13 luglio 2013

La Germania al bivio





LA GERMANIA AL BIVIO
Da uno studio condotto dal prestigioso istituto francese di analisi Xerfi emerge un dirompente rovesciamento delle condizioni economiche interne all’Eurozona, del tutto sufficiente ad imprimere una brusca accelerata al processo di disintegrazione dell’euro. Il dato cruciale messo in risalto all’interno del documento è infatti rappresentato dall’impressionante cambio di paradigma varato dalla Germania, che nell’arco di appena 12 mesi è riuscita a rivoltare in maniera radicale il proprio export. Nel primo semestre del 2013, il 65% circa delle esportazioni tedesche veniva assorbito dai Paesi membri dell’Unione Europea, di cui il 36% dalle nazioni che aderiscono all’Eurozona, mentre ad appena un anno di distanza il 74% circa dell’export tedesco veniva realizzato al di fuori dei confini europei. L’incremento delle esportazioni tedesche all’esterno del “vecchio continente” è stato pari a 70 miliardi di euro (su 131 miliardi dal 2007), a fronte di una contrazione di 77 miliardi all’interno dell’Unione Europea. Il che è naturalmente dovuto alla caduta della domanda interna in tutti i Paesi dell’Eurozona, imputabile alle sostanziali terapie d’urto imposte dalla cosiddetta “troijka” dietro il pungolo di Berlino.

Saldo commerciale tedesco

Va tuttavia sottolineato il fatto che la “fetta” di esportazioni tedesche all’interno dell’Unione Europea sia rimasta inalterata al 22% per oltre dieci anni, mentre le quote francese, britannica e italiana sono costantemente diminuite a fronte dell’avanzata dei Paesi dell’Europa orientale e delle nazioni gravitanti attorno all’orbita tedesca (come l’Olanda).

Ripartizione delle esportazioni

In compenso, la Germania ha aumentato il volume delle importazioni dai Paesi membri dell’Unione Europea (79 miliardi di euro), per effetto della netta divaricazione tra la sua crescita e la recessione che attanaglia tutti gli altri Stati concorrenti.

Import-export tedesco

Il che significa che la Germania ha orientato l’intera costruzione politico-economica europea al completo servizio delle proprie necessità, mentre gli altri Paesi hanno subito una progressiva marginalizzazione che li ha di fatto trasformati in fornitori a basso prezzo (per via della compressione salariale legata alle misure d’austerità) della componentistica e di merci dallo scarso o nullo valore aggiunto per conto della potenza industriale dominante. L’arretramento costante di Francia, Gran Bretagna e Italia – chiaramente testimoniato dal crollo del mercato intra-UE (rispettivamente dal 13 al 9%, dal 10 al 6% e dal 9 al 7%) –, strettamente connesso alle rigidità e alla “forza” della moneta unica, ha generato un forte malcontento in seno alle popolazioni, favorendo l’avanzamento di movimenti euro-scettici e dichiaratamente ostili al consolidamento della costruzione (come il “Movimento 5 Stelle” o l’“United Kingdom Indipendence Party”).
Ma anche all’interno della stessa Germania sono sorti malumori – dimostrati, tra le altre cose, dal discreto successo ottenuto dai “Piraten” –, causati dal massiccio trasferimento di ricchezza nazionale verso i Paesi europei più in difficoltà, che in caso di consolidamento dell’Unione Europea (incomprensibilmente – o forse no – ambito da quasi tutti i governi europei) vincolerebbe Berlino a versare annualmente una cifra quantificabile in circa 80 miliardi di euro (pari al 3% circa del Prodotto Interno Lordo tedesco). La stessa Cancelliera Merkel, che sarà imminentemente chiamata ad affrontare le elezioni politiche, deve aver seriamente valutato – a differenza dei “politicanti” francesi, britannici, italiani e spagnoli – i pro e i contro che comporterebbe la concretizzazione di questa prospettiva. Non a caso, ha lanciato segnali piuttosto ambigui in proposito, ostentando una certa freddezza (assolutamente senza precedenti per un per tale personaggio) per quanto concerne la tenuta dell’Eurozona. Con l’uscita dall’euro, si sbloccherebbero immediatamente i meccanismi di rivalutazione che conferirebbero al marco un valore assai notevole, che penalizzerebbe pesantemente l’export tedesco. Lo stesso Ministero delle Finanze tedesco ha condotto uno studio, prontamente pubblicato dal noto settimanale “Der Spiegel”, all’interno del quale si sostiene che l’implosione della moneta unica europea comporterebbe una caduta del Prodotto Interno Lordo tedesco pari al 9,2% e un aumento della disoccupazione prossimo al 10%, portando la massa dei senza lavoro oltre la soglia dei 5 milioni di persone.
D’altro canto, va tuttavia evidenziato il fatto che Berlino non sarebbe più costretta ad attingere ai propri surplus commerciali per coprire i deficit degli altri Stati (come ha regolarmente fatto finora) e che, collocandosi in questa posizione, la Germania risparmierebbe quegli 80 miliardi di euro annuali di versamenti in favore dei Paesi deboli previsti dal sistema di “solidarietà europea” (!). È per questo che la politica deflazionistica (tutta incentrata sulla compressione salariale) imposta ai Paesi meno solidi (di cui la Germania si è servita per rifornirsi) è stata sinora il compromesso che comportava meno svantaggi per Berlino, e che ha contribuito in maniera cruciale ad aggravare la recessione in tutta l’Europa mediterranea, distruggendo imprese ed eliminando migliaia di posti di lavoro.

