22 maggio 2007

La fusione Unicredit-Capitalia



La fusione Unicredit-Capitalia?
Tutti i media si buttano a lodarla.
E ad escludere che, questa volta, ci sia entrata la politica.
La verità è - dunque - l’esatto contrario.
Risulta che Profumo non voleva comprare Capitalia, né mettersi con il pregiudicato bancarottiere Geronzi.
Come spiega il Financial Times, «l’acquisizione da 22 miliardi di euro di Capitalia sembra porre a rischio la tendenza (di Profumo) di ridurre l’esposizione ad un solo mercato».
Profumo ha sempre detto di voler «internazionalizzare».
E lo dice ancora, con parecchi soldi in meno.
Anche con il peso morto di Capitalia, «la banca resta internazionale e genererà ancora il 53% dei suoi introiti fuori d’Italia. … Avremmo fatto qualcosa di simile in Germania, ne avessimo avuto la possibilità».
Nessuna esultanza, come si vede.
Insomma Profumo ha dovuto obbedire.
Obtorto collo.
Alla politica.
Quale politica?
Geronzi ha ricevuto piogge di avvisi di garanzia per Parmalat, Cirio, e le mancate comunicazioni a Bankitalia sui crediti in sofferenza dei partiti.
Già, perché Capitalia ha salvato i DS dalla bancarotta.
Ha fatto prestiti a tutti i partiti (tranne ad AN e a Forza Italia), senza uno straccio di garanzie, perché dal potere politico ha sempre ottenuto la garanzia massima: ti salveremo qualunque cosa faccia.
Capitalia ha un capitale inferiore alle sue sofferenze, e Geronzi resta intoccabile.
Come scrive il blog «Finanza e Politica»: «Capitalia è una banca patrimonialmente pessima, per certi aspetti pericolosa, ma possiede tanti sportelli e le partecipazioni in Mediobanca e Generali [ecco, ecco].
E allora ecco il miracolo.
Il prezzo viene gonfiato, i bilanci imbellettati... e il vecchio Geronzi compie il suo capolavoro... porta la sua pessima banca alle nozze con il miglior principe presente sul mercato... così salva definitivamente Capitalia che annacquerà i suoi crediti incagliati con la gestione ottima di Unicredit, e in più si candida a divenire presidente di Mediobanca [Un pregiudicato? Del resto c’è già Ligresti, è il salotto buono o no?].
E allora chapeau a Geronzi che è riuscito a dimostrare che in finanza si possono compiere i miracoli e si fanno volare anche le vacche.
Ancora una volta la politica ha determinato le sorti del mercato e non viceversa».

L’esatto contrario di quel che strillano Il Corriere e Repubblica.
Il regista del salvataggio sembra essere ancora una volta D’Alema (il genio che ha «salvato» Telecom, ricordate), perché deve farsi un suo impero finanziario personale per contrastare l’occupazione di tutti i poteri che Prodi sta realizzando pro domo sua.
Che la fusione sia pro D’Alema, lo dice la rabbia malcelata di Veltroni, che s’è lamentato con Geronzi di aver saputo la cosa dai giornali.
Il tutto si situa nel quadro della lotta di potere in cui i leader della varie «sinistre» si fanno le scarpe l’uno l’altro, dietro le quinte, senza farlo sapere a noi.
Prodi ha lasciato fare, perché quelli si fanno le scarpe sì, ma non poteva negare a D’Alema la «sua» banca, finalmente.
Draghi e Padoa Schioppa ovviamente hanno dato l’assenso: bravi!, strillano i media, tutt’altra pasta che Fazio!
Questa menzogna corale e dura come il cemento ci dovrebbe dire qualcosa: che il sistema dei partiti-sindacati-statali-Confindustria (il blocco dei parassiti miliardari) ha completato il cerchio, il sistema di saccheggio del contribuente e del cittadino.
Si fanno le scarpe a spese nostre.
Un’ascoltatrice chiedeva al giornalista (Stefano Folli di 24 Ore) che cosa migliorerà, per lei correntista, la fusione.
Folli (di 24 Ore che lo paga benissimo) l’ha paternamente rassicurata.
No, non tema nulla.
Mettetevi per un attimo nei panni di un giovane - uno di quei famosi giovani di cui tanto si occupano i politici - che voglia aprire un’aziendina, un laboratorio artigiano.
Lo deve fare perché il lavoro dipendente, semplicemente, non c’è più.
Dunque il nostro giovane apre una cartoleria, un’erboristeria, una palestra di body building.
Appena adempiute alle immense pratiche burocratiche (la Volontà Generale diffida di chi si mette in proprio, vuole punirlo con il controllo burocratico: migliaia di documenti, stato di famiglia, certificato di matrimonio compreso), il nostro giovane deve pagare le tasse a Visco.
Prima ancora di aver venduto il primo flaconcino di erbe.
Prima, cioè, di aver avuto un reddito tassabile, un reddito che può anche mancare (e che manca difatti a due neo-impresine su tre, che colano a picco subito).
Ma non basta.
Il nostro giovane ha bisogno di un capitale, anche piccolo, per cominciare.
Si rivolge alla banca, a chi altro?
Le banche sono qui per questo.
Gli viene concesso un fido: al 18% o anche più.

