24 maggio 2013

La privatizzazione della politica e il Moloch dello sviluppo



LA PRIVATIZZAZIONE DELLA POLITICA E IL MOLOCH DELLO SVILUPPO
La tragedia avvenuta in Bangladesh riaccende i riflettori sulla questione delle esternalizzazioni nella produzione di beni da parte dei grandi marchi. La produzione materiale di abiti, macchinari e accessori tecnologici avviene spesso in Paesi del terzo mondo o cosiddetti emergenti; se da una parte c’è l’ovvia e immediata ragione economica (produrre in quei Paesi, dove le telecamere non sono mai accese, a costi ridottissimi e mantenendo in condizioni di semi-schiavitù la forza lavoro), dall’altra c’è anche la questione del marchio.
Il vero marchio trascende il prodotto in sé e diventa un’esperienza di vita, diventa filosofia di vita e parte della vita stessa, trascende il prodotto fisico anzi, il sogno dei grandi guru dei marchi è proprio quello di disfarsi del prodotto e di vendere il concetto, l’esperienza, l’emozione che esso contiene. Diventa difficile parlare di territorialità e di legame con il territorio quando si tratta di questi colossi, e internet diventa quindi lo spazio ideale per i marchi, “liberati dai Paesi del mondo reale dei negozi e della produzione, questi marchi sono liberi di elevarsi, proponendosi non tanto come diffusori di merci o servizi quanto come allucinazioni collettive” (1).
La politica non è da meno e le due amministrazioni Bush Jr. hanno attinto a piene mani dal modello delle hollow corporations, consultando esperti di indagini di mercato e di marchi. Difesa dei confini, protezione civile, intelligence e missioni militari all’estero sono state tutte appaltate a settori privati; il direttore del fondo di finanziamento, Mitch Daniels, ha espresso chiaramente il concetto: “il governo non ha il compito di fornire servizi, ma di accertarsi che siano forniti”. Chealrotte Beers, che aveva diretto diverse agenzie pubblicitarie, venne assunta come sottosegretario alla Diplomazia e agli Affari Pubblici e le critiche per quella nomina furono respinte dal segretario di Stato Colin Powell con queste parole: “Non c’è niente di male ad assumere una persona che sappia vendere. Noi vendiamo un prodotto, e ci serve qualcuno che possa rinnovare il marchio della politica estera e della diplomazia americana”.
La Lockheed Martin, famosa tra le altre cose per la paternità dei discussi caccia F-35, è il più grande appaltatore al mondo della difesa, e un’inchiesta del 2004 del “New York Times” elencava tutti gli ambiti in cui opera, tra cui l’organizzazione del censimento nazionale, la gestione dei voli spaziali e l’assistenza sanitaria. La privatizzazione della politica si estende anche oltre i patri confini: l’occupazione militare dell’Iraq ha visto un consistente impegno di compagnie private quali Blackwater e Halliburton. Quando uomini della Blackwater aprirono il fuoco in piazza Nisour a Baghdad, uccidendo diciassette civili, l’amministrazione statunitense se ne lavò le mani scaricando sugli appaltatori tutta la responsabilità, e la compagnia risorse rinnovando il marchio e assumendo il nuovo nome di Xe Services.
Gli attentati dell’11 settembre 2001 strinsero la nazione attorno al presidente Bush, molto contestato e molto poco apprezzato, e raccolsero molti Paesi europei e non, ostili a quell’amministrazione, attorno agli USA, cosicché l’intervento militare in Afghanistan venne accettato. La guerra all’Iraq fece però scendere nuovamente le quotazioni della Casa Bianca all’estero e a lungo andare anche all’interno della nazione. Il marchio USA era ai minimi storici, finché non arrivò Obama.
Barack Obama, durante la sua prima campagna presidenziale, ricevette più finanziamenti da Wall Street di qualsiasi altro candidato e, una volta eletto presidente, ha confermato nei gangli delle istituzioni economiche e finanziarie persone come Ben Barnake, e continua tuttora sulla strada neoliberista.
Le strategie geopolitiche statunitensi non cambiano: ostilità aperta nei confronti dell’Iran, un uso intensificato dei droni nelle zone di guerra, sostegno incondizionato a Israele (nonostante l’evidente e autentica antipatia di Obama per Netanyahu), opposizione a un blocco europeo unitario, Guantanamo rimane tuttora aperta e funzionante e Obama si è opposto ai processi contro i responsabili di Bush che autorizzarono le torture (2).
Si assiste così a una progressiva privatizzazione dello Stato e della res publica e delle relazioni internazionali. Il liberalismo economico è diventato un modello per i governi occidentali, d’altra parte il capitalismo è anche il portatore di una sua propria antropologia, quella dell’Homo  oeconomicus con la relativa riduzione di qualsiasi cosa a merce, a valore economico con una conseguente tendenza a ridurre i costi. La penetrazione del modello occidentale, che ha come modello gli Stati Uniti  ma che ormai li ha superati e inglobati, passa attraverso la proliferazione dei bisogni di nuovi beni da acquistare.
Il modello dello sviluppo prevede sempre nuovi consumatori e nicchie di mercato in ogni angolo del mondo, poiché ha bisogno di una inarrestabile ed esponenziale crescita. La crisi strutturale che stiamo vivendo e la consapevolezza che questo modello di crescita infinita non si concilia con un sistema chiuso e finito, quale è il nostro pianeta, stanno accelerando e diffondendo ideologie alternative, quali comunitarismo e decrescita.
Inquinamento e sfruttamento dell’ambiente stanno facendo sensibilizzare l’opinione pubblica, senza però mettere veramente in discussione il nostro modello, facendo così parlare di sviluppo sostenibile e di green economy; ma, come scrive Serge Latouche, per tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dell’impresa sviluppista, siamo entrati nell’era degli sviluppi con l’aggettivo. […] Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si rimette veramente in discussione l’accumulazione capitalista. […] Questo lavoro di ridefinizione dello sviluppo […] si regge sempre su idee di cultura, natura, giustizia sociale. Si ritiene di poter guarire un Male che colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. […] Lo sviluppo sostenibile è il più bel risultato di questa arte di ringiovanimento dei vecchi tempi. Illustra perfettamente il processo di eufemizzazione attraverso gli aggettivi volti a cambiare le parole ma non le cose”.
Qual è allora un modello credibile e alternativo a quello dello sviluppo? Il punto è proprio questo: non esiste una grande potenza o un continente, una confederazione di stati e nazioni che possa offrirne uno. Crollato il blocco sovietico, è crollato anche il contrasto tra due grandi modelli e quello sopravvissuto ha invaso il mondo, sia pure con adattamenti particolari. Si tratta quindi di trovare una via che non metta al centro il profitto e i mercati, ma comunità, identità e non veda il pianeta contemporaneamente come una miniera da sfruttare indefinitamente e come discarica.

