28 marzo 2013

Merkel e l’euro ci hanno strozzato. Ora basta!


I lettori del Giornale lo conoscono da anni come editorialista. Ma Claudio Borghi Aquilini, docente di Economia degli intermediari finanziari all’Università Cattolica di Milano, è soprattutto una voce eterodossa rispetto al conformismo europeista che domina sui media. Ecco perché Wall & Street hanno voluto ascoltare il suo parere.
Lo spread è un indicatore economico?
«Lo spread non dovrebbe esistere. Nel 2011 non sapevamo nemmeno cosa fosse perché sul mercato c’era la percezione che il debito europeo fosse condiviso. Il caso si è creato quando Merkel e Sarkozy hanno preso la scriteriata decisione del PSI (acronimo di Private Sector Involvement, cioè la ristrutturazione del debito greco tramite il coinvolgimento degli istituti di credito privati che detenevano i Sirtaki-bond). Allora si è compreso come i titoli di Stato non fossero garantiti ed è partita la speculazione. Infatti lo spread è aumentato a prescindere dai fondamentali economici».
Lo spread lo ha abbattuto Mario Monti o Mario Draghi?
«Lo spread è sceso quando il presidente della Bce Mario Draghi ha detto che avrebbe fatto tutto il possibile per difendere l’euro anche con acquisti potenzialmente illimitati di titoli di Stato, cioè mostrando la capacità dell’eurozona di monetizzare il debito. Come fa la Bank of England con i titoli britannici».
La politica di austerità è sbagliata?
«Sì. Gli economisti Paul de Grauwe e Paul Krugman hanno svelato l’inganno: consolidare i bilanci pubblici in periodo di recessione porta altra recessione e aumento del debito».
Ma la vulgata europeista dice che senza misure strutturali la Bce non sarebbe intervenuta a favore dell’Italia?
«La Bce sarebbe intervenuta ugualmente perché l’alternativa era rappresentata dalla dissoluzione dell’eurozona. L’Italia ha dimensioni troppo grandi. Magari qualcuno si sarebbe opposto a una replica dell’operazione greca con la mutualizzazione del debito attraverso il fondo salva-Stati e così non ci sarebbe stata alternativa al default che avrebbe travolto ».
Che cosa intende per «mutualizzazione del debito»?
«Nel momento in cui la Grecia è andata in default i principali creditori erano i Paesi dell’Europa “core” (Francia e Germania soprattutto; ndr). Con l’intervento dei fondi salva-Stati, Efsf prima e Esm adesso, questo credito è stato diviso anche con nazioni meno coinvolte come l’Italia».
Perché la Grecia è in ginocchio nonostante gli aiuti?
«La distruzione della Grecia era nei fatti. L’euro è una moneta troppo forte per quella economia. Faccio un esempio concreto: ammettiamo di azzerare il debito italiano con la bacchetta magica, non è per questo motivo che Fiat venderà di più. Al contrario, il gruppo di Torino venderà più auto prodotte in Italia se il loro prezzo sarà competitivo sul mercato. La differenza sostanziale è il valore della moneta. Se a questo si aggiungono le misure di austerità, un Paese è messo sotto scacco. Come fa un’impresa a investire in Grecia? I capitali fuggono e la gente continua a perdere il proprio posto di lavoro e quindi la recessione peggiora. L’aiuto ad Atene è stato solo un recupero crediti alla maniera di uno strozzino».
E la bancarotta di Cipro come si spiega?
«È un fallimento della vigilanza perché la Bce sapeva della concentrazione di depositi a Cipro, lo sapeva anche dagli stress test e ha fatto finta di nulla. E poi è un fallimento dell’Europa, cioè di Angela Merkel che, lasciando andare in default la Grecia, ha fatto andare in bancarotta le banche cipriote che vi investivano».
Il prelievo forzoso sui conti correnti può risolvere tutto?
«Se Merkel ha creato un buco lasciando fallire la Grecia, non si può tapparlo col prelievo forzoso. Cipro è un paese che dovrebbe essere tutelato dall’euro e ha le banche chiuse da quasi due settimane. Nemmeno in Egitto e in Tunisia durante le rivoluzioni è accaduta una cosa del genere».
È più grave mettere le mani sui conti correnti o chiedere a uno Stato che si dovrebbe salvare 5,8 miliardi di garanzia su 10 miliardi di aiuti?
«La garanzia sui depositi fino a 100.000 euro l’ha introdotta l’Ue. L’Islanda si è salvata con una garanzia di soli 20.000 euro rimborsando i creditori domestici prima e quelli esteri in seguito. Cipro può fallire ma se deve rimborsare i conti fino a 100.000 euro, bisogna costruirgli una via d’uscita praticabile. L’Ecofin ha adottato una strategia da magliari: la tutela dei depositi costruita tassando i depositi».
Secondo lei, cosa dovrebbe fare Cipro?
«Uscire dall’euro. È entrato da poco, non avrebbe nemmeno problemi di inflazione. Dovrebbe far andare le banche in default anche sui prestiti della Bce e poi stampare lire cipriote per rimborsare i creditori. Se anche così fosse troppo oneroso, potrebbe abbassare la garanzia sui depositi».
Condivide l’opinione secondo cui la situazione europea attuale assomiglia molto a quella del 1913?
«No. È molto più simile a quella del ’92 quando l’Italia uscì dal Sistema Monetario Europeo perché non riusciva a sostenere il regime di cambi fissi con le altre monete. La speculazione di Soros ha fatto saltare un sistema di cambi artificiale. Faccio un altro esempio: ci sono due atleti che devono correre i 100 metri in 10 secondi. Uno pesa 150 chili e l’altro 40 ma riescono a ottenere la stessa prestazione. Se metto loro in spalla uno zaino di 30 chili, il primo ce la fa in 11 secondi, quello più leggero impiegherà il doppio del tempo».
Si può uscire da questa spirale mantenendo la moneta unica?
«No. Le due alternative possibili sarebbero un’ammissione di fallimento. Il primo è quello dei trasferimenti interni: chi è più ricco dà a chi è più povero e il caso italiano con la Lombardia che finanzia la Calabria dimostra che il modello non funziona. La seconda ipotesi è la deflazione interna: si tagliano i prezzi tagliando i salari, ma se la gente guadagnasse il 30% in meno a parità di condizioni, si creerebbero squilibri sociali e, per altro, il debito non diminuirebbe».
Quanto ha guadagnato la Germania con l’euro?
«Il saldo della bilancia commerciale (esportazioni meno importazioni; ndr) era in sostanziale pareggio fino al 2002. Nei primi dieci anni di introduzione dell’euro è andata in attivo per complessivi 1.500 miliardi. Considerato che gli altri Paesi dell’eurozona sono i primi partner commerciali, il calcolo del trasferimento di ricchezza è presto fatto. Molti obiettano asserendo che la Germania ha compiuto importanti riforme che le hanno consentito di essere competitiva. È vero, ma è altrettanto vero che con l’euro del “tutti contro tutti” la Germania ha fatto deflazione salariale. Il suo successo corrisponde all’insuccesso della spagna e di altri Paesi in difficoltà».
Come si potrebbe uscire ordinatamente dall’euro?
«Se fosse successo due anni fa all’inizio della crisi greca, ora saremmo belli come il sole. Innanzitutto, bisogna precisare che i bassi tassi di interesse non derivano dall’essere parte di un’unione monetaria. In secondo luogo, bisogna sfatare il tabù secondo il quale con un’uscita dall’euro servirebbero cariolate di banconote per fare benzina e il costo dei mutui sarebbe insostenibile. Tra svalutazione e inflazione non c’è automatismo. L’euro all’inizio della sua storia ha perso il 30% del suo valore contro il dollaro e per noi non cambiò assolutamente nulla. Dopo la svalutazione della lira nel 1992 il tasso di inflazione scese dal 5 al 4,5 per cento. Magari le patate non si importerebbero più dalla Germania, ne produrremmo di più e anche i prezzi di beni prodotti all’estero si adeguerebbero e le Bmw costerebbero un po’ di meno se la casa tedesca intendesse non perdere troppo terreno sul mercato italiano».
E il debito?
«Anche qui bisogna specificare che cambiare moneta non equivale a fare default! Il debito sottoscritto con un contratto italiano sarebbe automaticamente traslato nella nuova valuta, a partire dai Btp e dai mutui. Ci sono però porzioni di debito stipulate con contratti esteri. Si tratta di debito pubblico (in minima parte; ndr) e soprattutto privato, a partire dai finanziamenti di lungo termine ottenuti dalle banche italiane tramite la Bce. Il vero problema è proprio questo…».
C’è una soluzione anche per questo?
«Sì. Una volta recuperata al suo ruolo Bankitalia, se Unicredit e Intesa Sanpaolo avessero problemi sui debiti con l’estero, si potrebbero nazionalizzare temporaneamente».
E a chi dice che senza euro faremmo la fine dell’Argentina cosa risponde?
«L’Argentina non ha avuto problemi in quanto ha fatto default. Anzi, da quel momento in poi è ripartita. La produzione è crollata prima quando hanno surrettiziamente agganciato il peso al dollaro Usa, strangolando così l’economia. E poi nel caso dell’Italia, lo ripeto, uscire dall’euro non sarebbe fare default!».
Wall & Street

27 marzo 2013

Crisi di Sistema





 

Un sistema che ha fondato la sua esistenza sullo spreco, sul degrado e sulla commercializzazione di beni superflui e di infima qualità, era destinato a implodere. Questa, del mondo occidentale, non è una semplice crisi, ma la fine di un’epoca. Il gran numero di disoccupati e di precari in continuo aumento, è il logico risultato di un tipo di lavoro, privo di fondamentali e, quindi, di regole certe.

Per usare una metafora, paragonerei il Sistema Liberista Relativista ad una fabbrica di bolle di sapone. La gente, ingannata per decenni e abbindolata dalla seduzione della modernità e da una massiccia propaganda mediatica totalitaria (che ha speculato sui bisogni, fragilità, paure e debolezze), troppo tardi ha compreso il valore effimero delle bolle di sapone. L’inganno è stato totale e ha prodotto un becero relativismo, che ha fatto piazza pulita di ogni valore etico e morale, omologando gli individui e codificandoli come semplici consumatori. Piano piano il grande imbroglio sta venendo a galla, e così la rabbia dei truffati, che esploderà in tutta la sua potenza, quando quella che oggi é definita una crisi assumerà le sembianze dell’apocalisse. L’avvelenamento delle acque e dell’aria, erano parametri sufficienti per rendersi conto di quale cammino era stato intrapreso, e indicatori della loro potenzialità distruttiva. Con che spudoratezza tutto questo è stato definito progresso e benessere? Se, per fare un esempio, oggi tutti gli automobilisti di Milano rispettassero alla lettera il codice della strada, questa città, già invivibile e caotica, si bloccherebbe all’istante. Può sembrare un assurdo ma è proprio grazie a chi elude e infrange le regole che, oggi, miracolosamente il traffico continua a scorrere, e le casse del comune ad ingrassarsi a dismisura.

Lo stesso principio e meccanismo vale anche per l’economia del nostro paese (il Sistema) che se dovesse attenersi a regole ferree e pene certe, imploderebbe in una settimana. Se i cittadini di un qualsiasi paese occidentale poi, in virtù di un risparmio ragionevole e doveroso, si astenessero dal consumare beni effimeri, contraffatti e voluttuari, orientandosi su quelli primari, durevoli e di prima necessità, il Sistema, che oggi ci governa e che ci opprime, si squaglierebbe come neve al sole. Sentire ancora parlare di ricerca, di crescita e sviluppo e delle semplificazioni relative al fare impresa, come le inderogabili soluzioni alla crisi, sarebbe come rendere libera la pesca epurando il suo regolamento da licenze, normative e divieti, quando oramai di pesci nel mare non ce ne sono più. Avremmo dovuto investire le nostre energie in un prudente dialogo con la madre terra, rispettandone le sue logiche e regole imperiture. E’ stata umiliata la natura e mortificato il lavoro dei campi, adducendone un significato distorto, di inciviltà, di miseria e ignoranza. Abbiamo voluto sfidare le nostre vere ragioni, come alieni, venuti da un’altra galassia, ma presto la terra ci ripagherà con la stessa moneta, per averla infamata e violentata.

Solo recuperando i valori e i doveri di un passato luminoso, oggi soppiantati dal perverso consumismo della Bestia Liberista, potremo intravedere un futuro fra le nere nubi che si addensano all’orizzonte, ma il prezzo da pagare sarà di sangue, di paura e di follia. Per tutti questi motivi, “la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società, è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. Una tale disperazione, avvolge il mio paese da molto tempo.”