Unicredito e Capitalia che regalano i soldi ai partiti, che ai depositanti e risparmiatori pagano lo 0%, al ragazzo chiedono il 18%.
E così a tutti gli altri piccoli e piccolissimi bisognosi di capitale: possono prestare quanto vogliono; grazie al credito frazionale i depositi veri si moltiplicano, e su quel denaro creato dal nulla la banca prende il 18-25%.
Ne segue questo piccolo, ridicolo fatto: che il giovane imprenditore alle prime armi, per farcela, deve produrre profitti superiori al 50%, e subito.
Perché il 18-25% se lo prende la banca (e subito; un fido non è un mutuo, non corre a 15 anni, è annuale o semestrale), il resto se lo divora il fisco.
Resta poco, al giovinotto, per mangiare, campare e vestirsi.
Per lui niente autoblù gratis.
Anzi, Visco gli controlla: quante auto ha l’azienda, ossia con costi scaricabili?
Sono troppe, te le dimezzo (è Visco che decide di quante auto ha bisogno una ditta privata).
Il giovane dovrebbe dunque gestire una start-up ad altissima tecnologia e di fulminante successo, come quelle di Sylicon Valley.
Ma lui s’è messo in proprio perché non trova lavoro.
La sua ideuzza e impresina possono funzionare, ma più probabilmente come attività «marginali».
A lui basterebbe poco, per campare.
Se non dovesse pagare l’usuraio Capitalia (18%) e il fisco di Visco (30-45%), ce la farebbe pure, a campare.
Invece no.
Naturalmente, una ovvia misura a favore dei «giovani» sarebbe l’esenzione fiscale per un paio d’anni; lo Stato non ci perde niente, ci perde di più soffocando una ditta su tre nel nido, un colossale mancato introito, uno strangolamento di attività economiche inaudito, che danno lavoro e possono darne in futuro.
Visco lo sa benissimo.
Ma non lo fa.
E perché non lo fa?
Non perché è stupido; non lo fa perchè Visco non presiede alle risorse necessarie al governo del Paese.
Presiede al sistema di saccheggio partitico-sindacale.
Il suo scopo è depredare, mica incentivare l’economia e l’iniziativa privata.
Ora, le banche sono collegate a filo doppio col sistema di saccheggio politico.

