23 gennaio 2013

Se Berlusconi restasse senza platea

LA COSA sorprendente di questa campagna elettorale è che l'ex primo ministro, lo stesso che ha avuto a disposizione decenni di comunicazione televisiva e giornalistica, oggi torna a pretendere e ottenere un pulpito. E da esso conquisti anche larga audience. Accade poi che, grazie a quel pulpito, sembra guadagnare come decorazioni al merito, un'immagine nuova, diversa, svecchiata. Quella che doveva apparire come la più logora e stantia delle proposte politiche, d'improvviso sembra diventare, per un trucco mediatico, il nuovo che attrae. Lo si segue in televisione, si cliccano i video delle sue interviste, si resta lì, incollati allo schermo, ipnotizzati, invece di cambiare canale, per decenza. Ci dovrebbe essere un unanime "ancora lui, basta" e invece no. E ciò che tutti un anno fa credevamo sarebbe stata l'unica reazione possibile alla incredibile ricomparsa sulla scena politica di Silvio Berlusconi non si sta verificando. Una certa indignazione - naturalmente - talvolta una presa di distanza, ma non rifiuto, non rigetto. Quando Berlusconi va in tv sa esattamente cosa fare: la verità è l'ultimo dei suoi problemi, il giudizio sui suoi governi, il disastro economico, le leggi ad personam, i fatti - insomma - possono essere tranquillamente aggirati anche grazie all'inconsapevolezza dei suoi interlocutori. Il Cavaliere mette su sipari, sceneggiate, battutine. È smaliziato, non ha paura di dire fesserie, non ha paura di essere insultato, di cadere in luoghi comuni, di ripetere storielle false sulle quali è già stato smascherato. Occupa la scena. E c'è chi cade nel tranello: questo trucco da prim'attore, incredibilmente, ancora una volta crea una sorta di strana empatia, di immedesimazione. C'è chi dice: sarà anche un buffone, ma meglio lui dei sedicenti buoni. E allora sedie spolverate, segni delle manette, lavagnette in testa. Torna lui, lui che ci ha ridotti sul lastrico, lui che ha candidato chiunque, lui che ha detto tutto e il contrario di tutto ed è stato smentito mille volte. Eppure quei pulpiti diventano per lui nuove possibilità di partenza: chi vuole ostacolare questo processo già visto e già vissuto dovrebbe evitare di fare il suo gioco, di prestarsi al ruolo di spalla - come al teatro - dovrebbe impedirgli di montare e smontare sipari. Più Berlusconi va in tv, più dileggia chi gli sta di fronte, più piace. Perché sa disinnescare chi lo intervista. Non ha paura, anzi sembra divertito dalla paura degli altri. Sente l'odore del sangue dei suoi avversari e attacca. In una competizione in genere vince chi non ha nulla da perdere e lui, screditato sul piano nazionale, internazionale, politico e personale; con processi pendenti che riguardano le sue aziende e le sue abitudini privatissime; con l'impero economico che cola a picco, è l'unico vero soggetto che da questa situazione non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare. E se la sta giocando fino in fondo. Appunto, giocando. È divertito, esaltato. Berlusconi non può più essere considerato un interlocutore, chi lo fa gli dà la possibilità di mentire laddove i fatti lo hanno già condannato. Fatti politici, ancor prima che giudiziari. Più lo si fa parlare, più lo si aiuta, più si asseconda la sua pretesa alla presenza perenne, all'onnipresenza televisiva come fosse un diritto da garantire a un candidato, cosa che non è. E tutto come se prima di questo momento non avesse mai avuto la possibilità di farci conoscere le sue idee e i suoi programmi. Come se non avesse avuto modo di esprimersi, da primo ministro, sui temi che oggi sta affrontando spacciandosi da outsider, da nuovo che avanza, da nuovo che sgomita e lotta per riconquistare lo spazio che gli è dovuto. Ha avuto una maggioranza che gli avrebbe consentito di poter modificare le leve e cambiare tutto. E non lo ha fatto. Ha solo legittimato quel "liberi tutti" fatto di evasione e deresponsabilizzazione che ha reso il nostro paese un paese povero. Povero di infrastrutture, povero di risorse, povero di speranza e invivibile per la maggior parte degli italiani. Anche per chi Berlusconi lo ha votato, anche per chi in lui si è riconosciuto. E allora smettiamola di prenderlo sul serio, smettiamola di ridere alle sue battute per tremare poi all'idea che possa riconquistare terreno. Trattiamolo piuttosto per quello che è: un bambino di settantasei anni. Quando i bambini esagerano con le parolacce, con i capricci, i genitori li ignorano, fingono di non aver sentito. È l'unico modo perché il bambino perda il gusto della provocazione. La stessa cosa dovremmo fare con lui: farlo parlare, ma senza prestargli attenzione. Evitiamo i sorrisi alle sue battute stantie, perché non possa più ostentare sicurezza davanti ai suoi, perché non possa più spacciare la falsa tesi secondo cui i politici sono tutti uguali. Non sarò mai per la censura: Berlusconi ovviamente deve parlare in tv - certo dovrebbe farlo nelle regole sempre infrante della par condicio - come tutti i leader delle coalizioni. Siamo noi che dobbiamo smetterla di giocare con lui. Lasciamolo senza platea. di ROBERTO SAVIANO

