di cui avevano bisogno per sopravvivere. Hanno quindi semplicemente fornito informazioni fasulle a proprio profitto.  

Sei mesi fa, la Barclays, ritenuta una delle capofila di tale “frode organizzata”, ha pagato 450 milioni di dollari di multa per chiudere la faccenda. Adesso è toccato all’UBS.

Di primo acchito le multe sembrano molto salate. In realtà, per tali banche sono solo dei fastidiosi esborsi, a fronte degli enormi profitti incassati negli anni della “grande truffa”.

Si stima infatti che circa 800 trilioni di dollari di prodotti finanziari, a cominciare dai derivati Otc, siano legati all’andamento del Libor. Perciò la sola manipolazione di uno 0,01% equivale mediamente a 80 miliardi di dollari all’anno di profitti da spartire tra i grandi operatori finanziari.

Inoltre, come sappiamo dai dati della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea e dell’Office of the Comptroller of the Currency (Occ) americano, sono state, e lo sono tuttora, sempre le stesse banche indagate per la truffa del Libor a controllare la quasi totalità delle operazioni finanziarie globali. 

Vi sono poi le indagini nei confronti della Deutsche Bank, i cui uffici sono stati “visitati” per ben due volte in pochi giorni dagli investigatori delle polizia tedesca che ha sequestrato montagne di documenti.

Uno degli scandali-truffa riguarda una evasione fiscale per circa 300 milioni di euro frutto del commercio dei certificati CO2 nei mesi a cavallo del 2009-10. Uno schema tristemente noto anche in Italia, su cui sarebbe doveroso indagare.

Per l’intera Europa l’Europol stima una truffa ed una evasione fiscale legata ai certificati CO2 per oltre 5 miliardi di euro! Oramai si specula e si truffa anche sull’aria che respiriamo!

A seguito di accordi internazionali e dei tanti movimenti e dibattiti sulle questioni ambientali e climatiche, l’UE ha stabilito un “Emissions Trading System” che assegna un tetto di emissione di anidride carbonica ad ogni impresa e ad ogni impianto di produzione di energia. In pratica si è creato un mercato per acquistare certificati-permessi per maggiori emissioni e per vendere eventuali surplus. Su ciò si è innestato anche un mercato di derivati.

I casi della Barclays, dell’UBS, della Deutsche Bank, così come quello precedente dell’inglese HSBC coinvolta anche nel riciclaggio dei soldi della droga tra Messico e Stati Uniti, sembrano assegnare un ruolo centrale nel malaffare alle banche europee. Ma in realtà sappiamo quanto pesantemente siano state coinvolte le maggiori banche americane nelle truffe dei mutui sub prime e dei prodotti finanziari strutturati.

Tutte queste banche continuano a giocare sul ricatto di essere “too big to fail” per sottrarsi alle indagini ed a ogni forma di regolamentazione. Le frodi venute alla luce provano che il loro comportamento, già responsabile della crisi finanziaria ed economica globale, non è minimamente cambiato.

In relazione a ciò ed al progressivo peggioramento della situazione economica e finanziaria delle economie degli Usa e dell’Europa saranno determinanti le decisioni che il rieletto presidente Obama prenderà entro i prossimi mesi.

Se, con l’indispensabile collaborazione dell’UE, saprà operare con la stessa determinazione di Franklin Delano Roosevelt del 1933 nel mezzo della Grande Depressione allora potremo costruire la necessaria riforma della finanza e dell’economia e rimettere in moto la ripresa del sistema produttivo. 

Se invece il presidente americano sarà tenuto sotto scacco dalle lobby di Wall Street e dei vari “gattopardi”, come è avvenuto nel suo primo mandato, allora dovremo essere consapevoli che una seconda e più violenta crisi sistemica potrà verificarsi.

Di questo ovviamente dovranno preoccuparsi anche il prossimo governo e le autorità europee. 

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi