13 gennaio 2013

Per la febbre elettorale non esiste vaccino



Superate le profezie dei Maya, il Natale e pure l'ultimo dell'anno, in un'atmosfera per molti versi surreale, dove qualsiasi anelito di spirito festaiolo é stato stemperato dalla drammatica situazione  in cui versa il paese e con esso gran parte delle famiglie italiane, sembra che l'attenzione dei più sia ormai catalizzata esclusivamente dalla tornata elettorale prossima ventura.
Il debito pubblico (per quanto può valere) continua a salire, il Pil (per quanto può valere) continua a scendere, l'inflazione fa passi da gigante, i consumi crollano, la disoccupazione cresce in maniera esponenziale, la pressione fiscale diventa ogni giorno più immanente e qualsiasi dato ed analisi lascia presagire un 2013 molto peggiore dell'hannus orribilis che ci siamo lasciati alle spalle. Nonostante ciò non esiste situazione così nera da non lasciare uno spiraglio alla speranza, e proprio sulla speranza, unita ad una forte dose d'incoscienza, sembrano essere intenzionati a fare leva i nuovi e vecchi camerieri politici che aspirano ad ottenere una poltrona nel futuro parlamento.
Speranza per tutti, con in regalo confezioni famiglia di perline colorate, sembra dunque la formula scelta da qualunque candidato, per accattivarsi i favori degli italiani e ritagliarsi il ruolo di esecutore dei dettami presenti e futuri della BCE, dell'FMI, dell'Europa e di tutti i grandi poteri che ormai gestiscono in toto il destino dei cittadini.
A ben guardare la campagna elettorale del 2013, già entrata nel vivo prima ancora che l'Epifania arrivasse a portare via le feste, qualche elemento di novità rispetto al passato lo presenta senza dubbio....

In primo luogo é già stato deciso in alto loco il risultato che dovrà emergere dalle urne, se é vero che Giorgio Napolitano e le più alte cariche europee hanno dichiarato pubblicamente in maniera adamantina quali compiti sarà tenuto a svolgere il nuovo governo, qualunque esso sia. In secondo luogo i partiti destinati a scendere nell'agone elettorale non redigeranno più programmi elettorali di centinaia di pagine, infarcite di "ma anche" e "superamenti" di varia natura, ma si limiteranno a pochi semplici slogan, utili per riempire il vuoto e creare false aspettative. Per chiudere, sempre in tema di superamenti, risulta ormai defunta ogni velleità di bipolarismo ed i poli che si contenderanno la carcassa del paese saranno almeno cinque, a meno di sorprese dell'ultima ora.
Mr. Legacoop Bersani guiderà il polo di centrosinistra che incorporato Sel di Nichi Vendola viene accreditato dai sondaggi (sempre assai benevoli) di un consenso superiore al 30%. Si dichiara pronto ad abbracciare l'Europa dei banchieri e la società civile e strizza l'occhio a Mario Monti, indispensabile nel caso i risultati reali arrivino a permettergli di tentare di formare un governo.
Il Cavaliere errante di Arcore, insieme a tutto il polo di centrodestra, consapevole di avere ormai perso ogni chanches, ha scelto la strada della confusione, nel velleitario tentativo di sparigliare le carte e far dimenticare agli italiani il fatto di avere deposto il paese nelle mani dell'usuraio di Goldman Sachs. Oggi con Monti, domani contro Monti, poi ancora con Monti, offrendogli la guida del partito, poi non contro Monti ma solamente contro le sue leggi ed infine con la sua agenda, purchè lui non ci sia. Un po' tortuoso forse, ma nessuno sicuramente potrà affermare che esiste una posizione che non sia stata assunta.
L'usuraio di Goldman Sachs, conscio del fatto che la maniera migliore per tornare al governo fosse quella di connotarsi come ago della bilancia, entra nel tatrino elettorale sorretto da Casini e Fini (esili stampelle in verità), ma soprattutto dalla CEI e dai poteri forti mondiali, il che significa "buona stampa" a gogò e una discreta percentuale degli italiani disposti a sperimentare la sindrome di Stoccolma, se è vero che anche lui, come Bersani, si appella alla società civile per raccogliere il consenso.
Il movimento 5 stelle di Beppe Grillo si presenterà alle urne per la prima volta, con la concreta prospettiva d'intercettare il consenso di buona parte degli scontenti ormai guariti dalla sindrome destra vs sinistra, ma esistono forti dubbi sul fatto che voglia e sappia valorizzare lo socntento di cui sopra, anziché parcheggiarlo su un binario morto, lastricato di slogan anticasta e facili battaglie di facciata.
Antonio Di Pietro, in forte calo di presentabilità e di consensi, ha recuperato in Guatemala il collega Antonio Ingroia, per affidargli il compito di ricompattare in giro per l'Italia quel che resta della sinistra radicale e della galassia ambientalista, nella speranza (ci dovrebbe riuscire) di superare la soglia di sbarramento e riportare in parlamento Ferrero, Diliberto e molte altre icone della sinistra che alla scorsa tornata elettorale si ritrovarono fuori dei giochi. Anche Ingroia, come Bersani e Monti, cerca il consenso di quell'ectoplasma chiamato società civile, ma a differenza di loro sembra poter contare sul diritto di pescare fra i vari movimenti che si battono sul territorio. Sembra essere però partito con il piede sbagliato, praticando la pesca di frodo, dal momento che pur stando a braccetto con Di Pietro (che fu uno dei ministri che portarono avanti il TAV), strizzando l'occhio a Bersani da lui definito una brava persona ed incensando "l'amico" giudice Caselli, si é permesso di stampare sui manifesti il nome del Movimento NO TAV fra quello dei suoi sostenitori, nonostante in Val di Susa nessuno gli avesse dato il permesso di farlo o si sognasse di darglielo.
Nel prossimo mese sicuramente se ne vedranno delle belle, fra scontri in TV, sondaggi pilotati, amicizie di vecchia data messe a repentaglio e nemici indefessi che ritrovano l'amore perduto.
Ma al di là dell'effetto taumaturgico della speranza in quanto tale, come si può sperare di cambiare la qualità del desco, semplicemente scegliendo i camerieri che portano in tavola il cibo, mentre il titolare del ristorante ed i cuochi rimangono gli stessi?
Continueremo a mangiare pesce avariato, anche se fingiamo di non sentirne la puzza, convincendoci che si tratta di una prelibatezza che abbiamo scelto noi.