22 gennaio 2013

Populismo

Come il “comunitarismo”, il “populismo” è diventato oggi una parola per nascondere di tutto. Ne è prova il fatto che personaggi molto differenti tra loro come Nicolas Sarkosy, Ségolène Royl, Georges Marchais, Jean –Luc Mélenchon, Bernard Tapie, José Bové, Marine Le Pen, Christophe Blocher, Jörg Haider, Geert Wlider, Silvio Berlusconi, ma anche Mao Zedong, Mussolini, Juan Peron, Getùlio Vargas, Fidel castro, il colonnello Gedhafi, Umberto Bossi, Ahmed Ahmadinejad, Luis Inàcio”Lula” da Silva o Hugo Chàvez si sono visti attribuire questa etichetta. “La parola è dovunque, la sua definizione da nessuna parte” diceva qualche mese fa lo storico Phlippe Roger. “ Semplicemente noi non disponiamo di niente che assomigli ad una teoria del populismo”, aggiungeva il politologo Jean-Werner Mueller: Cerchiamo dunque almeno di definire questo termine in un modo più rigoroso di quanto lo si faccia d’abitudine. L’emergenza del “populismo” è certamente anzitutto il segnale di una crisi, in occasione di una disfunzione della democrazia, i cui sintomi più evidenti sono stati descritti parecchie volte: discredito dell’intera classe politica, aumento dell’astensionismo, voti di pura protesta, fossato che si scava tra “l’alto e il basso”, sentimento comune di uno spodestamento dei valori democratici. Interrogati nell’autunno 2005, su come percepivano la classe politica, il 71% dei francesi dichiara di avere una cattiva opinione della loro classe dirigente, il 76% afferma di non avere fiducia, il 49% la giudica addirittura corrotta. Secondo un altro sondaggio, più recente, sette francesi su dieci circa dichiarano di non avere “ fiducia né nella destra né nella sinistra”. si tratta dunque di un discredito di massa, che tocca anzitutto le persone, ma che si estende anche alle istituzioni. I cittadini non hanno fiducia nella capacità d’azione di una classe politica che non cessa di presentare come possibili da raggiungere degli obiettivi che essa non raggiunge mai, e il suo atteggiamento più comune oscilla tra il disinteresse e il rifiuto, l’astensione o l’opposizione sistematica. Un altro sondaggio del 2006 dimostra ancora che 6 francesi su 10 non arrivano più a differenziare la destra dalla sinistra. È evidentemente una conseguenza della rifocalizzazione dei programmi dei partiti, risultato di un consenso implicito sulle finalità sociali che lega tra di loro i principali partiti e impedisce ogni messa in discussione del sistema. Convinti che le elezioni “ si vincono al centro” – secondo la teoria dell’”elettore moderato” sviluppata dal politologo Anthony Downs – i grandi partiti non hanno smesso di rifocalizzare i loro discorsi per convincere gli elettori incerti. Le posizioni “di destra” e “di sinistra” sono così diventate sempre di più indistinguibili e questo ha rafforzato l’idea di una complicità oggettiva delle élites ( la “banda dei quattro” diceva Jean –Marie Le Pen, la coalizione “UMPS” secondo la figlia). Improvvisamente l’alternativa (sostituita dalla semplice alternanza) diventa impossibile ed un numero crescente di elettori hanno la sensazione che il sistema politico è cifrato in anticipo affinché possano vincere solo coloro di cui è certo che non cambieranno niente del sistema. Noi siamo dunque, come hanno già constatato molti osservatori, davanti ad una crisi evidente della rappresentanza Questo può condurci ad interrogarci sui limiti della democrazia rappresentativa, ma anche sui rapporti che esistono tra la democrazia e rappresentanza. Il concetto di rappresentanza appare all’inizio del Medioevo, epoca in cui si forma all’interno del diritto pubblico sotto l’influenza del diritto privato. A partire dal XVIII secolo tale concetto diviene un elemento chiave per il funzionamento dei regimi “liberali rappresentativi”. Montesquieu è uno dei primi a difendere l’idea , ripresa in seguito mille volte, secondo la quale il popolo, pur non in grado di decidere da solo, è di fatto capace di scegliere i propri rappresentanti. Rousseau ha difeso, si sa, la tesi contraria a quella di Montesquieu. Difensore del mandato imperativo, egli sostiene che un popolo non possa che perdere la propria sovranità dal momento in cui se ne priva a vantaggio dei rappresentanti. Da allora in poi quasi tutte le democrazie occidentali sono state democrazie rappresentative, costituzionali, parlamentari e liberali. Ora, la rappresentanza è, per essenza, un sistema oligarchico, dal momento che essa sfocia necessariamente nella formazione di un gruppo dominante, i cui membri si coalizzano tra di loro per difendere a priori i loro interessi. La sfiducia del popolo deriva oggi dal fatto che non si sente più rappresentato da coloro che pretendono di parlare a nome suo, essendo costoro anzi accusati di non cercare altro che mantenere i propri privilegi e servire ai propri interessi particolari. Si è così scavato un fossato tra le élites ed il popolo, un fossato ideologico e sociologico che non cessa di allargarsi. Il divario tra la classe politica e l’elettorato rappresenta un problema soprattutto per la sinistra che, nel passato, aveva sempre preteso di rappresentare più della destra le aspirazioni del popolo.Ma oggi la sinistra si è progressivamente distaccata dal popolo.Gli intellettuali di sinistra hanno abbandonato le speranze messianiche che poco tempo fa essi riponevano nella classe operaia, mentre le élites politiche sempre di più per disprezzo di classe hanno perso il contatto con l’ambiente popolare. Esattamente come la destra, la sinistra si è installata nelle classi medie superiori, quando non è nell’apparato statale. Aderendo all’economia di mercato, privilegiando le rivendicazioni marginali a discapito di coloro che sono maggiormente minacciati dalla disoccupazione e dalla insicurezza sociale, offrendo lo spettacolo di un’élite installata nella scena mediatica, essa ha profondamente deluso coloro ai quali aveva presunto di dare la precedenza. II parte Allo stesso modo, la crescita di una cultura di sinistra d’ispirazione edonistico-libertaria ha contribuito a separare i partiti di sinistra dagli strati popolari, che hanno assistito con stupore alla formazione di una sinistra mondana e arrogante, più incline a difendere l”omogenitorialità”, l”arte contemporanea”, i diritti delle minoranze, il “politicamente corretto”, che a difendere gli interessi della classe operaia. La “gente” ha così preso il posto del popolo. Eletta dalla mondializzazione, si è installata una nuova classe politico-mediatica, che unisce, all’interno di una medesima situazione elitaria di potere e di apparenza, dirigenti politici, uomini d’affari e rappresentanti dei media, tutti intimamente legati gli uni agli altri, tutti convinti della pericolosità delle aspirazioni popolari. L’adesione al Fronte nazionale di una larga parte della vecchia classe operaia ha giocato a tale proposito un ruolo decisivo: Ha permesso alla sinistra parlamentare di ripudiare il popolo col prestesto che “pensava male”, mentre un antirazzismo di convenienza le permetteva di nascondere le proprie derive ideologiche. L’ “antilepenismo (Jean-Marie Le Pen è l'ex presidente del partito di estrema destra Fronte nazionale) ha preso il posto dell’anticapitalismo, prezioso alibi per giustificare di aver messo in secondo piano la questione sociale nel momento stesso in cui essa risorgeva con una forza sconosciuta dal periodo dei 30 anni di forte crescita ( dal 1945 al 1973) Nell’ultima elezione presidenziale, in base ad un sondaggio Ipsos, Marine Le Pen (figlia di Jean-Marie Le Pen) ha sedotto circa un terzo dell’elettorato operaio. Il voto operaio a favore della sinistra ( il voto di classe), scontato dal dopo guerra alla fine degli anni settanta, è scomparso. Progressivamente numerosi operai sono passati al Fronte nazionale, in particolare i nati a partire dal 1960, più colpiti dai problemi dell’immigrazione e della disoccupazione . Queste generazioni hanno vissuto la cristallizzazione di una frattura prodotta dalla mondializzazione nel gioco politico francese, allo stesso modo in cui i gruppi operai del periodo tra le due guerre avevano vissuto la cristallizzazione della frattura di classe. Ricordiamo anche che in occasione del referendum sul progetto di trattato costituzionale europeo il 60% dei giovani, l’80% degli operai e il 60% degli impiegati, così come la maggioranza dei salariati, hanno votato no; il sì era maggioritario solo presso l’alta borghesia, i quadri superiori e i pensionati. Ciò non significa che gli operai costituiscano la maggioranza dell’elettorato del Fronte Nazionale ( ne rappresentano circa il 13%), ma la presenza del mondo del lavoro all’interno di questo elettorato ha contribuito in modo indelebile a squalificare il popolo agli occhi delle élites. Da qui deriva la questione posta da Annie Collovad: “Il populismo del fronte Nazionale non potrebbe essere il segno di una nuova congiuntura intellettuale e politica nella quale le élites politiche d’oggi non vedono più nei gruppi popolari una causa da difendere, bensì un “popolo senza classe” diventato un problema da risolvere?” Regolarmente definito come “irrazionale” ( preferisce gli attori politici fuori dal sistema dei partiti, non vota come gli si dice di fare) e sensibile alle tesi “autoritarie”, cosa che spiegherebbe la sua tendenza ad affidarsi ai attivi pastori, il popolo può essere rappresentato come pericoloso, grossolano, incolto, come un segmento di popolazione composto da “buoi” che non riescono a liberarsi dai loro pregiudizi arcaici, anacronistici, e incapaci di mettersi al passo con la prospettiva di una “mondializzazione felice”. Diviene così evidente, sia che il popolo non sa ciò che vuole, sia , quando esso fa sapere di volere qualcosa, che non è il caso di tenerne conto. È dunque inutile parlare con lui prima di parlare a nome suo. Ed è soprattutto pericolo