Quando la classe media e i giovani sono sistematicamente esclusi dai
vertici economici e sociali l’unica via di sbocco è la sovversione del
sistema. I leader europei non dovrebbero dare per scontata la
stabilità.
Al contrario di quello che si pensa, in occidente non sono i poveri e i
più sfortunati a fare le rivoluzioni, ma le classi medie. È quello che
è successo in tutte le rivoluzioni a cominciare dalla rivoluzione
francese e con la sola eccezione della rivoluzione d'ottobre, che fu un
colpo di stato compiuto in una situazione di estremo disordine
politico.
Ma quand’è che la classe media decide di lanciarsi in una rivoluzione?
In primo luogo non si tratta della classe media nel suo insieme né di
un gruppo organizzato né tanto meno di una comunità, ma dei leader
della classe media, quegli stessi che oggi vincono le elezioni in
Europa e che sono definiti irresponsabili (perché non appartengono alla
geriatrica classe politica tradizionale), e che all'improvviso si
rivelano non solo molto popolari, ma anche incredibilmente efficaci.
Nel classico caso della rivoluzione francese il ruolo di avanguardia
rivoluzionaria è stato svolto da avvocati, imprenditori, funzionari
della pubblica amministrazione dell'epoca e da una parte degli ufficiali
dell'esercito. Il fattore economico era importante, ma non essenziale.
Gli elementi scatenanti del movimento rivoluzionario sono stati prima di
tutto l'assenza di apertura nella vita pubblica e l'impossibilità di
promozione sociale. Di fatto l'aristocrazia, nel cercare di limitare a
ogni costo l'influenza degli avvocati e degli uomini d'affari, ha
favorito la rivoluzione. In tutta Europa – a eccezione della saggia
Inghilterra – la nuova classe media non era in grado di decidere il suo
destino.
Qual è oggi la discriminazione? E’ simile e diversa al tempo stesso.
Senza dubbio l'aristocrazia non monopolizza più il processo decisionale,
ma i banchieri, gli speculatori di borsa e i manager che guadagnano
centinaia di milioni di euro estromettono da questo processo la classe
media, che ne subisce le drammatiche conseguenze. Cipro ne è l'ultimo e
più significativo esempio.
Ma di esempi ce ne sono molti altri. Prendiamo i professori
universitari, che non solo in Polonia ma in tutta Europa tremano per il
loro posto di lavoro, soprattutto se hanno la sfortuna di insegnare
materie dichiarate poco utili dall'Unione europea, dagli stati membri e
dalle multinazionali che definiscono il mercato del lavoro.
In Slovacchia, per esempio, le scienze umane sono state quasi
cancellate, mettendo in grave difficoltà gli esperti di materie come la
storia, la grammatica, l'etnografia o la logica. Fra non molto altre
categorie professionali seguiranno la stessa sorte, come i funzionari
della pubblica amministrazione, il cui numero è letteralmente esploso in
passato. È colpa loro? No di certo. E che cosa può fare un funzionario
licenziato con 15 anni di anzianità alle spalle e che ha sempre
conosciuto la sicurezza del posto di lavoro? Probabilmente non molto. E
lo stesso discorso vale per tutti quei giovani laureati che il mercato
del lavoro ha lasciato sul bordo della strada, e per gli artisti, i
giornalisti e gli altri lavoratori diventati precari a causa
dell'avvento dell'era digitale.
Dominio dei vecchi
Le rivoluzioni emergono attraverso l’esclusione professionale e
decisionale e il deficit democratico. Si battono anche contro la
barriera generazionale o semplicemente contro il dominio dei vecchi. Non
è un caso se i capi della rivoluzione francese avevano circa 30 anni,
mentre l'età media dei partecipanti al congresso di Vienna (1815) che
ristabilì l'ordine conservatore in Europa era di oltre 60. Gli attuali
dirigenti europei hanno per lo più fra i 50 e i 60 anni, ma tenuto conto
dei progressi della medicina, è molto probabile che tra 20 anni Merkel,
Cameron, Tusk e Hollande saranno ancora al loro posto. A meno che non
vengano spazzati via da una rivoluzione.
