27 marzo 2013

Crisi di Sistema





 

Un sistema che ha fondato la sua esistenza sullo spreco, sul degrado e sulla commercializzazione di beni superflui e di infima qualità, era destinato a implodere. Questa, del mondo occidentale, non è una semplice crisi, ma la fine di un’epoca. Il gran numero di disoccupati e di precari in continuo aumento, è il logico risultato di un tipo di lavoro, privo di fondamentali e, quindi, di regole certe.

Per usare una metafora, paragonerei il Sistema Liberista Relativista ad una fabbrica di bolle di sapone. La gente, ingannata per decenni e abbindolata dalla seduzione della modernità e da una massiccia propaganda mediatica totalitaria (che ha speculato sui bisogni, fragilità, paure e debolezze), troppo tardi ha compreso il valore effimero delle bolle di sapone. L’inganno è stato totale e ha prodotto un becero relativismo, che ha fatto piazza pulita di ogni valore etico e morale, omologando gli individui e codificandoli come semplici consumatori. Piano piano il grande imbroglio sta venendo a galla, e così la rabbia dei truffati, che esploderà in tutta la sua potenza, quando quella che oggi é definita una crisi assumerà le sembianze dell’apocalisse. L’avvelenamento delle acque e dell’aria, erano parametri sufficienti per rendersi conto di quale cammino era stato intrapreso, e indicatori della loro potenzialità distruttiva. Con che spudoratezza tutto questo è stato definito progresso e benessere? Se, per fare un esempio, oggi tutti gli automobilisti di Milano rispettassero alla lettera il codice della strada, questa città, già invivibile e caotica, si bloccherebbe all’istante. Può sembrare un assurdo ma è proprio grazie a chi elude e infrange le regole che, oggi, miracolosamente il traffico continua a scorrere, e le casse del comune ad ingrassarsi a dismisura.

Lo stesso principio e meccanismo vale anche per l’economia del nostro paese (il Sistema) che se dovesse attenersi a regole ferree e pene certe, imploderebbe in una settimana. Se i cittadini di un qualsiasi paese occidentale poi, in virtù di un risparmio ragionevole e doveroso, si astenessero dal consumare beni effimeri, contraffatti e voluttuari, orientandosi su quelli primari, durevoli e di prima necessità, il Sistema, che oggi ci governa e che ci opprime, si squaglierebbe come neve al sole. Sentire ancora parlare di ricerca, di crescita e sviluppo e delle semplificazioni relative al fare impresa, come le inderogabili soluzioni alla crisi, sarebbe come rendere libera la pesca epurando il suo regolamento da licenze, normative e divieti, quando oramai di pesci nel mare non ce ne sono più. Avremmo dovuto investire le nostre energie in un prudente dialogo con la madre terra, rispettandone le sue logiche e regole imperiture. E’ stata umiliata la natura e mortificato il lavoro dei campi, adducendone un significato distorto, di inciviltà, di miseria e ignoranza. Abbiamo voluto sfidare le nostre vere ragioni, come alieni, venuti da un’altra galassia, ma presto la terra ci ripagherà con la stessa moneta, per averla infamata e violentata.

Solo recuperando i valori e i doveri di un passato luminoso, oggi soppiantati dal perverso consumismo della Bestia Liberista, potremo intravedere un futuro fra le nere nubi che si addensano all’orizzonte, ma il prezzo da pagare sarà di sangue, di paura e di follia. Per tutti questi motivi, “la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società, è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. Una tale disperazione, avvolge il mio paese da molto tempo.”


di Gianni Tirelli 

26 marzo 2013

Democrazia senza partiti





marco revelli 20130323



«Non può esserci democrazia funzionante senza il canale dei partiti. Nessuna nuova o più vitale democrazia può nascere dalla demonizzazione dei partiti». Con queste parole, pronunciate al Teatro Toniolo di Mestre nel settembre del 2012, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è fatto interprete di un timore largamente diffuso tra le classi dirigenti: il rapporto tra democrazie e forma-partito sarebbe sul punto di rompersi definitivamente. A tutto svantaggio, sostiene Napolitano, della democrazia. È davvero così? Marco Revelli insegna Scienza della politica all’Università del Piemonte orientale e ha da poco pubblicato un libro, Finale di partito(Einaudi, pagine 138, euro 19), in cui affronta la questione collocandola in un passaggio d’epoca ben più radicale – il pieno ingresso in una società post industriale – senza il quale ogni “pro” e ogni “contro” i partiti rischia di rimanere una sterile petizione di principio.
Una caratteristiche della nostra società è che gli individui si fidano sempre meno gli uni degli altri, perché stentano a riconoscersi. Finita l’era dell’ottimismo – ottimismo tecnologico, fede nel progresso o nel mercato –  le  basi materiali della fiducia si sono sgretolate e la caduta generale del legame ha inevitabilmente toccato anche il rapporto tra cittadini e partiti. È una crisi che spinge non pochi analisti a una facile equazione: più si abbassa il livello di fiducia nei partiti, più cresce la passività tra i cittadini. La crisi della fiducia sarebbe quindi il vettore di ciò che impropriamente viene chiamato “populismo” o tacciato di “antipolitica”. Lei come legge la situazione dentro questo quadro generale di défiance
Marco Revelli: La caduta del legame di fiducia è clamorosa e oramai conclamata. La fiducia nei partiti, in Italia, tocca livelli parossistici e non supera il 5 per cento. Questo significa che solo un cittadino ogni venti crede ancora nella possibilità di un’azione concretamente democratica condotta attraverso i partiti politici. Questa crisi di fiducia nei partiti rischia di intaccare anche la fiducia nelle istituzioni che, relativamente al Parlamento, si attesta su un misero 8 per cento. Comprendiamo subito che in una democrazia parlamentare come la nostra, laddove il Parlamento dovrebbe essere il vero sovrano, il sovrano è in realtà completamente sfiduciato. Fenomeno che in Italia, come detto, tocca livelli parossistici, ma è generale ed esteso a tutto l’Occidente. Negli anni Sessanta e Settanta, nonostante fossero anni di contestazione, di lotte sociali e di conflitti, la fiducia nelle istituzioni era altissima e toccava picchi del 70 per cento. Il mondo è cambiato ma troppo spesso chi ragiona “di” politica e “in” politica non registra questo cambiamento. Avverte il disagio, si accorge che le cose non funzionano ma come se ci si fosse allontanati da un modello che prima o dopo potrebbe riprendere funzionare: la democrazia dei partiti. Al contrario, quel modello è finito. Finito come è finita la grande impresa: come non possiamo illuderci che a Mirafiori tornino a lavorare cinquantamila operai, così non possiamo pensare che tornino i grandi partiti di massa. I partiti erano grandi fabbriche del consenso. Queste fabbriche non funzionano più, così come non funzionerebbero più le vecchie fabbriche di automobili. Dobbiamo cercare di capire come si riassesta la politica dopo questa mutazione genetica dei suoi protagonisti e dei suoi soggetti. Soggetti che, beninteso, non scompaiono ma i partiti di oggi hanno una parentela lontanissima con i loro progenitori.  
Negli scenari futuri è possibile quindi una prospettiva di democrazia senza partiti?
Marco Revelli: Abbiamo conosciuto una fase specifica della democrazia dei moderni, quella della seconda metà del Novecento. Una fase che si caratterizzava per un modello democratico il cui protagonista principale e quasi esclusivo era il partito politico. Gramsci lo definì «il moderno principe» e difatti il partito sembrava il soggetto destinato a occupare quasi per intero la nostra modernità politica. In realtà, sappiamo che la democrazia – e anche la democrazia dei moderni sorta dopo la Rivoluzione del 1789 – è nata ben prima dei partiti. Prima esistevano certamente gruppi di notabili, raggruppamenti di individui ma ciò che tecnicamente chiamiamo “partito” non esisteva. Sottolineerei che persino un pezzo di Italia liberale tardo ottocentesca non conosceva i partiti strutturati come li abbiamo conosciuti col partito di massa. Sono stati i partiti socialisti e i partiti cattolico-popolari che hanno introdotto quella forma nella politica. Questo è il contesto. La fine di questo modello non significa tout court fine della democrazia e il passaggio a una forma autoritaria o dittatoriale Ciò a cui assistiamo non è la pura e semplice estinzione di ogni forma di partito che lascerà spazio solo a una terra incognita abitata da individui da un lato e istituzioni dall’altro. È casomai una metamorfosi: i partiti non scompaiono di punto in bianco, ma diventano una cosa diversa da ciò che avevamo in precedenza conosciuto. La stessa cosa accadde con la fine del fordismo, ossia della grande industria centralizzata e organizzata secondo rigidi schemi interni. La fine dell’organizzazione fordista del lavoro non ha portato alla scomparsa delle imprese. Imprese che, semplicemente, hanno assunto una forma e un modello di organizzazione completamente diversi rispetto al modello fordista che prevedeva una tutela “dalla culla alla tomba”. Ricordiamoci che c’erano scuole materne, colonie estive, modelli di socializzazione che crescevano tutto attorno alla grande fabbrica della città forsista. Allo stesso modo, attorno ai partiti era tutto un fiorire di iniziative e istituzioni, diciamo così, “pedagogiche”. C’erano addirittura le edizioni  di partito –dagli Editori Riuniti alle edizioni delle Cinque lune -, le riviste teoriche in cui si svolgevano dibattiti di alto profilo culturale, ma soprattutto la gente frequentava le sezioni e lì si formava. Magari si formava male, perché c’erano forme di dogmatismo o di fideismo o di spirito gregario e conformismo. Però, pur in questo quadro critico e spesso criticabile, il partito aveva una struttura solida e con oligarchie ben formate. Su questo punto, osserverei che ci sono anche studiosi che leggono la trasformazione in atto in termini positivi. Il pubblico, secondo questa lettura, sarebbe scolarizzato, dotato di strumenti autonomi per la formazione delle proprie opinioni e non dipende più dalla “casa madre”. Il ruolo pedagogico del partito è stato superato e un pubblico dotato di una maggiore autonomia critica si informa altrove, magari in rete. 
Un secolo fa, Roberto Michels pubblicava la sua Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie, il primo studio su quello che al tempo era ancora un oggetto misterioso: il partito politico. Michels, che partiva da posizioni di sinistra, ribadiva la sua convinzione che le organizzazioni fossero sottoposte a una “legge ferrea dell’oligarchia”. In sintesi: la naturale evoluzione di ogni partito politico condurrebbe da una struttura all’origine a aperta a una oligarchia. Lei dedica un capitolo del suo libro all’analisi di questa legge ferrea nel contesto post-industriale e post-fordista. Crede sia ancora attuale una lettura “élitista” del partito politico?
Marco Revelli: Michels aveva ben presente il modello “pesante” di partito della socialdemocrazia tedesca. Un modello plasmato sul modello organizzativo della burocrazia statale e di quella della grande fabbrica della produzione di massa. L’analisi delle oligarchie condotta da Michels si basava su questo dato di fatto e sulla netta distinzione tra governanti e governati. Il rapporto oligarchico, però, molto spesso si basava sulla fiducia dei subalterni. Una fiducia conquistata sul campo: ricordiamoci che molti leader avevano patito l’esilio o la prigione. Oggi le oligarchie non sono più legittimate da un rapporto di fedeltà stabile. Esattamente come le imprese si sono ramificate e delocalizzate in filiere lunghe nei territori e al tempo stesso si sono concentrate in alto, con vertici globali e incontrollabili da chiunque (persino dagli azionisti, non solo dai dipendenti), così i partiti si sono trasformati in strutture più leggere simili a aggregati di gruppi di potere, spesso caratterizzati da logiche affaristiche, che galleggiano su un elettorato liquido e non più caratterizzato da una fedeltà di lungo periodo. Questo elettorato sceglie quasi giorno per giorno  a chi dare il proprio consenso, seguendo logiche sempre più mediatiche.  
Stiamo andando quindi verso una “democrazia del pubblico”? In tal caso, pssiamo davvero parlare di passività civico-politica dei cittadini o siamo anche qui ci troviamo davanti a fenomeni in evoluzione continua e asimmetrica (fenomeni che difficilmente entrano o entreranno nelle griglie concettuali in cui li si vorrebbe racchiudere)?
Marco Revelli: È una lettura. Questo pubblico è in grado di trarre da se stesso le risposte ai propri problemi e, quindi, è anche più critico e ragiona su temi come i beni comuni, l’ambiente, il territorio, la viabilità, i problemi etici. Un pubblico che si forma delle proprie opinioni e poi va a vedere a quale offerta politica indirizzarsi. Spesso, però, l’offerta politica è qualitativamente inferiore alla domanda e la cultura dei politici di professione è inferiore a quella dei loro elettori. Ecco allora che il rapporto si rompe e cresce una forma di disprezzo da parte di un elettorato più consapevole nei confronti di una classe politica più inconsapevole. C’è poi una seconda lettura, di origine francese. Pierre Rosanvallon propone di chiamare “controdemocrazia” una democrazia diversa da quella dei partiti, per nulla “antipolitica”, dove elettorato che non si illude più di poter governare attraverso i propri rappresentanti cerca di porre un argine, attestandosi su una linea difensiva. In sostanza, se non ci possiamo più aspettare che i nostri governanti ci rappresentino, possiamo però difenderci da loro. I politici di professione sono visti come nemici potenziali che con le loro decisioni possono danneggiarci. È una sorta di democrazia giudiziaria, dove i cittadini cercano una tutela giurisdizionale contro in ceto politico di potenziali criminali. Dentro questa logica – il «dobbiamo difenderci dai rischi che arrivano dall’alto» – c’è sicuramente un pezzo di populismo.  
Populismo, antipolitica e, concetto che lei richiama più volte nella sua analisi, subpolitica.
Marco Revelli: Più che di antipolitica, ci troviamo spesso di fronte a forme nuove di pratica politica in un contesto di democrazia mutato, proprio perché non più mediato dai partiti. Smetterei di usare il termine in modo spregiativo, perché rischiamo di non capire nulla rispetto ai processi in atto.  subpolitica è invece un concetto introdotto da Ulrich Beck, non per sminuire il valore di quest’altra politica, ma per sottolinearne il carattere basilare.
Che cos’è, dunque, la subpolitica?
Marco Revelli: È la politica della vita, il luogo dove si affrontano i problemi che riguardano la sopravvivenza degli uomini: i grandi problemi etici, il problema degli stili di vita, il problema del consumo energetico, i beni comuni. Su questi temi la politica dei partiti non ha molto da dire. Al massimo – pensiamo al referendum sul nucleare – subisce il problema. I recenti referendum hanno mostrato che 27 milioni di italiani sono andati a votare fuori dagli schemi di partito, ma soprattutto hanno dimostrato che una certa forma della politica, quella che vorrebbe ancora il partito al centro della scena, è anacronistica e inefficace.  
Grillo sembra molto avanti, rispetto a quelli che lo contestano. Al contempo è molto indietro, rispetto a dove vorremmo essere. Secondo lei è antipolitica o subpolitica nel senso da lei richiamato?
Marco Revelli: Grillo non è un fenomeno folcloristico. I protagonisti della politica partitica lo trattano con sufficienza come se fosse folclore. Grillo è un sintomo, non certo la causa della crisi e proprio per questo va preso con estrema attenzione. Ha sicuramente tratti populistici, ma nella prevalenza è questa politica nuova che sgorga e cerca le sue forme, Starei attento, molto attento a questo secondo aspetto.
Movimento e adesso “comunità”.  Nel suo comizio in Val di Susa, il 14 febbraio scorso, Beppe Grillo ha dichiarato infatti: «Siamo una comunità, qui c’è un sentimento». Non sembrano parole dette a caso.
Marco Revelli: «Comunità», parola magica, di cui c’è estremamente bisogno. Bisogna però intendersi su questo desiderio di comunità. Gran parte del nostro disagio esistenziale è legato al nostro desiderio di comunità. Una comunità terribilmente assente. Siamo spaesati perché la nostra voglia di vivere in comune con gli altri, la nostra “comunanza” è venuta meno. Diciamocelo sinceramente, se vogliamo andare al di là degli aspetti della cronaca e della statistica, dobbiamo ammettere che la crisi dei partiti si inserisce in una più generale crisi dell’Occidente, che è poi crisi del nostro stile di vita. Crisi epocale che attraversa tutti i livelli, arrivando persino a lambire persino la Chiesa. Una crisi che – mi e vi chiedo – non ha forse a che fare con questo cedimento strutturale dei meccanismi di produzione di senso condiviso? Si sono inceppati i meccanismi di produzione di un noi,  nel passaggio dalla solitudine di un “io” a alla condivisione di un “noi”. Un’apocalisse del senso che rende vuoti tutti i troni, da quelli secolari fino a quelli spirituali. I luoghi si sono dissolti nei flussi. È un horror vacui, quello che ci coglie. Proprio perché si avverte che la rottura di questi meccanismi di produzione di un senso condiviso ricade in termini di una conflittualità molecolare. Non ci sono più conflitti che organizzano il campo, ma una diffusa competitività aggressiva che rende inoperanti tutti i meccanismi di decisione collettiva e ha colpito, in particolare, i partiti. Ma non solo i partiti. Non è diverso per i sindacati, non è diverso per le imprese e non è diverso per la Chiesa.
Le apocalissi del consenso sono conseguenza di apocalissi del senso. Non abbiamo ancora capito come e se si condenseranno le molecole di questo sistema senza più legami.
Marco Revelli: Non ci sono più legami forti, solo legami deboli. La gestione dei legami deboli è di fatto un problema, soprattutto di fronte a un’antropologia e a un’identità modificata dai consumi. Ricordiamo che il consumismo è stato un grande virus che ha avvelenato i pozzi, quando  gli investimenti di identità si sono trasferiti sugli stili di consumo si è scoperchiato il vaso di Pandora di tutte le mutazioni antropologiche possibile. Con questa atomizzazione, con questo individualismo radicale che scambia per libertà la produzione di bisogni inutili. Questo meccanismo di scambio provoca la nostra permanente indigenza. Siamo incapaci di soddisfare qualsiasi risposta e qualsiasi richiesta di comunità attraverso legami. Tanto più il legame diventa debole, quanto più cresce la micro aggressività individuale. Simone Weilparlava di sradicamento. Simone Weil diceva che chi è sradicato, sradica. La rottura del legame riproduce un meccanismo di ostilità molecolare.
Le sembra davvero una via praticabile? La sfiducia da cui ha preso l’avvio la nostra conversazione non rischia di travolgere anche questa speranza di una democrazia oltre i partiti?
Marco Revelli: La possibilità di riuscita in positivo di questa crisi richiederebbe una condizione essenziale:  che i partiti rinuncino alla pretesa di monopolio su tutto ciò che è pubblico. Questo monopolio, non più legittimato né giustificato, finisce per soffocare tutto ciò che potrebbe crescere sotto o a fianco. È chiaro che la possibilità di stare in forma virtuosa in questa transizione complicata che forse coincide con l’uscita dal moderno, forse è una rifeudalizzazione delle nostre società in un crepuscolo delle forme statali forti, non può prescindere da una condizione: che tutto ciò che nasce, non venga immediatamente bruciato dallo sguardo delle macchine politiche. Macchine onnivore che reclutano, spesso in modo ornamentale, ciò che di virtuoso nasce nella società, lo incorporano e lo degradano. Bisognerebbe cominciare questo difficile esercizio del rapporto paritario fra ciò che nasce nel sociale e ciò che sta nel politico.
di Marco Revelli - Marco Dotti

25 marzo 2013

Sull'uscita dall'euro. Parte seconda


Ho ricevuto numerose richieste di chiarimenti ... anche questo è un segno della nuova era che s'è aperta alla fine del 2012, quando l'Italia ed il mondo hanno cominciato a vibrare su una frequenza più alta.
La curiosità di sapere aumenta la vibrazione, l'ignoranza e l'indolenza la schiacciano come l'encefalogramma piatto degli instupiditi.
Se la gente vuol sapere, i ladri ed i corrotti hanno i giorni contati... Ed è esattamente ciò che sta succedendo in Italia.
Chi mai avrebbe potuto immaginare che un partito (il Pd) sicuro di vincere, fosse, invece, costretto a chiedere la "fiducia" al M5S?
Peccato per loro che continuino con i vecchi giochetti... le stesse parole... le stesse facce... senza rendersi conto che sono dead men walking (morti che camminano)... come quei condannati a morte che si avviano alle camere a gas.
Non si capacitano che, dall'altra parte, il M5S non darà mai la fiducia ad un governo a guida Bersani... D'Alema... Bindi... ed il resto della scellerata nomenklatura che ha contribuito a rovinare l'Italia.
L'ha capito persino Casini... e questi, invece, sperano ancora di tornare a spartirsi pingui rimborsi elettorali, comode poltrone e compiacenti spazi televisivi, nei quali mostrarsi come fossero ancora vivi al loro scarso pubblico, che ormai da molto tempo non applaude più... anzi, comincia a fischiarli.
Sembrano i personaggi di una patetica Stardust... vecchi attori ed attrici sul viale del tramonto che, però, ancora si imbellettano e sorridono con denti ingialliti tra un pubblico che, al massimo, gli tributa solo la tenerezza che si deve ai vecchi...
E che impressione fa quel Bersani che chiede insistentemente di "darla" a quei ragazzi del M5S... e ne viene respinto, come una attempata signora che non si rassegna al declino fisico e fa delle avances clamorose a giovani uomini che pensano ad altre...
... E' finita signori... il vostro PD è finito...
Potete solo evitare il disgregamento e la dissoluzione se rinnovate programmi, facce e parole... ma finitela con i giochetti da bocciofila domenicale... magari dopo qualche generosa bottiglia di pessimo Barbera...
... E' finita... voi siete finiti; e smettetela di rendervi oltremodo ridicoli. Avete rovinato l'Italia, ma avete pure una qualche dignità da salvare... Non dilapidate pure quella.
Fatevi da parte... chiedete scusa agli italiani... e siate pronti a pagare i danni che avete inflitto a questa nazione...
E' la vostra unica speranza di non essere consegnati all'ignominia della storia come i tanti Fiorito, Belsito, Penati che avete allevato ed istruito.
... Stat sua cuique dies... Ognuno ha il suo giorno...
Il vostro è passato.
Domanda: Provi a spiegare meglio perché sono aumentati i costi di produzione...
Chiariamo che non è necessario che aumentino; l'effetto è uguale se i tuoi costi restano costanti e quelli del tuo concorrente diminuiscono... il fattore critico, dunque, è il differenziale tra i tuoi ed i suoi...
Il mercato è come un campo di calcio dove due squadre giocano per vincere: non importa quanto forte sia una, se l'altra lo è di più.
Perché, dunque, i costi italiani aumentano più di quelli tedeschi (ed è così da almeno un secolo)?
Perché loro hanno uno Stato più efficiente che gli da servizi migliori... e ciò, per le aziende, si traduce in minori costi di trasporto, dell'energia, di amministrazione interna... etc...
Lo Stato, da una parte prende (sotto forma di tasse e contributi) e dall'altra da (sotto forma di servizi... strade, giustizia, protezione... etc..); ebbene quello italiano prende 3 punti più di quello tedesco e da 3 punti in meno...
Un azienda italiana, dunque, parte svantaggiata di 6 punti (in termini di fatturato) rispetto all'omologa tedesca.
Quando la Germania ha firmato i trattati di Maastricht sapeva perfettamente che la classe politica italiana costituiva il migliore alleato dell'industria tedesca... bastava impedire agli italiani di svalutare e poi ci avrebbero pensato i politici a "zavorrare" l'industria nazionale con un differenziale di costi che, se non "svalutato", avrebbe schiacciato l'economia italiana.
Il calcolo si è rivelato corretto.
Nessun governo ha mai messo mano a questo problema... e men che meno il governo Monti che anzi lo ha sensibilmente aggravato aumentando a dismisura le tasse senza intervenire in alcun modo sull'efficienza della macchina statale (che, anzi, è diventata più inefficiente e costosa)...
Il governo Monti, a quel differenziale di 6 punti ereditato da Berlusconi, ne ha aggiunto altri 2... portandolo a 8...
Se si voleva appesantire ulteriormente la competitività italiana, il governo Monti ha pienamente centrato l'obiettivo...
Un altro motivo per cui i costi aumentano?
Il calo della produzione...
Se tu produci 100 ed ogni pezzo prodotto ti costa 100... se produci 80, il costo di un pezzo non scende anch'esso a 80... ma a 86...
Il perché è facile da capire: le aziende hanno costi variabili (proporzionali alla produzione) e costi fissi (indipendenti dalla produzione). Se i primi rappresentano il 70% del totale ed i secondi il 30%, nel passare da 100 a 80 della produzione, il costi variabili scendono a 80, ma quelli fissi restano 100...
Sicché i nuovi costi saranno 70% x 80 + 30% x 100= 86
Ad un tuo concorrente, quindi, basta costringerti a produrre di meno, per innescare una spirale perversa di aumento dei tuoi costi che ti costringeranno ad aumentare i prezzi... a produrre di meno... ad aumentare i costi... etc...
Ovviamente la stessa cosa funziona al contrario: se tu produci 120, i tuoi costi non passano da 100 a 120... ma a 114... (in questo caso si chiama "economia di scala").
Capite perché è fondamentale prendere quote di mercato (cioè produzione) ai concorrenti?
... Questo (il vantaggio competitivo) è ciò che i tedeschi non erano mai riusciti ad ottenere (perché noi svalutavamo la lira)... e che finalmente hanno ottenuto con l'euro... ma anche grazie all'aiuto dei kapo italiani i quali hanno condannato alla miseria milioni di loro connazionali... per un piatto di wurstel e crauti...
Una volta che l'industria italiana ha cominciato ad accumulare un differenziale negativo con i costi tedeschi (per effetto dell'inefficienza dello Stato italiano rispetto al tedesco), ciò ha provocato il primo calo della produzione industriale (anno 2002) che, anno dopo anno, ha messo in moto il meccanismo perverso visto sopra...
Badate bene: l'inefficienza dello Stato italiano c'è sempre stata... ed il meccanismo perverso di aumento dei costi a causa della riduzione della produzione è noto a tutti quelli che si occupano di economia aziendale... Così come era noto che l'Italia li aveva entrambi e, periodicamente, rimediava con le svalutazioni della lira.
Chi ha deciso di farci entrare nell'euro, dunque, doveva avere ben chiaro in mente quali problemi si dovevano risolvere per non svantaggiarci rispetto ai tedeschi: innanzitutto l'efficienza della Stato...
Vi risulta che dal 1999 (anno di adesione all'euro) ad oggi, qualche governo (di destra o sinistra) abbia cercato, non dico di risolverlo, ma solo di affrontarlo, quel problema?
Eppure era noto che, se non risolto, ci avrebbe condotto al punto in cui siamo...
Ci sono, o no, gli estremi per pensare che abbiano agito in malafede?
Ma, ed è un'altra domande ricorrente, non ci sono anche motivi di vantaggio tecnologico e organizzativo dei tedeschi che li rendono più competitivi rispetto a noi?
Lo vedremo nel prossimo report.
Passiamo all'attualità cominciando con le probabilità di uscita dall'euro...

... calate al 34.5% dopo il 35.5% del dopo-elezioni.
Significa che il "mercato" non teme più così tanto l'umore anti-euro degli italiani?
No, non significa quello: sul minimo del 25 Gennaio scorso è partito un nuovo ciclo annuale e, quindi, la tendenza di quelle probabilità è in crescita... quella riduzione è un movimento discendente su un ciclo minore...
Significa che stiamo uscendo dall'euro?
... Nighese... probabilità inferiori al 50.0% significano il contrario...  Possiamo solo ipotizzare che, in costanza della tendenza in atto (0.15 punti ogni giorno solare), a fine maggio saremmo intorno al 50%... ed a giugno oltre...
Ma queste sono proiezioni matematiche che servono a dire che "a parità di condizioni attuali" quello sarà il risultato...
... Ma "a parità di condizioni attuali" è un'astrazione mentale che "addomestica" convenientemente lo scenario per evitare di fare i conti con le novità o gli imprevisti che, come è noto, accadono con altissima frequenza.

di G. Migliorino

27 marzo 2013

Crisi di Sistema





 

Un sistema che ha fondato la sua esistenza sullo spreco, sul degrado e sulla commercializzazione di beni superflui e di infima qualità, era destinato a implodere. Questa, del mondo occidentale, non è una semplice crisi, ma la fine di un’epoca. Il gran numero di disoccupati e di precari in continuo aumento, è il logico risultato di un tipo di lavoro, privo di fondamentali e, quindi, di regole certe.