La Germania sarà dunque chiamata a decidere se mantenere lo stutus quo aderendo al progetto di consolidamento della struttura poltico-economica vigente o abbandonare l’Eurozona, dedicandosi all’intensificazione dei propri rapporti (già solidissimi) con i Paesi dell’Est, come Russia e Cina. Il futuro del “vecchio continente” dipende in gran parte da questa scelta.
di Giacomo Gabellini 

12 luglio 2013

Quando il golpe non dispiace



  

La "popolarità" del gesto tirannico (o del golpe militare)  è una giustificazione ammissibile  per la violenza alla democrazia? La simpatia  dei giornali italiani per chi ha cacciato i fratelli musulmani dal potere in Egitto è un brutto segnale anche per il nostro paese. Il manifesto, 7 luglio 2013

Non c'è solo la vicenda del diktat del Consiglio supremo di difesa italiano al parlamento sugli F35 a richiamare un nostrano clima egiziano. C'è anche il modo con cui i media democratici e indipendenti stanno raccontando il golpe al Cairo. Dalle colonne del Corriere della sera al Tg3, fino a Rainews 24, è una gara a negare e nascondere che di colpo di stato militare si tratta. La spiegazione data è inquietante. Il colpo di stato dei militari egiziani guidati dal generale-ministro della difesa Al Sisi sarebbe infatti «popolare», perché applaudito da folle oceaniche giubilanti. 

L'informazione libera e la sensibilità della sinistra si sono formate, fra l'altro, in questo paese proprio sulla denuncia dei tentativi di colpo di stato, dei vari «rumor di sciabole», di quella ingerenza violenta e stragista più volte tentata per sconvolgere l'assetto della democrazia costituzionale su mandato della "piazza" rumorosa o della maggioranza silenziosa di turno. 

Perché questa sensibilità ora dovrebbe ancora valere per l'Italia e non invece per un grande paese arabo come l'Egitto? Visto che il presidente Morsi e il suo partito, i Fratelli musulmani, hanno vinto solo un anno fa democratiche elezioni alla fine convalidate, nonostante denunce di brogli, dagli osservatori internazionali e dalle Nazioni unite? Non è vero, come sostengono a Rainews 24, che per Morsi - alle prese fra l'altro con un dopo-Mubarak di miseria e di imposizioni del Fmi - si è trattato di «29 mesi di incapacità politica»: i mesi sono dodici. Fermo restando il giudizio negativo per le sue gravi responsabilità, per esempio nell'incapacità di rappresentare le trasformazioni sociali in corso nella nuova Costituzione, ancorato com'è ad una visione islamo-centrica, Morsi è stato eletto il 30 giugno del 2012. E allora quanti golpe militari dovremmo augurarci in Italia, contro i governi fallimentari che si susseguono ad esecutivi coalizzati e nemmeno eletti, inconcludenti e per tempi perfino più ridotti? Vogliamo i colonnelli?

Ma il golpe in Egitto, sostiene Antonio Ferrari nel suo editoriale di ieri sulCorriere della Sera, «è popolare». Era forse meno «popolare» quello in Cile del generale Augusto Pinochet dell'11 settembre 1973, quando assunse il potere, ben coordinato dalla Cia, per rispondere - sosteneva - «alle richieste del popolo», quella classe media che da mesi scendeva in piazza contro il governo di sinistra di Allende democraticamente eletto, con proteste oceaniche e rumorose di piazza, mentre i camionisti bloccavano il paese e i commercianti serravano i negozi impedendo gli approvvigionamenti, e i soldati si pronunciavano nelle caserme?

Forse in queste posizioni c'è qualcosa di più di una semplice adesione alla superficialità dominante nell'epoca del lettismo-berlusconismo. C'è, ed è grave, una piena complicità con il silenzio-assenso che sul golpe egiziano viene da Washington. Cioè da molto vicino, visto il rapporto subalterno padrone-servo che gli Stati uniti hanno assegnato all'esercito egiziano, sotto Mubarak, con Morsi e in questi giorni. Mentre il golpe era in corso e le agenzie e i giornali di tutto il mondo titolavano semplicemente quello che era sotto gli occhi di tutti «colpo di stato militare in Egitto», dal Dipartimento di Stato Usa arrivava una specie di bofonchio da tre scimmiette che non vedono, non parlano, non sentono: «Non ci risulta...», è stata la frase lapidaria. Fino alle verità della dichiarazione illuminante di Obama di ieri: «...Si ripristini al più presto il processo democratico». Non pare di ricordare che la necessità dei colpi di stato militari facesse parte del Discorso del Cairo di Obama nel 2009.