di Francesco Viaro 


* Francesco Viaro è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Padova.

23 maggio 2013

Il Partito Democratico non ha ragione di esistere




   
   
Io, cittadino stufo della farsa partitocratica, non ce l’ho col Pd. È il Pd a avercela con me e con l’Italia. E con sé stesso. È nato nel 2008, questo bambino deforme, dall’unione contro natura e mal riuscita fra ex democristiani di sinistra ed ex comunisti di destra. I militanti pecoroni - verso i quali, spiace, ma non può esserci più comprensione - si sono bevuti la sola del Partito Democratico sul modello americano: una fregnaccia di Prodi e Veltroni che pretendeva di cancellare la storia centenaria di due tradizioni politiche e culturali con le loro peculiarità, idiosincrasie, incompatibilità, identità.

La solita cialtroneria italiana, al servizio di un disegno ben preciso e serissimo nella sua pericolosità: omologare i paesi occidentali al sistema partitico anglosassone, ideale per imporre una dialettica semplificata e distorcente non sul cosa, ma sul come gestire l’ordinaria amministrazione, coi veri piloti in cabina – gli interessi finanziari sovranazionali - a decidere la rotta unica e obbligata.

L’arrivo in scena del berluschino – o veltronino - Renzi è la ciliegina sulla torta: lui non finge neanche più di essere di sinistra nell’accezione comunemente accettata della parola, rappresenta l’indistinto luogo comune trasversale (il merito, più mercato, più efficienza, più modernità, più leggerezza, e già che ci siamo più figa per tutti).

Dopo cinque anni, l’aborto è palese. Lo snobismo, la sicumera, la scissione d’origine mai composta e rimescolata nel duello generazionale più che sostanziale Bersani-Renzi, l’annacquamento di ogni istanza nel “ma anche”, lo spadroneggiare di potentati a volte criminali hanno portato alla sconfitta netta delle elezioni politiche e alla caporetto del Quirinale, con 101 parlamentari ancora in incognito che hanno abbattuto a colpi di voto segreto il padre fondatore Prodi, dando la plastica dimostrazione che il Pd è davvero Pdmenoelle: meglio riconfermare Napolitano, sommo sacerdote dell’inciucio, andando così al governo assieme al finto nemico Berlusconi, che optare per la traversata nel deserto (i grillini non avrebbero comunque sostenuto un loro governo di minoranza, o almeno si spera) ma a testa alta.

Ora, se fossi un iscritto al Pd, nel guardarmi allo specchio mi sputerei in faccia. Che ci starei a fare in un nido di serpi, ciechi, illusi e complici in malafede che ha suggellato vent’anni di collusione con Silvio, odiato a parole e servito e riverito nei fatti? Se fossi onesto con me stesso, straccerei la tessera. L’opa ostile di Grillo ai giovani che occupano le sedi è nella logica delle cose, sempre che le cose debbano ancora avere una logica, in questa Italietta di eunuchi e saltimbanchi. Occupy Pd? Refuse Pd! Non c’è più alcuna ragione sensata per cui una persona dotata di cervello e in buona fede resti ancora là dentro. In nome della sinistra? Ma la sinistra resiste soltanto come mito reazionario, per far sopravvivere un immaginario superato e arcisuperato mentre in tutte le scelte fondamentali la sedicente sinistra col marchio Pd ha sposato l’ideologia dominante liberal-liberista, giusto un pelo temperata e camuffata con la retorica delle liberalizzazioni pro-consumatori (quando in realtà sono pro-grandi catene, come guarda caso le coop). In nome dell’antiberlusconismo? Oggi risulta arduo perfino pensarlo, visto che sono tutti seduti amorevolmente insieme a Palazzo Chigi a brigare per tornare agli antichi fasti (magari con norme ad hoc per far fuori il Movimento 5 Stelle, su cui il pacato commento non può che essere uno: farabutti!). 

In nome dell’Europa? Ma ormai lo capisce anche un decerebrato che l’Unione Europea è stata una solenne fregatura, tanto è vero che adesso non si trova un difensore delle regole di Maastricht (3% di deficit consentito, la legge ferrea dell’oppressione) neanche col lanternino.