Per usare una metafora, paragonerei il Sistema Liberista Relativista ad una fabbrica di bolle di sapone. La gente, ingannata per decenni e abbindolata dalla seduzione della modernità e da una massiccia propaganda mediatica totalitaria (che ha speculato sui bisogni, fragilità, paure e debolezze), troppo tardi ha compreso il valore effimero delle bolle di sapone. L’inganno è stato totale e ha prodotto un becero relativismo, che ha fatto piazza pulita di ogni valore etico e morale, omologando gli individui e codificandoli come semplici consumatori. Piano piano il grande imbroglio sta venendo a galla, e così la rabbia dei truffati, che esploderà in tutta la sua potenza, quando quella che oggi é definita una crisi assumerà le sembianze dell’apocalisse. L’avvelenamento delle acque e dell’aria, erano parametri sufficienti per rendersi conto di quale cammino era stato intrapreso, e indicatori della loro potenzialità distruttiva. Con che spudoratezza tutto questo è stato definito progresso e benessere? Se, per fare un esempio, oggi tutti gli automobilisti di Milano rispettassero alla lettera il codice della strada, questa città, già invivibile e caotica, si bloccherebbe all’istante. Può sembrare un assurdo ma è proprio grazie a chi elude e infrange le regole che, oggi, miracolosamente il traffico continua a scorrere, e le casse del comune ad ingrassarsi a dismisura.

Lo stesso principio e meccanismo vale anche per l’economia del nostro paese (il Sistema) che se dovesse attenersi a regole ferree e pene certe, imploderebbe in una settimana. Se i cittadini di un qualsiasi paese occidentale poi, in virtù di un risparmio ragionevole e doveroso, si astenessero dal consumare beni effimeri, contraffatti e voluttuari, orientandosi su quelli primari, durevoli e di prima necessità, il Sistema, che oggi ci governa e che ci opprime, si squaglierebbe come neve al sole. Sentire ancora parlare di ricerca, di crescita e sviluppo e delle semplificazioni relative al fare impresa, come le inderogabili soluzioni alla crisi, sarebbe come rendere libera la pesca epurando il suo regolamento da licenze, normative e divieti, quando oramai di pesci nel mare non ce ne sono più. Avremmo dovuto investire le nostre energie in un prudente dialogo con la madre terra, rispettandone le sue logiche e regole imperiture. E’ stata umiliata la natura e mortificato il lavoro dei campi, adducendone un significato distorto, di inciviltà, di miseria e ignoranza. Abbiamo voluto sfidare le nostre vere ragioni, come alieni, venuti da un’altra galassia, ma presto la terra ci ripagherà con la stessa moneta, per averla infamata e violentata.

Solo recuperando i valori e i doveri di un passato luminoso, oggi soppiantati dal perverso consumismo della Bestia Liberista, potremo intravedere un futuro fra le nere nubi che si addensano all’orizzonte, ma il prezzo da pagare sarà di sangue, di paura e di follia. Per tutti questi motivi, “la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società, è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. Una tale disperazione, avvolge il mio paese da molto tempo.”