Tutte le vie di ascesa dell'attuale classe media, per lo più giovane,
sono bloccate da miliardari, da vecchi o da gente che sembra tale a un
ragazzo di 25 anni. Questa situazione è esplosiva. È sbagliato credere
che dei giovani arrabbiati contro il sistema, ma privi del linguaggio
abituale dei partiti politici e dei movimenti politici organizzati, non
siano capaci di portare a termine una rivolta organizzata. La
rivoluzione non si è mai fatta in nome di una misura particolare, per
esempio un maggiore controllo bancario, ma perché non è più possibile
vivere in queste condizioni. Una rivoluzione, in opposizione totale con i
metodi dei partiti politici, non utilizza un linguaggio politico. La
rivoluzione grida, urla, il suono di una rivoluzione è caotico ma
perfettamente udibile.
Ma vogliamo veramente una rivoluzione? Non penso, perché la rivoluzione
vuol dire la distruzione totale prima della costruzione di un ordine
nuovo. Tuttavia i nostri leader politici continuano a non rendersi
conto di essere seduti su un barile di polvere da sparo. Non lo
capiscono, troppo preoccupati dalla sola idea che li ossessiona:
tornare alla stabilità entro 10-30 anni. Non sanno che nella storia non
si torna indietro e che le loro intenzioni ricordano la frase di Karl
Marx secondo cui la storia si ripete, ma come una farsa.
di Marcin Król
Marcin Król (1944) è un filosofo, scrittore e giornalista polacco.
Nel 2012 ha pubblicato Europa w obliczu konca ("L'Europa di fronte alla
fine").
23 aprile 2013
21 aprile 2013
Cresce il sostegno alla legge Glass-Steagall negli Stati Uniti mentre l'economia è in caduta libera
Il 25 marzo il disegno di legge presentato dalla congressista Marcy Kaptur per il ripristino della separazione bancaria come nella legge Glass-Steagall (HR 129) è stato firmato da altri sei congressisti, portando il totale dei firmatari a 46. Tra i sei nuovi firmatari c'è Marcia Fudge, che presiede il Black Caucus al Congresso, Keith Ellison, co-presidente del Congressional Progressive Caucus, e John Dingell, un autorevole leader del Partito Democratico, il cui padre fu tra i firmatari della legge Glass-Steagall sotto Roosevelt.
Grazie alla spinta organizzativa del movimento di LaRouche (LPAC), sono
state presentate mozioni che chiedono al Congresso di approvare la legge
HR 129 in 13 parlamenti degli stati (Alabama, Hawaii, Kentucky, Maine,
Maryland, Mississippi, Montana, Pennsylvania, Rhode Island, South
Dakota, Virginia, Washington e West Virginia). Nel South Dakota, la
mozione in questo senso è stata approvata sia alla Camera che al Senato
il 28 febbraio, e nel Maine il Senato ha approvato la mozione il 4
aprile. Si prospettano mozioni simili in numerosi altri stati.
Oltre alle mozioni, numerose figure istituzionali si sono espresse a
favore della legge Glass-Steagall. Una di loro è l'ex direttore del
bilancio nell'amministrazione Reagan ed ex congressista David Stockman,
che sulla prima pagina del New York Times Sunday Review mette in
guardia da un altro collasso finanziario in arrivo per via del "denaro
caldo e instabile" che è aumentato da quando "sono state completamente
smantellate le tutele stabilite dalla legge Glass-Steagall".
Per superare la crisi, scrive, occorre "mettere fine alla
cartolarizzazione che ha trasformato l'economia in una gigantesca bisca
dagli anni Settanta. Questo significa lasciare a se stesse le banche di
Wall Street affinché competano a proprio rischio, senza concedere loro
prestiti della Federal Reserve o assicurazioni sui depositi. Le banche
ordinarie potranno raccogliere depositi o concedere prestiti
commerciali, ma verranno escluse dal trading, dalla sottoscrizione di
obbligazioni e dalla gestione finanziaria in tutte le sue forme".
È una descrizione alquanto accurata della legge Glass-Steagall, anche se
Stockman non la cita per nome, forse per evitare la matita rossa e blu
dei redattori del New York Times. Il giorno prima, durante una
popolare trasmissione radiofonica, Stockman si era detto a favore della
legge Glass-Steagall "al posto della stupida legge Dodd-Frank".
Con un'altra iniziativa mirante a ripulire il sistema bancario, il
sindacato nazionale degli agricoltori (National Farmers Union) ha
ribadito il proprio sostegno alla legge Glass-Steagall nella sua
dichiarazione annuale, pubblicata il 5 marzo. Il NFU sostiene la
separazione bancaria almeno dal 2010. Ma questa settimana ha chiesto
anche di "indagare con vigore e muovere azioni penali contro le attività
criminali nei nostri istituti finanziari".
