25 maggio 2013

Banca di Stato: se ne parla. In USA



Come qualcuno ricorderà, c’è un solo Stato americano ad avere la sua banca pubblica: è il Nord Dakota. Ed è il solo Stato americano il cui bilancio pubblico non è passato al passivo dal 2008 (data della crisi bancaria); quello che ha il tasso minore di sequestri di immobili per insolvenza, e la minor percentuale di defaults sulle carte di credito. Lo Stato è così sano, che ha potuto permettersi di ridurre le tasse sul reddito e sulla proprietà nel 2011 (1). Il segreto del successo è l’accesso al credito, che la banca pubblica, Bank of North Dakota (BND), ha mantenuto aperto anche nei momenti peggiori della crisi quando – come in Italia ed Europa – le banche privata prosciugano il loro. La BND non s’è messa in competizione con le banche commerciali, ma vi si associa, intervenendo per completare le esigenze di capitale e liquidità richieste. Essa ha un proprio programma di prestiti chiamato Flex PACEm che aiuta le comunità locali ad assistere i debitori in precisi settori: mantenimento dei posti-lavoro (job retention), creazione di tecnologie, vendite al dettaglio, piccole industrie e servizi pubblici essenziali. Nel 2010 gli interventi del Flex PACE sono cresciuti del 62% per finanziare servizi pubblici essenziali, e ciò ha trascinato l’aumento del credito partecipato delle banche commerciali, cresciuto del 64%. La banca fa profitti, che vengono retrocessi allo Stato; i depositi e le riserve della BND (crescenti ininterrottamente anche nel pieno della crisi) vengono tenuti nello stato ed investiti entro i suoi confini.

La novità è che in Usa, la patria ideologica del liberismo selvaggio, l’idea sta prendendo piede. Una ventina di Stati stanno considerando di varare una legislazione che renda possibile una banca pubblica in funzione anti-ciclica. Non basta: il 2-4 giugno, all’università dei domenicani a San Rafael (California), si terrà una grande «Public Bank Conference» per diffondere l’idea, su un tema che credo non necessiti di traduzione: «Funding the New Economy».

Organizza la conferenza una fondazione culturale che, confesso, mi giunge nuova: il Public Bank Institute. Più volte abbiamo parlato della funzione e del potere delle fondazioni culturali in America: strumenti di elaborazione intellettuale e politica, e di pressione e lobby sul governo, tali fondazioni sono finanziate da grandi gruppi e famiglie oligarchiche (l’importantissimo Council on Foreign Relations dai Rockefeller e dai Ford, ad esempio) e promuovono gli interessi dei loro finanziatori, essenzialmente il liberismo globale e il superamento delle sovranità nazionali.

Il Public Banking Institute è una ardita eccezione. Se si guarda al suo board e ai suoi comitati di consulenti, si scopre una netta mancanza di miliardari e di «autorevoli personalità» alla Kissinger e Brzezinski. La presidentessa è Ellen Brown, famosa in America come autrice del saggio «Web of Debt», un documentatissimo atto d’accusa sulla speculazione bancaria e come la finanza privata «ha usurpato il diritto del popolo alla sua moneta». Gli altri direttori sono uno sperimentato funzionario pubblico della Pennsylvania, una laureata in ingegneria elettronica che lavora per l’industria spaziale, un antropologo che ha fondato piccole imprese in settori «alternativi». Nel comitato degli advisors, trovo un docente emerito della business school di Stoccolma, un medico nato in Estonia, un architetto, diversi esperti del «terzo settore» che di quello vivono. Insomma, dei cittadini normali. (Board and staff Advisory Committee)

Ad aprire la conferenza, oltre alla citata Ellen Brown, la sola «celebrità» che vedo è Matt Taibbi, il giornalista di punta del «Rolling Stones Magazine», che parlerà sul tema: «Reclamiamo la nostra economia da Wall Street col public banking». Poi è stata invitata una signora Birgitta Jonsdottir, in quanto «deputata del parlamento d’Islanda» e Gar Alperowitz, docente di economia politica all’università del Maryland, che risulta autore di un saggio «America oltre il caputalismo»: si può solo immaginare quanto successo abbia avuto fra un’opinione pubblica del tutto votata al liberismo dogmatico. Lo stesso Alperowitz lo ammette: «Per la maggior parte degli americani è difficilissimo riflettere abbastanza a lungo da capire quanto profondamente il loro modo di pensare è stato ingabbiato dai padroni della finanza, in modo molto, molto più insidiosi e potenti di quanto dimostri la crisi finanziaria attuale».

La sola idea di public banking, per un pubblico americano così condizionato, è ovviamente qualcosa che si avvicina al «comunismo», la pretesa di instaurare in Usa il socialismo sovietico. Cambiare questa idea fissa da parte di persone che non sono perennemente viste nel talk shows, e possono essere facilmente bollate come sinistroidi, e per di più che non hanno dietro le casse del Big Business, sembra una battaglia persa in partenza. Eppure, questo gruppo ci prova.

Ed è questo fermo coraggio civile, fra le cose deplorevoli, da ammirare nell’America. L’idea che le idee nuove vanno poste all’agone pubblico, portate con tutta la forza nel dibattito, nonostante tutti gli ostacoli. Se facciamo il confronto con l’Italia, e l’Europa, vediamo come non solo il dibattito pubblico sui temi più urgenti (uscire dall’euro? far tornare le banche centrali sotto lo Stato? ) è bloccato di «divieti di pensare» preventivi, censure sorvegliate dai media e dai privilegiati dello status quo, come e più che in Usa; ma vediamo anche, dall’altra parte, l’incapacità totale di una minima elaborazione intellettuale.

Chi aveva sperato nel 5 Stelle (noi un po’ fra questi), si aspettava di vederli subissare il parlamento di idee nuove, di proposte di legge audaci come il public banking e ancor più ardite, per costringere a discuterle e a diffonderle. Invece vediamo il «nuovo» partito incagliato da settimane nella accanita discussione su cosa? Sui rimborsi-spese di loro stessi parlamentari. Su qualunque idea e proposta «discutibile» (come devono essere: le idee vanno discusse, si deve lottare, si deve convincere...) i 5 Stelle se la cavano: facciamo un referendum. Ius solis? Facciamo un referendum. Uscire dall’euro? Si può fare un referendum. Imu? Un referendum, magari sul web. Così decide «la gente» – democrazia orizzontale, diretta e continua, dicono. Invece è scarico di responsabilità. La verità è che non sanno decidere loro, che la gente ha votato per decidere (2).

Pochezza intellettuale? Anche. Ma forse peggio, è pochezza morale: «paura» di gettare nello spazio pubblico le idee, perché non le si sa difendere ed argomentare; e perché un’idea «divide», fa perdere elettori; ad esprimere idee ci si fa impallinare, deridere, bollare (se qualcuno fosse così audace di proporre la banca di stato) come – a piacere – «fascista», «comunista», statalista e populista, e quasi sicuramente complottista e antisemita – dai media che contano.