di Gianni Tirelli 

26 marzo 2013

Democrazia senza partiti





marco revelli 20130323



«Non può esserci democrazia funzionante senza il canale dei partiti. Nessuna nuova o più vitale democrazia può nascere dalla demonizzazione dei partiti». Con queste parole, pronunciate al Teatro Toniolo di Mestre nel settembre del 2012, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è fatto interprete di un timore largamente diffuso tra le classi dirigenti: il rapporto tra democrazie e forma-partito sarebbe sul punto di rompersi definitivamente. A tutto svantaggio, sostiene Napolitano, della democrazia. È davvero così? Marco Revelli insegna Scienza della politica all’Università del Piemonte orientale e ha da poco pubblicato un libro, Finale di partito(Einaudi, pagine 138, euro 19), in cui affronta la questione collocandola in un passaggio d’epoca ben più radicale – il pieno ingresso in una società post industriale – senza il quale ogni “pro” e ogni “contro” i partiti rischia di rimanere una sterile petizione di principio.
Una caratteristiche della nostra società è che gli individui si fidano sempre meno gli uni degli altri, perché stentano a riconoscersi. Finita l’era dell’ottimismo – ottimismo tecnologico, fede nel progresso o nel mercato –  le  basi materiali della fiducia si sono sgretolate e la caduta generale del legame ha inevitabilmente toccato anche il rapporto tra cittadini e partiti. È una crisi che spinge non pochi analisti a una facile equazione: più si abbassa il livello di fiducia nei partiti, più cresce la passività tra i cittadini. La crisi della fiducia sarebbe quindi il vettore di ciò che impropriamente viene chiamato “populismo” o tacciato di “antipolitica”. Lei come legge la situazione dentro questo quadro generale di défiance
Marco Revelli: La caduta del legame di fiducia è clamorosa e oramai conclamata. La fiducia nei partiti, in Italia, tocca livelli parossistici e non supera il 5 per cento. Questo significa che solo un cittadino ogni venti crede ancora nella possibilità di un’azione concretamente democratica condotta attraverso i partiti politici. Questa crisi di fiducia nei partiti rischia di intaccare anche la fiducia nelle istituzioni che, relativamente al Parlamento, si attesta su un misero 8 per cento. Comprendiamo subito che in una democrazia parlamentare come la nostra, laddove il Parlamento dovrebbe essere il vero sovrano, il sovrano è in realtà completamente sfiduciato. Fenomeno che in Italia, come detto, tocca livelli parossistici, ma è generale ed esteso a tutto l’Occidente. Negli anni Sessanta e Settanta, nonostante fossero anni di contestazione, di lotte sociali e di conflitti, la fiducia nelle istituzioni era altissima e toccava picchi del 70 per cento. Il mondo è cambiato ma troppo spesso chi ragiona “di” politica e “in” politica non registra questo cambiamento. Avverte il disagio, si accorge che le cose non funzionano ma come se ci si fosse allontanati da un modello che prima o dopo potrebbe riprendere funzionare: la democrazia dei partiti. Al contrario, quel modello è finito. Finito come è finita la grande impresa: come non possiamo illuderci che a Mirafiori tornino a lavorare cinquantamila operai, così non possiamo pensare che tornino i grandi partiti di massa. I partiti erano grandi fabbriche del consenso. Queste fabbriche non funzionano più, così come non funzionerebbero più le vecchie fabbriche di automobili. Dobbiamo cercare di capire come si riassesta la politica dopo questa mutazione genetica dei suoi protagonisti e dei suoi soggetti. Soggetti che, beninteso, non scompaiono ma i partiti di oggi hanno una parentela lontanissima con i loro progenitori.  
Negli scenari futuri è possibile quindi una prospettiva di democrazia senza partiti?
Marco Revelli: Abbiamo conosciuto una fase specifica della democrazia dei moderni, quella della seconda metà del Novecento. Una fase che si caratterizzava per un modello democratico il cui protagonista principale e quasi esclusivo era il partito politico. Gramsci lo definì «il moderno principe» e difatti il partito sembrava il soggetto destinato a occupare quasi per intero la nostra modernità politica. In realtà, sappiamo che la democrazia – e anche la democrazia dei moderni sorta dopo la Rivoluzione del 1789 – è nata ben prima dei partiti. Prima esistevano certamente gruppi di notabili, raggruppamenti di individui ma ciò che tecnicamente chiamiamo “partito” non esisteva. Sottolineerei che persino un pezzo di Italia liberale tardo ottocentesca non conosceva i partiti strutturati come li abbiamo conosciuti col partito di massa. Sono stati i partiti socialisti e i partiti cattolico-popolari che hanno introdotto quella forma nella politica. Questo è il contesto. La fine di questo modello non significa tout court fine della democrazia e il passaggio a una forma autoritaria o dittatoriale Ciò a cui assistiamo non è la pura e semplice estinzione di ogni forma di partito che lascerà spazio solo a una terra incognita abitata da individui da un lato e istituzioni dall’altro. È casomai una metamorfosi: i partiti non scompaiono di punto in bianco, ma diventano una cosa diversa da ciò che avevamo in precedenza conosciuto. La stessa cosa accadde con la fine del fordismo, ossia della grande industria centralizzata e organizzata secondo rigidi schemi interni. La fine dell’organizzazione fordista del lavoro non ha portato alla scomparsa delle imprese. Imprese che, semplicemente, hanno assunto una forma e un modello di organizzazione completamente diversi rispetto al modello fordista che prevedeva una tutela “dalla culla alla tomba”. Ricordiamoci che c’erano scuole materne, colonie estive, modelli di socializzazione che crescevano tutto attorno alla grande fabbrica della città forsista. Allo stesso modo, attorno ai partiti era tutto un fiorire di iniziative e istituzioni, diciamo così, “pedagogiche”. C’erano addirittura le edizioni  di partito –dagli Editori Riuniti alle edizioni delle Cinque lune -, le riviste teoriche in cui si svolgevano dibattiti di alto profilo culturale, ma soprattutto la gente frequentava le sezioni e lì si formava. Magari si formava male, perché c’erano forme di dogmatismo o di fideismo o di spirito gregario e conformismo. Però, pur in questo quadro critico e spesso criticabile, il partito aveva una struttura solida e con oligarchie ben formate. Su questo punto, osserverei che ci sono anche studiosi che leggono la trasformazione in atto in termini positivi. Il pubblico, secondo questa lettura, sarebbe scolarizzato, dotato di strumenti autonomi per la formazione delle proprie opinioni e non dipende più dalla “casa madre”. Il ruolo pedagogico del partito è stato superato e un pubblico dotato di una maggiore autonomia critica si informa altrove, magari in rete. 
Un secolo fa, Roberto Michels pubblicava la sua Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie, il primo studio su quello che al tempo era ancora un oggetto misterioso: il partito politico. Michels, che partiva da posizioni di sinistra, ribadiva la sua convinzione che le organizzazioni fossero sottoposte a una “legge ferrea dell’oligarchia”. In sintesi: la naturale evoluzione di ogni partito politico condurrebbe da una struttura all’origine a aperta a una oligarchia. Lei dedica un capitolo del suo libro all’analisi di questa legge ferrea nel contesto post-industriale e post-fordista. Crede sia ancora attuale una lettura “élitista” del partito politico?
Marco Revelli: Michels aveva ben presente il modello “pesante” di partito della socialdemocrazia tedesca. Un modello plasmato sul modello organizzativo della burocrazia statale e di quella della grande fabbrica della produzione di massa. L’analisi delle oligarchie condotta da Michels si basava su questo dato di fatto e sulla netta distinzione tra governanti e governati. Il rapporto oligarchico, però, molto spesso si basava sulla fiducia dei subalterni. Una fiducia conquistata sul campo: ricordiamoci che molti leader avevano patito l’esilio o la prigione. Oggi le oligarchie non sono più legittimate da un rapporto di fedeltà stabile. Esattamente come le imprese si sono ramificate e delocalizzate in filiere lunghe nei territori e al tempo stesso si sono concentrate in alto, con vertici globali e incontrollabili da chiunque (persino dagli azionisti, non solo dai dipendenti), così i partiti si sono trasformati in strutture più leggere simili a aggregati di gruppi di potere, spesso caratterizzati da logiche affaristiche, che galleggiano su un elettorato liquido e non più caratterizzato da una fedeltà di lungo periodo. Questo elettorato sceglie quasi giorno per giorno  a chi dare il proprio consenso, seguendo logiche sempre più mediatiche.  