consultarlo, dal momento che non vota mai come ci si aspetta che faccia. è per questo che sotto il termine di “populismo” si tende oggi a riunire, per meglio mantenerne le distanze, tutte le forme di secessione riguardo al consenso dominante. Un tale modo di fare, scrive Jacques Rancière, “ nasconde e al medesimo tempo rivela il grande desiderio dell’oligarchia: governare senza il popolo”. Chi oggi parla del popolo si espone necessariamente al rimprovero di “populismo”: Divenuto oggi un’ingiuria politica, accusato di risvegliare le cattive inclinazioni delle classi popolari, utile alle classi dirigenti per stigmatizzare quanti rimproverano loro di aver confiscato il potere a proprio vantaggio, il populismo è presentato in una prospettiva insieme peggiorativa e screditante, con lo scopo, come ha ben osservato Alexandre Dorna, di “gettarlo fuori dalla storia, come se si trattasse di un fenomeno senza radici né vere cause”. L’idea di fondo è che sarebbe sufficiente di far sparire il popolo – o di cambiarlo – per sbarazzarsi del populismo! La parola “populismo” compare nel 1929 negli scritti di André Thérive e Léon Lemonnier per designare una nuova scuola letteraria ( il primo premio populista fu attribuito a Eugène Dabit per l’opera Hotel du Nord). Ma il populismo, in quanto fenomeno politico , è di gran lunga anteriore. È in Russia e negli stati Uniti che si devono ricercare le radici, all’interno dei movimenti che, nell’uno e nell’altro caso, cercavano di smuovere i gruppi più deboli contro le élites del momento. I narodniki (“gente del popolo”) della Russia zarista volevano avvicinarsi al popolo per ritrovare una comunità perduta e proponevano la nascita di un sistema di economia socialista agraria. Nello stesso periodo, alla fine del XIX secolo, il populismo americano indica un movimento principalmente rurale. Di fronte ai prezzi proibitivi che un accesso privilegiato al potere pubblico ha permesso alle compagnie ferroviarie di imporsi, i populisti spingono per un ritorno alle sorgenti della democrazia americana. Il populismo appare dunque chiaramente a sinistra, anche se questo populismo di sinistra è sempre stato ostile all’ideologia del progresso ( ciò spiega l’ostilità dei bolscheviki nei confronti dei narodniki russi). Da questo punto di vista, lo storico Michel Vinock non ha torto a scrivere: “ Il populismo non è specificamente di estrema destra. La parola designa una fiducia nel popolo che si ritrova nei discorsi di Robespierre o negli scritti di Michelet”. Ma il populismo supera di fatto tutte le fratture. è ciò che constata Christophe Guily, autore del saggio Fractures françaisess, quando fa osservare che oggi “ la frattura non è più tanto tra la sinistra e la destra quanto tra le classi dominanti, indifferentemente di destra e di sinistra, e le classi popolari.” Questo spiega anche il fato che il populismo sia stato criticato sia dalla destra che dalla sinistra. III Parte La democrazia liberale si richiama al popolo, ma ha sempre fatto moltissima fatica a tollerare che le classi popolari si interessino alla politica. Dei teorici liberali come Jones o Seymour Martin Lipset incoraggiano l’astensione ( che ha sempre un significato politico) e persino l’apatia politica, col pretesto che serve di più lasciare agli esperti e a “coloro che sanno” la preoccupazione di condurre le questioni pubbliche. Il problema è che, in queste condizioni, le democrazie si trasformano in oligarchie “formattate” dal “pensiero unico”, con la conseguenza che il popolo è obbligato a constatare che i risultati ottenuti sono poco brillanti.. Quanto alla sinistra, che ha a lungo ricusato questo atteggiamento, si ü a sua volta separata nettamente dal popolo, fissandosi su riforme “societali” che non interessano se non a minoranze, recitando la “preferenza straniera”, e perfino tenendo a distanza le classi sociali “pericolose” reputate tanto incapaci di riflettere quanto imprevedibili. Pierre-André Taguieff denuncia così “l’illusione populista, Dominique Reynié vi vede da parte sua una “china fatale”, mentre altri intellettuali di posizioni molto diverse, da Christopher Lasch a Ernesto Laclau, propongono al contrario un approccio più sfumato. Il primo errore da non commettere quando si parla di populismo è quello di ricercare in esso un’ideologia. La diversità degli uomini politici che sono stati tacciati di populismo, la polisemia del termine ( nazional –populismo, populismo di sinistra, populismo liberale, etc.) dimostrano che il populismo non è un’ideologia. Il politologo e filosofo argentino Ernesto Laclau ritiene a ragione che si tratti di un termine “neutro”. Il populismo non ha contenuto, ma è uno stile – e questo stile si può adattare a quasi tutti i discorsi politici. Il secondo errore è quello d’analizzare il populismo in termini di “demagogia”. Per numerosi osservatori, il leader populista è semplicemente un demagogo. Il populismo semplificherebbe i problemi attraverso la demagogia e questa demagogia risveglierebbe o cristallizzerebbe gli istinti cattivi del popolo. Pierre-André Tguieff definisce il populismo come la “ forma assunta dalla demagogia nelle società contemporanee”. Questa critica non è sempre sbagliata: c’è una grande differenza tra pretendere di parlare in nome del popolo e impegnarsi a dare al popolo i mezzi per potersi esprimere da solo.ma questa visione dimentica che la demagogia delle élites val bene quella dei populisti e che la demagogia è anzitutto l’arte di governare adulando il popolo. Ridurre il populismo a demagogia significa di fatto fraintendere l’essenziale, ossia la nozione stessa di popolo. Come scrive Vincent Coussedière, “ se la scienza politica e dietro di lei i discorsi critici e mediatici cercano di ridurre il populismo a una forma di demagogia. è perché non dispongono di un concetto di popolo che permetterebbe di mettere veramente a fuoco il fenomeno.” Ora, “non c’è politica senza popolo, né popolo senza politica”. Il popolo, aggiunge Coussedière, è una “realtà vivente il cui essere insieme è politico (…) L’essere insieme populista è un essere che reagisce al posto vuoto della direzione politica. Corrisponde a quel momento della vita delle democrazie in cui il popolo si mette a malincuore a fare politica, poiché è demoralizzato dall’atteggiamento dei governanti che non ne fanno più”. Si sa che il concetto di popolo può essere inteso come ethnos ( popolo come origine e storia ) o come demos ( in senso politico) o come classe sfruttata. Il populismo prende spesso queste tre accezioni, che mescola in proporzioni variabili. Se rinvia ad una base social specifica ( le classi popolari alleate alle classi medie), esso rappresenta ugualmente una forma d’immagine politica in cui il popolo è anzitutto concepito come radunato. Questo perché tende a dimenticare l’importanza del pluralismo all’interno della società, cose che gli rimprovera la destra liberale, e anche quella della lotta di classe, cosa che gli viene rimproverata dall’estrema sinistra. Il popolo si definisce in primo luogo per una socievolezza comune, della quale Aristotele faceva il fondamento della philia politikè, l’amicizia politica. È necessario distinguere l’amicizia politica dal “societale”, che non è la sociabilità prodotta dalla macchina dello Stato- Provvidenza. Questa sociabilità comune tuttavia non può essere ricondotta neppure a una “identità” più o meno fantasma. È il risultato di “imitazione-consuetudine” che è al medesimo tempo l’essenza del legame sociale e la base delle tradizioni, e che permette ai cittadini di fare l’esperimento di ciò che essi hanno in comune. “Il populismo – scrive ancora Vincent Coussedière – è l’espressione del conservatorismo del popolo e del suo attaccamento all’imitazione-consuetudine, al di fuori di ogni forma partitica definitiva.. Il populismo è il partito dei conservatori che non hanno partito”. “Il populismo – conclude Coussedière – è un momento in cui il popolo lotta per la sua sopravvivenza riscoprendo la solidarietà del suo essere sociale e del suo essere politico. Volendo conservare la sua sciabilità, il popolo riscopre la necessità della politica come condizione e come rafforzamento di essa. Il momento populista è quello in cui questa politica non esiste o contribuisce, al contrario, a distruggere l’essere-insieme del popolo. IL populismo è l’aspirazione non ancora realizzata a ritrovare questa politica che permette al popolo di continuare ad essere un popolo”. È “entrata in campo di un popolo contro le sue élites, avendo compreso che queste lo conducono verso l’abisso. Idealizzazione del popolo? Può essere il caso. ma l’idea che “il popolo non è mai corrotto” non deve essere mal interpretata. Il popolo può essere ingannato, manipolato. Nonostante questo, anche in circostanze del genere, non dimentica che “ci sono delle cose che non si fanno”, convinzione che non si ritrova nelle classi superiori o borghesi. E soprattutto, il popolo sa molto bene riconoscere quando i suoi dirigenti non governano conformemente a ciò che percepisce come bene, ovvero le condizioni che gli permettono di rimanere se stesso. Il popolo constata che oggi la politica è soffocata dall’economia, la morale, il giuridismo delle procedure e l’espertocrazia. Il popolo chiede un ritorno del politico, dato che è solo politicamente che può esistere in quanto popolo. Il popolo si oppone dunque alla dottrina tecnocratica di Saint-Simon secondo la quale “bisogna sostituire il governo degli uomini con l’amministrazione delle cose”. Interrogarsi sul populismo non significa solo interrogarsi sulla legittimità delle rivendicazioni popolari, ma anche sulla ragione d’essere della sovranità popolare, che è il fondamento dei regimi democratici. E sussidiariamente significa darsi i mezzi per analizzare lo “smantellamento del popolo politico francese”, cominciato ormai da mezzo secolo. di Alain de Benoist