In nome di che, di grazia, il Pd ha ancora un motivo valido di esistere? Con tutta la buona volontà, non riesco a trovarlo. Ah certo, uno c’è: fare i guardiani della controrivoluzione, reggendo pure il moccolo al beneamato Silvietto. Ci risparmino la sceneggiata, i presunti giovani del Pd. Se vogliono cambiare l’Italia, si suppone in meglio, non c’è unica via che lasciarlo. Ha fatto troppi danni e continua a farli.

Alessio Mannino   

22 maggio 2013

A CAPACI NON C'ERANO SOLO GLI UOMINI DI TOTO' RIINA


A CAPACI NON C'ERANO SOLO GLI UOMINI DI TOTO' RIINA


"La strage di Capaci è al 90% di mafia, il resto lo hanno messo altri, per quella di via D'Amelio siamo 50 e 50 e per le stragi sul continente la percentuale mafiosa scende vertiginosamente".
Luca Cianferoni, avvocato di Toto' Riina, 2010.


La strage di Capaci non fu opera solo degli uomini di Toto Riina: ormai si può affermare questa verità oltre ogni ragionevole dubbio.

La strage di Capaci non fu opera solo degli uomini di Toto Riina: ormai si può affermare questa verità oltre ogni ragionevole dubbio.

Un uomo della Gladio siciliana mi ha parlato concretamente di un "doppio livello" nella strage di Capaci. Lo incontrai nel maggio del 2010 e durante una lunga conversazione mi disse: "non penserà mica che fu opera soltanto di quattro mafiosi?". Qualche anno prima il boss Giovanni Brusca, l'uomo che schiacciò il telecomando appostato sulla collinetta a ridosso della strada, aveva ribadito, tanto tempo dopo, la sua incredulità per il "successo" dell'assalto. Disse così al magistrato Luca Tescaroli: "Quattro stupidi...quattro stupidi, perché poi alla fine eravamo...un po' di persone, in maniera molto rozza...in maniera artigianale, siamo riusciti a portare a termine un attentato così importante". Non poteva ancora crederci che avevano fatto tutto da soli.

L'agguato teso all'auto di Giovanni Falcone, tecnicamente un'imboscata, fu realizzato in un teatro di guerra allestito dai migliori artificieri. Fu una operazione militare, un atto di strategia della tensione: una mano fu mafiosa, l'altra no. Qualcuno trasformò un'azione di vendetta mafiosa in un atto di brutale manifestazione politica, cioè in una strage. Partecipò a tutte le fasi organizzative dell'azione anche Pietro Rampulla, il mafioso addestrato da Ordine nuovo, il servizio segreto clandestino di stampo neofascista: ma il 23 maggio non poté stare al fianco dei suoi complici perché "aveva impegni familiari", sfilandosi così dalla scena e mandandoBrusca a schiacciare il telecomando.

Dobbiamo ricordare che dalle numerose e diverse dichiarazioni dei pentiti non è possibile stabilire il momento dell'ideazione di quel tipo di strage. Come si arrivò alla decisione di fare una strage per ammazzare Falcone? La trappola mortale contro il nemico storico di Cosa nostra era già pronta prima del 23 maggio 1992. Un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani nel febbraio del 1992 era stato inviato a Roma per fare fuoco su Giovanni Falcone con le armi tradizionali: niente esplosivo, niente botti, solo i proiettili mafiosi avrebbero dovuto abbattere l'uomo che più di tutti aveva penetrato i segreti dei boss e scardinato il loro tradizionale assetto di potere. Ma un giorno Salvatore Biondino, il luogotenente di Toto Riina, va ad incontrareFrancesco Cancemi e Raffaele Ganci al cantiere di Piazza Principe di Camporeale e gli comunica che il padrino aveva intenzione di passare all'esecuzione del progetto di uccidere il magistrato con un ordigno esplosivo lungo l'autostrada da Punta Raisi per Palermo. Dunque, tutto era stato attentamente preordinato. Il momento dell'ideazione del progetto criminale di Capaci viene solo comunicato alle famiglie che poi avrebbero cooperato per realizzarlo; ma nessuno tra tutti coloro che lo attuano può raccontare il momento in cui viene elaborata quell'idea così originale e senza precedenti del delitto, e questo semplicemente perché l'idea gli vienesuggerita dall'estero. Dice sempre Giovanni Brusca, l'uomo del telecomando, che il posto dove fare l'attentato "non l'ha scelto lui". Sostiene che in una riunione a casa di Girolamo Guddo, il 20 febbraio prima della strage, scopre che "Cancemi, Salvatore Biondino, Raffaele Ganci avevano parlato della possibilità dell'autostrada". Non sa che Cancemi e Ganci, come tutti gli altri, avevano solo ricevuto le istruzioni per realizzare l'attentato in quel modo. Ma il "suggeritore" non si sa chi sia e che gente frequenti.

Ci sono poi strani oggetti sulla scena del crimine: un sacchetto di carta di colore bianco che conteneva una torcia a pile, un tubetto di alluminio con del mastice di marca Arexons e due guanti in lattice, evidentemente usati. Chi li aveva usati? E per fare cosa? I giudici scrivono considerazioni molto interessanti: innanzitutto, notano che quelle cose non possono essere state lasciate lì dal giorno in cui sicuramente tutto fu predisposto e ultimato (e dopo il quale i mafiosi non tornarono , l'8 di maggio, perché "sicuramente le intemperie, frequenti in quel periodo sulla zona, avrebbero determinato la lacerazione del contenitore, che lo si deve ricordare, era di carta". Dunque, non potevano essere strumenti impiegati dai killer della mafia. Secondo loro è proprio "da escludere che gli imputati (...) avessero lasciato quegli oggetti proprio in prossimità del cunicolo, perché si sarebbe trattato di una macroscopica distrazione, inconcepibile a fronte dell'emergere dalla descrizione di tutte le operazioni che si sono via via susseguite nel corso dei preparativi, di una meticolosa e puntuale curanell'evitare che potessero restare tracce delle azioni compiute".