Il presidente del sindacato nello stato dell'Indiana, James Benham, ha
dato un vivace resoconto delle sue iniziative a favore della legge HR
129 nel corso di una conferenza tenuta dallo Schiller Institute nei
pressi di Washington il 23 marzo. Come ha sottolineato, gli agricoltori
costituiscono un settore dell'economia nazionale particolarmente colpito
dalla speculazione finanziaria e dalla crescente cartellizzazione.
Dagli esordi di questo paese, si afferma nella dichiarazione, "la
politica pubblica ha favorito un sistema bancario decentralizzato, per
evitare gli abusi che sarebbero derivati da una struttura finanziaria
altamente concentrata. Siamo preoccupati di fronte ai trend recenti che
hanno accelerato la perdita di banche locali indipendenti aumentando il
ruolo delle grosse banche anche nel settore agricolo. Questo ha ridotto
gli investimenti nelle comunità".
Disgraziatamente la comprensione dell'economia reale manifestata dal NFU
non è arrivata alla Commissione Agricoltura al Congresso, che il 20
marzo ha approvato sei disegni di legge che aumentano il sostegno dei
contribuenti ai derivati e creano nuove scappatoie commerciali
consentendo alle banche di eludere gli standard di gestione del rischio.
by (MoviSol)
20 aprile 2013
Cambiare i trattati?
Di fronte alle argomentazioni sostenute nei testi citati, argomentazioni che credo difficilmente aggirabili, la linea di difesa di chi dice di voler salvare i principi di civiltà sociale contenuti nella nostra Costituzione, ma non accetta la parola d'ordine dell'uscita unilaterale dall'UE, è quella del “cambiare i Trattati”. Questa parola d'ordine può essere declinata in molti modi, e ovviamente si sposa molto bene con gli slogan sul “più Europa” e sulla “Europa dei popoli” che abbiamo già criticato in vari luoghi.
Cerchiamo adesso di capire perché non abbia nessun senso la proposta di “cambiare i Trattati”. Si tratta, nella sostanza se non nella forma, della proposta di scrivere e far adottare una Costituzione europea che sia ispirata a principi del tutto opposti a quelli dei Trattati. Si noti che, se anche non esiste una Costituzione europea, i vari Trattati ne fanno benissimo le veci, e si possono in pratica considerare l'essenza di ciò che è oggi l'UE.
La prima osservazione critica è che per cambiare i Trattati occorre l'unanimità degli Stati membri. La proposta di cambiare i Trattati in senso favorevole ai diritti dei lavoratori e dei ceti subalterni richiede cioè che si formino e si mantengano, per un periodo di tempo sufficiente, maggioranze politiche che condividano questi obiettivi, in tutti e 27 i paesi UE. Basta che un paese si opponga, e la proposta è bloccata.
Questa difficoltà “tecnica”, d'altro canto, è solo un aspetto della difficoltà politica e culturale di fondo.
L'obiezione fondamentale alla proposta di “cambiare i Trattati” sta nel fatto che non esiste una soggettività politica continentale in grado di imporre il cambiamento nel senso dei valori auspicati. Come abbiamo già avuto modo di dire, non esiste un popolo europeo. Chi elaborerebbe le proposte? Quali forze politiche se ne farebbero carico? Chi condurrebbe le trattative e sottoscriverebbe gli inevitabili compromessi?
Possiamo pure immaginare di realizzare, superando tutte le difficoltà tecniche e politiche, quella che sarebbe, nelle attuali circostanze, la cosa migliore: un'Assemblea Costituente Europea eletta a suffragio proporzionale. Davvero è possibile pensare che da una cosa del genere nascerebbe una Costituzione attenta ai valori di giustizia sociale, emancipazione, armonia con l'ambiente? E' quasi sicuro che le forze che in modi diversi si ispirano a questi valori sarebbero divise e i loro discorsi sarebbero una cacofonia di proposte slegate fra loro. Una unità popolare a livello continentale si crea con un lungo lavoro di scambi, di incontri, con lotte collettive, con l'adozione di una lingua comune. Come abbiamo rilevato più volte, l'indifferenza dei popoli europei al dramma del popolo greco mostra con chiarezza come si sia lontanissimi da una vera unità popolare europea. E si noti che non si tratta qui solo della mancanza di empatia e di spirito di ribellione contro l'ingiustizia. La solidarietà col popolo greco risponderebbe agli stessi interessi materiali dei popoli europei, perché è chiarissimo che quello svolto in Grecia è solo un esperimento che verrà poi replicato in tutti i paesi del Sud Europa, e non solo.