21 gennaio 2013

In arrivo dagli Usa una valanga di debiti!

L’accordo di capo d’anno per scongiurare che il fantomatico “fiscal cliff” potesse portare ad uno choc fiscale, alla recessione e al blocco del bilancio dello stato federale Usa, non è una vittoria della stabilità. Dovrebbe invece essere considerato un rischio ulteriore di instabilità per il resto del mondo, in primis per l’Europa. L’evento ha una valenza tutta americana, molto importante per i giochi di potere interni. Sancisce però una politica complessivamente fallimentare, sia dei democratici che dei repubblicani, nella gestione della finanza. Si sono trovati i 600 miliardi di dollari necessari per evitare, almeno sulla carta, che alcune spese per il welfare vengano automaticamente bloccate e alcune agevolazioni fiscali siano cancellate. In realtà l’accordo “partorisce” un aumento del debito per ben 4.000 miliardi di dollari nel prossimo decennio!. La stima non è fornita da una qualche fucina ideologica neoliberista anti Obama, bensì dal prestigioso e indipendente Congressional Budget Office. Come noto, il Cbo è un’istituzione finanziata dal Congresso per analizzare i costi delle politiche di bilancio. Il suo direttore viene nominato congiuntamente dai presidenti della Camera e del Senato. L’attuale direttore, Douglas Elmendorf è stato scelto nel gennaio 2009 quando entrambi i presidenti erano democratici. Il “fiscal cliff” quindi non è la vera emergenza finanziaria americana. Si è trattato piuttosto di un “preparativo” psicologico. La vera emergenza che gli Usa devono affrontare è invece lo sfondamento del tetto del debito pubblico! A fine anno infatti il debito pubblico americano ha raggiunto il “ceiling”, cioè il tetto massimo stabilito dalla legge finanziaria di bilancio che è di 16.400 miliardi di dollari, equivalente al 103% del Pil. Sarebbe dovuto bastare fino al 30 settembre 2013, cioè fino alla scadenza del bilancio annuale. Ma così non sarà. Che succederà adesso? Fino a settembre di fatto non c’è copertura per le spese di bilancio, per tutte le spese. Il ministro del Tesoro Tim Geithner ha detto che il suo Ministero ha già raggiunto il limite dei prestiti possibili e ha affermato che possono trovarsi “altri mezzi per raccogliere fondi per pagare il debito” per un periodo massimo di 6-8 settimane. Al di là dei trucchetti contabili, il dato è che gli Usa sarebbero tecnicamente già in default!. Una situazione simile si era già creata nell’agosto del 2011, quando il bilancio federale era stato prosciugato e mancavano i soldi per i pagamenti dei dipendenti pubblici, dei fornitori, degli assegni di disoccupazione, delle pensioni, ecc. Allora, come si ricorderà, si decise di alzare il tetto del debito pubblico di ben 2.000 miliardi di dollari! In poco più di un anno però questi fondi sono stati “bruciati” senza significativi effetti per l’economia americana. Certo sì evitato l’immediato aumento della disoccupazione e della povertà ma non si è rimesso in moto l’economia. Sono mancate una vera strategia di ripresa della produzione e degli investimenti e una più giusta riforma fiscale. In sintesi, al di là delle note schermaglie ideologiche, gli Usa, sia il governo Obama che il Congresso nel suo insieme, si stanno muovendo verso un ulteriore aumento del debito pubblico. Nulla di nuovo sotto il cielo. Infatti la politica di crescita del debito e della liquidità è quella che da anni porta avanti la Federal Reserve di Ben Bernanke. Il suo bilancio (balance sheet) è passato da 869 miliardi del 2007 a 2.880 miliardi del 2012. Ben 2/3 dei titoli del Tesoro americano che arrivano sul mercato vengono comprati dalla Fed. Dopo aver deciso lo scorso settembre l’acquisto di mortgage-backed securities, quei titoli tossici legati ai mutui subprime, per 40 miliardi di dollari ogni mese, la Fed a novembre ha deciso di acquistare mensilmente 45 miliardi di dollari di bond del Tesoro e di altre obbligazioni simili a lungo termine e in cambio di vendere i ben più appetibili titoli a breve scadenza in suo possesso. E’ un altro bel regalo al sistema bancario americano! Queste decisioni non potranno che produrre uno choc per l’intero sistema finanziario mondiale. I paesi emergenti lo dicono da tempo denunciando i riverberi negativi sulle loro economie e sulle loro monete. In questo scenario l’Europa è spiazzata. In un sistema globalizzato, dove la finanza opera per vasi comunicanti, i governi europei si sono ingessati con il “fiscal compact”, mentre gli Usa alzano a piacere il tetto del loro debito pubblico. Inoltre, in un sistema bancario senza riforme, le banche americane sono agevolate dalle politiche della Fed, mentre quelle europee sono compresse dai parametri richiesti da Basilea III. Purtroppo in Europa c’è chi irresponsabilmente chiede di fare come negli Usa. Secondo noi, invece, queste ricette sono disastrose. Non ci sono scorciatoie, né serve l’illusione psicologica di chi vuol vedere “la luce alla fine del tunnel”. Occorre affrontare insieme e alla radice le cause della crisi globale e rimuoverle, senza nasconderle come si continua a fare. di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