di Marco Cedolin 

12 gennaio 2013

Un nuovo principe per un nuovo principio nazionale



Pochi giorni di campagna elettorale sono bastati per intuire che i partiti e i candidati, vecchi e nuovisti (nuovi è parola impropria), non hanno la minima percezione della situazione reale in cui ci troviamo e giocano ai piccoli chimici per invertire la tendenza dei sondaggi, o sventolare i propri tendaggi di scena (un tempo, tali insegne si sarebbero chiamate bandiere ma, dopo la presunta fine delle ideologie, sono scomparsi i grandi confronti e non sono rimasti nemmeno i corti orizzonti, al di là del vergognoso spettacolo delle opposte tifoserie da stadio), per recuperare/incrementare consensi.
La fase politica è talmente grave che ci vorrebbe una nuova formazione politica (della quale non c’è evidenza, altro che Grillo e il suo movimento “irretito” nella rete) con le idee chiare sull’avvenire dell’Italia e sulle sorti geopolitiche del Paese, al fine di rifondare lo Stato e ridare speranza ai cittadini. E’ questo il compito storico che abbiamo di fronte, generazione di un altro Stato e dei suoi compiti, tattici e strategici, nonché riconfigurazione del corpo collettivo nazionale intorno a queste priorità epocali. I nostri sono tempi eccezionali che richiedono soluzioni straordinarie e chiunque si limiti ad amministrare l’esistente, o a cimentarsi nel piccolo cabotaggio politicistico, è complice di un sabotaggio pubblico devastante.
Anziché tutto ciò, dunque, qui si continua traccheggiare, a discutere se sia opportuno o meno imbarcare il Centro nella Sinistra, la Lega nel Centro-destra e le ali estreme dappertutto, purché in posizione di complemento, per impedire all’altro schieramento di spuntarla, in quanto se vince Bersani sarà schiavo del soviettismo (?) di Vendola, se vince Berlusconi prevarrà il razzismo leghista e storaciano, mentre, se l’ago della bilancia dovesse essere la lista “cinica” di Monti perderebbero tutti, prelati e finanzieri esclusi. Nel frattempo, restiamo incatenati all’idiozia ragionieristica di questi inetti che da vent’anni dimostrano di essere dei marziani a Roma. Costoro fanno calcoli sul vuoto che non contemplano programmi di cambiamento e piani di rigenerazione dello spirito sociale, ormai polverizzato da lustri di abusi, sotto specie di soprusi partitocratici interni e razzie speculative esterne. Insomma, la democrazia ridotta a votificio per scegliere incompetenti, la cui unica aspirazione è quella di fare le mezze maniche dell’Ue, i passacarte degli organismi internazionali, tanto politici che economici, e gli interessi della propria miserabile bottega.
Al punto in cui siamo giunti, piuttosto, dovremmo chiudere con questi principianti e ricompattarci intorno ad un “Principe figlio di un principio collettivo” che si dimostri in grado di spazzare via i parassiti da ogni sfera sociale e di ricostituire gli apparati statali, predisponendoli ai duri confronti internazionali, alle sfide globali e alle istanze autoctone che decreteranno la posizione, di subordinazione o di indipendenza (o almeno di autonomia), sullo scacchiere mondiale di ogni singolo Paese o area di Paesi, per i prossimi anni. Una sfida enorme sulla quale ci giochiamo la libertà duratura o la sottomissione permanente.
So che molti storceranno il naso nel sentir parlare di Principe e grideranno al fascismo, ma non di questo si tratta, sebbene si renderanno obbligatori atti di “potenza” e di “prepotenza” per scrollarsi di dosso i saprofiti che hanno prosciugato il sangue del popolo. La violenza sarà nelle stesse decisioni trasformative (e non in azioni d’imperio autoreferenziali, come nei dispostimi) che andranno prese per raschiare il marciume e la muffa incrostatisi, da tanti decenni, sulla vita sociale italiana.
Penso, solo per fare un esempio, all’interruzione di quell’emorragia di fondi pubblici, dirottati per lunghe annate, verso le Imprese Decotte di precedenti ondate tecnologiche (definitivamente esauritesi) e la Grande Finanza parassitaria, acciocché venisse garantita la sopravvivenza di gruppi banco-industriali in stretto collegamento con i vertici politici, che non portavano sviluppo all’Italia e sottraevano risorse per i settori più innovativi e strategici.