Stiamo andando quindi verso una “democrazia del pubblico”? In tal caso, pssiamo davvero parlare di passività civico-politica dei cittadini o siamo anche qui ci troviamo davanti a fenomeni in evoluzione continua e asimmetrica (fenomeni che difficilmente entrano o entreranno nelle griglie concettuali in cui li si vorrebbe racchiudere)?
Marco Revelli: È una lettura. Questo pubblico è in grado di trarre da se stesso le risposte ai propri problemi e, quindi, è anche più critico e ragiona su temi come i beni comuni, l’ambiente, il territorio, la viabilità, i problemi etici. Un pubblico che si forma delle proprie opinioni e poi va a vedere a quale offerta politica indirizzarsi. Spesso, però, l’offerta politica è qualitativamente inferiore alla domanda e la cultura dei politici di professione è inferiore a quella dei loro elettori. Ecco allora che il rapporto si rompe e cresce una forma di disprezzo da parte di un elettorato più consapevole nei confronti di una classe politica più inconsapevole. C’è poi una seconda lettura, di origine francese. Pierre Rosanvallon propone di chiamare “controdemocrazia” una democrazia diversa da quella dei partiti, per nulla “antipolitica”, dove elettorato che non si illude più di poter governare attraverso i propri rappresentanti cerca di porre un argine, attestandosi su una linea difensiva. In sostanza, se non ci possiamo più aspettare che i nostri governanti ci rappresentino, possiamo però difenderci da loro. I politici di professione sono visti come nemici potenziali che con le loro decisioni possono danneggiarci. È una sorta di democrazia giudiziaria, dove i cittadini cercano una tutela giurisdizionale contro in ceto politico di potenziali criminali. Dentro questa logica – il «dobbiamo difenderci dai rischi che arrivano dall’alto» – c’è sicuramente un pezzo di populismo.  
Populismo, antipolitica e, concetto che lei richiama più volte nella sua analisi, subpolitica.
Marco Revelli: Più che di antipolitica, ci troviamo spesso di fronte a forme nuove di pratica politica in un contesto di democrazia mutato, proprio perché non più mediato dai partiti. Smetterei di usare il termine in modo spregiativo, perché rischiamo di non capire nulla rispetto ai processi in atto.  subpolitica è invece un concetto introdotto da Ulrich Beck, non per sminuire il valore di quest’altra politica, ma per sottolinearne il carattere basilare.
Che cos’è, dunque, la subpolitica?
Marco Revelli: È la politica della vita, il luogo dove si affrontano i problemi che riguardano la sopravvivenza degli uomini: i grandi problemi etici, il problema degli stili di vita, il problema del consumo energetico, i beni comuni. Su questi temi la politica dei partiti non ha molto da dire. Al massimo – pensiamo al referendum sul nucleare – subisce il problema. I recenti referendum hanno mostrato che 27 milioni di italiani sono andati a votare fuori dagli schemi di partito, ma soprattutto hanno dimostrato che una certa forma della politica, quella che vorrebbe ancora il partito al centro della scena, è anacronistica e inefficace.  
Grillo sembra molto avanti, rispetto a quelli che lo contestano. Al contempo è molto indietro, rispetto a dove vorremmo essere. Secondo lei è antipolitica o subpolitica nel senso da lei richiamato?
Marco Revelli: Grillo non è un fenomeno folcloristico. I protagonisti della politica partitica lo trattano con sufficienza come se fosse folclore. Grillo è un sintomo, non certo la causa della crisi e proprio per questo va preso con estrema attenzione. Ha sicuramente tratti populistici, ma nella prevalenza è questa politica nuova che sgorga e cerca le sue forme, Starei attento, molto attento a questo secondo aspetto.
Movimento e adesso “comunità”.  Nel suo comizio in Val di Susa, il 14 febbraio scorso, Beppe Grillo ha dichiarato infatti: «Siamo una comunità, qui c’è un sentimento». Non sembrano parole dette a caso.
Marco Revelli: «Comunità», parola magica, di cui c’è estremamente bisogno. Bisogna però intendersi su questo desiderio di comunità. Gran parte del nostro disagio esistenziale è legato al nostro desiderio di comunità. Una comunità terribilmente assente. Siamo spaesati perché la nostra voglia di vivere in comune con gli altri, la nostra “comunanza” è venuta meno. Diciamocelo sinceramente, se vogliamo andare al di là degli aspetti della cronaca e della statistica, dobbiamo ammettere che la crisi dei partiti si inserisce in una più generale crisi dell’Occidente, che è poi crisi del nostro stile di vita. Crisi epocale che attraversa tutti i livelli, arrivando persino a lambire persino la Chiesa. Una crisi che – mi e vi chiedo – non ha forse a che fare con questo cedimento strutturale dei meccanismi di produzione di senso condiviso? Si sono inceppati i meccanismi di produzione di un noi,  nel passaggio dalla solitudine di un “io” a alla condivisione di un “noi”. Un’apocalisse del senso che rende vuoti tutti i troni, da quelli secolari fino a quelli spirituali. I luoghi si sono dissolti nei flussi. È un horror vacui, quello che ci coglie. Proprio perché si avverte che la rottura di questi meccanismi di produzione di un senso condiviso ricade in termini di una conflittualità molecolare. Non ci sono più conflitti che organizzano il campo, ma una diffusa competitività aggressiva che rende inoperanti tutti i meccanismi di decisione collettiva e ha colpito, in particolare, i partiti. Ma non solo i partiti. Non è diverso per i sindacati, non è diverso per le imprese e non è diverso per la Chiesa.
Le apocalissi del consenso sono conseguenza di apocalissi del senso. Non abbiamo ancora capito come e se si condenseranno le molecole di questo sistema senza più legami.
Marco Revelli: Non ci sono più legami forti, solo legami deboli. La gestione dei legami deboli è di fatto un problema, soprattutto di fronte a un’antropologia e a un’identità modificata dai consumi. Ricordiamo che il consumismo è stato un grande virus che ha avvelenato i pozzi, quando  gli investimenti di identità si sono trasferiti sugli stili di consumo si è scoperchiato il vaso di Pandora di tutte le mutazioni antropologiche possibile. Con questa atomizzazione, con questo individualismo radicale che scambia per libertà la produzione di bisogni inutili. Questo meccanismo di scambio provoca la nostra permanente indigenza. Siamo incapaci di soddisfare qualsiasi risposta e qualsiasi richiesta di comunità attraverso legami. Tanto più il legame diventa debole, quanto più cresce la micro aggressività individuale. Simone Weilparlava di sradicamento. Simone Weil diceva che chi è sradicato, sradica. La rottura del legame riproduce un meccanismo di ostilità molecolare.
Le sembra davvero una via praticabile? La sfiducia da cui ha preso l’avvio la nostra conversazione non rischia di travolgere anche questa speranza di una democrazia oltre i partiti?
Marco Revelli: La possibilità di riuscita in positivo di questa crisi richiederebbe una condizione essenziale:  che i partiti rinuncino alla pretesa di monopolio su tutto ciò che è pubblico. Questo monopolio, non più legittimato né giustificato, finisce per soffocare tutto ciò che potrebbe crescere sotto o a fianco. È chiaro che la possibilità di stare in forma virtuosa in questa transizione complicata che forse coincide con l’uscita dal moderno, forse è una rifeudalizzazione delle nostre società in un crepuscolo delle forme statali forti, non può prescindere da una condizione: che tutto ciò che nasce, non venga immediatamente bruciato dallo sguardo delle macchine politiche. Macchine onnivore che reclutano, spesso in modo ornamentale, ciò che di virtuoso nasce nella società, lo incorporano e lo degradano. Bisognerebbe cominciare questo difficile esercizio del rapporto paritario fra ciò che nasce nel sociale e ciò che sta nel politico.
di Marco Revelli - Marco Dotti