23 gennaio 2013

Se Berlusconi restasse senza platea

LA COSA sorprendente di questa campagna elettorale è che l'ex primo ministro, lo stesso che ha avuto a disposizione decenni di comunicazione televisiva e giornalistica, oggi torna a pretendere e ottenere un pulpito. E da esso conquisti anche larga audience. Accade poi che, grazie a quel pulpito, sembra guadagnare come decorazioni al merito, un'immagine nuova, diversa, svecchiata. Quella che doveva apparire come la più logora e stantia delle proposte politiche, d'improvviso sembra diventare, per un trucco mediatico, il nuovo che attrae. Lo si segue in televisione, si cliccano i video delle sue interviste, si resta lì, incollati allo schermo, ipnotizzati, invece di cambiare canale, per decenza. Ci dovrebbe essere un unanime "ancora lui, basta" e invece no. E ciò che tutti un anno fa credevamo sarebbe stata l'unica reazione possibile alla incredibile ricomparsa sulla scena politica di Silvio Berlusconi non si sta verificando. Una certa indignazione - naturalmente - talvolta una presa di distanza, ma non rifiuto, non rigetto. Quando Berlusconi va in tv sa esattamente cosa fare: la verità è l'ultimo dei suoi problemi, il giudizio sui suoi governi, il disastro economico, le leggi ad personam, i fatti - insomma - possono essere tranquillamente aggirati anche grazie all'inconsapevolezza dei suoi interlocutori. Il Cavaliere mette su sipari, sceneggiate, battutine. È smaliziato, non ha paura di dire fesserie, non ha paura di essere insultato, di cadere in luoghi comuni, di ripetere storielle false sulle quali è già stato smascherato. Occupa la scena. E c'è chi cade nel tranello: questo trucco da prim'attore, incredibilmente, ancora una volta crea una sorta di strana empatia, di immedesimazione. C'è chi dice: sarà anche un buffone, ma meglio lui dei sedicenti buoni. E allora sedie spolverate, segni delle manette, lavagnette in testa. Torna lui, lui che ci ha ridotti sul lastrico, lui che ha candidato chiunque, lui che ha detto tutto e il contrario di tutto ed è stato smentito mille volte. Eppure quei pulpiti diventano per lui nuove possibilità di partenza: chi vuole ostacolare questo processo già visto e già vissuto dovrebbe evitare di fare il suo gioco, di prestarsi al ruolo di spalla - come al teatro - dovrebbe impedirgli di montare e smontare sipari. Più Berlusconi va in tv, più dileggia chi gli sta di fronte, più piace. Perché sa disinnescare chi lo intervista. Non ha paura, anzi sembra divertito dalla paura degli altri. Sente l'odore del sangue dei suoi avversari e attacca. In una competizione in genere vince chi non ha nulla da perdere e lui, screditato sul piano nazionale, internazionale, politico e personale; con processi pendenti che riguardano le sue aziende e le sue abitudini privatissime; con l'impero economico che cola a picco, è l'unico vero soggetto che da questa situazione non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare. E se la sta giocando fino in fondo. Appunto, giocando. È divertito, esaltato. Berlusconi non può più essere considerato un interlocutore, chi lo fa gli dà la possibilità di mentire laddove i fatti lo hanno già condannato. Fatti politici, ancor prima che giudiziari. Più lo si fa parlare, più lo si aiuta, più si asseconda la sua pretesa alla presenza perenne, all'onnipresenza televisiva come fosse un diritto da garantire a un candidato, cosa che non è. E tutto come se prima di questo momento non avesse mai avuto la possibilità di farci conoscere le sue idee e i suoi programmi. Come se non avesse avuto modo di esprimersi, da primo ministro, sui temi che oggi sta affrontando spacciandosi da outsider, da nuovo che avanza, da nuovo che sgomita e lotta per riconquistare lo spazio che gli è dovuto. Ha avuto una maggioranza che gli avrebbe consentito di poter modificare le leve e cambiare tutto. E non lo ha fatto. Ha solo legittimato quel "liberi tutti" fatto di evasione e deresponsabilizzazione che ha reso il nostro paese un paese povero. Povero di infrastrutture, povero di risorse, povero di speranza e invivibile per la maggior parte degli italiani. Anche per chi Berlusconi lo ha votato, anche per chi in lui si è riconosciuto. E allora smettiamola di prenderlo sul serio, smettiamola di ridere alle sue battute per tremare poi all'idea che possa riconquistare terreno. Trattiamolo piuttosto per quello che è: un bambino di settantasei anni. Quando i bambini esagerano con le parolacce, con i capricci, i genitori li ignorano, fingono di non aver sentito. È l'unico modo perché il bambino perda il gusto della provocazione. La stessa cosa dovremmo fare con lui: farlo parlare, ma senza prestargli attenzione. Evitiamo i sorrisi alle sue battute stantie, perché non possa più ostentare sicurezza davanti ai suoi, perché non possa più spacciare la falsa tesi secondo cui i politici sono tutti uguali. Non sarò mai per la censura: Berlusconi ovviamente deve parlare in tv - certo dovrebbe farlo nelle regole sempre infrante della par condicio - come tutti i leader delle coalizioni. Siamo noi che dobbiamo smetterla di giocare con lui. Lasciamolo senza platea. di ROBERTO SAVIANO