È per questo che, se qualcosa cambierà mai nel pensiero unico totalitario globale, il cambiamento verrà (ancora una volta) dall’America, dove c’è ancora gente che formula soluzioni e si batte per le idee. Solo allora si comincerà a parlare della cosa anche da noi, ma solo perché sarà diventata una moda americana: come le nozze gay… Nel frattempo il PD, invece di pensare ed esporre idee sull’intervento pubblico in economia (una volta era la sua «dottrina»), discute nelle sue varie componenti allo scopo di esprime il suo mal di pancia per dover governare con Berlusconi; e ciò, da settimane.

Nel frattempo in Usa escono studi scientifici dal titolo: «L’Opzione pubblica: a favore di banche parallele pubbliche» (The Public Option: The Case for Parallel Public Banking Institutions,») pubblicato nel giugno 2011 da Timothy Canova, docente di Diritto Economico Internazionale alla Chapman University della contea di Orange, California. Il professore spiega come «lo Stato (del Nord Dakota) deposita tutti i suoi introiti fiscali presso la Banca di Stato, la quale dal canto suo assicura che una gran parte dei fondi dello stato siano investiti nell’economia dello Stato stesso. Inoltre, la Banca restituisce alla tesoreria statale parte dei suoi guadagni. Anche per questo il Nord Dakota è il solo Stato che ha un costante surplus di bilancio dall’inizio della crisi finanziaria, e il più basso livello di disoccupazione degli Stati Uniti»: 3,3 % nel 2011.

Al contrario la California, la più ricca economia del Paese «ma priva di una banca di Stato, non riesce a investire centinaia di miliardi di dollari di gettito e altri introiti dello Stato in investimenti produttivi dentro lo Stato. La California deposita miliardi degli introiti tributari in grandi banche private, le quali investono i fondi all’esterno, e in trading speculativi (comprese scommesse coi derivati «contro» i titoli pubblico della California), e non rimettono i loro profitti alla tesoreria pubblica. Intanto la California soffre di restrizioni del credito, alta disoccupazione al disopra della media nazionale, e stagnazione del gettito fiscale». (The Case for Parallel Public Banking Institutions)

Il parassitismo della finanza privata è bel illustrato dal caso californiano: questo Stato ha affidato alle banche d’affari di Wall Street gli «investimenti» per assicurare pensioni ai suoi dipendenti: si calcola, 500 miliardi. Su questo capitale, i maghi della finanza hanno dato alla California 1 miliardo di rendita; un bellissimo rendimento dello 0,20%. In compenso, i maghi di Wall Street, per le loro commissioni, si sono trattenuti 2 miliardi. Succede così che lo Stato non può pagare tutte le pensioni, è sotto di 27 miliardi, e deve rincarare le imposte (ed ha licenziato 20 mila insegnanti in un continuo programma di austerità).

Farid Khavari
  Farid Khavari
Nel 2009, un economista di nome Farid Khavari si è candidato a governatore della Florida con un programma centrato sulla fondazione di una banca pubblica: una banca che «crea prestando 25 dollari per ogni dollaro depositato» (come le banche private: è il capitale richiesto dalla Banca dei Regolamenti Internazionali) ma, al contrario di quelle, «per il bene pubblico invece che per loro profitto». Khavari ha documentato che una tale banca, prestando al 6% sulle carte di credito e al 3-4% sui prestiti commerciali, potrebbe coprire il fabbisogno del bilancio dello Stato; e nei momenti di restrizione e depressione, lo stato può prestare a se stesso allo 0%, risparmiando le enormi spese di interessi passivi, la pietra al collo che ben conosciamo come italiani.

Khavari non ha vinto la competizione, non è governatore della Florida; non ha convinto i suoi concittadini. Il suo resta tuttavia un atto di quel coraggio politico (intellettuale, ma soprattutto morale) di cui abbiamo deplorato la mancanza in Italia. D’altra parte, la promozione di una riforma monetaria che sottragga alle banche private la creazione di liquidità dal nulla (e la relativa scrematura di profitti dai produttori di ricchezza reale) è stata, in Usa, compresa da alcune delle migliori menti della loro storia: da Benjamin Franklin a Thomas Jefferson («Il circolante deve essere restituito al popolo, cui appartiene»), da Edison a Charles Lindbergh sr., fino al grande economista di Yale Irving Fisher, che in piena Grande Depressione propose l’abolizione della riserva frazionaria (le banche potevano emettere tanti prestiti, quanti depositi avevano, non più: 100 % money). Ovviamente, potenti interessi hanno contrastato queste idee e proposte, fino ad oggi con il ben noto successo. Ma come si vede, la lotta continua.

Quanto a noi, limitiamoci a ricordare che un settore bancario pubblico è stato non l’eresia innominabile, bensì la «normalità» per lunghi periodi della nostra storia recente; la cultura e il know-how delle economia politica era stata assimilata, e le banche pubbliche fecero sostanzialmente meglio, per lo sviluppo, delle private. Del resto la scarsità di vere capacità imprenditoriali (da noi gli imprenditori tendono a diventare redditieri, senza rischiare) e di capitalisti di rischio (abbiamo sempre avuto «capitalisti senza capitale») hanno reso l’intervento pubblico in economia una pura e semplice necessità.

Solo da un certo periodo in poi il sistema si guastò perché ebbero conferma le accuse che gli ideologi del «più privato meno Stato» volgono al sistema economico antagonista, ossia che mettere in mano il potere bancario ai politici significava mettere a loro disposizione il mezzo per la corruzione loro ed altrui, l’ingrasso delle loro clientele e la mala, inefficiente allocazione delle risorse finanziare.

Questa obiezione è sicuramente vera e sensata, come noi italiani sappiamo fin troppo bene. Anche se proprio il Nord Dakota, con le sue interessanti metodologie di «sterilizzazione» dell’attività della banca pubblica dalle voglie dei politici, la smentisce. Una gestione pubblica oculata ed efficace, di fatto più efficiente del credito privato, è possibile, e lo Stato americano lo dimostra. Certo è che, da noi, un ritorno del «pubblico» in economia non è neppure pensabile, fino a quando l’attuale classe «politica» non sarà eliminata, e le caste amministratrici non recuperano, con la competenza, il senso della missione al servizio della nazione. Qualità che un tempo possedeva, e che il pluripartitismo insaziabile ha guastato.

Ma non abbandoniamo la speranza. Le borse salgono mentre l’economia collassa seppellendo milioni di disoccupati sotto le sue macerie: è l’assurdo, aberrante «impiego» che trova l’inondazione di liquidità della Fed, della Banca centrale nipponica e di nascosto, della BCE. In tal modo, il sistema finanziario privato succhia per sé le ultime gocce di ricchezza reale che i produttori stanno smettendo di produrre. La scarsità di credito nel mare di liquidità mostra la sua essenza assurda, intollerabile.

Il capitalismo terminale suscita energie e volontà di combatterlo, e le idee per riformarlo sono in campo. Non da noi, certo. Ma viene a mente una vecchia barzelletta dei tempi sovietici; uno degli apocrifi di «radio Erivan», un’emittente comunista che distillava in pillole il verbo sovietico, ossia propaganda ideologica. Un ascoltatore chiede a Radio Erivan:

«Che cosa fa il capitalismo?»