Il ritrovamento di questi oggetti particolari, lasciati lì sicuramente nelle ore di poco precedenti l'esplosione, è molto importante se si considera un'altra strana circostanza: alcuni testimoni hanno denunciato che il giorno precedente proprio nell'area della strage, ma a livello della strada, non in quello sottostante dove erano state condotte le operazioni di caricamento del cunicolo, era stato notato un furgone Ducato di colore bianco e alcune persone che apparentemente erano concentrate ad eseguire dei lavori. Fu anche deviato il corso delle automobili di passaggio, furono usati birilli per spartire il traffico. Lo hanno spiegato i testimoni indicati con i numeri d'ordine 26 e 27 e il loro racconto si riferisce a ciò che vedono il 22 maggio 1992, intorno alle ore 12: ma per Brusca e compagnia non c'è alcuna necessità di lavorare lungo la corsia, il loro lavoro si era concentrato a livello dell'imbocco del cunicolo, al di sotto nel livello stradale. E poi loro erano pronti già da tempo. Per di più, fu subito accertato che in quei giorni non erano in corso lavori di nessun genere e perciò si deve sicuramente escludere qualsiasi attività di manutenzione stradale, ordinaria o straordinaria: in pratica ci fu "un secondo cantiere, senza volto né nomi" e tuttavia anch'esso attivato con ogni probabilità per provocare la strage.

E ancora, l'esplosivo. Anche qui i conti non tornano. Sono state ritrovate tracce di nitroglicerina, un componente che non fa parte di nessuna delle due componenti che costituiscono la carica: ma la nitroglicerina rafforza la detonabilità della carica. L'esplosivo con cui è stato riempito il cunicolo che passava sotto l'autostrada in prossimità di Capaci era di due tipi: c'era l'ANFO, vale a dire il Nitrato di Ammonio addizionato a cherosene - in alcuni bidoncini fu messo allo stato puro - e c'era poi il tritolo, procurato da Biondino e recuperato dalle mine giacenti sotto il mare che venivamo trovate in grandi quantità dai pescatori, secondo una modalità raccontata minuziosamente da Gaspare Spatuzza (un racconto proprio identifico a quello del pentito di Piazza Fontana, Carlo Digilio, sull'esplosivo usato per la strage del '69!). Le indagini non si sono mai concluse: nel novembre del 2012 è stato arrestato Cosimo D'Amato, il pescatore di Santa Flavia che oltre al pesce tirava su anche le vecchie bombe. D'Amato è stato accusato dalla procura di Firenze di aver fornito in modo continuativo l'esplosivo usato per le stragi del '93, almeno quella parte proveniente dai recuperi in mare. Perché le vie degli esplosivi erano diverse: c'era quello da cava e poi quello più sofisticato, come il Semtex, proveniente dai traffici internazionali. Oltra alle tracce di nitroglicerina, ci sono poi quelle di T4, un esplosivo noto anche con RDX utilizzato soprattutto per scopi militari, che nel cratere di Capaci non viene unito ad altre sostanze e che potrebbe essere stato usato per aumentare la detonabilità della carica o come legante esplosivo fra le frazioni di carica. Inizialmente si era pensato che il T4 fosse presente unito al tritolo con cui può formare un composto chiamato Compound B ma poi l'ipotesi è stata scartata perché il tritolo, come abbiamo detto, era stato sicuramente messo da solo nei bidoncini: in pratica, l'uso del T4 sembrerebbe essere stato aggiunto all'esplosivo trovato dai due gruppi di mafiosi per rendere più micidiale la carica. Sia la pentrite che il T4 sono, infatti, sostanze non compatibili con quelle descritte dai pentiti con le quali è stato riempito il cunicolo.

Con quel materiale in più, la strage era assicurata. Falcone sarebbe morto sicuramente.
Ci spingemmo su "un terreno che non era il nostro", raccontò poi a proposito delle stragi di mafia il pentito Gaspare Spatuzza. Era il terreno del doppio livello quello che si realizza quando siedono ad uno stesso tavolo entità diverse, interessate a cooperare ad uno stesso identico progetto criminale con scopi spesso diversi.

Nel "doppio livello" c'è la regia degli eventi politici, quella che non siamo mai riusciti ad afferrare. Il "doppio livello" dello stragismo e dell'omicidio politico ha garantito l'impunità ai mandanti, lasciando sempre l'opinione pubblica smarrita e confusa, irrisolti i processi giudiziari e un Paese da sempre in cerca delle sue verità. Nelle cospirazioni nate in quel modo, per essere cioè realizzate con l'apporto di mani diverse, la trama diventa impossibile da sbrogliare, la complicità finale di tutti permette di lasciare il delitto senza una apparente firma e l'esecutore, che sia il neofascista degli anni 70 o il boss mafioso della fine dello scorso secolo, si trova coinvolto in un'azione attentamente progettata sulla base di tante informazioni, come sanno fare i servizi segreti o tutte quelle agenzie affini, tanto che non potrà mai provare la sua estraneità. Se non vuole ammettere di essere stato manipolato, deve solo tacere e pagare
di Stefania Limiti