Il fatto è che gli Stati uniti hanno da poco staccato l'assegno annuale di un miliardo e mezzo con cui sostengono l'esercito, il suo ruolo e le sue istituzioni; soldi ben spesi a quanto pare, che fanno dei militari la vera realtà sociale garantita in Egitto, uno stato nello stato che «se si muove - dice lo scrittore Aswani - lo fa solo per difendere i propri interessi». Un ruolo che è inevitabilmente destinato a confliggere con gli interessi dei settori laici, dei ribelli e dello stesso El Baradei che ora plaudono. Anche grazie a questo controllo, gli Stati uniti hanno condizionato la presidenza Morsi, impegnandola nella continuità dei trattati di pace con Israele, vale a dire sacralizzando lo status quo del dominante a scapito dei palestinesi dominati, e inoltre impegnando Il Cairo, a fianco dell'Arabia saudita e del Qatar, in una politica di pericoloso sostegno del jihad sunnita anti-Assad in Siria. Tra le colpe di Morsi c'è anche l'avere accettato questo condizionamento.

Ultima considerazione, come ricordava Gian Paolo Calchi Novati: è già accaduto che ad una affermazione elettorale dell'islamismo politico si sia risposto con un golpe militare o con il violento boicottaggio internazionale, nel 1992 con la vittoria del Fis in Algeria e nel 2006 con quella di Hamas in tutta la Palestina (non solo a Gaza, anche in Cisgiordania). Il risultato di questi interventi ha sconvolto il Medio Oriente e il mondo, allargando le ferite delle sue crisi.

di Tommaso Di Francesco 

10 luglio 2013

Quanto denaro serve?





Siamo abituati ad ascoltare molte critiche all’idea di crescita dal punto di vista ecologico ed economico. Secondo Robert e Edward Skidelsky , autori del libro “Quanto è abbastanza. Di quanto denaro abbiamo davvero bisogno per essere felici? (meno di quello che pensi)”vsi tratta di argomenti deboli, che non colgono il nocciolo del problema: l’essere il nostro un sistema economico e sociale “privo di senso”.