Risposta: «Corre alla propria rovina»

«E qual è lo scopo supremo del socialismo?»

«Raggiungere e superare il capitalismo!».

Qualcuno ha detto, negli anni ’90 quando crollò il Muro, che assistevamo alla seconda parte di questa barzelletta. La prima doveva ancora avverarsi, ed è qui.





1) Naturalmente, si suole eccepire che il Nord Dakota è uno stato di soli 700 mila abitanti, dove tutti i politici sono sotto l’occhio della cittadinanza, e per di più ha un buon settore petrolifero. Tuttavia l’Alaska, con popolazione poco superiore e un settore petrolifero almeno doppio, ha un tasso di disoccupazione del 7.7%, il doppio del N.D.
2) In questo senso, ai lettori che giustamente mi facevano notare la tenebrosa ideologia «esoterica» di Casaleggio e Grillo, ho replicato chiamando Grillo «il Gran Belinone»: essenzialmente, volevo indicare l’incapacità di elaborazione intellettuale dei leader del movimento. Il duo «esoterico» non ha propriamente idee, ma spezzoni malcotti di idee altrui, residui slegati di utopie depassées, assunti per giunta non come temi del dibattito, ma come atti di fede. Nello stesso senso qui, mentre i media celebravano a comando «il tecnico» Mario Monti, lo si è chiamato «un solenne cretino»: cretino, ancorché indubitabilmente solenne. Privo di idee e di competenza, ha precipitato il collasso dell’economia nazionale applicando le ricette eurocratiche, senza il minimo discernimento. Con ciò, non vogliamo risparmiare gli altri. Abbiamo visto spesso l’azione delle Fondazioni culturali in Usa, la loro funzione motrice e di centrali di idee. Ci sfugge, e resta inosservata, la produzione intellettuale della Fondazione culturale di D’Alema, che se non sbaglio si chiama «Italianieuropei»; nessuna aspettativa per contro, abbiamo avuto in FareFuturo, la fondazione «culturale» Gianfranco Fini, il politicamente defunto: la parola stessa «culturale» qui è fuori luogo. Le fondazioni in Italia sono un altro trucchetto per succhiare denaro pubbblico e distribuirlo a compari «intellettuali». La stretta attualità ci obbliga poi ad additare, fra gli esempi preclari di insufficienza intellettuale, l’accanimento paranoide della d.ssa Ilda Boccassini: la quale, sulla base di indizi pericolanti smentibilissimi in appello, ha chiesto per Berlusconi 6 anni di galera e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Sei anni di carcere, i nostri magistrati non li danno più nemmeno per l’omicidio premeditato (specie se l’omicida è un extracomunitario). I magistrati stanno facendo un’altra volta di tutto per dar ragione al Cavaliere: è un perseguitato, indubbiamente. 

di Maurizio Blondet


24 maggio 2013

La privatizzazione della politica e il Moloch dello sviluppo



LA PRIVATIZZAZIONE DELLA POLITICA E IL MOLOCH DELLO SVILUPPO
La tragedia avvenuta in Bangladesh riaccende i riflettori sulla questione delle esternalizzazioni nella produzione di beni da parte dei grandi marchi. La produzione materiale di abiti, macchinari e accessori tecnologici avviene spesso in Paesi del terzo mondo o cosiddetti emergenti; se da una parte c’è l’ovvia e immediata ragione economica (produrre in quei Paesi, dove le telecamere non sono mai accese, a costi ridottissimi e mantenendo in condizioni di semi-schiavitù la forza lavoro), dall’altra c’è anche la questione del marchio.
Il vero marchio trascende il prodotto in sé e diventa un’esperienza di vita, diventa filosofia di vita e parte della vita stessa, trascende il prodotto fisico anzi, il sogno dei grandi guru dei marchi è proprio quello di disfarsi del prodotto e di vendere il concetto, l’esperienza, l’emozione che esso contiene. Diventa difficile parlare di territorialità e di legame con il territorio quando si tratta di questi colossi, e internet diventa quindi lo spazio ideale per i marchi, “liberati dai Paesi del mondo reale dei negozi e della produzione, questi marchi sono liberi di elevarsi, proponendosi non tanto come diffusori di merci o servizi quanto come allucinazioni collettive” (1).
La politica non è da meno e le due amministrazioni Bush Jr. hanno attinto a piene mani dal modello delle hollow corporations, consultando esperti di indagini di mercato e di marchi. Difesa dei confini, protezione civile, intelligence e missioni militari all’estero sono state tutte appaltate a settori privati; il direttore del fondo di finanziamento, Mitch Daniels, ha espresso chiaramente il concetto: “il governo non ha il compito di fornire servizi, ma di accertarsi che siano forniti”. Chealrotte Beers, che aveva diretto diverse agenzie pubblicitarie, venne assunta come sottosegretario alla Diplomazia e agli Affari Pubblici e le critiche per quella nomina furono respinte dal segretario di Stato Colin Powell con queste parole: “Non c’è niente di male ad assumere una persona che sappia vendere. Noi vendiamo un prodotto, e ci serve qualcuno che possa rinnovare il marchio della politica estera e della diplomazia americana”.
La Lockheed Martin, famosa tra le altre cose per la paternità dei discussi caccia F-35, è il più grande appaltatore al mondo della difesa, e un’inchiesta del 2004 del “New York Times” elencava tutti gli ambiti in cui opera, tra cui l’organizzazione del censimento nazionale, la gestione dei voli spaziali e l’assistenza sanitaria. La privatizzazione della politica si estende anche oltre i patri confini: l’occupazione militare dell’Iraq ha visto un consistente impegno di compagnie private quali Blackwater e Halliburton. Quando uomini della Blackwater aprirono il fuoco in piazza Nisour a Baghdad, uccidendo diciassette civili, l’amministrazione statunitense se ne lavò le mani scaricando sugli appaltatori tutta la responsabilità, e la compagnia risorse rinnovando il marchio e assumendo il nuovo nome di Xe Services.
Gli attentati dell’11 settembre 2001 strinsero la nazione attorno al presidente Bush, molto contestato e molto poco apprezzato, e raccolsero molti Paesi europei e non, ostili a quell’amministrazione, attorno agli USA, cosicché l’intervento militare in Afghanistan venne accettato. La guerra all’Iraq fece però scendere nuovamente le quotazioni della Casa Bianca all’estero e a lungo andare anche all’interno della nazione. Il marchio USA era ai minimi storici, finché non arrivò Obama.
Barack Obama, durante la sua prima campagna presidenziale, ricevette più finanziamenti da Wall Street di qualsiasi altro candidato e, una volta eletto presidente, ha confermato nei gangli delle istituzioni economiche e finanziarie persone come Ben Barnake, e continua tuttora sulla strada neoliberista.
Le strategie geopolitiche statunitensi non cambiano: ostilità aperta nei confronti dell’Iran, un uso intensificato dei droni nelle zone di guerra, sostegno incondizionato a Israele (nonostante l’evidente e autentica antipatia di Obama per Netanyahu), opposizione a un blocco europeo unitario, Guantanamo rimane tuttora aperta e funzionante e Obama si è opposto ai processi contro i responsabili di Bush che autorizzarono le torture (2).
Si assiste così a una progressiva privatizzazione dello Stato e della res publica e delle relazioni internazionali. Il liberalismo economico è diventato un modello per i governi occidentali, d’altra parte il capitalismo è anche il portatore di una sua propria antropologia, quella dell’Homo  oeconomicus con la relativa riduzione di qualsiasi cosa a merce, a valore economico con una conseguente tendenza a ridurre i costi. La penetrazione del modello occidentale, che ha come modello gli Stati Uniti  ma che ormai li ha superati e inglobati, passa attraverso la proliferazione dei bisogni di nuovi beni da acquistare.
Il modello dello sviluppo prevede sempre nuovi consumatori e nicchie di mercato in ogni angolo del mondo, poiché ha bisogno di una inarrestabile ed esponenziale crescita. La crisi strutturale che stiamo vivendo e la consapevolezza che questo modello di crescita infinita non si concilia con un sistema chiuso e finito, quale è il nostro pianeta, stanno accelerando e diffondendo ideologie alternative, quali comunitarismo e decrescita.
Inquinamento e sfruttamento dell’ambiente stanno facendo sensibilizzare l’opinione pubblica, senza però mettere veramente in discussione il nostro modello, facendo così parlare di sviluppo sostenibile e di green economy; ma, come scrive Serge Latouche, per tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dell’impresa sviluppista, siamo entrati nell’era degli sviluppi con l’aggettivo. […] Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si rimette veramente in discussione l’accumulazione capitalista. […] Questo lavoro di ridefinizione dello sviluppo […] si regge sempre su idee di cultura, natura, giustizia sociale. Si ritiene di poter guarire un Male che colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. […] Lo sviluppo sostenibile è il più bel risultato di questa arte di ringiovanimento dei vecchi tempi. Illustra perfettamente il processo di eufemizzazione attraverso gli aggettivi volti a cambiare le parole ma non le cose”.
Qual è allora un modello credibile e alternativo a quello dello sviluppo? Il punto è proprio questo: non esiste una grande potenza o un continente, una confederazione di stati e nazioni che possa offrirne uno. Crollato il blocco sovietico, è crollato anche il contrasto tra due grandi modelli e quello sopravvissuto ha invaso il mondo, sia pure con adattamenti particolari. Si tratta quindi di trovare una via che non metta al centro il profitto e i mercati, ma comunità, identità e non veda il pianeta contemporaneamente come una miniera da sfruttare indefinitamente e come discarica.