28 marzo 2013

Merkel e l’euro ci hanno strozzato. Ora basta!


I lettori del Giornale lo conoscono da anni come editorialista. Ma Claudio Borghi Aquilini, docente di Economia degli intermediari finanziari all’Università Cattolica di Milano, è soprattutto una voce eterodossa rispetto al conformismo europeista che domina sui media. Ecco perché Wall & Street hanno voluto ascoltare il suo parere.
Lo spread è un indicatore economico?
«Lo spread non dovrebbe esistere. Nel 2011 non sapevamo nemmeno cosa fosse perché sul mercato c’era la percezione che il debito europeo fosse condiviso. Il caso si è creato quando Merkel e Sarkozy hanno preso la scriteriata decisione del PSI (acronimo di Private Sector Involvement, cioè la ristrutturazione del debito greco tramite il coinvolgimento degli istituti di credito privati che detenevano i Sirtaki-bond). Allora si è compreso come i titoli di Stato non fossero garantiti ed è partita la speculazione. Infatti lo spread è aumentato a prescindere dai fondamentali economici».
Lo spread lo ha abbattuto Mario Monti o Mario Draghi?
«Lo spread è sceso quando il presidente della Bce Mario Draghi ha detto che avrebbe fatto tutto il possibile per difendere l’euro anche con acquisti potenzialmente illimitati di titoli di Stato, cioè mostrando la capacità dell’eurozona di monetizzare il debito. Come fa la Bank of England con i titoli britannici».
La politica di austerità è sbagliata?
«Sì. Gli economisti Paul de Grauwe e Paul Krugman hanno svelato l’inganno: consolidare i bilanci pubblici in periodo di recessione porta altra recessione e aumento del debito».
Ma la vulgata europeista dice che senza misure strutturali la Bce non sarebbe intervenuta a favore dell’Italia?
«La Bce sarebbe intervenuta ugualmente perché l’alternativa era rappresentata dalla dissoluzione dell’eurozona. L’Italia ha dimensioni troppo grandi. Magari qualcuno si sarebbe opposto a una replica dell’operazione greca con la mutualizzazione del debito attraverso il fondo salva-Stati e così non ci sarebbe stata alternativa al default che avrebbe travolto ».
Che cosa intende per «mutualizzazione del debito»?
«Nel momento in cui la Grecia è andata in default i principali creditori erano i Paesi dell’Europa “core” (Francia e Germania soprattutto; ndr). Con l’intervento dei fondi salva-Stati, Efsf prima e Esm adesso, questo credito è stato diviso anche con nazioni meno coinvolte come l’Italia».
Perché la Grecia è in ginocchio nonostante gli aiuti?
«La distruzione della Grecia era nei fatti. L’euro è una moneta troppo forte per quella economia. Faccio un esempio concreto: ammettiamo di azzerare il debito italiano con la bacchetta magica, non è per questo motivo che Fiat venderà di più. Al contrario, il gruppo di Torino venderà più auto prodotte in Italia se il loro prezzo sarà competitivo sul mercato. La differenza sostanziale è il valore della moneta. Se a questo si aggiungono le misure di austerità, un Paese è messo sotto scacco. Come fa un’impresa a investire in Grecia? I capitali fuggono e la gente continua a perdere il proprio posto di lavoro e quindi la recessione peggiora. L’aiuto ad Atene è stato solo un recupero crediti alla maniera di uno strozzino».
E la bancarotta di Cipro come si spiega?
«È un fallimento della vigilanza perché la Bce sapeva della concentrazione di depositi a Cipro, lo sapeva anche dagli stress test e ha fatto finta di nulla. E poi è un fallimento dell’Europa, cioè di Angela Merkel che, lasciando andare in default la Grecia, ha fatto andare in bancarotta le banche cipriote che vi investivano».
Il prelievo forzoso sui conti correnti può risolvere tutto?
«Se Merkel ha creato un buco lasciando fallire la Grecia, non si può tapparlo col prelievo forzoso. Cipro è un paese che dovrebbe essere tutelato dall’euro e ha le banche chiuse da quasi due settimane. Nemmeno in Egitto e in Tunisia durante le rivoluzioni è accaduta una cosa del genere».
È più grave mettere le mani sui conti correnti o chiedere a uno Stato che si dovrebbe salvare 5,8 miliardi di garanzia su 10 miliardi di aiuti?
«La garanzia sui depositi fino a 100.000 euro l’ha introdotta l’Ue. L’Islanda si è salvata con una garanzia di soli 20.000 euro rimborsando i creditori domestici prima e quelli esteri in seguito. Cipro può fallire ma se deve rimborsare i conti fino a 100.000 euro, bisogna costruirgli una via d’uscita praticabile. L’Ecofin ha adottato una strategia da magliari: la tutela dei depositi costruita tassando i depositi».
Secondo lei, cosa dovrebbe fare Cipro?
«Uscire dall’euro. È entrato da poco, non avrebbe nemmeno problemi di inflazione. Dovrebbe far andare le banche in default anche sui prestiti della Bce e poi stampare lire cipriote per rimborsare i creditori. Se anche così fosse troppo oneroso, potrebbe abbassare la garanzia sui depositi».
Condivide l’opinione secondo cui la situazione europea attuale assomiglia molto a quella del 1913?
«No. È molto più simile a quella del ’92 quando l’Italia uscì dal Sistema Monetario Europeo perché non riusciva a sostenere il regime di cambi fissi con le altre monete. La speculazione di Soros ha fatto saltare un sistema di cambi artificiale. Faccio un altro esempio: ci sono due atleti che devono correre i 100 metri in 10 secondi. Uno pesa 150 chili e l’altro 40 ma riescono a ottenere la stessa prestazione. Se metto loro in spalla uno zaino di 30 chili, il primo ce la fa in 11 secondi, quello più leggero impiegherà il doppio del tempo».
Si può uscire da questa spirale mantenendo la moneta unica?
«No. Le due alternative possibili sarebbero un’ammissione di fallimento. Il primo è quello dei trasferimenti interni: chi è più ricco dà a chi è più povero e il caso italiano con la Lombardia che finanzia la Calabria dimostra che il modello non funziona. La seconda ipotesi è la deflazione interna: si tagliano i prezzi tagliando i salari, ma se la gente guadagnasse il 30% in meno a parità di condizioni, si creerebbero squilibri sociali e, per altro, il debito non diminuirebbe».
Quanto ha guadagnato la Germania con l’euro?
«Il saldo della bilancia commerciale (esportazioni meno importazioni; ndr) era in sostanziale pareggio fino al 2002. Nei primi dieci anni di introduzione dell’euro è andata in attivo per complessivi 1.500 miliardi. Considerato che gli altri Paesi dell’eurozona sono i primi partner commerciali, il calcolo del trasferimento di ricchezza è presto fatto. Molti obiettano asserendo che la Germania ha compiuto importanti riforme che le hanno consentito di essere competitiva. È vero, ma è altrettanto vero che con l’euro del “tutti contro tutti” la Germania ha fatto deflazione salariale. Il suo successo corrisponde all’insuccesso della spagna e di altri Paesi in difficoltà».
Come si potrebbe uscire ordinatamente dall’euro?
«Se fosse successo due anni fa all’inizio della crisi greca, ora saremmo belli come il sole. Innanzitutto, bisogna precisare che i bassi tassi di interesse non derivano dall’essere parte di un’unione monetaria. In secondo luogo, bisogna sfatare il tabù secondo il quale con un’uscita dall’euro servirebbero cariolate di banconote per fare benzina e il costo dei mutui sarebbe insostenibile. Tra svalutazione e inflazione non c’è automatismo. L’euro all’inizio della sua storia ha perso il 30% del suo valore contro il dollaro e per noi non cambiò assolutamente nulla. Dopo la svalutazione della lira nel 1992 il tasso di inflazione scese dal 5 al 4,5 per cento. Magari le patate non si importerebbero più dalla Germania, ne produrremmo di più e anche i prezzi di beni prodotti all’estero si adeguerebbero e le Bmw costerebbero un po’ di meno se la casa tedesca intendesse non perdere troppo terreno sul mercato italiano».
E il debito?
«Anche qui bisogna specificare che cambiare moneta non equivale a fare default! Il debito sottoscritto con un contratto italiano sarebbe automaticamente traslato nella nuova valuta, a partire dai Btp e dai mutui. Ci sono però porzioni di debito stipulate con contratti esteri. Si tratta di debito pubblico (in minima parte; ndr) e soprattutto privato, a partire dai finanziamenti di lungo termine ottenuti dalle banche italiane tramite la Bce. Il vero problema è proprio questo…».
C’è una soluzione anche per questo?
«Sì. Una volta recuperata al suo ruolo Bankitalia, se Unicredit e Intesa Sanpaolo avessero problemi sui debiti con l’estero, si potrebbero nazionalizzare temporaneamente».
E a chi dice che senza euro faremmo la fine dell’Argentina cosa risponde?
«L’Argentina non ha avuto problemi in quanto ha fatto default. Anzi, da quel momento in poi è ripartita. La produzione è crollata prima quando hanno surrettiziamente agganciato il peso al dollaro Usa, strangolando così l’economia. E poi nel caso dell’Italia, lo ripeto, uscire dall’euro non sarebbe fare default!».
Wall & Street