Una Assemblea Costituente Europea non farebbe allora che ribadire le distanze e le incomprensioni fra i ceti popolari europei. D'altra parte, le posizioni dei ceti dominanti sarebbero espresse in modo molto più unitario e risulterebbero alla fine vincenti. I ceti dominanti, come abbiamo più volte detto, sono gli unici in grado di agire a livello europeo perché sono unificati da lingua, cultura e valori (anche se parzialmente divisi, come è ovvio, da interessi materiali). Dopotutto, se esistono i Trattati, e quindi l'UE, è appunto perché li hanno fatti i ceti dominanti.
Anche a livello nazionale l'adozione di una Costituzione non è certo un affare di tutti i giorni. Le Costituzioni nascono in momenti molto particolari, in risposta a grandi movimenti sociali e ideali, o a grandi crisi. La nostra Costituzione è nata perché il rifiuto del nazifascismo ha portato all'unità su alcuni principi di fondo la grande maggioranza del popolo italiano e le principali foze politiche che tale maggioranza esprimevano.
Oggi la crisi economica, che è la crisi della forma "neoliberista" e "globalizzata" che ha assunto il capitalismo negli ultimi trent'anni, non produce solidarietà a livello continentale, ma divisioni e contrapposizioni. L'unità dei popoli europei non c'è e non si vede quando possa sorgere, nel breve e medio periodo. Di conseguenza, non c'è nessuna possibilità di “cambiare i Trattati” in senso favorevole ai ceti popolari. L'unica opzione realistica per salvare quel che resta di civiltà sociale nel nostro paese è l'abbandono unilaterale dell'UE.
di Marino Badiale
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23 aprile 2013
LA RIVOLUZIONE E' POSSIBILE
Quando la classe media e i giovani sono sistematicamente esclusi dai
vertici economici e sociali l’unica via di sbocco è la sovversione del
sistema. I leader europei non dovrebbero dare per scontata la
stabilità.
Al contrario di quello che si pensa, in occidente non sono i poveri e i più sfortunati a fare le rivoluzioni, ma le classi medie. È quello che è successo in tutte le rivoluzioni a cominciare dalla rivoluzione francese e con la sola eccezione della rivoluzione d'ottobre, che fu un colpo di stato compiuto in una situazione di estremo disordine politico.
Ma quand’è che la classe media decide di lanciarsi in una rivoluzione?
In primo luogo non si tratta della classe media nel suo insieme né di un gruppo organizzato né tanto meno di una comunità, ma dei leader della classe media, quegli stessi che oggi vincono le elezioni in Europa e che sono definiti irresponsabili (perché non appartengono alla geriatrica classe politica tradizionale), e che all'improvviso si rivelano non solo molto popolari, ma anche incredibilmente efficaci.
Nel classico caso della rivoluzione francese il ruolo di avanguardia rivoluzionaria è stato svolto da avvocati, imprenditori, funzionari della pubblica amministrazione dell'epoca e da una parte degli ufficiali dell'esercito. Il fattore economico era importante, ma non essenziale. Gli elementi scatenanti del movimento rivoluzionario sono stati prima di tutto l'assenza di apertura nella vita pubblica e l'impossibilità di promozione sociale. Di fatto l'aristocrazia, nel cercare di limitare a ogni costo l'influenza degli avvocati e degli uomini d'affari, ha favorito la rivoluzione. In tutta Europa – a eccezione della saggia Inghilterra – la nuova classe media non era in grado di decidere il suo destino.
Qual è oggi la discriminazione? E’ simile e diversa al tempo stesso. Senza dubbio l'aristocrazia non monopolizza più il processo decisionale, ma i banchieri, gli speculatori di borsa e i manager che guadagnano centinaia di milioni di euro estromettono da questo processo la classe media, che ne subisce le drammatiche conseguenze. Cipro ne è l'ultimo e più significativo esempio.
Ma di esempi ce ne sono molti altri. Prendiamo i professori universitari, che non solo in Polonia ma in tutta Europa tremano per il loro posto di lavoro, soprattutto se hanno la sfortuna di insegnare materie dichiarate poco utili dall'Unione europea, dagli stati membri e dalle multinazionali che definiscono il mercato del lavoro.