di Francesco Viaro 


* Francesco Viaro è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Padova.

23 maggio 2013

Il Partito Democratico non ha ragione di esistere




   
   
Io, cittadino stufo della farsa partitocratica, non ce l’ho col Pd. È il Pd a avercela con me e con l’Italia. E con sé stesso. È nato nel 2008, questo bambino deforme, dall’unione contro natura e mal riuscita fra ex democristiani di sinistra ed ex comunisti di destra. I militanti pecoroni - verso i quali, spiace, ma non può esserci più comprensione - si sono bevuti la sola del Partito Democratico sul modello americano: una fregnaccia di Prodi e Veltroni che pretendeva di cancellare la storia centenaria di due tradizioni politiche e culturali con le loro peculiarità, idiosincrasie, incompatibilità, identità.

La solita cialtroneria italiana, al servizio di un disegno ben preciso e serissimo nella sua pericolosità: omologare i paesi occidentali al sistema partitico anglosassone, ideale per imporre una dialettica semplificata e distorcente non sul cosa, ma sul come gestire l’ordinaria amministrazione, coi veri piloti in cabina – gli interessi finanziari sovranazionali - a decidere la rotta unica e obbligata.

L’arrivo in scena del berluschino – o veltronino - Renzi è la ciliegina sulla torta: lui non finge neanche più di essere di sinistra nell’accezione comunemente accettata della parola, rappresenta l’indistinto luogo comune trasversale (il merito, più mercato, più efficienza, più modernità, più leggerezza, e già che ci siamo più figa per tutti).

Dopo cinque anni, l’aborto è palese. Lo snobismo, la sicumera, la scissione d’origine mai composta e rimescolata nel duello generazionale più che sostanziale Bersani-Renzi, l’annacquamento di ogni istanza nel “ma anche”, lo spadroneggiare di potentati a volte criminali hanno portato alla sconfitta netta delle elezioni politiche e alla caporetto del Quirinale, con 101 parlamentari ancora in incognito che hanno abbattuto a colpi di voto segreto il padre fondatore Prodi, dando la plastica dimostrazione che il Pd è davvero Pdmenoelle: meglio riconfermare Napolitano, sommo sacerdote dell’inciucio, andando così al governo assieme al finto nemico Berlusconi, che optare per la traversata nel deserto (i grillini non avrebbero comunque sostenuto un loro governo di minoranza, o almeno si spera) ma a testa alta.

Ora, se fossi un iscritto al Pd, nel guardarmi allo specchio mi sputerei in faccia. Che ci starei a fare in un nido di serpi, ciechi, illusi e complici in malafede che ha suggellato vent’anni di collusione con Silvio, odiato a parole e servito e riverito nei fatti? Se fossi onesto con me stesso, straccerei la tessera. L’opa ostile di Grillo ai giovani che occupano le sedi è nella logica delle cose, sempre che le cose debbano ancora avere una logica, in questa Italietta di eunuchi e saltimbanchi. Occupy Pd? Refuse Pd! Non c’è più alcuna ragione sensata per cui una persona dotata di cervello e in buona fede resti ancora là dentro. In nome della sinistra? Ma la sinistra resiste soltanto come mito reazionario, per far sopravvivere un immaginario superato e arcisuperato mentre in tutte le scelte fondamentali la sedicente sinistra col marchio Pd ha sposato l’ideologia dominante liberal-liberista, giusto un pelo temperata e camuffata con la retorica delle liberalizzazioni pro-consumatori (quando in realtà sono pro-grandi catene, come guarda caso le coop). In nome dell’antiberlusconismo? Oggi risulta arduo perfino pensarlo, visto che sono tutti seduti amorevolmente insieme a Palazzo Chigi a brigare per tornare agli antichi fasti (magari con norme ad hoc per far fuori il Movimento 5 Stelle, su cui il pacato commento non può che essere uno: farabutti!). 

In nome dell’Europa? Ma ormai lo capisce anche un decerebrato che l’Unione Europea è stata una solenne fregatura, tanto è vero che adesso non si trova un difensore delle regole di Maastricht (3% di deficit consentito, la legge ferrea dell’oppressione) neanche col lanternino.

In nome di che, di grazia, il Pd ha ancora un motivo valido di esistere? Con tutta la buona volontà, non riesco a trovarlo. Ah certo, uno c’è: fare i guardiani della controrivoluzione, reggendo pure il moccolo al beneamato Silvietto. Ci risparmino la sceneggiata, i presunti giovani del Pd. Se vogliono cambiare l’Italia, si suppone in meglio, non c’è unica via che lasciarlo. Ha fatto troppi danni e continua a farli.