I veri sperperi di denaro dei contribuenti sono questi, prim’ancora delle ruberie della cosiddetta “casta” e dei trasferimenti statali ai servizi generali che costituiscono il cuore del Welfare State. Sicuramente, anche in quest’ultimo campo sono stati compiuti degli eccessi ed occorrerà razionalizzare e modernizzare ma non si può arrivare al paradosso di tagliare lo Stato Sociale, lasciando inalterate le citate regalie private, danneggiando così due volte i cittadini, prima con il foraggiamento, coi soldi di tutti, di aziende che, nonostante i sussidi non riusciranno a restare sul mercato, e poi restringendo il campo della gratuità e dell’efficienza delle prestazioni istituzionali nella sanità, nell’istruzione, nell’occupazione ecc. ecc. a svantaggio della comunità.  Quindi, finché non vi saranno Agende o dichiarazioni programmatiche che conterranno queste richieste inaggirabili, ogni discorso sarà, e delle due l’una, o una presa in giro o un friggimento di aria da parte di uomini che si danno delle arie non avendo altro nel cervello.
Tornando alla disquisizione sul Principe e chiarendone meglio il significato citeremo Antonio Gramsci, affinché si possa comprendere la portata dell’affermazione: “Il moderno principe… non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione.”
Il grande politico sardo, dunque, non concede nulla al fanatismo carismatico e leaderistico che rappresenta, al più, una reazione emotiva, di labile durata, ai drammi della fase storica, la quale, et pour cause, sfocia nella restaurazione o nella mera riorganizzazione formale degli apparati statali (soprattutto di quelli corazzati di coercizione) non risolutiva dei problemi reali. Gramsci crede, invece, in qualcosa di più consistente ed adeguato ai tempi che si esprime in maniera vasta ed organica, al fine di assicurare la rifondazione della macchina statale, poiché l’obiettivo è, appunto, quello di costruire diverse strutture nazionali e sociali adatte ad affrontare le competizioni contemporanee. Nulla a che vedere, pertanto, con le derive autoritarie che, semmai, appartengono all’attualità tecnocratica, dei tecnici ma anche dei politici. Occorre, in sostanza, rifare l’Italia con un atto creativo e originale, espressione di una volontà collettiva generata ex novo da un nuovo blocco sociale incaricatosi, per spinta d’idee, di proposte e di massa d’urto sociale, di risollevare i destini dello Stivale, percorrendo strade mai battute e facendo sue iniziative accantonate da gruppi dirigenti passivi e corrotti.
Questa volontà collettiva esiste oggi, almeno in nuce? A nostro parere sì e si intravede, seppur flebile e marginalizzata, in quei comparti che hanno resistito alla svendita del patrimonio pubblico e delle imprese strategiche, in quei segmenti della popolazione produttiva che, senza attaccarsi alla mammella pubblica, mandano avanti l’economia e lavorano, a testa bassa, nonostante le difficoltà, ai quali manca, tuttavia, la cultura politica per sentirsi protagonisti di un mutamento da perseguire. Certo, studiando meglio la struttura economica italiana, facendo l’analisi storica del passato e del presente politico, sceverando più perspicuamente la composizione del ceto medio, ora ridotto ad una categoria ripostiglio indistinta, sarà possibile trovare e, persino, inventare quelle colleganze indispensabili a far germogliare il soggetto politico di cui abbisogniamo per l’insorgenza e la risorgenza nazionale.
“Producendo” teoricamente e scovando nella prassi politica i punti di contatto, gli anelli di congiunzione tra sezioni del lavoro autonomo e dipendente, tra piccoli e medi imprenditori e tra drappelli al timone delle imprese di punta sensibili all’argomento, questa volontà nazionale forse prenderà tangibilità e sostanza.
Quelli che ci governano adesso e che si ripropongono alla guida del Belpaese sono un ostacolo alla palingenesi richiesta e non comprendono la portata delle minacce planetarie nella presente epoca multipolare. Anzi, qualcuno lavora apertamente per renderci succubi di trame “aliene” e di obblighi stranieri, che sono tali perché loro sono fiacchi ed arrendevoli. Soltanto un moderno Principe, nel senso qui accennato, ci potrà salvare.