Siamo abituati ad ascoltare molte critiche alla crescita e allo sviluppo economico (come bene in sé, come “fine senza fine”) che provengono da considerazioni d’ordine scientifico circa l’insostenibilità degli impatti ambientali sugli ecosistemi naturali (il riscaldamento globale antropogenico, la perdita di biodiversità e via dicendo), oppure d’ordine politico-morale circa le insopportabili ingiustizie nella distribuzione dei benefici sociali ricavati dal sistema produttivo globalizzato.
Non che queste non siano considerazioni drammaticamente vere, ma secondo Robert e Edward Skidelsky  – “Quanto è abbastanza. Di quanto denaro abbiamo davvero bisogno per essere felici? (meno di quello che pensi)”, Mondadori, 2013, pp. 305, Euro 17,50 -  si tratta di argomenti deboli, che non colgono il nocciolo del problema: l’essere il nostro un sistema economico e sociale “privo di senso” [p.15] e un “progresso senza scopo” [p.62]. Inoltregli argomenti che potremmo definire di tipo eco-socialista non riescono a “presentare una visione della vita buona come qualche cosa da perseguire non per senso di colpa o per paura di un castigo, ma con felicità e speranza” [p.167]. Serve quindi recuperare una “visione dello scopo della ricchezza” [p.287] a partire da una idea di “vita buona” (attingendo senza vergogna anche dal pensiero preillumistico e premoderno) ben diversa da quella su cui si fonda il capitalismo, che fa dipendere la stessa “felicità” dalla accumulazione e dal possesso di denaro da giocare sulla sfera dei consumi.
A dirci queste cose sono un economista, Robert Skidelsky, uno dei massimi conoscitori di J.M. Keynes, e suo figlio Edward, filosofo, che insegnano nelle università inglesi. Hanno messo assieme le loro discipline perché pensano che “abbiano bisogno l’una dell’altra” e perché dichiarano di voler “ridare slancio alla vecchia idea dell’economia come scienza morale” [p.13]. Una impresa non da poco se si pensa che tutta la “scienza economica” moderna, per dirla con Gilbert Rist, ha mirato a creare una “ethics-free zone”, dove, cioè, le preferenze del consumatore (quanto un individuo è disposto a pagare per ottenere una merce) vengono considerate una manifestazione insindacabile di libertà e la molla stessa del progresso. Per riuscire a incrinare simili trionfanti credenze liberiste (“l’economia è la teologia della nostra era” [p.124]), evitando di cadere sotto i colpi dei pensatori liberali e “neutralisti”, secondo i quali ogni prospettiva etica è manifestazione di oscurantismo, neo-medievalismo, dispotismo e via di seguito, i nostri autori hanno dovuto ricostruire le fonti prime del pensiero economico; da Aristotele ai giorni nostri, passando per le grandi religioni e i grandi pensatori John Locke, Bernard Mandeville, Carl Marx, John Kenneth Galbrait e, soprattutto, Keynes. Il libro degli Skidelsky infatti non è un trattato asettico sulla storia delle teorie economiche. Interviene a cuore aperto sul principale paradosso irrisolto del nostro tempo, che Keynes, come Gandhi e moltissimi altri attenti osservatori, avevano ben presente: come può essere accettabile che nel mondo vi siano le condizioni, le conoscenze e le risorse materiarli per poter estendere a tutti una “vita buona” ed invece miseria, violenza e disparità intollerabili continuano a caratterizzare le nostre società?
Gli Skidelsky vogliono indagare “sulle ragioni del fallimento della profezia di Keynes”, che, come noto, calcolava, nel saggio Prospettive economiche per i nostri nipoti, pubblicato nel 1930, che nel giro di cento anni, lo sviluppo tecnologico avrebbe consentito di raggiungere un livello di “abbondanza” tale da soddisfare le necessità di base (vitto, alloggio, vestiario, salute, istruzione…) impegnando ogni abitante della Terra a lavorare non più di tre ore al giorno. Se pensiamo che spostando solo una quota parte delle spese militari (ad esempio) sarebbe possibile risolvere domani mattina il problema della fame e della sete del mondo, è evidente che l’errore di Keynes non sta nell’aver sopravalutato l’enorme aumento delle capacità produttive che si è davvero verificato dal secondo dopoguerra. Nemmeno la cattiva distribuzione dei frutti della produzione e della ricchezza è la ragione primaria della mancata realizzazione dell’utopia keynesiana (si pensi ai tragici fallimenti dei tentativi di pianificazione centralizzate). Il difetto deve essere ricercato ancora più in profondità, nel non aver capito che il sistema economico e sociale capitalista ha eretto a proprio fondamento la “disposizione psicologica all’insaziabilità” propria del “tipo umano medio”. Secondo i nostri autori: “Il capitalismo è un’arma a doppio taglio: da un lato ha reso possibili grandi miglioramenti delle condizioni materiali dell’esistenza, dall’altro ha esaltato alcune delle caratteristiche umane più deplorevoli, come l’avidità, l’invidia e l’avarizia” [p.10]. In altri termini: “un’economia competitiva monetizzata esercita su di noi continue pressioni a voler sempre di più” [p.23]. E ancora: “il capitalismo si fonda sulla inesauribile crescita dei bisogni” [p.94]. Nella nostra società non è possibile separare “bisogni assoluti” predeterminabili e “bisogni relativi” inesauribili. “I bisogni non conoscono limiti naturali, possono espandersi all’infinito almeno che non li conteniamo in maniera consapevole (…) La consapevolezza di avere quanto basta” [p.95]. Se le cose stanno così, allora è evidente che il raggiungimento dell’“età dell’abbondanza” pronosticata da Keynes verrà continuamente posticipata, travolta nel vortice della spirale produzione-consumo.
Come uscirne? Tornando a chiederci “cosa vogliamo dalla vita”. Quali sono i requisiti oggettivi di una buona e comoda vita. Scopriremmo allora che non di merci da comprare al supermercato si tratta, ma di “beni primari fondamentali” non commercializzabili, non quantificabili in termini monetari. Gli Skidelski ne propongono sette: la salute, la sicurezza, il rispetto, l’amicizia (rapporti di fiducia e relazioni affettive), la personalità (la capacità di realizzare progetti di vita autonomi), l’armonia con la natura, il tempo libero (l’attività volontaria autogestita e condivisa).Come si vede si tratta di beni del corpo, della mente e delle relazioni, costitutivi dell’umano, che “non escludono l’altro, ma lo includono” (Luigi Lombardi Vallauri in La Società dei beni comuni, Ediesse, 2010).