24 maggio 2013

La privatizzazione della politica e il Moloch dello sviluppo



LA PRIVATIZZAZIONE DELLA POLITICA E IL MOLOCH DELLO SVILUPPO
La tragedia avvenuta in Bangladesh riaccende i riflettori sulla questione delle esternalizzazioni nella produzione di beni da parte dei grandi marchi. La produzione materiale di abiti, macchinari e accessori tecnologici avviene spesso in Paesi del terzo mondo o cosiddetti emergenti; se da una parte c’è l’ovvia e immediata ragione economica (produrre in quei Paesi, dove le telecamere non sono mai accese, a costi ridottissimi e mantenendo in condizioni di semi-schiavitù la forza lavoro), dall’altra c’è anche la questione del marchio.
Il vero marchio trascende il prodotto in sé e diventa un’esperienza di vita, diventa filosofia di vita e parte della vita stessa, trascende il prodotto fisico anzi, il sogno dei grandi guru dei marchi è proprio quello di disfarsi del prodotto e di vendere il concetto, l’esperienza, l’emozione che esso contiene. Diventa difficile parlare di territorialità e di legame con il territorio quando si tratta di questi colossi, e internet diventa quindi lo spazio ideale per i marchi, “liberati dai Paesi del mondo reale dei negozi e della produzione, questi marchi sono liberi di elevarsi, proponendosi non tanto come diffusori di merci o servizi quanto come allucinazioni collettive” (1).
La politica non è da meno e le due amministrazioni Bush Jr. hanno attinto a piene mani dal modello delle hollow corporations, consultando esperti di indagini di mercato e di marchi. Difesa dei confini, protezione civile, intelligence e missioni militari all’estero sono state tutte appaltate a settori privati; il direttore del fondo di finanziamento, Mitch Daniels, ha espresso chiaramente il concetto: “il governo non ha il compito di fornire servizi, ma di accertarsi che siano forniti”. Chealrotte Beers, che aveva diretto diverse agenzie pubblicitarie, venne assunta come sottosegretario alla Diplomazia e agli Affari Pubblici e le critiche per quella nomina furono respinte dal segretario di Stato Colin Powell con queste parole: “Non c’è niente di male ad assumere una persona che sappia vendere. Noi vendiamo un prodotto, e ci serve qualcuno che possa rinnovare il marchio della politica estera e della diplomazia americana”.
La Lockheed Martin, famosa tra le altre cose per la paternità dei discussi caccia F-35, è il più grande appaltatore al mondo della difesa, e un’inchiesta del 2004 del “New York Times” elencava tutti gli ambiti in cui opera, tra cui l’organizzazione del censimento nazionale, la gestione dei voli spaziali e l’assistenza sanitaria. La privatizzazione della politica si estende anche oltre i patri confini: l’occupazione militare dell’Iraq ha visto un consistente impegno di compagnie private quali Blackwater e Halliburton. Quando uomini della Blackwater aprirono il fuoco in piazza Nisour a Baghdad, uccidendo diciassette civili, l’amministrazione statunitense se ne lavò le mani scaricando sugli appaltatori tutta la responsabilità, e la compagnia risorse rinnovando il marchio e assumendo il nuovo nome di Xe Services.
Gli attentati dell’11 settembre 2001 strinsero la nazione attorno al presidente Bush, molto contestato e molto poco apprezzato, e raccolsero molti Paesi europei e non, ostili a quell’amministrazione, attorno agli USA, cosicché l’intervento militare in Afghanistan venne accettato. La guerra all’Iraq fece però scendere nuovamente le quotazioni della Casa Bianca all’estero e a lungo andare anche all’interno della nazione. Il marchio USA era ai minimi storici, finché non arrivò Obama.
Barack Obama, durante la sua prima campagna presidenziale, ricevette più finanziamenti da Wall Street di qualsiasi altro candidato e, una volta eletto presidente, ha confermato nei gangli delle istituzioni economiche e finanziarie persone come Ben Barnake, e continua tuttora sulla strada neoliberista.
Le strategie geopolitiche statunitensi non cambiano: ostilità aperta nei confronti dell’Iran, un uso intensificato dei droni nelle zone di guerra, sostegno incondizionato a Israele (nonostante l’evidente e autentica antipatia di Obama per Netanyahu), opposizione a un blocco europeo unitario, Guantanamo rimane tuttora aperta e funzionante e Obama si è opposto ai processi contro i responsabili di Bush che autorizzarono le torture (2).
Si assiste così a una progressiva privatizzazione dello Stato e della res publica e delle relazioni internazionali. Il liberalismo economico è diventato un modello per i governi occidentali, d’altra parte il capitalismo è anche il portatore di una sua propria antropologia, quella dell’Homo  oeconomicus con la relativa riduzione di qualsiasi cosa a merce, a valore economico con una conseguente tendenza a ridurre i costi. La penetrazione del modello occidentale, che ha come modello gli Stati Uniti  ma che ormai li ha superati e inglobati, passa attraverso la proliferazione dei bisogni di nuovi beni da acquistare.
Il modello dello sviluppo prevede sempre nuovi consumatori e nicchie di mercato in ogni angolo del mondo, poiché ha bisogno di una inarrestabile ed esponenziale crescita. La crisi strutturale che stiamo vivendo e la consapevolezza che questo modello di crescita infinita non si concilia con un sistema chiuso e finito, quale è il nostro pianeta, stanno accelerando e diffondendo ideologie alternative, quali comunitarismo e decrescita.
Inquinamento e sfruttamento dell’ambiente stanno facendo sensibilizzare l’opinione pubblica, senza però mettere veramente in discussione il nostro modello, facendo così parlare di sviluppo sostenibile e di green economy; ma, come scrive Serge Latouche, per tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dell’impresa sviluppista, siamo entrati nell’era degli sviluppi con l’aggettivo. […] Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si rimette veramente in discussione l’accumulazione capitalista. […] Questo lavoro di ridefinizione dello sviluppo […] si regge sempre su idee di cultura, natura, giustizia sociale. Si ritiene di poter guarire un Male che colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. […] Lo sviluppo sostenibile è il più bel risultato di questa arte di ringiovanimento dei vecchi tempi. Illustra perfettamente il processo di eufemizzazione attraverso gli aggettivi volti a cambiare le parole ma non le cose”.
Qual è allora un modello credibile e alternativo a quello dello sviluppo? Il punto è proprio questo: non esiste una grande potenza o un continente, una confederazione di stati e nazioni che possa offrirne uno. Crollato il blocco sovietico, è crollato anche il contrasto tra due grandi modelli e quello sopravvissuto ha invaso il mondo, sia pure con adattamenti particolari. Si tratta quindi di trovare una via che non metta al centro il profitto e i mercati, ma comunità, identità e non veda il pianeta contemporaneamente come una miniera da sfruttare indefinitamente e come discarica.