22 gennaio 2013

Populismo

Come il “comunitarismo”, il “populismo” è diventato oggi una parola per nascondere di tutto. Ne è prova il fatto che personaggi molto differenti tra loro come Nicolas Sarkosy, Ségolène Royl, Georges Marchais, Jean –Luc Mélenchon, Bernard Tapie, José Bové, Marine Le Pen, Christophe Blocher, Jörg Haider, Geert Wlider, Silvio Berlusconi, ma anche Mao Zedong, Mussolini, Juan Peron, Getùlio Vargas, Fidel castro, il colonnello Gedhafi, Umberto Bossi, Ahmed Ahmadinejad, Luis Inàcio”Lula” da Silva o Hugo Chàvez si sono visti attribuire questa etichetta. “La parola è dovunque, la sua definizione da nessuna parte” diceva qualche mese fa lo storico Phlippe Roger. “ Semplicemente noi non disponiamo di niente che assomigli ad una teoria del populismo”, aggiungeva il politologo Jean-Werner Mueller: Cerchiamo dunque almeno di definire questo termine in un modo più rigoroso di quanto lo si faccia d’abitudine. L’emergenza del “populismo” è certamente anzitutto il segnale di una crisi, in occasione di una disfunzione della democrazia, i cui sintomi più evidenti sono stati descritti parecchie volte: discredito dell’intera classe politica, aumento dell’astensionismo, voti di pura protesta, fossato che si scava tra “l’alto e il basso”, sentimento comune di uno spodestamento dei valori democratici. Interrogati nell’autunno 2005, su come percepivano la classe politica, il 71% dei francesi dichiara di avere una cattiva opinione della loro classe dirigente, il 76% afferma di non avere fiducia, il 49% la giudica addirittura corrotta. Secondo un altro sondaggio, più recente, sette francesi su dieci circa dichiarano di non avere “ fiducia né nella destra né nella sinistra”. si tratta dunque di un discredito di massa, che tocca anzitutto le persone, ma che si estende anche alle istituzioni. I cittadini non hanno fiducia nella capacità d’azione di una classe politica che non cessa di presentare come possibili da raggiungere degli obiettivi che essa non raggiunge mai, e il suo atteggiamento più comune oscilla tra il disinteresse e il rifiuto, l’astensione o l’opposizione sistematica. Un altro sondaggio del 2006 dimostra ancora che 6 francesi su 10 non arrivano più a differenziare la destra dalla sinistra. È evidentemente una conseguenza della rifocalizzazione dei programmi dei partiti, risultato di un consenso implicito sulle finalità sociali che lega tra di loro i principali partiti e impedisce ogni messa in discussione del sistema. Convinti che le elezioni “ si vincono al centro” – secondo la teoria dell’”elettore moderato” sviluppata dal politologo Anthony Downs – i grandi partiti non hanno smesso di rifocalizzare i loro discorsi per convincere gli elettori incerti. Le posizioni “di destra” e “di sinistra” sono così diventate sempre di più indistinguibili e questo ha rafforzato l’idea di una complicità oggettiva delle élites ( la “banda dei quattro” diceva Jean –Marie Le Pen, la coalizione “UMPS” secondo la figlia). Improvvisamente l’alternativa (sostituita dalla semplice alternanza) diventa impossibile ed un numero crescente di elettori hanno la sensazione che il sistema politico è cifrato in anticipo affinché possano vincere solo coloro di cui è certo che non cambieranno niente del sistema. Noi siamo dunque, come hanno già constatato molti osservatori, davanti ad una crisi evidente della rappresentanza Questo può condurci ad interrogarci sui limiti della democrazia rappresentativa, ma anche sui rapporti che esistono tra la democrazia e rappresentanza. Il concetto di rappresentanza appare all’inizio del Medioevo, epoca in cui si forma all’interno del diritto pubblico sotto l’influenza del diritto privato. A partire dal XVIII secolo tale concetto diviene un elemento chiave per il funzionamento dei regimi “liberali rappresentativi”. Montesquieu è uno dei primi a difendere l’idea , ripresa in seguito mille volte, secondo la quale il popolo, pur non in grado di decidere da solo, è di fatto capace di scegliere i propri rappresentanti. Rousseau ha difeso, si sa, la tesi contraria a quella di Montesquieu. Difensore del mandato imperativo, egli sostiene che un popolo non possa che perdere la propria sovranità dal momento in cui se ne priva a vantaggio dei rappresentanti. Da allora in poi quasi tutte le democrazie occidentali sono state democrazie rappresentative, costituzionali, parlamentari e liberali. Ora, la rappresentanza è, per essenza, un sistema oligarchico, dal momento che essa sfocia necessariamente nella formazione di un gruppo dominante, i cui membri si coalizzano tra di loro per difendere a priori i loro interessi. La sfiducia del popolo deriva oggi dal fatto che non si sente più rappresentato da coloro che pretendono di parlare a nome suo, essendo costoro anzi accusati di non cercare altro che mantenere i propri privilegi e servire ai propri interessi particolari. Si è così scavato un fossato tra le élites ed il popolo, un fossato ideologico e sociologico che non cessa di allargarsi. Il divario tra la classe politica e l’elettorato rappresenta un problema soprattutto per la sinistra che, nel passato, aveva sempre preteso di rappresentare più della destra le aspirazioni del popolo.Ma oggi la sinistra si è progressivamente distaccata dal popolo.Gli intellettuali di sinistra hanno abbandonato le speranze messianiche che poco tempo fa essi riponevano nella classe operaia, mentre le élites politiche sempre di più per disprezzo di classe hanno perso il contatto con l’ambiente popolare. Esattamente come la destra, la sinistra si è installata nelle classi medie superiori, quando non è nell’apparato statale. Aderendo all’economia di mercato, privilegiando le rivendicazioni marginali a discapito di coloro che sono maggiormente minacciati dalla disoccupazione e dalla insicurezza sociale, offrendo lo spettacolo di un’élite installata nella scena mediatica, essa ha profondamente deluso coloro ai quali aveva presunto di dare la precedenza. II parte Allo stesso modo, la crescita di una cultura di sinistra d’ispirazione edonistico-libertaria ha contribuito a separare i partiti di sinistra dagli strati popolari, che hanno assistito con stupore alla formazione di una sinistra mondana e arrogante, più incline a difendere l”omogenitorialità”, l”arte contemporanea”, i diritti delle minoranze, il “politicamente corretto”, che a difendere gli interessi della classe operaia. La “gente” ha così preso il posto del popolo. Eletta dalla mondializzazione, si è installata una nuova classe politico-mediatica, che unisce, all’interno di una medesima situazione elitaria di potere e di apparenza, dirigenti politici, uomini d’affari e rappresentanti dei media, tutti intimamente legati gli uni agli altri, tutti convinti della pericolosità delle aspirazioni popolari. L’adesione al Fronte nazionale di una larga parte della vecchia classe operaia ha giocato a tale proposito un ruolo decisivo: Ha permesso alla sinistra parlamentare di ripudiare il popolo col prestesto che “pensava male”, mentre un antirazzismo di convenienza le permetteva di nascondere le proprie derive ideologiche. L’ “antilepenismo (Jean-Marie Le Pen è l'ex presidente del partito di estrema destra Fronte nazionale) ha preso il posto dell’anticapitalismo, prezioso alibi per giustificare di aver messo in secondo piano la questione sociale nel momento stesso in cui essa risorgeva con una forza sconosciuta dal periodo dei 30 anni di forte crescita ( dal 1945 al 1973) Nell’ultima elezione presidenziale, in base ad un sondaggio Ipsos, Marine Le Pen (figlia di Jean-Marie Le Pen) ha sedotto circa un terzo dell’elettorato operaio. Il voto operaio a favore della sinistra ( il voto di classe), scontato dal dopo guerra alla fine degli anni settanta, è scomparso. Progressivamente numerosi operai sono passati al Fronte nazionale, in particolare i nati a partire dal 1960, più colpiti dai problemi dell’immigrazione e della disoccupazione . Queste generazioni hanno vissuto la cristallizzazione di una frattura prodotta dalla mondializzazione nel gioco politico francese, allo stesso modo in cui i gruppi operai del periodo tra le due guerre avevano vissuto la cristallizzazione della frattura di classe. Ricordiamo anche che in occasione del referendum sul progetto di trattato costituzionale europeo il 60% dei giovani, l’80% degli operai e il 60% degli impiegati, così come la maggioranza dei salariati, hanno votato no; il sì era maggioritario solo presso l’alta borghesia, i quadri superiori e i pensionati. Ciò non significa che gli operai costituiscano la maggioranza dell’elettorato del Fronte Nazionale ( ne rappresentano circa il 13%), ma la presenza del mondo del lavoro all’interno di questo elettorato ha contribuito in modo indelebile a squalificare il popolo agli occhi delle élites. Da qui deriva la questione posta da Annie Collovad: “Il populismo del fronte Nazionale non potrebbe essere il segno di una nuova congiuntura intellettuale e politica nella quale le élites politiche d’oggi non vedono più nei gruppi popolari una causa da difendere, bensì un “popolo senza classe” diventato un problema da risolvere?” Regolarmente definito come “irrazionale” ( preferisce gli attori politici fuori dal sistema dei partiti, non vota come gli si dice di fare) e sensibile alle tesi “autoritarie”, cosa che spiegherebbe la sua tendenza ad affidarsi ai attivi pastori, il popolo può essere rappresentato come pericoloso, grossolano, incolto, come un segmento di popolazione composto da “buoi” che non riescono a liberarsi dai loro pregiudizi arcaici, anacronistici, e incapaci di mettersi al passo con la prospettiva di una “mondializzazione felice”. Diviene così evidente, sia che il popolo non sa ciò che vuole, sia , quando esso fa sapere di volere qualcosa, che non è il caso di tenerne conto. È dunque inutile parlare con lui prima di parlare a nome suo. Ed è soprattutto pericolo