di Gianni Tirelli 

26 marzo 2013

Democrazia senza partiti





marco revelli 20130323



«Non può esserci democrazia funzionante senza il canale dei partiti. Nessuna nuova o più vitale democrazia può nascere dalla demonizzazione dei partiti». Con queste parole, pronunciate al Teatro Toniolo di Mestre nel settembre del 2012, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è fatto interprete di un timore largamente diffuso tra le classi dirigenti: il rapporto tra democrazie e forma-partito sarebbe sul punto di rompersi definitivamente. A tutto svantaggio, sostiene Napolitano, della democrazia. È davvero così? Marco Revelli insegna Scienza della politica all’Università del Piemonte orientale e ha da poco pubblicato un libro, Finale di partito(Einaudi, pagine 138, euro 19), in cui affronta la questione collocandola in un passaggio d’epoca ben più radicale – il pieno ingresso in una società post industriale – senza il quale ogni “pro” e ogni “contro” i partiti rischia di rimanere una sterile petizione di principio.
Una caratteristiche della nostra società è che gli individui si fidano sempre meno gli uni degli altri, perché stentano a riconoscersi. Finita l’era dell’ottimismo – ottimismo tecnologico, fede nel progresso o nel mercato –  le  basi materiali della fiducia si sono sgretolate e la caduta generale del legame ha inevitabilmente toccato anche il rapporto tra cittadini e partiti. È una crisi che spinge non pochi analisti a una facile equazione: più si abbassa il livello di fiducia nei partiti, più cresce la passività tra i cittadini. La crisi della fiducia sarebbe quindi il vettore di ciò che impropriamente viene chiamato “populismo” o tacciato di “antipolitica”. Lei come legge la situazione dentro questo quadro generale di défiance
Marco Revelli: La caduta del legame di fiducia è clamorosa e oramai conclamata. La fiducia nei partiti, in Italia, tocca livelli parossistici e non supera il 5 per cento. Questo significa che solo un cittadino ogni venti crede ancora nella possibilità di un’azione concretamente democratica condotta attraverso i partiti politici. Questa crisi di fiducia nei partiti rischia di intaccare anche la fiducia nelle istituzioni che, relativamente al Parlamento, si attesta su un misero 8 per cento. Comprendiamo subito che in una democrazia parlamentare come la nostra, laddove il Parlamento dovrebbe essere il vero sovrano, il sovrano è in realtà completamente sfiduciato. Fenomeno che in Italia, come detto, tocca livelli parossistici, ma è generale ed esteso a tutto l’Occidente. Negli anni Sessanta e Settanta, nonostante fossero anni di contestazione, di lotte sociali e di conflitti, la fiducia nelle istituzioni era altissima e toccava picchi del 70 per cento. Il mondo è cambiato ma troppo spesso chi ragiona “di” politica e “in” politica non registra questo cambiamento. Avverte il disagio, si accorge che le cose non funzionano ma come se ci si fosse allontanati da un modello che prima o dopo potrebbe riprendere funzionare: la democrazia dei partiti. Al contrario, quel modello è finito. Finito come è finita la grande impresa: come non possiamo illuderci che a Mirafiori tornino a lavorare cinquantamila operai, così non possiamo pensare che tornino i grandi partiti di massa. I partiti erano grandi fabbriche del consenso. Queste fabbriche non funzionano più, così come non funzionerebbero più le vecchie fabbriche di automobili. Dobbiamo cercare di capire come si riassesta la politica dopo questa mutazione genetica dei suoi protagonisti e dei suoi soggetti. Soggetti che, beninteso, non scompaiono ma i partiti di oggi hanno una parentela lontanissima con i loro progenitori.  
Negli scenari futuri è possibile quindi una prospettiva di democrazia senza partiti?
Marco Revelli: Abbiamo conosciuto una fase specifica della democrazia dei moderni, quella della seconda metà del Novecento. Una fase che si caratterizzava per un modello democratico il cui protagonista principale e quasi esclusivo era il partito politico. Gramsci lo definì «il moderno principe» e difatti il partito sembrava il soggetto destinato a occupare quasi per intero la nostra modernità politica. In realtà, sappiamo che la democrazia – e anche la democrazia dei moderni sorta dopo la Rivoluzione del 1789 – è nata ben prima dei partiti. Prima esistevano certamente gruppi di notabili, raggruppamenti di individui ma ciò che tecnicamente chiamiamo “partito” non esisteva. Sottolineerei che persino un pezzo di Italia liberale tardo ottocentesca non conosceva i partiti strutturati come li abbiamo conosciuti col partito di massa. Sono stati i partiti socialisti e i partiti cattolico-popolari che hanno introdotto quella forma nella politica. Questo è il contesto. La fine di questo modello non significa tout court fine della democrazia e il passaggio a una forma autoritaria o dittatoriale Ciò a cui assistiamo non è la pura e semplice estinzione di ogni forma di partito che lascerà spazio solo a una terra incognita abitata da individui da un lato e istituzioni dall’altro. È casomai una metamorfosi: i partiti non scompaiono di punto in bianco, ma diventano una cosa diversa da ciò che avevamo in precedenza conosciuto. La stessa cosa accadde con la fine del fordismo, ossia della grande industria centralizzata e organizzata secondo rigidi schemi interni. La fine dell’organizzazione fordista del lavoro non ha portato alla scomparsa delle imprese. Imprese che, semplicemente, hanno assunto una forma e un modello di organizzazione completamente diversi rispetto al modello fordista che prevedeva una tutela “dalla culla alla tomba”. Ricordiamoci che c’erano scuole materne, colonie estive, modelli di socializzazione che crescevano tutto attorno alla grande fabbrica della città forsista. Allo stesso modo, attorno ai partiti era tutto un fiorire di iniziative e istituzioni, diciamo così, “pedagogiche”. C’erano addirittura le edizioni  di partito –dagli Editori Riuniti alle edizioni delle Cinque lune -, le riviste teoriche in cui si svolgevano dibattiti di alto profilo culturale, ma soprattutto la gente frequentava le sezioni e lì si formava. Magari si formava male, perché c’erano forme di dogmatismo o di fideismo o di spirito gregario e conformismo. Però, pur in questo quadro critico e spesso criticabile, il partito aveva una struttura solida e con oligarchie ben formate. Su questo punto, osserverei che ci sono anche studiosi che leggono la trasformazione in atto in termini positivi. Il pubblico, secondo questa lettura, sarebbe scolarizzato, dotato di strumenti autonomi per la formazione delle proprie opinioni e non dipende più dalla “casa madre”. Il ruolo pedagogico del partito è stato superato e un pubblico dotato di una maggiore autonomia critica si informa altrove, magari in rete. 
Un secolo fa, Roberto Michels pubblicava la sua Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie, il primo studio su quello che al tempo era ancora un oggetto misterioso: il partito politico. Michels, che partiva da posizioni di sinistra, ribadiva la sua convinzione che le organizzazioni fossero sottoposte a una “legge ferrea dell’oligarchia”. In sintesi: la naturale evoluzione di ogni partito politico condurrebbe da una struttura all’origine a aperta a una oligarchia. Lei dedica un capitolo del suo libro all’analisi di questa legge ferrea nel contesto post-industriale e post-fordista. Crede sia ancora attuale una lettura “élitista” del partito politico?
Marco Revelli: Michels aveva ben presente il modello “pesante” di partito della socialdemocrazia tedesca. Un modello plasmato sul modello organizzativo della burocrazia statale e di quella della grande fabbrica della produzione di massa. L’analisi delle oligarchie condotta da Michels si basava su questo dato di fatto e sulla netta distinzione tra governanti e governati. Il rapporto oligarchico, però, molto spesso si basava sulla fiducia dei subalterni. Una fiducia conquistata sul campo: ricordiamoci che molti leader avevano patito l’esilio o la prigione. Oggi le oligarchie non sono più legittimate da un rapporto di fedeltà stabile. Esattamente come le imprese si sono ramificate e delocalizzate in filiere lunghe nei territori e al tempo stesso si sono concentrate in alto, con vertici globali e incontrollabili da chiunque (persino dagli azionisti, non solo dai dipendenti), così i partiti si sono trasformati in strutture più leggere simili a aggregati di gruppi di potere, spesso caratterizzati da logiche affaristiche, che galleggiano su un elettorato liquido e non più caratterizzato da una fedeltà di lungo periodo. Questo elettorato sceglie quasi giorno per giorno  a chi dare il proprio consenso, seguendo logiche sempre più mediatiche.  