27 marzo 2013

Crisi di Sistema





 

Un sistema che ha fondato la sua esistenza sullo spreco, sul degrado e sulla commercializzazione di beni superflui e di infima qualità, era destinato a implodere. Questa, del mondo occidentale, non è una semplice crisi, ma la fine di un’epoca. Il gran numero di disoccupati e di precari in continuo aumento, è il logico risultato di un tipo di lavoro, privo di fondamentali e, quindi, di regole certe.

Per usare una metafora, paragonerei il Sistema Liberista Relativista ad una fabbrica di bolle di sapone. La gente, ingannata per decenni e abbindolata dalla seduzione della modernità e da una massiccia propaganda mediatica totalitaria (che ha speculato sui bisogni, fragilità, paure e debolezze), troppo tardi ha compreso il valore effimero delle bolle di sapone. L’inganno è stato totale e ha prodotto un becero relativismo, che ha fatto piazza pulita di ogni valore etico e morale, omologando gli individui e codificandoli come semplici consumatori. Piano piano il grande imbroglio sta venendo a galla, e così la rabbia dei truffati, che esploderà in tutta la sua potenza, quando quella che oggi é definita una crisi assumerà le sembianze dell’apocalisse. L’avvelenamento delle acque e dell’aria, erano parametri sufficienti per rendersi conto di quale cammino era stato intrapreso, e indicatori della loro potenzialità distruttiva. Con che spudoratezza tutto questo è stato definito progresso e benessere? Se, per fare un esempio, oggi tutti gli automobilisti di Milano rispettassero alla lettera il codice della strada, questa città, già invivibile e caotica, si bloccherebbe all’istante. Può sembrare un assurdo ma è proprio grazie a chi elude e infrange le regole che, oggi, miracolosamente il traffico continua a scorrere, e le casse del comune ad ingrassarsi a dismisura.

Lo stesso principio e meccanismo vale anche per l’economia del nostro paese (il Sistema) che se dovesse attenersi a regole ferree e pene certe, imploderebbe in una settimana. Se i cittadini di un qualsiasi paese occidentale poi, in virtù di un risparmio ragionevole e doveroso, si astenessero dal consumare beni effimeri, contraffatti e voluttuari, orientandosi su quelli primari, durevoli e di prima necessità, il Sistema, che oggi ci governa e che ci opprime, si squaglierebbe come neve al sole. Sentire ancora parlare di ricerca, di crescita e sviluppo e delle semplificazioni relative al fare impresa, come le inderogabili soluzioni alla crisi, sarebbe come rendere libera la pesca epurando il suo regolamento da licenze, normative e divieti, quando oramai di pesci nel mare non ce ne sono più. Avremmo dovuto investire le nostre energie in un prudente dialogo con la madre terra, rispettandone le sue logiche e regole imperiture. E’ stata umiliata la natura e mortificato il lavoro dei campi, adducendone un significato distorto, di inciviltà, di miseria e ignoranza. Abbiamo voluto sfidare le nostre vere ragioni, come alieni, venuti da un’altra galassia, ma presto la terra ci ripagherà con la stessa moneta, per averla infamata e violentata.

Solo recuperando i valori e i doveri di un passato luminoso, oggi soppiantati dal perverso consumismo della Bestia Liberista, potremo intravedere un futuro fra le nere nubi che si addensano all’orizzonte, ma il prezzo da pagare sarà di sangue, di paura e di follia. Per tutti questi motivi, “la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società, è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. Una tale disperazione, avvolge il mio paese da molto tempo.”