di Gianni Petrosillo 

11 gennaio 2013

Il denaro






Beninteso, tutti preferiscono averne un po’ di più che un po’ di meno. «Il denaro non dà la felicità, ma vi contribuisce», dice l’adagio popolare. Bisognerebbe tuttavia sapere che cos’è la felicità. Nel 1905, Max Weber scriveva: «Un uomo non desidera “per natura” guadagnare sempre più denaro: vuole semplicemente vivere come è abituato a vivere e guadagnare quanto gli occorre per farlo». In seguito, numerose inchieste hanno mostrato una relativa dissociazione tra la crescita del livello di vita e quella del livello di soddisfazione degli individui: superata una certa soglia, avere di più non rende più felici. Nel 1974, i lavori di Richard Easterlin avevano stabilito che il livello medio di soddisfazione dichiarato dalle popolazioni era rimasto praticamente lo stesso dal 1945, malgrado lo spettacolare aumento della ricchezza nei Paesi sviluppati (questo “paradosso di Easterlin” è stato nuovamente confermato recentemente). Ben nota è anche l’incapacità degli indici che misurano la crescita materiale, come il PIL, di valutare il benessere reale; soprattutto sul piano collettivo, poiché non esiste una funzione dall’indiscutibile valore che permetta di associare le preferenze individuali alle preferenze sociali.
È allettante vedere nel denaro solo uno strumento di potenza. Purtroppo, il vecchio progetto di una radicale dissociazione tra il potere e la ricchezza (o si è ricchi o si è potenti) resterà ancora a lungo un sogno. Una volta si diventava ricchi perché si era potenti, oggi si è potenti perché si è ricchi. L’accumulazione del denaro è presto divenuta non il mezzo dell’espansione commerciale, come alcuni credono, ma lo scopo stesso della produzione delle merci. La Forma-Capitale non ha altro oggetto che l’illimitatezza del profitto, l’accumulazione infinita del denaro. La capacità di accumulare denaro dà evidentemente un potere discrezionale a coloro che la possiedono. La speculazione monetaria domina la governance mondiale. E il brigantaggio speculativo resta il metodo di captazione preferito dal capitalismo.
Il denaro non si confonde tuttavia con la moneta. La nascita della moneta è spiegabile con lo sviluppo dello scambio commerciale. È soltanto nello scambio, infatti, che gli oggetti acquistano una dimensione di economicità, ed è ugualmente nello scambio che il valore economico si trova dotato di una completa oggettività, perché i beni scambiati sfuggono allora alla soggettività di un unico individuo per misurarsi con la relazione esistente tra soggettività differenti. In quanto equivalente generale, la moneta è intrinsecamente unificatrice. Riportando tutti i beni a un denominatore comune, essa rende allo stesso tempo gli scambi omogenei, come già constatava Aristotele: «Tutte le cose che vengono scambiate debbono essere in qualche modo paragonabili. La moneta è stata inventata a questo scopo e diventa, in un certo senso, un intermediario, perché misura tutte le cose». Creando una prospettiva a partire dalla quale le cose più differenti possono essere valutate con un numero, la moneta le rende in qualche modo uguali: essa riporta tutte le qualità che le distinguono a una semplice logica del più e del meno. Il denaro è quel metro di misura universale che permette di assicurare l’equivalenza astratta di tutte le merci; è l’equivalente generale che riconduce tutte le qualità a una valutazione quantitativa, dato che il valore commerciale è capace solo di operare una differenziazione quantitativa.
Nello stesso tempo, però, lo scambio rende uguale anche la personalità di coloro che lo esercitano. Rivelando la compatibilità delle loro offerte e delle loro domande, instaura l’interscambiabilità dei loro desideri e, a lungo andare, l’interscambiabilità degli uomini che sono il luogo di questi desideri. «Il regno del denaro», osserva Jean-Joseph Goux, «è il regno della misura unica, a partire dalla quale tutte le cose e tutte le attività umane possono essere valutate […] Appare qui chiaramente una certa configurazione monoteistica della forma valore equivalente generale. La razionalità monetaria, fondata sull’unico metro di misura dei valori, fa sistema con una certa monovalenza teologica». Monoteismo del mercato. «Il denaro», scrive Marx, «è la merce che ha come carattere l’alienazione assoluta, perché è il prodotto dell’alienazione universale di tutte le altre merci».
Il denaro non è dunque semplicemente denaro, ma molto di più, e crederlo “neutro” sarebbe l’errore più grande. Come la scienza, la tecnica o il linguaggio, il denaro non è neutro. Già ventitré secoli fa, Aristotele osservava che «la cupidigia dell’umanità è insaziabile». “Insaziabile”, questa è la parola; non ce n’è mai abbastanza e, dato che non ce n’è mai abbastanza, non può evidentemente mai essercene troppo. Quello del denaro è un desiderio che non può mai essere soddisfatto perché si nutre di se stesso. La sua quantità, qualunque essa sia, può infatti sempre essere aumentata di una unità, cosicché il meglio vi si confonde sempre con il più. Non se ne ha mai abbastanza, di ciò di cui si può avere sempre di più. Proprio per questo, le antiche religioni europee hanno continuamente messo in guardia contro la passione del denaro in sé, con il mito di Gullveig, il mito di Mida, il mito dell’Anello di Policrate; lo stesso “declino degli dèi” (ragnarökr) è la conseguenza di una bramosia (l “oro del Reno”).
«Corriamo il rischio», scriveva alcuni anni fa Michel Winock, «di vedere il denaro, il successo finanziario, divenire l’unico metro della considerazione sociale, l’unico scopo della vita». Siamo arrivati proprio a questo punto. Ai giorni nostri, il denaro mette tutti d’accordo. La destra ne è diventata da molto tempo la serva. La sinistra istituzionale, con il pretesto del “realismo”, ha clamorosamente aderito all’economia di mercato, ossia alla gestione liberale del capitale. Il linguaggio dell’economia è divenuto onnipresente. Il denaro è ormai il punto di passaggio obbligato di tutte le forme di desiderio che si esprimono nel registro commerciale. Il sistema del denaro, tuttavia, non durerà a lungo. Il denaro perirà attraverso il denaro, ossia attraverso l’iperinflazione, il fallimento e l’indebitamento eccessivo. Allora si capirà, forse, che si è ricchi davvero solo di ciò che si è donato.