In Slovacchia, per esempio, le scienze umane sono state quasi cancellate, mettendo in grave difficoltà gli esperti di materie come la storia, la grammatica, l'etnografia o la logica. Fra non molto altre categorie professionali seguiranno la stessa sorte, come i funzionari della pubblica amministrazione, il cui numero è letteralmente esploso in passato. È colpa loro? No di certo. E che cosa può fare un funzionario licenziato con 15 anni di anzianità alle spalle e che ha sempre conosciuto la sicurezza del posto di lavoro? Probabilmente non molto. E lo stesso discorso vale per tutti quei giovani laureati che il mercato del lavoro ha lasciato sul bordo della strada, e per gli artisti, i giornalisti e gli altri lavoratori diventati precari a causa dell'avvento dell'era digitale.
Dominio dei vecchi
Le rivoluzioni emergono attraverso l’esclusione professionale e decisionale e il deficit democratico. Si battono anche contro la barriera generazionale o semplicemente contro il dominio dei vecchi. Non è un caso se i capi della rivoluzione francese avevano circa 30 anni, mentre l'età media dei partecipanti al congresso di Vienna (1815) che ristabilì l'ordine conservatore in Europa era di oltre 60. Gli attuali dirigenti europei hanno per lo più fra i 50 e i 60 anni, ma tenuto conto dei progressi della medicina, è molto probabile che tra 20 anni Merkel, Cameron, Tusk e Hollande saranno ancora al loro posto. A meno che non vengano spazzati via da una rivoluzione.
Tutte le vie di ascesa dell'attuale classe media, per lo più giovane, sono bloccate da miliardari, da vecchi o da gente che sembra tale a un ragazzo di 25 anni. Questa situazione è esplosiva. È sbagliato credere che dei giovani arrabbiati contro il sistema, ma privi del linguaggio abituale dei partiti politici e dei movimenti politici organizzati, non siano capaci di portare a termine una rivolta organizzata. La rivoluzione non si è mai fatta in nome di una misura particolare, per esempio un maggiore controllo bancario, ma perché non è più possibile vivere in queste condizioni. Una rivoluzione, in opposizione totale con i metodi dei partiti politici, non utilizza un linguaggio politico. La rivoluzione grida, urla, il suono di una rivoluzione è caotico ma perfettamente udibile.
Ma vogliamo veramente una rivoluzione? Non penso, perché la rivoluzione vuol dire la distruzione totale prima della costruzione di un ordine nuovo. Tuttavia i nostri leader politici continuano a non rendersi conto di essere seduti su un barile di polvere da sparo. Non lo capiscono, troppo preoccupati dalla sola idea che li ossessiona: tornare alla stabilità entro 10-30 anni. Non sanno che nella storia non si torna indietro e che le loro intenzioni ricordano la frase di Karl Marx secondo cui la storia si ripete, ma come una farsa.
di Marcin Król
Marcin Król (1944) è un filosofo, scrittore e giornalista polacco. Nel 2012 ha pubblicato Europa w obliczu konca ("L'Europa di fronte alla fine").
Al contrario di quello che si pensa, in occidente non sono i poveri e i più sfortunati a fare le rivoluzioni, ma le classi medie. È quello che è successo in tutte le rivoluzioni a cominciare dalla rivoluzione francese e con la sola eccezione della rivoluzione d'ottobre, che fu un colpo di stato compiuto in una situazione di estremo disordine politico.
Ma quand’è che la classe media decide di lanciarsi in una rivoluzione?
In primo luogo non si tratta della classe media nel suo insieme né di un gruppo organizzato né tanto meno di una comunità, ma dei leader della classe media, quegli stessi che oggi vincono le elezioni in Europa e che sono definiti irresponsabili (perché non appartengono alla geriatrica classe politica tradizionale), e che all'improvviso si rivelano non solo molto popolari, ma anche incredibilmente efficaci.
Nel classico caso della rivoluzione francese il ruolo di avanguardia rivoluzionaria è stato svolto da avvocati, imprenditori, funzionari della pubblica amministrazione dell'epoca e da una parte degli ufficiali dell'esercito. Il fattore economico era importante, ma non essenziale. Gli elementi scatenanti del movimento rivoluzionario sono stati prima di tutto l'assenza di apertura nella vita pubblica e l'impossibilità di promozione sociale. Di fatto l'aristocrazia, nel cercare di limitare a ogni costo l'influenza degli avvocati e degli uomini d'affari, ha favorito la rivoluzione. In tutta Europa – a eccezione della saggia Inghilterra – la nuova classe media non era in grado di decidere il suo destino.