Alessio Mannino   

25 maggio 2013

Banca di Stato: se ne parla. In USA



Come qualcuno ricorderà, c’è un solo Stato americano ad avere la sua banca pubblica: è il Nord Dakota. Ed è il solo Stato americano il cui bilancio pubblico non è passato al passivo dal 2008 (data della crisi bancaria); quello che ha il tasso minore di sequestri di immobili per insolvenza, e la minor percentuale di defaults sulle carte di credito. Lo Stato è così sano, che ha potuto permettersi di ridurre le tasse sul reddito e sulla proprietà nel 2011 (1). Il segreto del successo è l’accesso al credito, che la banca pubblica, Bank of North Dakota (BND), ha mantenuto aperto anche nei momenti peggiori della crisi quando – come in Italia ed Europa – le banche privata prosciugano il loro. La BND non s’è messa in competizione con le banche commerciali, ma vi si associa, intervenendo per completare le esigenze di capitale e liquidità richieste. Essa ha un proprio programma di prestiti chiamato Flex PACEm che aiuta le comunità locali ad assistere i debitori in precisi settori: mantenimento dei posti-lavoro (job retention), creazione di tecnologie, vendite al dettaglio, piccole industrie e servizi pubblici essenziali. Nel 2010 gli interventi del Flex PACE sono cresciuti del 62% per finanziare servizi pubblici essenziali, e ciò ha trascinato l’aumento del credito partecipato delle banche commerciali, cresciuto del 64%. La banca fa profitti, che vengono retrocessi allo Stato; i depositi e le riserve della BND (crescenti ininterrottamente anche nel pieno della crisi) vengono tenuti nello stato ed investiti entro i suoi confini.

La novità è che in Usa, la patria ideologica del liberismo selvaggio, l’idea sta prendendo piede. Una ventina di Stati stanno considerando di varare una legislazione che renda possibile una banca pubblica in funzione anti-ciclica. Non basta: il 2-4 giugno, all’università dei domenicani a San Rafael (California), si terrà una grande «Public Bank Conference» per diffondere l’idea, su un tema che credo non necessiti di traduzione: «Funding the New Economy».

Organizza la conferenza una fondazione culturale che, confesso, mi giunge nuova: il Public Bank Institute. Più volte abbiamo parlato della funzione e del potere delle fondazioni culturali in America: strumenti di elaborazione intellettuale e politica, e di pressione e lobby sul governo, tali fondazioni sono finanziate da grandi gruppi e famiglie oligarchiche (l’importantissimo Council on Foreign Relations dai Rockefeller e dai Ford, ad esempio) e promuovono gli interessi dei loro finanziatori, essenzialmente il liberismo globale e il superamento delle sovranità nazionali.

Il Public Banking Institute è una ardita eccezione. Se si guarda al suo board e ai suoi comitati di consulenti, si scopre una netta mancanza di miliardari e di «autorevoli personalità» alla Kissinger e Brzezinski. La presidentessa è Ellen Brown, famosa in America come autrice del saggio «Web of Debt», un documentatissimo atto d’accusa sulla speculazione bancaria e come la finanza privata «ha usurpato il diritto del popolo alla sua moneta». Gli altri direttori sono uno sperimentato funzionario pubblico della Pennsylvania, una laureata in ingegneria elettronica che lavora per l’industria spaziale, un antropologo che ha fondato piccole imprese in settori «alternativi». Nel comitato degli advisors, trovo un docente emerito della business school di Stoccolma, un medico nato in Estonia, un architetto, diversi esperti del «terzo settore» che di quello vivono. Insomma, dei cittadini normali. (Board and staff Advisory Committee)

Ad aprire la conferenza, oltre alla citata Ellen Brown, la sola «celebrità» che vedo è Matt Taibbi, il giornalista di punta del «Rolling Stones Magazine», che parlerà sul tema: «Reclamiamo la nostra economia da Wall Street col public banking». Poi è stata invitata una signora Birgitta Jonsdottir, in quanto «deputata del parlamento d’Islanda» e Gar Alperowitz, docente di economia politica all’università del Maryland, che risulta autore di un saggio «America oltre il caputalismo»: si può solo immaginare quanto successo abbia avuto fra un’opinione pubblica del tutto votata al liberismo dogmatico. Lo stesso Alperowitz lo ammette: «Per la maggior parte degli americani è difficilissimo riflettere abbastanza a lungo da capire quanto profondamente il loro modo di pensare è stato ingabbiato dai padroni della finanza, in modo molto, molto più insidiosi e potenti di quanto dimostri la crisi finanziaria attuale».

La sola idea di public banking, per un pubblico americano così condizionato, è ovviamente qualcosa che si avvicina al «comunismo», la pretesa di instaurare in Usa il socialismo sovietico. Cambiare questa idea fissa da parte di persone che non sono perennemente viste nel talk shows, e possono essere facilmente bollate come sinistroidi, e per di più che non hanno dietro le casse del Big Business, sembra una battaglia persa in partenza. Eppure, questo gruppo ci prova.

Ed è questo fermo coraggio civile, fra le cose deplorevoli, da ammirare nell’America. L’idea che le idee nuove vanno poste all’agone pubblico, portate con tutta la forza nel dibattito, nonostante tutti gli ostacoli. Se facciamo il confronto con l’Italia, e l’Europa, vediamo come non solo il dibattito pubblico sui temi più urgenti (uscire dall’euro? far tornare le banche centrali sotto lo Stato? ) è bloccato di «divieti di pensare» preventivi, censure sorvegliate dai media e dai privilegiati dello status quo, come e più che in Usa; ma vediamo anche, dall’altra parte, l’incapacità totale di una minima elaborazione intellettuale.

Chi aveva sperato nel 5 Stelle (noi un po’ fra questi), si aspettava di vederli subissare il parlamento di idee nuove, di proposte di legge audaci come il public banking e ancor più ardite, per costringere a discuterle e a diffonderle. Invece vediamo il «nuovo» partito incagliato da settimane nella accanita discussione su cosa? Sui rimborsi-spese di loro stessi parlamentari. Su qualunque idea e proposta «discutibile» (come devono essere: le idee vanno discusse, si deve lottare, si deve convincere...) i 5 Stelle se la cavano: facciamo un referendum. Ius solis? Facciamo un referendum. Uscire dall’euro? Si può fare un referendum. Imu? Un referendum, magari sul web. Così decide «la gente» – democrazia orizzontale, diretta e continua, dicono. Invece è scarico di responsabilità. La verità è che non sanno decidere loro, che la gente ha votato per decidere (2).

Pochezza intellettuale? Anche. Ma forse peggio, è pochezza morale: «paura» di gettare nello spazio pubblico le idee, perché non le si sa difendere ed argomentare; e perché un’idea «divide», fa perdere elettori; ad esprimere idee ci si fa impallinare, deridere, bollare (se qualcuno fosse così audace di proporre la banca di stato) come – a piacere – «fascista», «comunista», statalista e populista, e quasi sicuramente complottista e antisemita – dai media che contano.