In definitiva, se vogliamo davvero realizzare il mondo della sufficienza immaginato da Keynes, dovremmo abbandonare il progetto di felicità che gli economisti hanno imposto e che si basa sulla creazione continua di “un surplus di piacere”, riscoprendo invece l’idea antica di “eudaimonia”, una condizione esistenziale che introietta la nozione di sazietà, il senso del limite, la necessità della condivisione e quindi della giustizia sociale. Che queste cose comincino a dircele degli economisti che non hanno letto Latouche e nemmeno Gilbert Rist, confermano che la crisi di sistema in corso sta aprendo profonde crepe nelle teorie economiche dominanti.
di Paolo Cacciari 

13 luglio 2013

La Germania al bivio





LA GERMANIA AL BIVIO
Da uno studio condotto dal prestigioso istituto francese di analisi Xerfi emerge un dirompente rovesciamento delle condizioni economiche interne all’Eurozona, del tutto sufficiente ad imprimere una brusca accelerata al processo di disintegrazione dell’euro. Il dato cruciale messo in risalto all’interno del documento è infatti rappresentato dall’impressionante cambio di paradigma varato dalla Germania, che nell’arco di appena 12 mesi è riuscita a rivoltare in maniera radicale il proprio export. Nel primo semestre del 2013, il 65% circa delle esportazioni tedesche veniva assorbito dai Paesi membri dell’Unione Europea, di cui il 36% dalle nazioni che aderiscono all’Eurozona, mentre ad appena un anno di distanza il 74% circa dell’export tedesco veniva realizzato al di fuori dei confini europei. L’incremento delle esportazioni tedesche all’esterno del “vecchio continente” è stato pari a 70 miliardi di euro (su 131 miliardi dal 2007), a fronte di una contrazione di 77 miliardi all’interno dell’Unione Europea. Il che è naturalmente dovuto alla caduta della domanda interna in tutti i Paesi dell’Eurozona, imputabile alle sostanziali terapie d’urto imposte dalla cosiddetta “troijka” dietro il pungolo di Berlino.

Saldo commerciale tedesco

Va tuttavia sottolineato il fatto che la “fetta” di esportazioni tedesche all’interno dell’Unione Europea sia rimasta inalterata al 22% per oltre dieci anni, mentre le quote francese, britannica e italiana sono costantemente diminuite a fronte dell’avanzata dei Paesi dell’Europa orientale e delle nazioni gravitanti attorno all’orbita tedesca (come l’Olanda).

Ripartizione delle esportazioni

In compenso, la Germania ha aumentato il volume delle importazioni dai Paesi membri dell’Unione Europea (79 miliardi di euro), per effetto della netta divaricazione tra la sua crescita e la recessione che attanaglia tutti gli altri Stati concorrenti.

Import-export tedesco

Il che significa che la Germania ha orientato l’intera costruzione politico-economica europea al completo servizio delle proprie necessità, mentre gli altri Paesi hanno subito una progressiva marginalizzazione che li ha di fatto trasformati in fornitori a basso prezzo (per via della compressione salariale legata alle misure d’austerità) della componentistica e di merci dallo scarso o nullo valore aggiunto per conto della potenza industriale dominante. L’arretramento costante di Francia, Gran Bretagna e Italia – chiaramente testimoniato dal crollo del mercato intra-UE (rispettivamente dal 13 al 9%, dal 10 al 6% e dal 9 al 7%) –, strettamente connesso alle rigidità e alla “forza” della moneta unica, ha generato un forte malcontento in seno alle popolazioni, favorendo l’avanzamento di movimenti euro-scettici e dichiaratamente ostili al consolidamento della costruzione (come il “Movimento 5 Stelle” o l’“United Kingdom Indipendence Party”).
Ma anche all’interno della stessa Germania sono sorti malumori – dimostrati, tra le altre cose, dal discreto successo ottenuto dai “Piraten” –, causati dal massiccio trasferimento di ricchezza nazionale verso i Paesi europei più in difficoltà, che in caso di consolidamento dell’Unione Europea (incomprensibilmente – o forse no – ambito da quasi tutti i governi europei) vincolerebbe Berlino a versare annualmente una cifra quantificabile in circa 80 miliardi di euro (pari al 3% circa del Prodotto Interno Lordo tedesco). La stessa Cancelliera Merkel, che sarà imminentemente chiamata ad affrontare le elezioni politiche, deve aver seriamente valutato – a differenza dei “politicanti” francesi, britannici, italiani e spagnoli – i pro e i contro che comporterebbe la concretizzazione di questa prospettiva. Non a caso, ha lanciato segnali piuttosto ambigui in proposito, ostentando una certa freddezza (assolutamente senza precedenti per un per tale personaggio) per quanto concerne la tenuta dell’Eurozona. Con l’uscita dall’euro, si sbloccherebbero immediatamente i meccanismi di rivalutazione che conferirebbero al marco un valore assai notevole, che penalizzerebbe pesantemente l’export tedesco. Lo stesso Ministero delle Finanze tedesco ha condotto uno studio, prontamente pubblicato dal noto settimanale “Der Spiegel”, all’interno del quale si sostiene che l’implosione della moneta unica europea comporterebbe una caduta del Prodotto Interno Lordo tedesco pari al 9,2% e un aumento della disoccupazione prossimo al 10%, portando la massa dei senza lavoro oltre la soglia dei 5 milioni di persone.
D’altro canto, va tuttavia evidenziato il fatto che Berlino non sarebbe più costretta ad attingere ai propri surplus commerciali per coprire i deficit degli altri Stati (come ha regolarmente fatto finora) e che, collocandosi in questa posizione, la Germania risparmierebbe quegli 80 miliardi di euro annuali di versamenti in favore dei Paesi deboli previsti dal sistema di “solidarietà europea” (!). È per questo che la politica deflazionistica (tutta incentrata sulla compressione salariale) imposta ai Paesi meno solidi (di cui la Germania si è servita per rifornirsi) è stata sinora il compromesso che comportava meno svantaggi per Berlino, e che ha contribuito in maniera cruciale ad aggravare la recessione in tutta l’Europa mediterranea, distruggendo imprese ed eliminando migliaia di posti di lavoro.