consultarlo, dal momento che non vota mai come ci si aspetta che faccia. è per questo che sotto il termine di “populismo” si tende oggi a riunire, per meglio mantenerne le distanze, tutte le forme di secessione riguardo al consenso dominante. Un tale modo di fare, scrive Jacques Rancière, “ nasconde e al medesimo tempo rivela il grande desiderio dell’oligarchia: governare senza il popolo”. Chi oggi parla del popolo si espone necessariamente al rimprovero di “populismo”: Divenuto oggi un’ingiuria politica, accusato di risvegliare le cattive inclinazioni delle classi popolari, utile alle classi dirigenti per stigmatizzare quanti rimproverano loro di aver confiscato il potere a proprio vantaggio, il populismo è presentato in una prospettiva insieme peggiorativa e screditante, con lo scopo, come ha ben osservato Alexandre Dorna, di “gettarlo fuori dalla storia, come se si trattasse di un fenomeno senza radici né vere cause”. L’idea di fondo è che sarebbe sufficiente di far sparire il popolo – o di cambiarlo – per sbarazzarsi del populismo! La parola “populismo” compare nel 1929 negli scritti di André Thérive e Léon Lemonnier per designare una nuova scuola letteraria ( il primo premio populista fu attribuito a Eugène Dabit per l’opera Hotel du Nord). Ma il populismo, in quanto fenomeno politico , è di gran lunga anteriore. È in Russia e negli stati Uniti che si devono ricercare le radici, all’interno dei movimenti che, nell’uno e nell’altro caso, cercavano di smuovere i gruppi più deboli contro le élites del momento. I narodniki (“gente del popolo”) della Russia zarista volevano avvicinarsi al popolo per ritrovare una comunità perduta e proponevano la nascita di un sistema di economia socialista agraria. Nello stesso periodo, alla fine del XIX secolo, il populismo americano indica un movimento principalmente rurale. Di fronte ai prezzi proibitivi che un accesso privilegiato al potere pubblico ha permesso alle compagnie ferroviarie di imporsi, i populisti spingono per un ritorno alle sorgenti della democrazia americana. Il populismo appare dunque chiaramente a sinistra, anche se questo populismo di sinistra è sempre stato ostile all’ideologia del progresso ( ciò spiega l’ostilità dei bolscheviki nei confronti dei narodniki russi). Da questo punto di vista, lo storico Michel Vinock non ha torto a scrivere: “ Il populismo non è specificamente di estrema destra. La parola designa una fiducia nel popolo che si ritrova nei discorsi di Robespierre o negli scritti di Michelet”. Ma il populismo supera di fatto tutte le fratture. è ciò che constata Christophe Guily, autore del saggio Fractures françaisess, quando fa osservare che oggi “ la frattura non è più tanto tra la sinistra e la destra quanto tra le classi dominanti, indifferentemente di destra e di sinistra, e le classi popolari.” Questo spiega anche il fato che il populismo sia stato criticato sia dalla destra che dalla sinistra. III Parte La democrazia liberale si richiama al popolo, ma ha sempre fatto moltissima fatica a tollerare che le classi popolari si interessino alla politica. Dei teorici liberali come Jones o Seymour Martin Lipset incoraggiano l’astensione ( che ha sempre un significato politico) e persino l’apatia politica, col pretesto che serve di più lasciare agli esperti e a “coloro che sanno” la preoccupazione di condurre le questioni pubbliche. Il problema è che, in queste condizioni, le democrazie si trasformano in oligarchie “formattate” dal “pensiero unico”, con la conseguenza che il popolo è obbligato a constatare che i risultati ottenuti sono poco brillanti.. Quanto alla sinistra, che ha a lungo ricusato questo atteggiamento, si ü a sua volta separata nettamente dal popolo, fissandosi su riforme “societali” che non interessano se non a minoranze, recitando la “preferenza straniera”, e perfino tenendo a distanza le classi sociali “pericolose” reputate tanto incapaci di riflettere quanto imprevedibili. Pierre-André Taguieff denuncia così “l’illusione populista, Dominique Reynié vi vede da parte sua una “china fatale”, mentre altri intellettuali di posizioni molto diverse, da Christopher Lasch a Ernesto Laclau, propongono al contrario un approccio più sfumato. Il primo errore da non commettere quando si parla di populismo è quello di ricercare in esso un’ideologia. La diversità degli uomini politici che sono stati tacciati di populismo, la polisemia del termine ( nazional –populismo, populismo di sinistra, populismo liberale, etc.) dimostrano che il populismo non è un’ideologia. Il politologo e filosofo argentino Ernesto Laclau ritiene a ragione che si tratti di un termine “neutro”. Il populismo non ha contenuto, ma è uno stile – e questo stile si può adattare a quasi tutti i discorsi politici. Il secondo errore è quello d’analizzare il populismo in termini di “demagogia”. Per numerosi osservatori, il leader populista è semplicemente un demagogo. Il populismo semplificherebbe i problemi attraverso la demagogia e questa demagogia risveglierebbe o cristallizzerebbe gli istinti cattivi del popolo. Pierre-André Tguieff definisce il populismo come la “ forma assunta dalla demagogia nelle società contemporanee”. Questa critica non è sempre sbagliata: c’è una grande differenza tra pretendere di parlare in nome del popolo e impegnarsi a dare al popolo i mezzi per potersi esprimere da solo.ma questa visione dimentica che la demagogia delle élites val bene quella dei populisti e che la demagogia è anzitutto l’arte di governare adulando il popolo. Ridurre il populismo a demagogia significa di fatto fraintendere l’essenziale, ossia la nozione stessa di popolo. Come scrive Vincent Coussedière, “ se la scienza politica e dietro di lei i discorsi critici e mediatici cercano di ridurre il populismo a una forma di demagogia. è perché non dispongono di un concetto di popolo che permetterebbe di mettere veramente a fuoco il fenomeno.” Ora, “non c’è politica senza popolo, né popolo senza politica”. Il popolo, aggiunge Coussedière, è una “realtà vivente il cui essere insieme è politico (…) L’essere insieme populista è un essere che reagisce al posto vuoto della direzione politica. Corrisponde a quel momento della vita delle democrazie in cui il popolo si mette a malincuore a fare politica, poiché è demoralizzato dall’atteggiamento dei governanti che non ne fanno più”. Si sa che il concetto di popolo può essere inteso come ethnos ( popolo come origine e storia ) o come demos ( in senso politico) o come classe sfruttata. Il populismo prende spesso queste tre accezioni, che mescola in proporzioni variabili. Se rinvia ad una base social specifica ( le classi popolari alleate alle classi medie), esso rappresenta ugualmente una forma d’immagine politica in cui il popolo è anzitutto concepito come radunato. Questo perché tende a dimenticare l’importanza del pluralismo all’interno della società, cose che gli rimprovera la destra liberale, e anche quella della lotta di classe, cosa che gli viene rimproverata dall’estrema sinistra. Il popolo si definisce in primo luogo per una socievolezza comune, della quale Aristotele faceva il fondamento della philia politikè, l’amicizia politica. È necessario distinguere l’amicizia politica dal “societale”, che non è la sociabilità prodotta dalla macchina dello Stato- Provvidenza. Questa sociabilità comune tuttavia non può essere ricondotta neppure a una “identità” più o meno fantasma. È il risultato di “imitazione-consuetudine” che è al medesimo tempo l’essenza del legame sociale e la base delle tradizioni, e che permette ai cittadini di fare l’esperimento di ciò che essi hanno in comune. “Il populismo – scrive ancora Vincent Coussedière – è l’espressione del conservatorismo del popolo e del suo attaccamento all’imitazione-consuetudine, al di fuori di ogni forma partitica definitiva.. Il populismo è il partito dei conservatori che non hanno partito”. “Il populismo – conclude Coussedière – è un momento in cui il popolo lotta per la sua sopravvivenza riscoprendo la solidarietà del suo essere sociale e del suo essere politico. Volendo conservare la sua sciabilità, il popolo riscopre la necessità della politica come condizione e come rafforzamento di essa. Il momento populista è quello in cui questa politica non esiste o contribuisce, al contrario, a distruggere l’essere-insieme del popolo. IL populismo è l’aspirazione non ancora realizzata a ritrovare questa politica che permette al popolo di continuare ad essere un popolo”. È “entrata in campo di un popolo contro le sue élites, avendo compreso che queste lo conducono verso l’abisso. Idealizzazione del popolo? Può essere il caso. ma l’idea che “il popolo non è mai corrotto” non deve essere mal interpretata. Il popolo può essere ingannato, manipolato. Nonostante questo, anche in circostanze del genere, non dimentica che “ci sono delle cose che non si fanno”, convinzione che non si ritrova nelle classi superiori o borghesi. E soprattutto, il popolo sa molto bene riconoscere quando i suoi dirigenti non governano conformemente a ciò che percepisce come bene, ovvero le condizioni che gli permettono di rimanere se stesso. Il popolo constata che oggi la politica è soffocata dall’economia, la morale, il giuridismo delle procedure e l’espertocrazia. Il popolo chiede un ritorno del politico, dato che è solo politicamente che può esistere in quanto popolo. Il popolo si oppone dunque alla dottrina tecnocratica di Saint-Simon secondo la quale “bisogna sostituire il governo degli uomini con l’amministrazione delle cose”. Interrogarsi sul populismo non significa solo interrogarsi sulla legittimità delle rivendicazioni popolari, ma anche sulla ragione d’essere della sovranità popolare, che è il fondamento dei regimi democratici. E sussidiariamente significa darsi i mezzi per analizzare lo “smantellamento del popolo politico francese”, cominciato ormai da mezzo secolo. di Alain de Benoist