Stiamo andando quindi verso una “democrazia del pubblico”? In tal caso, pssiamo davvero parlare di passività civico-politica dei cittadini o siamo anche qui ci troviamo davanti a fenomeni in evoluzione continua e asimmetrica (fenomeni che difficilmente entrano o entreranno nelle griglie concettuali in cui li si vorrebbe racchiudere)?
Marco Revelli: È una lettura. Questo pubblico è in grado di trarre da se stesso le risposte ai propri problemi e, quindi, è anche più critico e ragiona su temi come i beni comuni, l’ambiente, il territorio, la viabilità, i problemi etici. Un pubblico che si forma delle proprie opinioni e poi va a vedere a quale offerta politica indirizzarsi. Spesso, però, l’offerta politica è qualitativamente inferiore alla domanda e la cultura dei politici di professione è inferiore a quella dei loro elettori. Ecco allora che il rapporto si rompe e cresce una forma di disprezzo da parte di un elettorato più consapevole nei confronti di una classe politica più inconsapevole. C’è poi una seconda lettura, di origine francese. Pierre Rosanvallon propone di chiamare “controdemocrazia” una democrazia diversa da quella dei partiti, per nulla “antipolitica”, dove elettorato che non si illude più di poter governare attraverso i propri rappresentanti cerca di porre un argine, attestandosi su una linea difensiva. In sostanza, se non ci possiamo più aspettare che i nostri governanti ci rappresentino, possiamo però difenderci da loro. I politici di professione sono visti come nemici potenziali che con le loro decisioni possono danneggiarci. È una sorta di democrazia giudiziaria, dove i cittadini cercano una tutela giurisdizionale contro in ceto politico di potenziali criminali. Dentro questa logica – il «dobbiamo difenderci dai rischi che arrivano dall’alto» – c’è sicuramente un pezzo di populismo.  
Populismo, antipolitica e, concetto che lei richiama più volte nella sua analisi, subpolitica.
Marco Revelli: Più che di antipolitica, ci troviamo spesso di fronte a forme nuove di pratica politica in un contesto di democrazia mutato, proprio perché non più mediato dai partiti. Smetterei di usare il termine in modo spregiativo, perché rischiamo di non capire nulla rispetto ai processi in atto.  subpolitica è invece un concetto introdotto da Ulrich Beck, non per sminuire il valore di quest’altra politica, ma per sottolinearne il carattere basilare.
Che cos’è, dunque, la subpolitica?
Marco Revelli: È la politica della vita, il luogo dove si affrontano i problemi che riguardano la sopravvivenza degli uomini: i grandi problemi etici, il problema degli stili di vita, il problema del consumo energetico, i beni comuni. Su questi temi la politica dei partiti non ha molto da dire. Al massimo – pensiamo al referendum sul nucleare – subisce il problema. I recenti referendum hanno mostrato che 27 milioni di italiani sono andati a votare fuori dagli schemi di partito, ma soprattutto hanno dimostrato che una certa forma della politica, quella che vorrebbe ancora il partito al centro della scena, è anacronistica e inefficace.  
Grillo sembra molto avanti, rispetto a quelli che lo contestano. Al contempo è molto indietro, rispetto a dove vorremmo essere. Secondo lei è antipolitica o subpolitica nel senso da lei richiamato?
Marco Revelli: Grillo non è un fenomeno folcloristico. I protagonisti della politica partitica lo trattano con sufficienza come se fosse folclore. Grillo è un sintomo, non certo la causa della crisi e proprio per questo va preso con estrema attenzione. Ha sicuramente tratti populistici, ma nella prevalenza è questa politica nuova che sgorga e cerca le sue forme, Starei attento, molto attento a questo secondo aspetto.
Movimento e adesso “comunità”.  Nel suo comizio in Val di Susa, il 14 febbraio scorso, Beppe Grillo ha dichiarato infatti: «Siamo una comunità, qui c’è un sentimento». Non sembrano parole dette a caso.
Marco Revelli: «Comunità», parola magica, di cui c’è estremamente bisogno. Bisogna però intendersi su questo desiderio di comunità. Gran parte del nostro disagio esistenziale è legato al nostro desiderio di comunità. Una comunità terribilmente assente. Siamo spaesati perché la nostra voglia di vivere in comune con gli altri, la nostra “comunanza” è venuta meno. Diciamocelo sinceramente, se vogliamo andare al di là degli aspetti della cronaca e della statistica, dobbiamo ammettere che la crisi dei partiti si inserisce in una più generale crisi dell’Occidente, che è poi crisi del nostro stile di vita. Crisi epocale che attraversa tutti i livelli, arrivando persino a lambire persino la Chiesa. Una crisi che – mi e vi chiedo – non ha forse a che fare con questo cedimento strutturale dei meccanismi di produzione di senso condiviso? Si sono inceppati i meccanismi di produzione di un noi,  nel passaggio dalla solitudine di un “io” a alla condivisione di un “noi”. Un’apocalisse del senso che rende vuoti tutti i troni, da quelli secolari fino a quelli spirituali. I luoghi si sono dissolti nei flussi. È un horror vacui, quello che ci coglie. Proprio perché si avverte che la rottura di questi meccanismi di produzione di un senso condiviso ricade in termini di una conflittualità molecolare. Non ci sono più conflitti che organizzano il campo, ma una diffusa competitività aggressiva che rende inoperanti tutti i meccanismi di decisione collettiva e ha colpito, in particolare, i partiti. Ma non solo i partiti. Non è diverso per i sindacati, non è diverso per le imprese e non è diverso per la Chiesa.
Le apocalissi del consenso sono conseguenza di apocalissi del senso. Non abbiamo ancora capito come e se si condenseranno le molecole di questo sistema senza più legami.
Marco Revelli: Non ci sono più legami forti, solo legami deboli. La gestione dei legami deboli è di fatto un problema, soprattutto di fronte a un’antropologia e a un’identità modificata dai consumi. Ricordiamo che il consumismo è stato un grande virus che ha avvelenato i pozzi, quando  gli investimenti di identità si sono trasferiti sugli stili di consumo si è scoperchiato il vaso di Pandora di tutte le mutazioni antropologiche possibile. Con questa atomizzazione, con questo individualismo radicale che scambia per libertà la produzione di bisogni inutili. Questo meccanismo di scambio provoca la nostra permanente indigenza. Siamo incapaci di soddisfare qualsiasi risposta e qualsiasi richiesta di comunità attraverso legami. Tanto più il legame diventa debole, quanto più cresce la micro aggressività individuale. Simone Weilparlava di sradicamento. Simone Weil diceva che chi è sradicato, sradica. La rottura del legame riproduce un meccanismo di ostilità molecolare.
Le sembra davvero una via praticabile? La sfiducia da cui ha preso l’avvio la nostra conversazione non rischia di travolgere anche questa speranza di una democrazia oltre i partiti?
Marco Revelli: La possibilità di riuscita in positivo di questa crisi richiederebbe una condizione essenziale:  che i partiti rinuncino alla pretesa di monopolio su tutto ciò che è pubblico. Questo monopolio, non più legittimato né giustificato, finisce per soffocare tutto ciò che potrebbe crescere sotto o a fianco. È chiaro che la possibilità di stare in forma virtuosa in questa transizione complicata che forse coincide con l’uscita dal moderno, forse è una rifeudalizzazione delle nostre società in un crepuscolo delle forme statali forti, non può prescindere da una condizione: che tutto ciò che nasce, non venga immediatamente bruciato dallo sguardo delle macchine politiche. Macchine onnivore che reclutano, spesso in modo ornamentale, ciò che di virtuoso nasce nella società, lo incorporano e lo degradano. Bisognerebbe cominciare questo difficile esercizio del rapporto paritario fra ciò che nasce nel sociale e ciò che sta nel politico.
di Marco Revelli - Marco Dotti