di Alain de Benoist 

13 gennaio 2013

Per la febbre elettorale non esiste vaccino



Superate le profezie dei Maya, il Natale e pure l'ultimo dell'anno, in un'atmosfera per molti versi surreale, dove qualsiasi anelito di spirito festaiolo é stato stemperato dalla drammatica situazione  in cui versa il paese e con esso gran parte delle famiglie italiane, sembra che l'attenzione dei più sia ormai catalizzata esclusivamente dalla tornata elettorale prossima ventura.
Il debito pubblico (per quanto può valere) continua a salire, il Pil (per quanto può valere) continua a scendere, l'inflazione fa passi da gigante, i consumi crollano, la disoccupazione cresce in maniera esponenziale, la pressione fiscale diventa ogni giorno più immanente e qualsiasi dato ed analisi lascia presagire un 2013 molto peggiore dell'hannus orribilis che ci siamo lasciati alle spalle. Nonostante ciò non esiste situazione così nera da non lasciare uno spiraglio alla speranza, e proprio sulla speranza, unita ad una forte dose d'incoscienza, sembrano essere intenzionati a fare leva i nuovi e vecchi camerieri politici che aspirano ad ottenere una poltrona nel futuro parlamento.
Speranza per tutti, con in regalo confezioni famiglia di perline colorate, sembra dunque la formula scelta da qualunque candidato, per accattivarsi i favori degli italiani e ritagliarsi il ruolo di esecutore dei dettami presenti e futuri della BCE, dell'FMI, dell'Europa e di tutti i grandi poteri che ormai gestiscono in toto il destino dei cittadini.
A ben guardare la campagna elettorale del 2013, già entrata nel vivo prima ancora che l'Epifania arrivasse a portare via le feste, qualche elemento di novità rispetto al passato lo presenta senza dubbio....

In primo luogo é già stato deciso in alto loco il risultato che dovrà emergere dalle urne, se é vero che Giorgio Napolitano e le più alte cariche europee hanno dichiarato pubblicamente in maniera adamantina quali compiti sarà tenuto a svolgere il nuovo governo, qualunque esso sia. In secondo luogo i partiti destinati a scendere nell'agone elettorale non redigeranno più programmi elettorali di centinaia di pagine, infarcite di "ma anche" e "superamenti" di varia natura, ma si limiteranno a pochi semplici slogan, utili per riempire il vuoto e creare false aspettative. Per chiudere, sempre in tema di superamenti, risulta ormai defunta ogni velleità di bipolarismo ed i poli che si contenderanno la carcassa del paese saranno almeno cinque, a meno di sorprese dell'ultima ora.
Mr. Legacoop Bersani guiderà il polo di centrosinistra che incorporato Sel di Nichi Vendola viene accreditato dai sondaggi (sempre assai benevoli) di un consenso superiore al 30%. Si dichiara pronto ad abbracciare l'Europa dei banchieri e la società civile e strizza l'occhio a Mario Monti, indispensabile nel caso i risultati reali arrivino a permettergli di tentare di formare un governo.
Il Cavaliere errante di Arcore, insieme a tutto il polo di centrodestra, consapevole di avere ormai perso ogni chanches, ha scelto la strada della confusione, nel velleitario tentativo di sparigliare le carte e far dimenticare agli italiani il fatto di avere deposto il paese nelle mani dell'usuraio di Goldman Sachs. Oggi con Monti, domani contro Monti, poi ancora con Monti, offrendogli la guida del partito, poi non contro Monti ma solamente contro le sue leggi ed infine con la sua agenda, purchè lui non ci sia. Un po' tortuoso forse, ma nessuno sicuramente potrà affermare che esiste una posizione che non sia stata assunta.
L'usuraio di Goldman Sachs, conscio del fatto che la maniera migliore per tornare al governo fosse quella di connotarsi come ago della bilancia, entra nel tatrino elettorale sorretto da Casini e Fini (esili stampelle in verità), ma soprattutto dalla CEI e dai poteri forti mondiali, il che significa "buona stampa" a gogò e una discreta percentuale degli italiani disposti a sperimentare la sindrome di Stoccolma, se è vero che anche lui, come Bersani, si appella alla società civile per raccogliere il consenso.
Il movimento 5 stelle di Beppe Grillo si presenterà alle urne per la prima volta, con la concreta prospettiva d'intercettare il consenso di buona parte degli scontenti ormai guariti dalla sindrome destra vs sinistra, ma esistono forti dubbi sul fatto che voglia e sappia valorizzare lo socntento di cui sopra, anziché parcheggiarlo su un binario morto, lastricato di slogan anticasta e facili battaglie di facciata.
Antonio Di Pietro, in forte calo di presentabilità e di consensi, ha recuperato in Guatemala il collega Antonio Ingroia, per affidargli il compito di ricompattare in giro per l'Italia quel che resta della sinistra radicale e della galassia ambientalista, nella speranza (ci dovrebbe riuscire) di superare la soglia di sbarramento e riportare in parlamento Ferrero, Diliberto e molte altre icone della sinistra che alla scorsa tornata elettorale si ritrovarono fuori dei giochi. Anche Ingroia, come Bersani e Monti, cerca il consenso di quell'ectoplasma chiamato società civile, ma a differenza di loro sembra poter contare sul diritto di pescare fra i vari movimenti che si battono sul territorio. Sembra essere però partito con il piede sbagliato, praticando la pesca di frodo, dal momento che pur stando a braccetto con Di Pietro (che fu uno dei ministri che portarono avanti il TAV), strizzando l'occhio a Bersani da lui definito una brava persona ed incensando "l'amico" giudice Caselli, si é permesso di stampare sui manifesti il nome del Movimento NO TAV fra quello dei suoi sostenitori, nonostante in Val di Susa nessuno gli avesse dato il permesso di farlo o si sognasse di darglielo.
Nel prossimo mese sicuramente se ne vedranno delle belle, fra scontri in TV, sondaggi pilotati, amicizie di vecchia data messe a repentaglio e nemici indefessi che ritrovano l'amore perduto.
Ma al di là dell'effetto taumaturgico della speranza in quanto tale, come si può sperare di cambiare la qualità del desco, semplicemente scegliendo i camerieri che portano in tavola il cibo, mentre il titolare del ristorante ed i cuochi rimangono gli stessi?
Continueremo a mangiare pesce avariato, anche se fingiamo di non sentirne la puzza, convincendoci che si tratta di una prelibatezza che abbiamo scelto noi.