La Germania sarà dunque chiamata a decidere se mantenere lo stutus quo aderendo al progetto di consolidamento della struttura poltico-economica vigente o abbandonare l’Eurozona, dedicandosi all’intensificazione dei propri rapporti (già solidissimi) con i Paesi dell’Est, come Russia e Cina. Il futuro del “vecchio continente” dipende in gran parte da questa scelta.
di Giacomo Gabellini 

12 luglio 2013

Quando il golpe non dispiace



  

La "popolarità" del gesto tirannico (o del golpe militare)  è una giustificazione ammissibile  per la violenza alla democrazia? La simpatia  dei giornali italiani per chi ha cacciato i fratelli musulmani dal potere in Egitto è un brutto segnale anche per il nostro paese. Il manifesto, 7 luglio 2013

Non c'è solo la vicenda del diktat del Consiglio supremo di difesa italiano al parlamento sugli F35 a richiamare un nostrano clima egiziano. C'è anche il modo con cui i media democratici e indipendenti stanno raccontando il golpe al Cairo. Dalle colonne del Corriere della sera al Tg3, fino a Rainews 24, è una gara a negare e nascondere che di colpo di stato militare si tratta. La spiegazione data è inquietante. Il colpo di stato dei militari egiziani guidati dal generale-ministro della difesa Al Sisi sarebbe infatti «popolare», perché applaudito da folle oceaniche giubilanti. 

L'informazione libera e la sensibilità della sinistra si sono formate, fra l'altro, in questo paese proprio sulla denuncia dei tentativi di colpo di stato, dei vari «rumor di sciabole», di quella ingerenza violenta e stragista più volte tentata per sconvolgere l'assetto della democrazia costituzionale su mandato della "piazza" rumorosa o della maggioranza silenziosa di turno. 

Perché questa sensibilità ora dovrebbe ancora valere per l'Italia e non invece per un grande paese arabo come l'Egitto? Visto che il presidente Morsi e il suo partito, i Fratelli musulmani, hanno vinto solo un anno fa democratiche elezioni alla fine convalidate, nonostante denunce di brogli, dagli osservatori internazionali e dalle Nazioni unite? Non è vero, come sostengono a Rainews 24, che per Morsi - alle prese fra l'altro con un dopo-Mubarak di miseria e di imposizioni del Fmi - si è trattato di «29 mesi di incapacità politica»: i mesi sono dodici. Fermo restando il giudizio negativo per le sue gravi responsabilità, per esempio nell'incapacità di rappresentare le trasformazioni sociali in corso nella nuova Costituzione, ancorato com'è ad una visione islamo-centrica, Morsi è stato eletto il 30 giugno del 2012. E allora quanti golpe militari dovremmo augurarci in Italia, contro i governi fallimentari che si susseguono ad esecutivi coalizzati e nemmeno eletti, inconcludenti e per tempi perfino più ridotti? Vogliamo i colonnelli?

Ma il golpe in Egitto, sostiene Antonio Ferrari nel suo editoriale di ieri sulCorriere della Sera, «è popolare». Era forse meno «popolare» quello in Cile del generale Augusto Pinochet dell'11 settembre 1973, quando assunse il potere, ben coordinato dalla Cia, per rispondere - sosteneva - «alle richieste del popolo», quella classe media che da mesi scendeva in piazza contro il governo di sinistra di Allende democraticamente eletto, con proteste oceaniche e rumorose di piazza, mentre i camionisti bloccavano il paese e i commercianti serravano i negozi impedendo gli approvvigionamenti, e i soldati si pronunciavano nelle caserme?

Forse in queste posizioni c'è qualcosa di più di una semplice adesione alla superficialità dominante nell'epoca del lettismo-berlusconismo. C'è, ed è grave, una piena complicità con il silenzio-assenso che sul golpe egiziano viene da Washington. Cioè da molto vicino, visto il rapporto subalterno padrone-servo che gli Stati uniti hanno assegnato all'esercito egiziano, sotto Mubarak, con Morsi e in questi giorni. Mentre il golpe era in corso e le agenzie e i giornali di tutto il mondo titolavano semplicemente quello che era sotto gli occhi di tutti «colpo di stato militare in Egitto», dal Dipartimento di Stato Usa arrivava una specie di bofonchio da tre scimmiette che non vedono, non parlano, non sentono: «Non ci risulta...», è stata la frase lapidaria. Fino alle verità della dichiarazione illuminante di Obama di ieri: «...Si ripristini al più presto il processo democratico». Non pare di ricordare che la necessità dei colpi di stato militari facesse parte del Discorso del Cairo di Obama nel 2009.