Qual è oggi la discriminazione? E’ simile e diversa al tempo stesso. Senza dubbio l'aristocrazia non monopolizza più il processo decisionale, ma i banchieri, gli speculatori di borsa e i manager che guadagnano centinaia di milioni di euro estromettono da questo processo la classe media, che ne subisce le drammatiche conseguenze. Cipro ne è l'ultimo e più significativo esempio.
Ma di esempi ce ne sono molti altri. Prendiamo i professori universitari, che non solo in Polonia ma in tutta Europa tremano per il loro posto di lavoro, soprattutto se hanno la sfortuna di insegnare materie dichiarate poco utili dall'Unione europea, dagli stati membri e dalle multinazionali che definiscono il mercato del lavoro.
In Slovacchia, per esempio, le scienze umane sono state quasi cancellate, mettendo in grave difficoltà gli esperti di materie come la storia, la grammatica, l'etnografia o la logica. Fra non molto altre categorie professionali seguiranno la stessa sorte, come i funzionari della pubblica amministrazione, il cui numero è letteralmente esploso in passato. È colpa loro? No di certo. E che cosa può fare un funzionario licenziato con 15 anni di anzianità alle spalle e che ha sempre conosciuto la sicurezza del posto di lavoro? Probabilmente non molto. E lo stesso discorso vale per tutti quei giovani laureati che il mercato del lavoro ha lasciato sul bordo della strada, e per gli artisti, i giornalisti e gli altri lavoratori diventati precari a causa dell'avvento dell'era digitale.
Dominio dei vecchi
Le rivoluzioni emergono attraverso l’esclusione professionale e decisionale e il deficit democratico. Si battono anche contro la barriera generazionale o semplicemente contro il dominio dei vecchi. Non è un caso se i capi della rivoluzione francese avevano circa 30 anni, mentre l'età media dei partecipanti al congresso di Vienna (1815) che ristabilì l'ordine conservatore in Europa era di oltre 60. Gli attuali dirigenti europei hanno per lo più fra i 50 e i 60 anni, ma tenuto conto dei progressi della medicina, è molto probabile che tra 20 anni Merkel, Cameron, Tusk e Hollande saranno ancora al loro posto. A meno che non vengano spazzati via da una rivoluzione.
Tutte le vie di ascesa dell'attuale classe media, per lo più giovane, sono bloccate da miliardari, da vecchi o da gente che sembra tale a un ragazzo di 25 anni. Questa situazione è esplosiva. È sbagliato credere che dei giovani arrabbiati contro il sistema, ma privi del linguaggio abituale dei partiti politici e dei movimenti politici organizzati, non siano capaci di portare a termine una rivolta organizzata. La rivoluzione non si è mai fatta in nome di una misura particolare, per esempio un maggiore controllo bancario, ma perché non è più possibile vivere in queste condizioni. Una rivoluzione, in opposizione totale con i metodi dei partiti politici, non utilizza un linguaggio politico. La rivoluzione grida, urla, il suono di una rivoluzione è caotico ma perfettamente udibile.
Ma vogliamo veramente una rivoluzione? Non penso, perché la rivoluzione vuol dire la distruzione totale prima della costruzione di un ordine nuovo. Tuttavia i nostri leader politici continuano a non rendersi conto di essere seduti su un barile di polvere da sparo. Non lo capiscono, troppo preoccupati dalla sola idea che li ossessiona: tornare alla stabilità entro 10-30 anni. Non sanno che nella storia non si torna indietro e che le loro intenzioni ricordano la frase di Karl Marx secondo cui la storia si ripete, ma come una farsa.
di Marcin Król
Marcin Król (1944) è un filosofo, scrittore e giornalista polacco. Nel 2012 ha pubblicato Europa w obliczu konca ("L'Europa di fronte alla fine").
21 aprile 2013
Cresce il sostegno alla legge Glass-Steagall negli Stati Uniti mentre l'economia è in caduta libera
Il 25 marzo il disegno di legge presentato dalla congressista Marcy Kaptur per il ripristino della separazione bancaria come nella legge Glass-Steagall (HR 129) è stato firmato da altri sei congressisti, portando il totale dei firmatari a 46. Tra i sei nuovi firmatari c'è Marcia Fudge, che presiede il Black Caucus al Congresso, Keith Ellison, co-presidente del Congressional Progressive Caucus, e John Dingell, un autorevole leader del Partito Democratico, il cui padre fu tra i firmatari della legge Glass-Steagall sotto Roosevelt.