di Gianni Tirelli 

26 marzo 2013

Democrazia senza partiti





marco revelli 20130323



«Non può esserci democrazia funzionante senza il canale dei partiti. Nessuna nuova o più vitale democrazia può nascere dalla demonizzazione dei partiti». Con queste parole, pronunciate al Teatro Toniolo di Mestre nel settembre del 2012, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è fatto interprete di un timore largamente diffuso tra le classi dirigenti: il rapporto tra democrazie e forma-partito sarebbe sul punto di rompersi definitivamente. A tutto svantaggio, sostiene Napolitano, della democrazia. È davvero così? Marco Revelli insegna Scienza della politica all’Università del Piemonte orientale e ha da poco pubblicato un libro, Finale di partito(Einaudi, pagine 138, euro 19), in cui affronta la questione collocandola in un passaggio d’epoca ben più radicale – il pieno ingresso in una società post industriale – senza il quale ogni “pro” e ogni “contro” i partiti rischia di rimanere una sterile petizione di principio.
Una caratteristiche della nostra società è che gli individui si fidano sempre meno gli uni degli altri, perché stentano a riconoscersi. Finita l’era dell’ottimismo – ottimismo tecnologico, fede nel progresso o nel mercato –  le  basi materiali della fiducia si sono sgretolate e la caduta generale del legame ha inevitabilmente toccato anche il rapporto tra cittadini e partiti. È una crisi che spinge non pochi analisti a una facile equazione: più si abbassa il livello di fiducia nei partiti, più cresce la passività tra i cittadini. La crisi della fiducia sarebbe quindi il vettore di ciò che impropriamente viene chiamato “populismo” o tacciato di “antipolitica”. Lei come legge la situazione dentro questo quadro generale di défiance
Marco Revelli: La caduta del legame di fiducia è clamorosa e oramai conclamata. La fiducia nei partiti, in Italia, tocca livelli parossistici e non supera il 5 per cento. Questo significa che solo un cittadino ogni venti crede ancora nella possibilità di un’azione concretamente democratica condotta attraverso i partiti politici. Questa crisi di fiducia nei partiti rischia di intaccare anche la fiducia nelle istituzioni che, relativamente al Parlamento, si attesta su un misero 8 per cento. Comprendiamo subito che in una democrazia parlamentare come la nostra, laddove il Parlamento dovrebbe essere il vero sovrano, il sovrano è in realtà completamente sfiduciato. Fenomeno che in Italia, come detto, tocca livelli parossistici, ma è generale ed esteso a tutto l’Occidente. Negli anni Sessanta e Settanta, nonostante fossero anni di contestazione, di lotte sociali e di conflitti, la fiducia nelle istituzioni era altissima e toccava picchi del 70 per cento. Il mondo è cambiato ma troppo spesso chi ragiona “di” politica e “in” politica non registra questo cambiamento. Avverte il disagio, si accorge che le cose non funzionano ma come se ci si fosse allontanati da un modello che prima o dopo potrebbe riprendere funzionare: la democrazia dei partiti. Al contrario, quel modello è finito. Finito come è finita la grande impresa: come non possiamo illuderci che a Mirafiori tornino a lavorare cinquantamila operai, così non possiamo pensare che tornino i grandi partiti di massa. I partiti erano grandi fabbriche del consenso. Queste fabbriche non funzionano più, così come non funzionerebbero più le vecchie fabbriche di automobili. Dobbiamo cercare di capire come si riassesta la politica dopo questa mutazione genetica dei suoi protagonisti e dei suoi soggetti. Soggetti che, beninteso, non scompaiono ma i partiti di oggi hanno una parentela lontanissima con i loro progenitori.  
Negli scenari futuri è possibile quindi una prospettiva di democrazia senza partiti?
Marco Revelli: Abbiamo conosciuto una fase specifica della democrazia dei moderni, quella della seconda metà del Novecento. Una fase che si caratterizzava per un modello democratico il cui protagonista principale e quasi esclusivo era il partito politico. Gramsci lo definì «il moderno principe» e difatti il partito sembrava il soggetto destinato a occupare quasi per intero la nostra modernità politica. In realtà, sappiamo che la democrazia – e anche la democrazia dei moderni sorta dopo la Rivoluzione del 1789 – è nata ben prima dei partiti. Prima esistevano certamente gruppi di notabili, raggruppamenti di individui ma ciò che tecnicamente chiamiamo “partito” non esisteva. Sottolineerei che persino un pezzo di Italia liberale tardo ottocentesca non conosceva i partiti strutturati come li abbiamo conosciuti col partito di massa. Sono stati i partiti socialisti e i partiti cattolico-popolari che hanno introdotto quella forma nella politica. Questo è il contesto. La fine di questo modello non significa tout court fine della democrazia e il passaggio a una forma autoritaria o dittatoriale Ciò a cui assistiamo non è la pura e semplice estinzione di ogni forma di partito che lascerà spazio solo a una terra incognita abitata da individui da un lato e istituzioni dall’altro. È casomai una metamorfosi: i partiti non scompaiono di punto in bianco, ma diventano una cosa diversa da ciò che avevamo in precedenza conosciuto. La stessa cosa accadde con la fine del fordismo, ossia della grande industria centralizzata e organizzata secondo rigidi schemi interni. La fine dell’organizzazione fordista del lavoro non ha portato alla scomparsa delle imprese. Imprese che, semplicemente, hanno assunto una forma e un modello di organizzazione completamente diversi rispetto al modello fordista che prevedeva una tutela “dalla culla alla tomba”. Ricordiamoci che c’erano scuole materne, colonie estive, modelli di socializzazione che crescevano tutto attorno alla grande fabbrica della città forsista. Allo stesso modo, attorno ai partiti era tutto un fiorire di iniziative e istituzioni, diciamo così, “pedagogiche”. C’erano addirittura le edizioni  di partito –dagli Editori Riuniti alle edizioni delle Cinque lune -, le riviste teoriche in cui si svolgevano dibattiti di alto profilo culturale, ma soprattutto la gente frequentava le sezioni e lì si formava. Magari si formava male, perché c’erano forme di dogmatismo o di fideismo o di spirito gregario e conformismo. Però, pur in questo quadro critico e spesso criticabile, il partito aveva una struttura solida e con oligarchie ben formate. Su questo punto, osserverei che ci sono anche studiosi che leggono la trasformazione in atto in termini positivi. Il pubblico, secondo questa lettura, sarebbe scolarizzato, dotato di strumenti autonomi per la formazione delle proprie opinioni e non dipende più dalla “casa madre”. Il ruolo pedagogico del partito è stato superato e un pubblico dotato di una maggiore autonomia critica si informa altrove, magari in rete. 
Un secolo fa, Roberto Michels pubblicava la sua Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie, il primo studio su quello che al tempo era ancora un oggetto misterioso: il partito politico. Michels, che partiva da posizioni di sinistra, ribadiva la sua convinzione che le organizzazioni fossero sottoposte a una “legge ferrea dell’oligarchia”. In sintesi: la naturale evoluzione di ogni partito politico condurrebbe da una struttura all’origine a aperta a una oligarchia. Lei dedica un capitolo del suo libro all’analisi di questa legge ferrea nel contesto post-industriale e post-fordista. Crede sia ancora attuale una lettura “élitista” del partito politico?
Marco Revelli: Michels aveva ben presente il modello “pesante” di partito della socialdemocrazia tedesca. Un modello plasmato sul modello organizzativo della burocrazia statale e di quella della grande fabbrica della produzione di massa. L’analisi delle oligarchie condotta da Michels si basava su questo dato di fatto e sulla netta distinzione tra governanti e governati. Il rapporto oligarchico, però, molto spesso si basava sulla fiducia dei subalterni. Una fiducia conquistata sul campo: ricordiamoci che molti leader avevano patito l’esilio o la prigione. Oggi le oligarchie non sono più legittimate da un rapporto di fedeltà stabile. Esattamente come le imprese si sono ramificate e delocalizzate in filiere lunghe nei territori e al tempo stesso si sono concentrate in alto, con vertici globali e incontrollabili da chiunque (persino dagli azionisti, non solo dai dipendenti), così i partiti si sono trasformati in strutture più leggere simili a aggregati di gruppi di potere, spesso caratterizzati da logiche affaristiche, che galleggiano su un elettorato liquido e non più caratterizzato da una fedeltà di lungo periodo. Questo elettorato sceglie quasi giorno per giorno  a chi dare il proprio consenso, seguendo logiche sempre più mediatiche.  