Il fatto è che gli Stati uniti hanno da poco staccato l'assegno annuale di un miliardo e mezzo con cui sostengono l'esercito, il suo ruolo e le sue istituzioni; soldi ben spesi a quanto pare, che fanno dei militari la vera realtà sociale garantita in Egitto, uno stato nello stato che «se si muove - dice lo scrittore Aswani - lo fa solo per difendere i propri interessi». Un ruolo che è inevitabilmente destinato a confliggere con gli interessi dei settori laici, dei ribelli e dello stesso El Baradei che ora plaudono. Anche grazie a questo controllo, gli Stati uniti hanno condizionato la presidenza Morsi, impegnandola nella continuità dei trattati di pace con Israele, vale a dire sacralizzando lo status quo del dominante a scapito dei palestinesi dominati, e inoltre impegnando Il Cairo, a fianco dell'Arabia saudita e del Qatar, in una politica di pericoloso sostegno del jihad sunnita anti-Assad in Siria. Tra le colpe di Morsi c'è anche l'avere accettato questo condizionamento.

Ultima considerazione, come ricordava Gian Paolo Calchi Novati: è già accaduto che ad una affermazione elettorale dell'islamismo politico si sia risposto con un golpe militare o con il violento boicottaggio internazionale, nel 1992 con la vittoria del Fis in Algeria e nel 2006 con quella di Hamas in tutta la Palestina (non solo a Gaza, anche in Cisgiordania). Il risultato di questi interventi ha sconvolto il Medio Oriente e il mondo, allargando le ferite delle sue crisi.

di Tommaso Di Francesco 

10 luglio 2013

Quanto denaro serve?





Siamo abituati ad ascoltare molte critiche all’idea di crescita dal punto di vista ecologico ed economico. Secondo Robert e Edward Skidelsky , autori del libro “Quanto è abbastanza. Di quanto denaro abbiamo davvero bisogno per essere felici? (meno di quello che pensi)”vsi tratta di argomenti deboli, che non colgono il nocciolo del problema: l’essere il nostro un sistema economico e sociale “privo di senso”.