È per questo che, se qualcosa cambierà mai nel pensiero unico totalitario globale, il cambiamento verrà (ancora una volta) dall’America, dove c’è ancora gente che formula soluzioni e si batte per le idee. Solo allora si comincerà a parlare della cosa anche da noi, ma solo perché sarà diventata una moda americana: come le nozze gay… Nel frattempo il PD, invece di pensare ed esporre idee sull’intervento pubblico in economia (una volta era la sua «dottrina»), discute nelle sue varie componenti allo scopo di esprime il suo mal di pancia per dover governare con Berlusconi; e ciò, da settimane.

Nel frattempo in Usa escono studi scientifici dal titolo: «L’Opzione pubblica: a favore di banche parallele pubbliche» (The Public Option: The Case for Parallel Public Banking Institutions,») pubblicato nel giugno 2011 da Timothy Canova, docente di Diritto Economico Internazionale alla Chapman University della contea di Orange, California. Il professore spiega come «lo Stato (del Nord Dakota) deposita tutti i suoi introiti fiscali presso la Banca di Stato, la quale dal canto suo assicura che una gran parte dei fondi dello stato siano investiti nell’economia dello Stato stesso. Inoltre, la Banca restituisce alla tesoreria statale parte dei suoi guadagni. Anche per questo il Nord Dakota è il solo Stato che ha un costante surplus di bilancio dall’inizio della crisi finanziaria, e il più basso livello di disoccupazione degli Stati Uniti»: 3,3 % nel 2011.

Al contrario la California, la più ricca economia del Paese «ma priva di una banca di Stato, non riesce a investire centinaia di miliardi di dollari di gettito e altri introiti dello Stato in investimenti produttivi dentro lo Stato. La California deposita miliardi degli introiti tributari in grandi banche private, le quali investono i fondi all’esterno, e in trading speculativi (comprese scommesse coi derivati «contro» i titoli pubblico della California), e non rimettono i loro profitti alla tesoreria pubblica. Intanto la California soffre di restrizioni del credito, alta disoccupazione al disopra della media nazionale, e stagnazione del gettito fiscale». (The Case for Parallel Public Banking Institutions)

Il parassitismo della finanza privata è bel illustrato dal caso californiano: questo Stato ha affidato alle banche d’affari di Wall Street gli «investimenti» per assicurare pensioni ai suoi dipendenti: si calcola, 500 miliardi. Su questo capitale, i maghi della finanza hanno dato alla California 1 miliardo di rendita; un bellissimo rendimento dello 0,20%. In compenso, i maghi di Wall Street, per le loro commissioni, si sono trattenuti 2 miliardi. Succede così che lo Stato non può pagare tutte le pensioni, è sotto di 27 miliardi, e deve rincarare le imposte (ed ha licenziato 20 mila insegnanti in un continuo programma di austerità).

Farid Khavari
  Farid Khavari
Nel 2009, un economista di nome Farid Khavari si è candidato a governatore della Florida con un programma centrato sulla fondazione di una banca pubblica: una banca che «crea prestando 25 dollari per ogni dollaro depositato» (come le banche private: è il capitale richiesto dalla Banca dei Regolamenti Internazionali) ma, al contrario di quelle, «per il bene pubblico invece che per loro profitto». Khavari ha documentato che una tale banca, prestando al 6% sulle carte di credito e al 3-4% sui prestiti commerciali, potrebbe coprire il fabbisogno del bilancio dello Stato; e nei momenti di restrizione e depressione, lo stato può prestare a se stesso allo 0%, risparmiando le enormi spese di interessi passivi, la pietra al collo che ben conosciamo come italiani.

Khavari non ha vinto la competizione, non è governatore della Florida; non ha convinto i suoi concittadini. Il suo resta tuttavia un atto di quel coraggio politico (intellettuale, ma soprattutto morale) di cui abbiamo deplorato la mancanza in Italia. D’altra parte, la promozione di una riforma monetaria che sottragga alle banche private la creazione di liquidità dal nulla (e la relativa scrematura di profitti dai produttori di ricchezza reale) è stata, in Usa, compresa da alcune delle migliori menti della loro storia: da Benjamin Franklin a Thomas Jefferson («Il circolante deve essere restituito al popolo, cui appartiene»), da Edison a Charles Lindbergh sr., fino al grande economista di Yale Irving Fisher, che in piena Grande Depressione propose l’abolizione della riserva frazionaria (le banche potevano emettere tanti prestiti, quanti depositi avevano, non più: 100 % money). Ovviamente, potenti interessi hanno contrastato queste idee e proposte, fino ad oggi con il ben noto successo. Ma come si vede, la lotta continua.

Quanto a noi, limitiamoci a ricordare che un settore bancario pubblico è stato non l’eresia innominabile, bensì la «normalità» per lunghi periodi della nostra storia recente; la cultura e il know-how delle economia politica era stata assimilata, e le banche pubbliche fecero sostanzialmente meglio, per lo sviluppo, delle private. Del resto la scarsità di vere capacità imprenditoriali (da noi gli imprenditori tendono a diventare redditieri, senza rischiare) e di capitalisti di rischio (abbiamo sempre avuto «capitalisti senza capitale») hanno reso l’intervento pubblico in economia una pura e semplice necessità.

Solo da un certo periodo in poi il sistema si guastò perché ebbero conferma le accuse che gli ideologi del «più privato meno Stato» volgono al sistema economico antagonista, ossia che mettere in mano il potere bancario ai politici significava mettere a loro disposizione il mezzo per la corruzione loro ed altrui, l’ingrasso delle loro clientele e la mala, inefficiente allocazione delle risorse finanziare.

Questa obiezione è sicuramente vera e sensata, come noi italiani sappiamo fin troppo bene. Anche se proprio il Nord Dakota, con le sue interessanti metodologie di «sterilizzazione» dell’attività della banca pubblica dalle voglie dei politici, la smentisce. Una gestione pubblica oculata ed efficace, di fatto più efficiente del credito privato, è possibile, e lo Stato americano lo dimostra. Certo è che, da noi, un ritorno del «pubblico» in economia non è neppure pensabile, fino a quando l’attuale classe «politica» non sarà eliminata, e le caste amministratrici non recuperano, con la competenza, il senso della missione al servizio della nazione. Qualità che un tempo possedeva, e che il pluripartitismo insaziabile ha guastato.

Ma non abbandoniamo la speranza. Le borse salgono mentre l’economia collassa seppellendo milioni di disoccupati sotto le sue macerie: è l’assurdo, aberrante «impiego» che trova l’inondazione di liquidità della Fed, della Banca centrale nipponica e di nascosto, della BCE. In tal modo, il sistema finanziario privato succhia per sé le ultime gocce di ricchezza reale che i produttori stanno smettendo di produrre. La scarsità di credito nel mare di liquidità mostra la sua essenza assurda, intollerabile.

Il capitalismo terminale suscita energie e volontà di combatterlo, e le idee per riformarlo sono in campo. Non da noi, certo. Ma viene a mente una vecchia barzelletta dei tempi sovietici; uno degli apocrifi di «radio Erivan», un’emittente comunista che distillava in pillole il verbo sovietico, ossia propaganda ideologica. Un ascoltatore chiede a Radio Erivan:

«Che cosa fa il capitalismo?»