Stiamo andando quindi verso una “democrazia del pubblico”? In tal caso, pssiamo davvero parlare di passività civico-politica dei cittadini o siamo anche qui ci troviamo davanti a fenomeni in evoluzione continua e asimmetrica (fenomeni che difficilmente entrano o entreranno nelle griglie concettuali in cui li si vorrebbe racchiudere)?
Marco Revelli: È una lettura. Questo pubblico è in grado di trarre da se stesso le risposte ai propri problemi e, quindi, è anche più critico e ragiona su temi come i beni comuni, l’ambiente, il territorio, la viabilità, i problemi etici. Un pubblico che si forma delle proprie opinioni e poi va a vedere a quale offerta politica indirizzarsi. Spesso, però, l’offerta politica è qualitativamente inferiore alla domanda e la cultura dei politici di professione è inferiore a quella dei loro elettori. Ecco allora che il rapporto si rompe e cresce una forma di disprezzo da parte di un elettorato più consapevole nei confronti di una classe politica più inconsapevole. C’è poi una seconda lettura, di origine francese. Pierre Rosanvallon propone di chiamare “controdemocrazia” una democrazia diversa da quella dei partiti, per nulla “antipolitica”, dove elettorato che non si illude più di poter governare attraverso i propri rappresentanti cerca di porre un argine, attestandosi su una linea difensiva. In sostanza, se non ci possiamo più aspettare che i nostri governanti ci rappresentino, possiamo però difenderci da loro. I politici di professione sono visti come nemici potenziali che con le loro decisioni possono danneggiarci. È una sorta di democrazia giudiziaria, dove i cittadini cercano una tutela giurisdizionale contro in ceto politico di potenziali criminali. Dentro questa logica – il «dobbiamo difenderci dai rischi che arrivano dall’alto» – c’è sicuramente un pezzo di populismo.  
Populismo, antipolitica e, concetto che lei richiama più volte nella sua analisi, subpolitica.
Marco Revelli: Più che di antipolitica, ci troviamo spesso di fronte a forme nuove di pratica politica in un contesto di democrazia mutato, proprio perché non più mediato dai partiti. Smetterei di usare il termine in modo spregiativo, perché rischiamo di non capire nulla rispetto ai processi in atto.  subpolitica è invece un concetto introdotto da Ulrich Beck, non per sminuire il valore di quest’altra politica, ma per sottolinearne il carattere basilare.
Che cos’è, dunque, la subpolitica?
Marco Revelli: È la politica della vita, il luogo dove si affrontano i problemi che riguardano la sopravvivenza degli uomini: i grandi problemi etici, il problema degli stili di vita, il problema del consumo energetico, i beni comuni. Su questi temi la politica dei partiti non ha molto da dire. Al massimo – pensiamo al referendum sul nucleare – subisce il problema. I recenti referendum hanno mostrato che 27 milioni di italiani sono andati a votare fuori dagli schemi di partito, ma soprattutto hanno dimostrato che una certa forma della politica, quella che vorrebbe ancora il partito al centro della scena, è anacronistica e inefficace.  
Grillo sembra molto avanti, rispetto a quelli che lo contestano. Al contempo è molto indietro, rispetto a dove vorremmo essere. Secondo lei è antipolitica o subpolitica nel senso da lei richiamato?
Marco Revelli: Grillo non è un fenomeno folcloristico. I protagonisti della politica partitica lo trattano con sufficienza come se fosse folclore. Grillo è un sintomo, non certo la causa della crisi e proprio per questo va preso con estrema attenzione. Ha sicuramente tratti populistici, ma nella prevalenza è questa politica nuova che sgorga e cerca le sue forme, Starei attento, molto attento a questo secondo aspetto.
Movimento e adesso “comunità”.  Nel suo comizio in Val di Susa, il 14 febbraio scorso, Beppe Grillo ha dichiarato infatti: «Siamo una comunità, qui c’è un sentimento». Non sembrano parole dette a caso.
Marco Revelli: «Comunità», parola magica, di cui c’è estremamente bisogno. Bisogna però intendersi su questo desiderio di comunità. Gran parte del nostro disagio esistenziale è legato al nostro desiderio di comunità. Una comunità terribilmente assente. Siamo spaesati perché la nostra voglia di vivere in comune con gli altri, la nostra “comunanza” è venuta meno. Diciamocelo sinceramente, se vogliamo andare al di là degli aspetti della cronaca e della statistica, dobbiamo ammettere che la crisi dei partiti si inserisce in una più generale crisi dell’Occidente, che è poi crisi del nostro stile di vita. Crisi epocale che attraversa tutti i livelli, arrivando persino a lambire persino la Chiesa. Una crisi che – mi e vi chiedo – non ha forse a che fare con questo cedimento strutturale dei meccanismi di produzione di senso condiviso? Si sono inceppati i meccanismi di produzione di un noi,  nel passaggio dalla solitudine di un “io” a alla condivisione di un “noi”. Un’apocalisse del senso che rende vuoti tutti i troni, da quelli secolari fino a quelli spirituali. I luoghi si sono dissolti nei flussi. È un horror vacui, quello che ci coglie. Proprio perché si avverte che la rottura di questi meccanismi di produzione di un senso condiviso ricade in termini di una conflittualità molecolare. Non ci sono più conflitti che organizzano il campo, ma una diffusa competitività aggressiva che rende inoperanti tutti i meccanismi di decisione collettiva e ha colpito, in particolare, i partiti. Ma non solo i partiti. Non è diverso per i sindacati, non è diverso per le imprese e non è diverso per la Chiesa.
Le apocalissi del consenso sono conseguenza di apocalissi del senso. Non abbiamo ancora capito come e se si condenseranno le molecole di questo sistema senza più legami.
Marco Revelli: Non ci sono più legami forti, solo legami deboli. La gestione dei legami deboli è di fatto un problema, soprattutto di fronte a un’antropologia e a un’identità modificata dai consumi. Ricordiamo che il consumismo è stato un grande virus che ha avvelenato i pozzi, quando  gli investimenti di identità si sono trasferiti sugli stili di consumo si è scoperchiato il vaso di Pandora di tutte le mutazioni antropologiche possibile. Con questa atomizzazione, con questo individualismo radicale che scambia per libertà la produzione di bisogni inutili. Questo meccanismo di scambio provoca la nostra permanente indigenza. Siamo incapaci di soddisfare qualsiasi risposta e qualsiasi richiesta di comunità attraverso legami. Tanto più il legame diventa debole, quanto più cresce la micro aggressività individuale. Simone Weilparlava di sradicamento. Simone Weil diceva che chi è sradicato, sradica. La rottura del legame riproduce un meccanismo di ostilità molecolare.
Le sembra davvero una via praticabile? La sfiducia da cui ha preso l’avvio la nostra conversazione non rischia di travolgere anche questa speranza di una democrazia oltre i partiti?
Marco Revelli: La possibilità di riuscita in positivo di questa crisi richiederebbe una condizione essenziale:  che i partiti rinuncino alla pretesa di monopolio su tutto ciò che è pubblico. Questo monopolio, non più legittimato né giustificato, finisce per soffocare tutto ciò che potrebbe crescere sotto o a fianco. È chiaro che la possibilità di stare in forma virtuosa in questa transizione complicata che forse coincide con l’uscita dal moderno, forse è una rifeudalizzazione delle nostre società in un crepuscolo delle forme statali forti, non può prescindere da una condizione: che tutto ciò che nasce, non venga immediatamente bruciato dallo sguardo delle macchine politiche. Macchine onnivore che reclutano, spesso in modo ornamentale, ciò che di virtuoso nasce nella società, lo incorporano e lo degradano. Bisognerebbe cominciare questo difficile esercizio del rapporto paritario fra ciò che nasce nel sociale e ciò che sta nel politico.
di Marco Revelli - Marco Dotti