Siamo abituati ad ascoltare molte critiche alla crescita e allo sviluppo economico (come bene in sé, come “fine senza fine”) che provengono da considerazioni d’ordine scientifico circa l’insostenibilità degli impatti ambientali sugli ecosistemi naturali (il riscaldamento globale antropogenico, la perdita di biodiversità e via dicendo), oppure d’ordine politico-morale circa le insopportabili ingiustizie nella distribuzione dei benefici sociali ricavati dal sistema produttivo globalizzato.
Non che queste non siano considerazioni drammaticamente vere, ma secondo Robert e Edward Skidelsky  – “Quanto è abbastanza. Di quanto denaro abbiamo davvero bisogno per essere felici? (meno di quello che pensi)”, Mondadori, 2013, pp. 305, Euro 17,50 -  si tratta di argomenti deboli, che non colgono il nocciolo del problema: l’essere il nostro un sistema economico e sociale “privo di senso” [p.15] e un “progresso senza scopo” [p.62]. Inoltregli argomenti che potremmo definire di tipo eco-socialista non riescono a “presentare una visione della vita buona come qualche cosa da perseguire non per senso di colpa o per paura di un castigo, ma con felicità e speranza” [p.167]. Serve quindi recuperare una “visione dello scopo della ricchezza” [p.287] a partire da una idea di “vita buona” (attingendo senza vergogna anche dal pensiero preillumistico e premoderno) ben diversa da quella su cui si fonda il capitalismo, che fa dipendere la stessa “felicità” dalla accumulazione e dal possesso di denaro da giocare sulla sfera dei consumi.
A dirci queste cose sono un economista, Robert Skidelsky, uno dei massimi conoscitori di J.M. Keynes, e suo figlio Edward, filosofo, che insegnano nelle università inglesi. Hanno messo assieme le loro discipline perché pensano che “abbiano bisogno l’una dell’altra” e perché dichiarano di voler “ridare slancio alla vecchia idea dell’economia come scienza morale” [p.13]. Una impresa non da poco se si pensa che tutta la “scienza economica” moderna, per dirla con Gilbert Rist, ha mirato a creare una “ethics-free zone”, dove, cioè, le preferenze del consumatore (quanto un individuo è disposto a pagare per ottenere una merce) vengono considerate una manifestazione insindacabile di libertà e la molla stessa del progresso. Per riuscire a incrinare simili trionfanti credenze liberiste (“l’economia è la teologia della nostra era” [p.124]), evitando di cadere sotto i colpi dei pensatori liberali e “neutralisti”, secondo i quali ogni prospettiva etica è manifestazione di oscurantismo, neo-medievalismo, dispotismo e via di seguito, i nostri autori hanno dovuto ricostruire le fonti prime del pensiero economico; da Aristotele ai giorni nostri, passando per le grandi religioni e i grandi pensatori John Locke, Bernard Mandeville, Carl Marx, John Kenneth Galbrait e, soprattutto, Keynes. Il libro degli Skidelsky infatti non è un trattato asettico sulla storia delle teorie economiche. Interviene a cuore aperto sul principale paradosso irrisolto del nostro tempo, che Keynes, come Gandhi e moltissimi altri attenti osservatori, avevano ben presente: come può essere accettabile che nel mondo vi siano le condizioni, le conoscenze e le risorse materiarli per poter estendere a tutti una “vita buona” ed invece miseria, violenza e disparità intollerabili continuano a caratterizzare le nostre società?
Gli Skidelsky vogliono indagare “sulle ragioni del fallimento della profezia di Keynes”, che, come noto, calcolava, nel saggio Prospettive economiche per i nostri nipoti, pubblicato nel 1930, che nel giro di cento anni, lo sviluppo tecnologico avrebbe consentito di raggiungere un livello di “abbondanza” tale da soddisfare le necessità di base (vitto, alloggio, vestiario, salute, istruzione…) impegnando ogni abitante della Terra a lavorare non più di tre ore al giorno. Se pensiamo che spostando solo una quota parte delle spese militari (ad esempio) sarebbe possibile risolvere domani mattina il problema della fame e della sete del mondo, è evidente che l’errore di Keynes non sta nell’aver sopravalutato l’enorme aumento delle capacità produttive che si è davvero verificato dal secondo dopoguerra. Nemmeno la cattiva distribuzione dei frutti della produzione e della ricchezza è la ragione primaria della mancata realizzazione dell’utopia keynesiana (si pensi ai tragici fallimenti dei tentativi di pianificazione centralizzate). Il difetto deve essere ricercato ancora più in profondità, nel non aver capito che il sistema economico e sociale capitalista ha eretto a proprio fondamento la “disposizione psicologica all’insaziabilità” propria del “tipo umano medio”. Secondo i nostri autori: “Il capitalismo è un’arma a doppio taglio: da un lato ha reso possibili grandi miglioramenti delle condizioni materiali dell’esistenza, dall’altro ha esaltato alcune delle caratteristiche umane più deplorevoli, come l’avidità, l’invidia e l’avarizia” [p.10]. In altri termini: “un’economia competitiva monetizzata esercita su di noi continue pressioni a voler sempre di più” [p.23]. E ancora: “il capitalismo si fonda sulla inesauribile crescita dei bisogni” [p.94]. Nella nostra società non è possibile separare “bisogni assoluti” predeterminabili e “bisogni relativi” inesauribili. “I bisogni non conoscono limiti naturali, possono espandersi all’infinito almeno che non li conteniamo in maniera consapevole (…) La consapevolezza di avere quanto basta” [p.95]. Se le cose stanno così, allora è evidente che il raggiungimento dell’“età dell’abbondanza” pronosticata da Keynes verrà continuamente posticipata, travolta nel vortice della spirale produzione-consumo.
Come uscirne? Tornando a chiederci “cosa vogliamo dalla vita”. Quali sono i requisiti oggettivi di una buona e comoda vita. Scopriremmo allora che non di merci da comprare al supermercato si tratta, ma di “beni primari fondamentali” non commercializzabili, non quantificabili in termini monetari. Gli Skidelski ne propongono sette: la salute, la sicurezza, il rispetto, l’amicizia (rapporti di fiducia e relazioni affettive), la personalità (la capacità di realizzare progetti di vita autonomi), l’armonia con la natura, il tempo libero (l’attività volontaria autogestita e condivisa).Come si vede si tratta di beni del corpo, della mente e delle relazioni, costitutivi dell’umano, che “non escludono l’altro, ma lo includono” (Luigi Lombardi Vallauri in La Società dei beni comuni, Ediesse, 2010).

In definitiva, se vogliamo davvero realizzare il mondo della sufficienza immaginato da Keynes, dovremmo abbandonare il progetto di felicità che gli economisti hanno imposto e che si basa sulla creazione continua di “un surplus di piacere”, riscoprendo invece l’idea antica di “eudaimonia”, una condizione esistenziale che introietta la nozione di sazietà, il senso del limite, la necessità della condivisione e quindi della giustizia sociale. Che queste cose comincino a dircele degli economisti che non hanno letto Latouche e nemmeno Gilbert Rist, confermano che la crisi di sistema in corso sta aprendo profonde crepe nelle teorie economiche dominanti.
di Paolo Cacciari