Risposta: «Corre alla propria rovina»

«E qual è lo scopo supremo del socialismo?»

«Raggiungere e superare il capitalismo!».

Qualcuno ha detto, negli anni ’90 quando crollò il Muro, che assistevamo alla seconda parte di questa barzelletta. La prima doveva ancora avverarsi, ed è qui.





1) Naturalmente, si suole eccepire che il Nord Dakota è uno stato di soli 700 mila abitanti, dove tutti i politici sono sotto l’occhio della cittadinanza, e per di più ha un buon settore petrolifero. Tuttavia l’Alaska, con popolazione poco superiore e un settore petrolifero almeno doppio, ha un tasso di disoccupazione del 7.7%, il doppio del N.D.
2) In questo senso, ai lettori che giustamente mi facevano notare la tenebrosa ideologia «esoterica» di Casaleggio e Grillo, ho replicato chiamando Grillo «il Gran Belinone»: essenzialmente, volevo indicare l’incapacità di elaborazione intellettuale dei leader del movimento. Il duo «esoterico» non ha propriamente idee, ma spezzoni malcotti di idee altrui, residui slegati di utopie depassées, assunti per giunta non come temi del dibattito, ma come atti di fede. Nello stesso senso qui, mentre i media celebravano a comando «il tecnico» Mario Monti, lo si è chiamato «un solenne cretino»: cretino, ancorché indubitabilmente solenne. Privo di idee e di competenza, ha precipitato il collasso dell’economia nazionale applicando le ricette eurocratiche, senza il minimo discernimento. Con ciò, non vogliamo risparmiare gli altri. Abbiamo visto spesso l’azione delle Fondazioni culturali in Usa, la loro funzione motrice e di centrali di idee. Ci sfugge, e resta inosservata, la produzione intellettuale della Fondazione culturale di D’Alema, che se non sbaglio si chiama «Italianieuropei»; nessuna aspettativa per contro, abbiamo avuto in FareFuturo, la fondazione «culturale» Gianfranco Fini, il politicamente defunto: la parola stessa «culturale» qui è fuori luogo. Le fondazioni in Italia sono un altro trucchetto per succhiare denaro pubbblico e distribuirlo a compari «intellettuali». La stretta attualità ci obbliga poi ad additare, fra gli esempi preclari di insufficienza intellettuale, l’accanimento paranoide della d.ssa Ilda Boccassini: la quale, sulla base di indizi pericolanti smentibilissimi in appello, ha chiesto per Berlusconi 6 anni di galera e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Sei anni di carcere, i nostri magistrati non li danno più nemmeno per l’omicidio premeditato (specie se l’omicida è un extracomunitario). I magistrati stanno facendo un’altra volta di tutto per dar ragione al Cavaliere: è un perseguitato, indubbiamente. 

di Maurizio Blondet


24 maggio 2013

La privatizzazione della politica e il Moloch dello sviluppo



LA PRIVATIZZAZIONE DELLA POLITICA E IL MOLOCH DELLO SVILUPPO
La tragedia avvenuta in Bangladesh riaccende i riflettori sulla questione delle esternalizzazioni nella produzione di beni da parte dei grandi marchi. La produzione materiale di abiti, macchinari e accessori tecnologici avviene spesso in Paesi del terzo mondo o cosiddetti emergenti; se da una parte c’è l’ovvia e immediata ragione economica (produrre in quei Paesi, dove le telecamere non sono mai accese, a costi ridottissimi e mantenendo in condizioni di semi-schiavitù la forza lavoro), dall’altra c’è anche la questione del marchio.
Il vero marchio trascende il prodotto in sé e diventa un’esperienza di vita, diventa filosofia di vita e parte della vita stessa, trascende il prodotto fisico anzi, il sogno dei grandi guru dei marchi è proprio quello di disfarsi del prodotto e di vendere il concetto, l’esperienza, l’emozione che esso contiene. Diventa difficile parlare di territorialità e di legame con il territorio quando si tratta di questi colossi, e internet diventa quindi lo spazio ideale per i marchi, “liberati dai Paesi del mondo reale dei negozi e della produzione, questi marchi sono liberi di elevarsi, proponendosi non tanto come diffusori di merci o servizi quanto come allucinazioni collettive” (1).
La politica non è da meno e le due amministrazioni Bush Jr. hanno attinto a piene mani dal modello delle hollow corporations, consultando esperti di indagini di mercato e di marchi. Difesa dei confini, protezione civile, intelligence e missioni militari all’estero sono state tutte appaltate a settori privati; il direttore del fondo di finanziamento, Mitch Daniels, ha espresso chiaramente il concetto: “il governo non ha il compito di fornire servizi, ma di accertarsi che siano forniti”. Chealrotte Beers, che aveva diretto diverse agenzie pubblicitarie, venne assunta come sottosegretario alla Diplomazia e agli Affari Pubblici e le critiche per quella nomina furono respinte dal segretario di Stato Colin Powell con queste parole: “Non c’è niente di male ad assumere una persona che sappia vendere. Noi vendiamo un prodotto, e ci serve qualcuno che possa rinnovare il marchio della politica estera e della diplomazia americana”.
La Lockheed Martin, famosa tra le altre cose per la paternità dei discussi caccia F-35, è il più grande appaltatore al mondo della difesa, e un’inchiesta del 2004 del “New York Times” elencava tutti gli ambiti in cui opera, tra cui l’organizzazione del censimento nazionale, la gestione dei voli spaziali e l’assistenza sanitaria. La privatizzazione della politica si estende anche oltre i patri confini: l’occupazione militare dell’Iraq ha visto un consistente impegno di compagnie private quali Blackwater e Halliburton. Quando uomini della Blackwater aprirono il fuoco in piazza Nisour a Baghdad, uccidendo diciassette civili, l’amministrazione statunitense se ne lavò le mani scaricando sugli appaltatori tutta la responsabilità, e la compagnia risorse rinnovando il marchio e assumendo il nuovo nome di Xe Services.
Gli attentati dell’11 settembre 2001 strinsero la nazione attorno al presidente Bush, molto contestato e molto poco apprezzato, e raccolsero molti Paesi europei e non, ostili a quell’amministrazione, attorno agli USA, cosicché l’intervento militare in Afghanistan venne accettato. La guerra all’Iraq fece però scendere nuovamente le quotazioni della Casa Bianca all’estero e a lungo andare anche all’interno della nazione. Il marchio USA era ai minimi storici, finché non arrivò Obama.
Barack Obama, durante la sua prima campagna presidenziale, ricevette più finanziamenti da Wall Street di qualsiasi altro candidato e, una volta eletto presidente, ha confermato nei gangli delle istituzioni economiche e finanziarie persone come Ben Barnake, e continua tuttora sulla strada neoliberista.
Le strategie geopolitiche statunitensi non cambiano: ostilità aperta nei confronti dell’Iran, un uso intensificato dei droni nelle zone di guerra, sostegno incondizionato a Israele (nonostante l’evidente e autentica antipatia di Obama per Netanyahu), opposizione a un blocco europeo unitario, Guantanamo rimane tuttora aperta e funzionante e Obama si è opposto ai processi contro i responsabili di Bush che autorizzarono le torture (2).
Si assiste così a una progressiva privatizzazione dello Stato e della res publica e delle relazioni internazionali. Il liberalismo economico è diventato un modello per i governi occidentali, d’altra parte il capitalismo è anche il portatore di una sua propria antropologia, quella dell’Homo  oeconomicus con la relativa riduzione di qualsiasi cosa a merce, a valore economico con una conseguente tendenza a ridurre i costi. La penetrazione del modello occidentale, che ha come modello gli Stati Uniti  ma che ormai li ha superati e inglobati, passa attraverso la proliferazione dei bisogni di nuovi beni da acquistare.
Il modello dello sviluppo prevede sempre nuovi consumatori e nicchie di mercato in ogni angolo del mondo, poiché ha bisogno di una inarrestabile ed esponenziale crescita. La crisi strutturale che stiamo vivendo e la consapevolezza che questo modello di crescita infinita non si concilia con un sistema chiuso e finito, quale è il nostro pianeta, stanno accelerando e diffondendo ideologie alternative, quali comunitarismo e decrescita.
Inquinamento e sfruttamento dell’ambiente stanno facendo sensibilizzare l’opinione pubblica, senza però mettere veramente in discussione il nostro modello, facendo così parlare di sviluppo sostenibile e di green economy; ma, come scrive Serge Latouche, per tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dell’impresa sviluppista, siamo entrati nell’era degli sviluppi con l’aggettivo. […] Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si rimette veramente in discussione l’accumulazione capitalista. […] Questo lavoro di ridefinizione dello sviluppo […] si regge sempre su idee di cultura, natura, giustizia sociale. Si ritiene di poter guarire un Male che colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. […] Lo sviluppo sostenibile è il più bel risultato di questa arte di ringiovanimento dei vecchi tempi. Illustra perfettamente il processo di eufemizzazione attraverso gli aggettivi volti a cambiare le parole ma non le cose”.
Qual è allora un modello credibile e alternativo a quello dello sviluppo? Il punto è proprio questo: non esiste una grande potenza o un continente, una confederazione di stati e nazioni che possa offrirne uno. Crollato il blocco sovietico, è crollato anche il contrasto tra due grandi modelli e quello sopravvissuto ha invaso il mondo, sia pure con adattamenti particolari. Si tratta quindi di trovare una via che non metta al centro il profitto e i mercati, ma comunità, identità e non veda il pianeta contemporaneamente come una miniera da sfruttare indefinitamente e come discarica.