di Marco Cedolin 

12 gennaio 2013

Un nuovo principe per un nuovo principio nazionale



Pochi giorni di campagna elettorale sono bastati per intuire che i partiti e i candidati, vecchi e nuovisti (nuovi è parola impropria), non hanno la minima percezione della situazione reale in cui ci troviamo e giocano ai piccoli chimici per invertire la tendenza dei sondaggi, o sventolare i propri tendaggi di scena (un tempo, tali insegne si sarebbero chiamate bandiere ma, dopo la presunta fine delle ideologie, sono scomparsi i grandi confronti e non sono rimasti nemmeno i corti orizzonti, al di là del vergognoso spettacolo delle opposte tifoserie da stadio), per recuperare/incrementare consensi.
La fase politica è talmente grave che ci vorrebbe una nuova formazione politica (della quale non c’è evidenza, altro che Grillo e il suo movimento “irretito” nella rete) con le idee chiare sull’avvenire dell’Italia e sulle sorti geopolitiche del Paese, al fine di rifondare lo Stato e ridare speranza ai cittadini. E’ questo il compito storico che abbiamo di fronte, generazione di un altro Stato e dei suoi compiti, tattici e strategici, nonché riconfigurazione del corpo collettivo nazionale intorno a queste priorità epocali. I nostri sono tempi eccezionali che richiedono soluzioni straordinarie e chiunque si limiti ad amministrare l’esistente, o a cimentarsi nel piccolo cabotaggio politicistico, è complice di un sabotaggio pubblico devastante.
Anziché tutto ciò, dunque, qui si continua traccheggiare, a discutere se sia opportuno o meno imbarcare il Centro nella Sinistra, la Lega nel Centro-destra e le ali estreme dappertutto, purché in posizione di complemento, per impedire all’altro schieramento di spuntarla, in quanto se vince Bersani sarà schiavo del soviettismo (?) di Vendola, se vince Berlusconi prevarrà il razzismo leghista e storaciano, mentre, se l’ago della bilancia dovesse essere la lista “cinica” di Monti perderebbero tutti, prelati e finanzieri esclusi. Nel frattempo, restiamo incatenati all’idiozia ragionieristica di questi inetti che da vent’anni dimostrano di essere dei marziani a Roma. Costoro fanno calcoli sul vuoto che non contemplano programmi di cambiamento e piani di rigenerazione dello spirito sociale, ormai polverizzato da lustri di abusi, sotto specie di soprusi partitocratici interni e razzie speculative esterne. Insomma, la democrazia ridotta a votificio per scegliere incompetenti, la cui unica aspirazione è quella di fare le mezze maniche dell’Ue, i passacarte degli organismi internazionali, tanto politici che economici, e gli interessi della propria miserabile bottega.
Al punto in cui siamo giunti, piuttosto, dovremmo chiudere con questi principianti e ricompattarci intorno ad un “Principe figlio di un principio collettivo” che si dimostri in grado di spazzare via i parassiti da ogni sfera sociale e di ricostituire gli apparati statali, predisponendoli ai duri confronti internazionali, alle sfide globali e alle istanze autoctone che decreteranno la posizione, di subordinazione o di indipendenza (o almeno di autonomia), sullo scacchiere mondiale di ogni singolo Paese o area di Paesi, per i prossimi anni. Una sfida enorme sulla quale ci giochiamo la libertà duratura o la sottomissione permanente.
So che molti storceranno il naso nel sentir parlare di Principe e grideranno al fascismo, ma non di questo si tratta, sebbene si renderanno obbligatori atti di “potenza” e di “prepotenza” per scrollarsi di dosso i saprofiti che hanno prosciugato il sangue del popolo. La violenza sarà nelle stesse decisioni trasformative (e non in azioni d’imperio autoreferenziali, come nei dispostimi) che andranno prese per raschiare il marciume e la muffa incrostatisi, da tanti decenni, sulla vita sociale italiana.
Penso, solo per fare un esempio, all’interruzione di quell’emorragia di fondi pubblici, dirottati per lunghe annate, verso le Imprese Decotte di precedenti ondate tecnologiche (definitivamente esauritesi) e la Grande Finanza parassitaria, acciocché venisse garantita la sopravvivenza di gruppi banco-industriali in stretto collegamento con i vertici politici, che non portavano sviluppo all’Italia e sottraevano risorse per i settori più innovativi e strategici.