di Francesco Viaro 


* Francesco Viaro è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Padova.

23 maggio 2013

Il Partito Democratico non ha ragione di esistere




   
   
Io, cittadino stufo della farsa partitocratica, non ce l’ho col Pd. È il Pd a avercela con me e con l’Italia. E con sé stesso. È nato nel 2008, questo bambino deforme, dall’unione contro natura e mal riuscita fra ex democristiani di sinistra ed ex comunisti di destra. I militanti pecoroni - verso i quali, spiace, ma non può esserci più comprensione - si sono bevuti la sola del Partito Democratico sul modello americano: una fregnaccia di Prodi e Veltroni che pretendeva di cancellare la storia centenaria di due tradizioni politiche e culturali con le loro peculiarità, idiosincrasie, incompatibilità, identità.

La solita cialtroneria italiana, al servizio di un disegno ben preciso e serissimo nella sua pericolosità: omologare i paesi occidentali al sistema partitico anglosassone, ideale per imporre una dialettica semplificata e distorcente non sul cosa, ma sul come gestire l’ordinaria amministrazione, coi veri piloti in cabina – gli interessi finanziari sovranazionali - a decidere la rotta unica e obbligata.

L’arrivo in scena del berluschino – o veltronino - Renzi è la ciliegina sulla torta: lui non finge neanche più di essere di sinistra nell’accezione comunemente accettata della parola, rappresenta l’indistinto luogo comune trasversale (il merito, più mercato, più efficienza, più modernità, più leggerezza, e già che ci siamo più figa per tutti).

Dopo cinque anni, l’aborto è palese. Lo snobismo, la sicumera, la scissione d’origine mai composta e rimescolata nel duello generazionale più che sostanziale Bersani-Renzi, l’annacquamento di ogni istanza nel “ma anche”, lo spadroneggiare di potentati a volte criminali hanno portato alla sconfitta netta delle elezioni politiche e alla caporetto del Quirinale, con 101 parlamentari ancora in incognito che hanno abbattuto a colpi di voto segreto il padre fondatore Prodi, dando la plastica dimostrazione che il Pd è davvero Pdmenoelle: meglio riconfermare Napolitano, sommo sacerdote dell’inciucio, andando così al governo assieme al finto nemico Berlusconi, che optare per la traversata nel deserto (i grillini non avrebbero comunque sostenuto un loro governo di minoranza, o almeno si spera) ma a testa alta.

Ora, se fossi un iscritto al Pd, nel guardarmi allo specchio mi sputerei in faccia. Che ci starei a fare in un nido di serpi, ciechi, illusi e complici in malafede che ha suggellato vent’anni di collusione con Silvio, odiato a parole e servito e riverito nei fatti? Se fossi onesto con me stesso, straccerei la tessera. L’opa ostile di Grillo ai giovani che occupano le sedi è nella logica delle cose, sempre che le cose debbano ancora avere una logica, in questa Italietta di eunuchi e saltimbanchi. Occupy Pd? Refuse Pd! Non c’è più alcuna ragione sensata per cui una persona dotata di cervello e in buona fede resti ancora là dentro. In nome della sinistra? Ma la sinistra resiste soltanto come mito reazionario, per far sopravvivere un immaginario superato e arcisuperato mentre in tutte le scelte fondamentali la sedicente sinistra col marchio Pd ha sposato l’ideologia dominante liberal-liberista, giusto un pelo temperata e camuffata con la retorica delle liberalizzazioni pro-consumatori (quando in realtà sono pro-grandi catene, come guarda caso le coop). In nome dell’antiberlusconismo? Oggi risulta arduo perfino pensarlo, visto che sono tutti seduti amorevolmente insieme a Palazzo Chigi a brigare per tornare agli antichi fasti (magari con norme ad hoc per far fuori il Movimento 5 Stelle, su cui il pacato commento non può che essere uno: farabutti!). 

In nome dell’Europa? Ma ormai lo capisce anche un decerebrato che l’Unione Europea è stata una solenne fregatura, tanto è vero che adesso non si trova un difensore delle regole di Maastricht (3% di deficit consentito, la legge ferrea dell’oppressione) neanche col lanternino.