di Francesco Viaro 


* Francesco Viaro è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Padova.

23 maggio 2013

Il Partito Democratico non ha ragione di esistere




   
   
Io, cittadino stufo della farsa partitocratica, non ce l’ho col Pd. È il Pd a avercela con me e con l’Italia. E con sé stesso. È nato nel 2008, questo bambino deforme, dall’unione contro natura e mal riuscita fra ex democristiani di sinistra ed ex comunisti di destra. I militanti pecoroni - verso i quali, spiace, ma non può esserci più comprensione - si sono bevuti la sola del Partito Democratico sul modello americano: una fregnaccia di Prodi e Veltroni che pretendeva di cancellare la storia centenaria di due tradizioni politiche e culturali con le loro peculiarità, idiosincrasie, incompatibilità, identità.

La solita cialtroneria italiana, al servizio di un disegno ben preciso e serissimo nella sua pericolosità: omologare i paesi occidentali al sistema partitico anglosassone, ideale per imporre una dialettica semplificata e distorcente non sul cosa, ma sul come gestire l’ordinaria amministrazione, coi veri piloti in cabina – gli interessi finanziari sovranazionali - a decidere la rotta unica e obbligata.

L’arrivo in scena del berluschino – o veltronino - Renzi è la ciliegina sulla torta: lui non finge neanche più di essere di sinistra nell’accezione comunemente accettata della parola, rappresenta l’indistinto luogo comune trasversale (il merito, più mercato, più efficienza, più modernità, più leggerezza, e già che ci siamo più figa per tutti).

Dopo cinque anni, l’aborto è palese. Lo snobismo, la sicumera, la scissione d’origine mai composta e rimescolata nel duello generazionale più che sostanziale Bersani-Renzi, l’annacquamento di ogni istanza nel “ma anche”, lo spadroneggiare di potentati a volte criminali hanno portato alla sconfitta netta delle elezioni politiche e alla caporetto del Quirinale, con 101 parlamentari ancora in incognito che hanno abbattuto a colpi di voto segreto il padre fondatore Prodi, dando la plastica dimostrazione che il Pd è davvero Pdmenoelle: meglio riconfermare Napolitano, sommo sacerdote dell’inciucio, andando così al governo assieme al finto nemico Berlusconi, che optare per la traversata nel deserto (i grillini non avrebbero comunque sostenuto un loro governo di minoranza, o almeno si spera) ma a testa alta.

Ora, se fossi un iscritto al Pd, nel guardarmi allo specchio mi sputerei in faccia. Che ci starei a fare in un nido di serpi, ciechi, illusi e complici in malafede che ha suggellato vent’anni di collusione con Silvio, odiato a parole e servito e riverito nei fatti? Se fossi onesto con me stesso, straccerei la tessera. L’opa ostile di Grillo ai giovani che occupano le sedi è nella logica delle cose, sempre che le cose debbano ancora avere una logica, in questa Italietta di eunuchi e saltimbanchi. Occupy Pd? Refuse Pd! Non c’è più alcuna ragione sensata per cui una persona dotata di cervello e in buona fede resti ancora là dentro. In nome della sinistra? Ma la sinistra resiste soltanto come mito reazionario, per far sopravvivere un immaginario superato e arcisuperato mentre in tutte le scelte fondamentali la sedicente sinistra col marchio Pd ha sposato l’ideologia dominante liberal-liberista, giusto un pelo temperata e camuffata con la retorica delle liberalizzazioni pro-consumatori (quando in realtà sono pro-grandi catene, come guarda caso le coop). In nome dell’antiberlusconismo? Oggi risulta arduo perfino pensarlo, visto che sono tutti seduti amorevolmente insieme a Palazzo Chigi a brigare per tornare agli antichi fasti (magari con norme ad hoc per far fuori il Movimento 5 Stelle, su cui il pacato commento non può che essere uno: farabutti!). 

In nome dell’Europa? Ma ormai lo capisce anche un decerebrato che l’Unione Europea è stata una solenne fregatura, tanto è vero che adesso non si trova un difensore delle regole di Maastricht (3% di deficit consentito, la legge ferrea dell’oppressione) neanche col lanternino.

In nome di che, di grazia, il Pd ha ancora un motivo valido di esistere? Con tutta la buona volontà, non riesco a trovarlo. Ah certo, uno c’è: fare i guardiani della controrivoluzione, reggendo pure il moccolo al beneamato Silvietto. Ci risparmino la sceneggiata, i presunti giovani del Pd. Se vogliono cambiare l’Italia, si suppone in meglio, non c’è unica via che lasciarlo. Ha fatto troppi danni e continua a farli.

Alessio Mannino