25 marzo 2013

Sull'uscita dall'euro. Parte seconda


Ho ricevuto numerose richieste di chiarimenti ... anche questo è un segno della nuova era che s'è aperta alla fine del 2012, quando l'Italia ed il mondo hanno cominciato a vibrare su una frequenza più alta.
La curiosità di sapere aumenta la vibrazione, l'ignoranza e l'indolenza la schiacciano come l'encefalogramma piatto degli instupiditi.
Se la gente vuol sapere, i ladri ed i corrotti hanno i giorni contati... Ed è esattamente ciò che sta succedendo in Italia.
Chi mai avrebbe potuto immaginare che un partito (il Pd) sicuro di vincere, fosse, invece, costretto a chiedere la "fiducia" al M5S?
Peccato per loro che continuino con i vecchi giochetti... le stesse parole... le stesse facce... senza rendersi conto che sono dead men walking (morti che camminano)... come quei condannati a morte che si avviano alle camere a gas.
Non si capacitano che, dall'altra parte, il M5S non darà mai la fiducia ad un governo a guida Bersani... D'Alema... Bindi... ed il resto della scellerata nomenklatura che ha contribuito a rovinare l'Italia.
L'ha capito persino Casini... e questi, invece, sperano ancora di tornare a spartirsi pingui rimborsi elettorali, comode poltrone e compiacenti spazi televisivi, nei quali mostrarsi come fossero ancora vivi al loro scarso pubblico, che ormai da molto tempo non applaude più... anzi, comincia a fischiarli.
Sembrano i personaggi di una patetica Stardust... vecchi attori ed attrici sul viale del tramonto che, però, ancora si imbellettano e sorridono con denti ingialliti tra un pubblico che, al massimo, gli tributa solo la tenerezza che si deve ai vecchi...
E che impressione fa quel Bersani che chiede insistentemente di "darla" a quei ragazzi del M5S... e ne viene respinto, come una attempata signora che non si rassegna al declino fisico e fa delle avances clamorose a giovani uomini che pensano ad altre...
... E' finita signori... il vostro PD è finito...
Potete solo evitare il disgregamento e la dissoluzione se rinnovate programmi, facce e parole... ma finitela con i giochetti da bocciofila domenicale... magari dopo qualche generosa bottiglia di pessimo Barbera...
... E' finita... voi siete finiti; e smettetela di rendervi oltremodo ridicoli. Avete rovinato l'Italia, ma avete pure una qualche dignità da salvare... Non dilapidate pure quella.
Fatevi da parte... chiedete scusa agli italiani... e siate pronti a pagare i danni che avete inflitto a questa nazione...
E' la vostra unica speranza di non essere consegnati all'ignominia della storia come i tanti Fiorito, Belsito, Penati che avete allevato ed istruito.
... Stat sua cuique dies... Ognuno ha il suo giorno...
Il vostro è passato.
Domanda: Provi a spiegare meglio perché sono aumentati i costi di produzione...
Chiariamo che non è necessario che aumentino; l'effetto è uguale se i tuoi costi restano costanti e quelli del tuo concorrente diminuiscono... il fattore critico, dunque, è il differenziale tra i tuoi ed i suoi...
Il mercato è come un campo di calcio dove due squadre giocano per vincere: non importa quanto forte sia una, se l'altra lo è di più.
Perché, dunque, i costi italiani aumentano più di quelli tedeschi (ed è così da almeno un secolo)?
Perché loro hanno uno Stato più efficiente che gli da servizi migliori... e ciò, per le aziende, si traduce in minori costi di trasporto, dell'energia, di amministrazione interna... etc...
Lo Stato, da una parte prende (sotto forma di tasse e contributi) e dall'altra da (sotto forma di servizi... strade, giustizia, protezione... etc..); ebbene quello italiano prende 3 punti più di quello tedesco e da 3 punti in meno...
Un azienda italiana, dunque, parte svantaggiata di 6 punti (in termini di fatturato) rispetto all'omologa tedesca.
Quando la Germania ha firmato i trattati di Maastricht sapeva perfettamente che la classe politica italiana costituiva il migliore alleato dell'industria tedesca... bastava impedire agli italiani di svalutare e poi ci avrebbero pensato i politici a "zavorrare" l'industria nazionale con un differenziale di costi che, se non "svalutato", avrebbe schiacciato l'economia italiana.
Il calcolo si è rivelato corretto.
Nessun governo ha mai messo mano a questo problema... e men che meno il governo Monti che anzi lo ha sensibilmente aggravato aumentando a dismisura le tasse senza intervenire in alcun modo sull'efficienza della macchina statale (che, anzi, è diventata più inefficiente e costosa)...
Il governo Monti, a quel differenziale di 6 punti ereditato da Berlusconi, ne ha aggiunto altri 2... portandolo a 8...
Se si voleva appesantire ulteriormente la competitività italiana, il governo Monti ha pienamente centrato l'obiettivo...
Un altro motivo per cui i costi aumentano?
Il calo della produzione...
Se tu produci 100 ed ogni pezzo prodotto ti costa 100... se produci 80, il costo di un pezzo non scende anch'esso a 80... ma a 86...
Il perché è facile da capire: le aziende hanno costi variabili (proporzionali alla produzione) e costi fissi (indipendenti dalla produzione). Se i primi rappresentano il 70% del totale ed i secondi il 30%, nel passare da 100 a 80 della produzione, il costi variabili scendono a 80, ma quelli fissi restano 100...
Sicché i nuovi costi saranno 70% x 80 + 30% x 100= 86
Ad un tuo concorrente, quindi, basta costringerti a produrre di meno, per innescare una spirale perversa di aumento dei tuoi costi che ti costringeranno ad aumentare i prezzi... a produrre di meno... ad aumentare i costi... etc...
Ovviamente la stessa cosa funziona al contrario: se tu produci 120, i tuoi costi non passano da 100 a 120... ma a 114... (in questo caso si chiama "economia di scala").
Capite perché è fondamentale prendere quote di mercato (cioè produzione) ai concorrenti?
... Questo (il vantaggio competitivo) è ciò che i tedeschi non erano mai riusciti ad ottenere (perché noi svalutavamo la lira)... e che finalmente hanno ottenuto con l'euro... ma anche grazie all'aiuto dei kapo italiani i quali hanno condannato alla miseria milioni di loro connazionali... per un piatto di wurstel e crauti...
Una volta che l'industria italiana ha cominciato ad accumulare un differenziale negativo con i costi tedeschi (per effetto dell'inefficienza dello Stato italiano rispetto al tedesco), ciò ha provocato il primo calo della produzione industriale (anno 2002) che, anno dopo anno, ha messo in moto il meccanismo perverso visto sopra...
Badate bene: l'inefficienza dello Stato italiano c'è sempre stata... ed il meccanismo perverso di aumento dei costi a causa della riduzione della produzione è noto a tutti quelli che si occupano di economia aziendale... Così come era noto che l'Italia li aveva entrambi e, periodicamente, rimediava con le svalutazioni della lira.
Chi ha deciso di farci entrare nell'euro, dunque, doveva avere ben chiaro in mente quali problemi si dovevano risolvere per non svantaggiarci rispetto ai tedeschi: innanzitutto l'efficienza della Stato...
Vi risulta che dal 1999 (anno di adesione all'euro) ad oggi, qualche governo (di destra o sinistra) abbia cercato, non dico di risolverlo, ma solo di affrontarlo, quel problema?
Eppure era noto che, se non risolto, ci avrebbe condotto al punto in cui siamo...
Ci sono, o no, gli estremi per pensare che abbiano agito in malafede?
Ma, ed è un'altra domande ricorrente, non ci sono anche motivi di vantaggio tecnologico e organizzativo dei tedeschi che li rendono più competitivi rispetto a noi?
Lo vedremo nel prossimo report.
Passiamo all'attualità cominciando con le probabilità di uscita dall'euro...

... calate al 34.5% dopo il 35.5% del dopo-elezioni.
Significa che il "mercato" non teme più così tanto l'umore anti-euro degli italiani?
No, non significa quello: sul minimo del 25 Gennaio scorso è partito un nuovo ciclo annuale e, quindi, la tendenza di quelle probabilità è in crescita... quella riduzione è un movimento discendente su un ciclo minore...
Significa che stiamo uscendo dall'euro?
... Nighese... probabilità inferiori al 50.0% significano il contrario...  Possiamo solo ipotizzare che, in costanza della tendenza in atto (0.15 punti ogni giorno solare), a fine maggio saremmo intorno al 50%... ed a giugno oltre...
Ma queste sono proiezioni matematiche che servono a dire che "a parità di condizioni attuali" quello sarà il risultato...
... Ma "a parità di condizioni attuali" è un'astrazione mentale che "addomestica" convenientemente lo scenario per evitare di fare i conti con le novità o gli imprevisti che, come è noto, accadono con altissima frequenza.

di G. Migliorino