In nome di che, di grazia, il Pd ha ancora un motivo valido di esistere? Con tutta la buona volontà, non riesco a trovarlo. Ah certo, uno c’è: fare i guardiani della controrivoluzione, reggendo pure il moccolo al beneamato Silvietto. Ci risparmino la sceneggiata, i presunti giovani del Pd. Se vogliono cambiare l’Italia, si suppone in meglio, non c’è unica via che lasciarlo. Ha fatto troppi danni e continua a farli.

Alessio Mannino   

22 maggio 2013

A CAPACI NON C'ERANO SOLO GLI UOMINI DI TOTO' RIINA


A CAPACI NON C'ERANO SOLO GLI UOMINI DI TOTO' RIINA


"La strage di Capaci è al 90% di mafia, il resto lo hanno messo altri, per quella di via D'Amelio siamo 50 e 50 e per le stragi sul continente la percentuale mafiosa scende vertiginosamente".
Luca Cianferoni, avvocato di Toto' Riina, 2010.


La strage di Capaci non fu opera solo degli uomini di Toto Riina: ormai si può affermare questa verità oltre ogni ragionevole dubbio.

La strage di Capaci non fu opera solo degli uomini di Toto Riina: ormai si può affermare questa verità oltre ogni ragionevole dubbio.

Un uomo della Gladio siciliana mi ha parlato concretamente di un "doppio livello" nella strage di Capaci. Lo incontrai nel maggio del 2010 e durante una lunga conversazione mi disse: "non penserà mica che fu opera soltanto di quattro mafiosi?". Qualche anno prima il boss Giovanni Brusca, l'uomo che schiacciò il telecomando appostato sulla collinetta a ridosso della strada, aveva ribadito, tanto tempo dopo, la sua incredulità per il "successo" dell'assalto. Disse così al magistrato Luca Tescaroli: "Quattro stupidi...quattro stupidi, perché poi alla fine eravamo...un po' di persone, in maniera molto rozza...in maniera artigianale, siamo riusciti a portare a termine un attentato così importante". Non poteva ancora crederci che avevano fatto tutto da soli.

L'agguato teso all'auto di Giovanni Falcone, tecnicamente un'imboscata, fu realizzato in un teatro di guerra allestito dai migliori artificieri. Fu una operazione militare, un atto di strategia della tensione: una mano fu mafiosa, l'altra no. Qualcuno trasformò un'azione di vendetta mafiosa in un atto di brutale manifestazione politica, cioè in una strage. Partecipò a tutte le fasi organizzative dell'azione anche Pietro Rampulla, il mafioso addestrato da Ordine nuovo, il servizio segreto clandestino di stampo neofascista: ma il 23 maggio non poté stare al fianco dei suoi complici perché "aveva impegni familiari", sfilandosi così dalla scena e mandandoBrusca a schiacciare il telecomando.

Dobbiamo ricordare che dalle numerose e diverse dichiarazioni dei pentiti non è possibile stabilire il momento dell'ideazione di quel tipo di strage. Come si arrivò alla decisione di fare una strage per ammazzare Falcone? La trappola mortale contro il nemico storico di Cosa nostra era già pronta prima del 23 maggio 1992. Un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani nel febbraio del 1992 era stato inviato a Roma per fare fuoco su Giovanni Falcone con le armi tradizionali: niente esplosivo, niente botti, solo i proiettili mafiosi avrebbero dovuto abbattere l'uomo che più di tutti aveva penetrato i segreti dei boss e scardinato il loro tradizionale assetto di potere. Ma un giorno Salvatore Biondino, il luogotenente di Toto Riina, va ad incontrareFrancesco Cancemi e Raffaele Ganci al cantiere di Piazza Principe di Camporeale e gli comunica che il padrino aveva intenzione di passare all'esecuzione del progetto di uccidere il magistrato con un ordigno esplosivo lungo l'autostrada da Punta Raisi per Palermo. Dunque, tutto era stato attentamente preordinato. Il momento dell'ideazione del progetto criminale di Capaci viene solo comunicato alle famiglie che poi avrebbero cooperato per realizzarlo; ma nessuno tra tutti coloro che lo attuano può raccontare il momento in cui viene elaborata quell'idea così originale e senza precedenti del delitto, e questo semplicemente perché l'idea gli vienesuggerita dall'estero. Dice sempre Giovanni Brusca, l'uomo del telecomando, che il posto dove fare l'attentato "non l'ha scelto lui". Sostiene che in una riunione a casa di Girolamo Guddo, il 20 febbraio prima della strage, scopre che "Cancemi, Salvatore Biondino, Raffaele Ganci avevano parlato della possibilità dell'autostrada". Non sa che Cancemi e Ganci, come tutti gli altri, avevano solo ricevuto le istruzioni per realizzare l'attentato in quel modo. Ma il "suggeritore" non si sa chi sia e che gente frequenti.

Ci sono poi strani oggetti sulla scena del crimine: un sacchetto di carta di colore bianco che conteneva una torcia a pile, un tubetto di alluminio con del mastice di marca Arexons e due guanti in lattice, evidentemente usati. Chi li aveva usati? E per fare cosa? I giudici scrivono considerazioni molto interessanti: innanzitutto, notano che quelle cose non possono essere state lasciate lì dal giorno in cui sicuramente tutto fu predisposto e ultimato (e dopo il quale i mafiosi non tornarono , l'8 di maggio, perché "sicuramente le intemperie, frequenti in quel periodo sulla zona, avrebbero determinato la lacerazione del contenitore, che lo si deve ricordare, era di carta". Dunque, non potevano essere strumenti impiegati dai killer della mafia. Secondo loro è proprio "da escludere che gli imputati (...) avessero lasciato quegli oggetti proprio in prossimità del cunicolo, perché si sarebbe trattato di una macroscopica distrazione, inconcepibile a fronte dell'emergere dalla descrizione di tutte le operazioni che si sono via via susseguite nel corso dei preparativi, di una meticolosa e puntuale curanell'evitare che potessero restare tracce delle azioni compiute".