I veri sperperi di denaro dei contribuenti sono questi, prim’ancora delle ruberie della cosiddetta “casta” e dei trasferimenti statali ai servizi generali che costituiscono il cuore del Welfare State. Sicuramente, anche in quest’ultimo campo sono stati compiuti degli eccessi ed occorrerà razionalizzare e modernizzare ma non si può arrivare al paradosso di tagliare lo Stato Sociale, lasciando inalterate le citate regalie private, danneggiando così due volte i cittadini, prima con il foraggiamento, coi soldi di tutti, di aziende che, nonostante i sussidi non riusciranno a restare sul mercato, e poi restringendo il campo della gratuità e dell’efficienza delle prestazioni istituzionali nella sanità, nell’istruzione, nell’occupazione ecc. ecc. a svantaggio della comunità.  Quindi, finché non vi saranno Agende o dichiarazioni programmatiche che conterranno queste richieste inaggirabili, ogni discorso sarà, e delle due l’una, o una presa in giro o un friggimento di aria da parte di uomini che si danno delle arie non avendo altro nel cervello.
Tornando alla disquisizione sul Principe e chiarendone meglio il significato citeremo Antonio Gramsci, affinché si possa comprendere la portata dell’affermazione: “Il moderno principe… non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione.”
Il grande politico sardo, dunque, non concede nulla al fanatismo carismatico e leaderistico che rappresenta, al più, una reazione emotiva, di labile durata, ai drammi della fase storica, la quale, et pour cause, sfocia nella restaurazione o nella mera riorganizzazione formale degli apparati statali (soprattutto di quelli corazzati di coercizione) non risolutiva dei problemi reali. Gramsci crede, invece, in qualcosa di più consistente ed adeguato ai tempi che si esprime in maniera vasta ed organica, al fine di assicurare la rifondazione della macchina statale, poiché l’obiettivo è, appunto, quello di costruire diverse strutture nazionali e sociali adatte ad affrontare le competizioni contemporanee. Nulla a che vedere, pertanto, con le derive autoritarie che, semmai, appartengono all’attualità tecnocratica, dei tecnici ma anche dei politici. Occorre, in sostanza, rifare l’Italia con un atto creativo e originale, espressione di una volontà collettiva generata ex novo da un nuovo blocco sociale incaricatosi, per spinta d’idee, di proposte e di massa d’urto sociale, di risollevare i destini dello Stivale, percorrendo strade mai battute e facendo sue iniziative accantonate da gruppi dirigenti passivi e corrotti.
Questa volontà collettiva esiste oggi, almeno in nuce? A nostro parere sì e si intravede, seppur flebile e marginalizzata, in quei comparti che hanno resistito alla svendita del patrimonio pubblico e delle imprese strategiche, in quei segmenti della popolazione produttiva che, senza attaccarsi alla mammella pubblica, mandano avanti l’economia e lavorano, a testa bassa, nonostante le difficoltà, ai quali manca, tuttavia, la cultura politica per sentirsi protagonisti di un mutamento da perseguire. Certo, studiando meglio la struttura economica italiana, facendo l’analisi storica del passato e del presente politico, sceverando più perspicuamente la composizione del ceto medio, ora ridotto ad una categoria ripostiglio indistinta, sarà possibile trovare e, persino, inventare quelle colleganze indispensabili a far germogliare il soggetto politico di cui abbisogniamo per l’insorgenza e la risorgenza nazionale.
“Producendo” teoricamente e scovando nella prassi politica i punti di contatto, gli anelli di congiunzione tra sezioni del lavoro autonomo e dipendente, tra piccoli e medi imprenditori e tra drappelli al timone delle imprese di punta sensibili all’argomento, questa volontà nazionale forse prenderà tangibilità e sostanza.
Quelli che ci governano adesso e che si ripropongono alla guida del Belpaese sono un ostacolo alla palingenesi richiesta e non comprendono la portata delle minacce planetarie nella presente epoca multipolare. Anzi, qualcuno lavora apertamente per renderci succubi di trame “aliene” e di obblighi stranieri, che sono tali perché loro sono fiacchi ed arrendevoli. Soltanto un moderno Principe, nel senso qui accennato, ci potrà salvare.