21 gennaio 2013

In arrivo dagli Usa una valanga di debiti!

L’accordo di capo d’anno per scongiurare che il fantomatico “fiscal cliff” potesse portare ad uno choc fiscale, alla recessione e al blocco del bilancio dello stato federale Usa, non è una vittoria della stabilità. Dovrebbe invece essere considerato un rischio ulteriore di instabilità per il resto del mondo, in primis per l’Europa. L’evento ha una valenza tutta americana, molto importante per i giochi di potere interni. Sancisce però una politica complessivamente fallimentare, sia dei democratici che dei repubblicani, nella gestione della finanza. Si sono trovati i 600 miliardi di dollari necessari per evitare, almeno sulla carta, che alcune spese per il welfare vengano automaticamente bloccate e alcune agevolazioni fiscali siano cancellate. In realtà l’accordo “partorisce” un aumento del debito per ben 4.000 miliardi di dollari nel prossimo decennio!. La stima non è fornita da una qualche fucina ideologica neoliberista anti Obama, bensì dal prestigioso e indipendente Congressional Budget Office. Come noto, il Cbo è un’istituzione finanziata dal Congresso per analizzare i costi delle politiche di bilancio. Il suo direttore viene nominato congiuntamente dai presidenti della Camera e del Senato. L’attuale direttore, Douglas Elmendorf è stato scelto nel gennaio 2009 quando entrambi i presidenti erano democratici. Il “fiscal cliff” quindi non è la vera emergenza finanziaria americana. Si è trattato piuttosto di un “preparativo” psicologico. La vera emergenza che gli Usa devono affrontare è invece lo sfondamento del tetto del debito pubblico! A fine anno infatti il debito pubblico americano ha raggiunto il “ceiling”, cioè il tetto massimo stabilito dalla legge finanziaria di bilancio che è di 16.400 miliardi di dollari, equivalente al 103% del Pil. Sarebbe dovuto bastare fino al 30 settembre 2013, cioè fino alla scadenza del bilancio annuale. Ma così non sarà. Che succederà adesso? Fino a settembre di fatto non c’è copertura per le spese di bilancio, per tutte le spese. Il ministro del Tesoro Tim Geithner ha detto che il suo Ministero ha già raggiunto il limite dei prestiti possibili e ha affermato che possono trovarsi “altri mezzi per raccogliere fondi per pagare il debito” per un periodo massimo di 6-8 settimane. Al di là dei trucchetti contabili, il dato è che gli Usa sarebbero tecnicamente già in default!. Una situazione simile si era già creata nell’agosto del 2011, quando il bilancio federale era stato prosciugato e mancavano i soldi per i pagamenti dei dipendenti pubblici, dei fornitori, degli assegni di disoccupazione, delle pensioni, ecc. Allora, come si ricorderà, si decise di alzare il tetto del debito pubblico di ben 2.000 miliardi di dollari! In poco più di un anno però questi fondi sono stati “bruciati” senza significativi effetti per l’economia americana. Certo sì evitato l’immediato aumento della disoccupazione e della povertà ma non si è rimesso in moto l’economia. Sono mancate una vera strategia di ripresa della produzione e degli investimenti e una più giusta riforma fiscale. In sintesi, al di là delle note schermaglie ideologiche, gli Usa, sia il governo Obama che il Congresso nel suo insieme, si stanno muovendo verso un ulteriore aumento del debito pubblico. Nulla di nuovo sotto il cielo. Infatti la politica di crescita del debito e della liquidità è quella che da anni porta avanti la Federal Reserve di Ben Bernanke. Il suo bilancio (balance sheet) è passato da 869 miliardi del 2007 a 2.880 miliardi del 2012. Ben 2/3 dei titoli del Tesoro americano che arrivano sul mercato vengono comprati dalla Fed. Dopo aver deciso lo scorso settembre l’acquisto di mortgage-backed securities, quei titoli tossici legati ai mutui subprime, per 40 miliardi di dollari ogni mese, la Fed a novembre ha deciso di acquistare mensilmente 45 miliardi di dollari di bond del Tesoro e di altre obbligazioni simili a lungo termine e in cambio di vendere i ben più appetibili titoli a breve scadenza in suo possesso. E’ un altro bel regalo al sistema bancario americano! Queste decisioni non potranno che produrre uno choc per l’intero sistema finanziario mondiale. I paesi emergenti lo dicono da tempo denunciando i riverberi negativi sulle loro economie e sulle loro monete. In questo scenario l’Europa è spiazzata. In un sistema globalizzato, dove la finanza opera per vasi comunicanti, i governi europei si sono ingessati con il “fiscal compact”, mentre gli Usa alzano a piacere il tetto del loro debito pubblico. Inoltre, in un sistema bancario senza riforme, le banche americane sono agevolate dalle politiche della Fed, mentre quelle europee sono compresse dai parametri richiesti da Basilea III. Purtroppo in Europa c’è chi irresponsabilmente chiede di fare come negli Usa. Secondo noi, invece, queste ricette sono disastrose. Non ci sono scorciatoie, né serve l’illusione psicologica di chi vuol vedere “la luce alla fine del tunnel”. Occorre affrontare insieme e alla radice le cause della crisi globale e rimuoverle, senza nasconderle come si continua a fare. di Mario Lettieri e Paolo Raimondi