Grazie alla spinta organizzativa del movimento di LaRouche (LPAC), sono
state presentate mozioni che chiedono al Congresso di approvare la legge
HR 129 in 13 parlamenti degli stati (Alabama, Hawaii, Kentucky, Maine,
Maryland, Mississippi, Montana, Pennsylvania, Rhode Island, South
Dakota, Virginia, Washington e West Virginia). Nel South Dakota, la
mozione in questo senso è stata approvata sia alla Camera che al Senato
il 28 febbraio, e nel Maine il Senato ha approvato la mozione il 4
aprile. Si prospettano mozioni simili in numerosi altri stati.
Oltre alle mozioni, numerose figure istituzionali si sono espresse a
favore della legge Glass-Steagall. Una di loro è l'ex direttore del
bilancio nell'amministrazione Reagan ed ex congressista David Stockman,
che sulla prima pagina del New York Times Sunday Review mette in
guardia da un altro collasso finanziario in arrivo per via del "denaro
caldo e instabile" che è aumentato da quando "sono state completamente
smantellate le tutele stabilite dalla legge Glass-Steagall".
Per superare la crisi, scrive, occorre "mettere fine alla
cartolarizzazione che ha trasformato l'economia in una gigantesca bisca
dagli anni Settanta. Questo significa lasciare a se stesse le banche di
Wall Street affinché competano a proprio rischio, senza concedere loro
prestiti della Federal Reserve o assicurazioni sui depositi. Le banche
ordinarie potranno raccogliere depositi o concedere prestiti
commerciali, ma verranno escluse dal trading, dalla sottoscrizione di
obbligazioni e dalla gestione finanziaria in tutte le sue forme".
È una descrizione alquanto accurata della legge Glass-Steagall, anche se
Stockman non la cita per nome, forse per evitare la matita rossa e blu
dei redattori del New York Times. Il giorno prima, durante una
popolare trasmissione radiofonica, Stockman si era detto a favore della
legge Glass-Steagall "al posto della stupida legge Dodd-Frank".
Con un'altra iniziativa mirante a ripulire il sistema bancario, il
sindacato nazionale degli agricoltori (National Farmers Union) ha
ribadito il proprio sostegno alla legge Glass-Steagall nella sua
dichiarazione annuale, pubblicata il 5 marzo. Il NFU sostiene la
separazione bancaria almeno dal 2010. Ma questa settimana ha chiesto
anche di "indagare con vigore e muovere azioni penali contro le attività
criminali nei nostri istituti finanziari".
Il presidente del sindacato nello stato dell'Indiana, James Benham, ha
dato un vivace resoconto delle sue iniziative a favore della legge HR
129 nel corso di una conferenza tenuta dallo Schiller Institute nei
pressi di Washington il 23 marzo. Come ha sottolineato, gli agricoltori
costituiscono un settore dell'economia nazionale particolarmente colpito
dalla speculazione finanziaria e dalla crescente cartellizzazione.
Dagli esordi di questo paese, si afferma nella dichiarazione, "la
politica pubblica ha favorito un sistema bancario decentralizzato, per
evitare gli abusi che sarebbero derivati da una struttura finanziaria
altamente concentrata. Siamo preoccupati di fronte ai trend recenti che
hanno accelerato la perdita di banche locali indipendenti aumentando il
ruolo delle grosse banche anche nel settore agricolo. Questo ha ridotto
gli investimenti nelle comunità".
Disgraziatamente la comprensione dell'economia reale manifestata dal NFU
non è arrivata alla Commissione Agricoltura al Congresso, che il 20
marzo ha approvato sei disegni di legge che aumentano il sostegno dei
contribuenti ai derivati e creano nuove scappatoie commerciali
consentendo alle banche di eludere gli standard di gestione del rischio.
by (MoviSol)
20 aprile 2013
Cambiare i trattati?
Di fronte alle argomentazioni sostenute nei testi citati, argomentazioni che credo difficilmente aggirabili, la linea di difesa di chi dice di voler salvare i principi di civiltà sociale contenuti nella nostra Costituzione, ma non accetta la parola d'ordine dell'uscita unilaterale dall'UE, è quella del “cambiare i Trattati”. Questa parola d'ordine può essere declinata in molti modi, e ovviamente si sposa molto bene con gli slogan sul “più Europa” e sulla “Europa dei popoli” che abbiamo già criticato in vari luoghi.