di Gianni Petrosillo 

11 gennaio 2013

Il denaro






Beninteso, tutti preferiscono averne un po’ di più che un po’ di meno. «Il denaro non dà la felicità, ma vi contribuisce», dice l’adagio popolare. Bisognerebbe tuttavia sapere che cos’è la felicità. Nel 1905, Max Weber scriveva: «Un uomo non desidera “per natura” guadagnare sempre più denaro: vuole semplicemente vivere come è abituato a vivere e guadagnare quanto gli occorre per farlo». In seguito, numerose inchieste hanno mostrato una relativa dissociazione tra la crescita del livello di vita e quella del livello di soddisfazione degli individui: superata una certa soglia, avere di più non rende più felici. Nel 1974, i lavori di Richard Easterlin avevano stabilito che il livello medio di soddisfazione dichiarato dalle popolazioni era rimasto praticamente lo stesso dal 1945, malgrado lo spettacolare aumento della ricchezza nei Paesi sviluppati (questo “paradosso di Easterlin” è stato nuovamente confermato recentemente). Ben nota è anche l’incapacità degli indici che misurano la crescita materiale, come il PIL, di valutare il benessere reale; soprattutto sul piano collettivo, poiché non esiste una funzione dall’indiscutibile valore che permetta di associare le preferenze individuali alle preferenze sociali.
È allettante vedere nel denaro solo uno strumento di potenza. Purtroppo, il vecchio progetto di una radicale dissociazione tra il potere e la ricchezza (o si è ricchi o si è potenti) resterà ancora a lungo un sogno. Una volta si diventava ricchi perché si era potenti, oggi si è potenti perché si è ricchi. L’accumulazione del denaro è presto divenuta non il mezzo dell’espansione commerciale, come alcuni credono, ma lo scopo stesso della produzione delle merci. La Forma-Capitale non ha altro oggetto che l’illimitatezza del profitto, l’accumulazione infinita del denaro. La capacità di accumulare denaro dà evidentemente un potere discrezionale a coloro che la possiedono. La speculazione monetaria domina la governance mondiale. E il brigantaggio speculativo resta il metodo di captazione preferito dal capitalismo.
Il denaro non si confonde tuttavia con la moneta. La nascita della moneta è spiegabile con lo sviluppo dello scambio commerciale. È soltanto nello scambio, infatti, che gli oggetti acquistano una dimensione di economicità, ed è ugualmente nello scambio che il valore economico si trova dotato di una completa oggettività, perché i beni scambiati sfuggono allora alla soggettività di un unico individuo per misurarsi con la relazione esistente tra soggettività differenti. In quanto equivalente generale, la moneta è intrinsecamente unificatrice. Riportando tutti i beni a un denominatore comune, essa rende allo stesso tempo gli scambi omogenei, come già constatava Aristotele: «Tutte le cose che vengono scambiate debbono essere in qualche modo paragonabili. La moneta è stata inventata a questo scopo e diventa, in un certo senso, un intermediario, perché misura tutte le cose». Creando una prospettiva a partire dalla quale le cose più differenti possono essere valutate con un numero, la moneta le rende in qualche modo uguali: essa riporta tutte le qualità che le distinguono a una semplice logica del più e del meno. Il denaro è quel metro di misura universale che permette di assicurare l’equivalenza astratta di tutte le merci; è l’equivalente generale che riconduce tutte le qualità a una valutazione quantitativa, dato che il valore commerciale è capace solo di operare una differenziazione quantitativa.
Nello stesso tempo, però, lo scambio rende uguale anche la personalità di coloro che lo esercitano. Rivelando la compatibilità delle loro offerte e delle loro domande, instaura l’interscambiabilità dei loro desideri e, a lungo andare, l’interscambiabilità degli uomini che sono il luogo di questi desideri. «Il regno del denaro», osserva Jean-Joseph Goux, «è il regno della misura unica, a partire dalla quale tutte le cose e tutte le attività umane possono essere valutate […] Appare qui chiaramente una certa configurazione monoteistica della forma valore equivalente generale. La razionalità monetaria, fondata sull’unico metro di misura dei valori, fa sistema con una certa monovalenza teologica». Monoteismo del mercato. «Il denaro», scrive Marx, «è la merce che ha come carattere l’alienazione assoluta, perché è il prodotto dell’alienazione universale di tutte le altre merci».
Il denaro non è dunque semplicemente denaro, ma molto di più, e crederlo “neutro” sarebbe l’errore più grande. Come la scienza, la tecnica o il linguaggio, il denaro non è neutro. Già ventitré secoli fa, Aristotele osservava che «la cupidigia dell’umanità è insaziabile». “Insaziabile”, questa è la parola; non ce n’è mai abbastanza e, dato che non ce n’è mai abbastanza, non può evidentemente mai essercene troppo. Quello del denaro è un desiderio che non può mai essere soddisfatto perché si nutre di se stesso. La sua quantità, qualunque essa sia, può infatti sempre essere aumentata di una unità, cosicché il meglio vi si confonde sempre con il più. Non se ne ha mai abbastanza, di ciò di cui si può avere sempre di più. Proprio per questo, le antiche religioni europee hanno continuamente messo in guardia contro la passione del denaro in sé, con il mito di Gullveig, il mito di Mida, il mito dell’Anello di Policrate; lo stesso “declino degli dèi” (ragnarökr) è la conseguenza di una bramosia (l “oro del Reno”).
«Corriamo il rischio», scriveva alcuni anni fa Michel Winock, «di vedere il denaro, il successo finanziario, divenire l’unico metro della considerazione sociale, l’unico scopo della vita». Siamo arrivati proprio a questo punto. Ai giorni nostri, il denaro mette tutti d’accordo. La destra ne è diventata da molto tempo la serva. La sinistra istituzionale, con il pretesto del “realismo”, ha clamorosamente aderito all’economia di mercato, ossia alla gestione liberale del capitale. Il linguaggio dell’economia è divenuto onnipresente. Il denaro è ormai il punto di passaggio obbligato di tutte le forme di desiderio che si esprimono nel registro commerciale. Il sistema del denaro, tuttavia, non durerà a lungo. Il denaro perirà attraverso il denaro, ossia attraverso l’iperinflazione, il fallimento e l’indebitamento eccessivo. Allora si capirà, forse, che si è ricchi davvero solo di ciò che si è donato.

di Alain de Benoist