Il ritrovamento di questi oggetti particolari, lasciati lì sicuramente nelle ore di poco precedenti l'esplosione, è molto importante se si considera un'altra strana circostanza: alcuni testimoni hanno denunciato che il giorno precedente proprio nell'area della strage, ma a livello della strada, non in quello sottostante dove erano state condotte le operazioni di caricamento del cunicolo, era stato notato un furgone Ducato di colore bianco e alcune persone che apparentemente erano concentrate ad eseguire dei lavori. Fu anche deviato il corso delle automobili di passaggio, furono usati birilli per spartire il traffico. Lo hanno spiegato i testimoni indicati con i numeri d'ordine 26 e 27 e il loro racconto si riferisce a ciò che vedono il 22 maggio 1992, intorno alle ore 12: ma per Brusca e compagnia non c'è alcuna necessità di lavorare lungo la corsia, il loro lavoro si era concentrato a livello dell'imbocco del cunicolo, al di sotto nel livello stradale. E poi loro erano pronti già da tempo. Per di più, fu subito accertato che in quei giorni non erano in corso lavori di nessun genere e perciò si deve sicuramente escludere qualsiasi attività di manutenzione stradale, ordinaria o straordinaria: in pratica ci fu "un secondo cantiere, senza volto né nomi" e tuttavia anch'esso attivato con ogni probabilità per provocare la strage.

E ancora, l'esplosivo. Anche qui i conti non tornano. Sono state ritrovate tracce di nitroglicerina, un componente che non fa parte di nessuna delle due componenti che costituiscono la carica: ma la nitroglicerina rafforza la detonabilità della carica. L'esplosivo con cui è stato riempito il cunicolo che passava sotto l'autostrada in prossimità di Capaci era di due tipi: c'era l'ANFO, vale a dire il Nitrato di Ammonio addizionato a cherosene - in alcuni bidoncini fu messo allo stato puro - e c'era poi il tritolo, procurato da Biondino e recuperato dalle mine giacenti sotto il mare che venivamo trovate in grandi quantità dai pescatori, secondo una modalità raccontata minuziosamente da Gaspare Spatuzza (un racconto proprio identifico a quello del pentito di Piazza Fontana, Carlo Digilio, sull'esplosivo usato per la strage del '69!). Le indagini non si sono mai concluse: nel novembre del 2012 è stato arrestato Cosimo D'Amato, il pescatore di Santa Flavia che oltre al pesce tirava su anche le vecchie bombe. D'Amato è stato accusato dalla procura di Firenze di aver fornito in modo continuativo l'esplosivo usato per le stragi del '93, almeno quella parte proveniente dai recuperi in mare. Perché le vie degli esplosivi erano diverse: c'era quello da cava e poi quello più sofisticato, come il Semtex, proveniente dai traffici internazionali. Oltra alle tracce di nitroglicerina, ci sono poi quelle di T4, un esplosivo noto anche con RDX utilizzato soprattutto per scopi militari, che nel cratere di Capaci non viene unito ad altre sostanze e che potrebbe essere stato usato per aumentare la detonabilità della carica o come legante esplosivo fra le frazioni di carica. Inizialmente si era pensato che il T4 fosse presente unito al tritolo con cui può formare un composto chiamato Compound B ma poi l'ipotesi è stata scartata perché il tritolo, come abbiamo detto, era stato sicuramente messo da solo nei bidoncini: in pratica, l'uso del T4 sembrerebbe essere stato aggiunto all'esplosivo trovato dai due gruppi di mafiosi per rendere più micidiale la carica. Sia la pentrite che il T4 sono, infatti, sostanze non compatibili con quelle descritte dai pentiti con le quali è stato riempito il cunicolo.

Con quel materiale in più, la strage era assicurata. Falcone sarebbe morto sicuramente.
Ci spingemmo su "un terreno che non era il nostro", raccontò poi a proposito delle stragi di mafia il pentito Gaspare Spatuzza. Era il terreno del doppio livello quello che si realizza quando siedono ad uno stesso tavolo entità diverse, interessate a cooperare ad uno stesso identico progetto criminale con scopi spesso diversi.

Nel "doppio livello" c'è la regia degli eventi politici, quella che non siamo mai riusciti ad afferrare. Il "doppio livello" dello stragismo e dell'omicidio politico ha garantito l'impunità ai mandanti, lasciando sempre l'opinione pubblica smarrita e confusa, irrisolti i processi giudiziari e un Paese da sempre in cerca delle sue verità. Nelle cospirazioni nate in quel modo, per essere cioè realizzate con l'apporto di mani diverse, la trama diventa impossibile da sbrogliare, la complicità finale di tutti permette di lasciare il delitto senza una apparente firma e l'esecutore, che sia il neofascista degli anni 70 o il boss mafioso della fine dello scorso secolo, si trova coinvolto in un'azione attentamente progettata sulla base di tante informazioni, come sanno fare i servizi segreti o tutte quelle agenzie affini, tanto che non potrà mai provare la sua estraneità. Se non vuole ammettere di essere stato manipolato, deve solo tacere e pagare
di Stefania Limiti