Cerchiamo adesso di capire perché non abbia nessun senso la proposta di “cambiare i Trattati”. Si tratta, nella sostanza se non nella forma, della proposta di scrivere e far adottare una Costituzione europea che sia ispirata a principi del tutto opposti a quelli dei Trattati. Si noti che, se anche non esiste una Costituzione europea, i vari Trattati ne fanno benissimo le veci, e si possono in pratica considerare l'essenza di ciò che è oggi l'UE.
La prima osservazione critica è che per cambiare i Trattati occorre l'unanimità degli Stati membri. La proposta di cambiare i Trattati in senso favorevole ai diritti dei lavoratori e dei ceti subalterni richiede cioè che si formino e si mantengano, per un periodo di tempo sufficiente, maggioranze politiche che condividano questi obiettivi, in tutti e 27 i paesi UE. Basta che un paese si opponga, e la proposta è bloccata.
Questa difficoltà “tecnica”, d'altro canto, è solo un aspetto della difficoltà politica e culturale di fondo.
L'obiezione fondamentale alla proposta di “cambiare i Trattati” sta nel fatto che non esiste una soggettività politica continentale in grado di imporre il cambiamento nel senso dei valori auspicati. Come abbiamo già avuto modo di dire, non esiste un popolo europeo. Chi elaborerebbe le proposte? Quali forze politiche se ne farebbero carico? Chi condurrebbe le trattative e sottoscriverebbe gli inevitabili compromessi?
Possiamo pure immaginare di realizzare, superando tutte le difficoltà tecniche e politiche, quella che sarebbe, nelle attuali circostanze, la cosa migliore: un'Assemblea Costituente Europea eletta a suffragio proporzionale. Davvero è possibile pensare che da una cosa del genere nascerebbe una Costituzione attenta ai valori di giustizia sociale, emancipazione, armonia con l'ambiente? E' quasi sicuro che le forze che in modi diversi si ispirano a questi valori sarebbero divise e i loro discorsi sarebbero una cacofonia di proposte slegate fra loro. Una unità popolare a livello continentale si crea con un lungo lavoro di scambi, di incontri, con lotte collettive, con l'adozione di una lingua comune. Come abbiamo rilevato più volte, l'indifferenza dei popoli europei al dramma del popolo greco mostra con chiarezza come si sia lontanissimi da una vera unità popolare europea. E si noti che non si tratta qui solo della mancanza di empatia e di spirito di ribellione contro l'ingiustizia. La solidarietà col popolo greco risponderebbe agli stessi interessi materiali dei popoli europei, perché è chiarissimo che quello svolto in Grecia è solo un esperimento che verrà poi replicato in tutti i paesi del Sud Europa, e non solo.
Una Assemblea Costituente Europea non farebbe allora che ribadire le distanze e le incomprensioni fra i ceti popolari europei. D'altra parte, le posizioni dei ceti dominanti sarebbero espresse in modo molto più unitario e risulterebbero alla fine vincenti. I ceti dominanti, come abbiamo più volte detto, sono gli unici in grado di agire a livello europeo perché sono unificati da lingua, cultura e valori (anche se parzialmente divisi, come è ovvio, da interessi materiali). Dopotutto, se esistono i Trattati, e quindi l'UE, è appunto perché li hanno fatti i ceti dominanti.
Anche a livello nazionale l'adozione di una Costituzione non è certo un affare di tutti i giorni. Le Costituzioni nascono in momenti molto particolari, in risposta a grandi movimenti sociali e ideali, o a grandi crisi. La nostra Costituzione è nata perché il rifiuto del nazifascismo ha portato all'unità su alcuni principi di fondo la grande maggioranza del popolo italiano e le principali foze politiche che tale maggioranza esprimevano.
Oggi la crisi economica, che è la crisi della forma "neoliberista" e "globalizzata" che ha assunto il capitalismo negli ultimi trent'anni, non produce solidarietà a livello continentale, ma divisioni e contrapposizioni. L'unità dei popoli europei non c'è e non si vede quando possa sorgere, nel breve e medio periodo. Di conseguenza, non c'è nessuna possibilità di “cambiare i Trattati” in senso favorevole ai ceti popolari. L'unica opzione realistica per salvare quel che resta di civiltà sociale nel nostro paese è l'abbandono unilaterale dell'UE.
di Marino Badiale
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