Il ragazzo-neo-imprenditore è derubato alla perfezione da tutti i lati: come contribuente, come consumatore (tariffe ENEL e Telecom, le più costose del mondo), come debitore.
Il sistema è chiuso, è perfetto.
E poi D’Alema si permette pure di dire che nel Paese c’è un certo umore contro i politici, insofferenza tipo Mani Pulite.
Ha ragione De Rita del Censis: dice che la faccenda del «tesoretto» è uno «scandalo infernale». Aggiunge: «Gli italiani hanno capito benissimo cosa è successo. Si sono messi a un tavolo Padoa-Schioppa, i tre segretari sindacali, ovviamente Prodi e pochi altri. Questa oligarchia ha creato un inutile aumento di tasse per i propri bisogni: sistemare i precari, accontentare Rifondazione…».
Finalmente uno che usa le parole giuste: una oligarchia (plutocratica e parassitaria) ha strizzato i contribuenti oltre ogni limite per «i propri bisogni».
Non per i bisogni del governo, è ben chiaro.
Non per riasfaltare le strade né per amministrare bene.
Il governo non governa affatto, non governa nulla.
Non fa nemmeno finta.
Quando ha dei problemi (detti «emergenze») li butta sui cittadini, come i napoletani buttano la spazzatura in strada.
Le carceri scoppiano?
Un bell’indulto, decine di migliaia di delinquenti tornano a rapinare e a uccidere i cittadini privati (loro no, hanno le scorte da noi pagate).
Il problema-immigrazione?
Legalizzata per incanto, non esistono più clandestini.
Altre migliaia di zingari rumeni, di criminali maghrebini e venezuelani, ben felici di darsi da fare in un Paese dove la polizia fa paura solo ai deboli, e lo Stato solo agli onesti.
Nei loro Paesi, la polizia porta fucili a pompa e spara con revolver 45.
Qui da noi, da decenni, la polizia ha perso ogni autonomia d’indagine.
Non è più guidata dal prefetto o dal questore, e comandata dal procuratore e dai sostituti.
E’ «polizia giudiziaria» nel senso che, per indagare, deve avere il permesso del magistrato, anzi aspettare che sia il magistrato a ordinare l’indagine.
E come si sa, se qualche agente osa fermare lo zingaro borsaiolo di sua iniziativa, il magistrato si affretta, per ripicca, a liberarlo.

Dopo anni ed anni di questo regime, la polizia italiana non solo ha perso la voglia.
Ha perso la competenza.
Non ha più informatori né metodologia; nemmeno può usare il ceffone, vecchia specialità di certi appuntati e questurini di un tempo, a volte così efficace per far sbollire un violento e arrogante, o parlare un sospetto: parte una denuncia del criminale, e il giudice è ovviamente dalla parte del pregiudicato recidivo, poveretto, che «ha subito violenza».
Il poliziotto rischia grosso, guai giudiziari a cui è esposto senza difesa.
E allora aspetta che sia «il signor giudice» a dirgli cosa fare.
Come affronta dunque le segretissime Triadi?
Le bande venezuelane?
Le bande rumene che ammazzano con la punta dell’ombrello?
Tutta la delinquenza di Paesi estremamente più violenti del nostro, dove la malavita è veramente dura e malvagia, veramente famelica, assassina e organizzata?
Al magistrato non importa nulla.
Anche lui è parte integrale del sistema di saccheggio: butta la spazzatura umana sulla testa dei cittadini e dei contribuenti che lo mantengono.
Non c’è governo in Italia.
Ci sono solo «le spese di governo», decise a tre (coi sindacati) per i «i bisogni» dei politici.
Il tesoretto è già bell’e divorato: per gli aumenti agli statali (al ministero del Tesoro, il premio di efficienza va per contratto integrativo a tutti coloro che sono «presenti»: firmi il cartellino e basta, sei già efficiente e premiato), per i sindacati e per le clientele della sinistra cosiddetta.
Niente grandi opere, niente strade, bisogna accontentare Rifondazione se no abbandona il non-governo.
Bisogna contentare Mastella, perché se no passa al Polo.
Un sacco di spese.
E in cambio, riceviamo spazzatura sulla testa; spazzatura vera come a Napoli (centinaia di addetti appaltanti che hanno altro da fare), nonchè i rifiuti solidi urbani dello zingarame, dei non più clandestini, dei liberati dall'indulto di cui lorsignori «governanti» non vogliono farsi carico (hanno ben altro da fare).
Riceviamo al spazzatura Telecom che è al loro servizio e non al nostro e dunque non mette l’ADSL dove dovrebbe, la spazzatura ENI che ci carica di bollette perché non c’è authority che imponga la chiarezza e la concorrenza.
Paghiamo i costi delle banche-spazzatura, salvate da D’Alema.

Tartassati da tutti i lati, sepolti nella rumenta dello Stato, e pure sospettati di continuo di evasione, da Visco.
Il Visco cui pare sospetto che «due italiani su tre dichiarino meno di 10 mila euro l’anno di reddito».
Eh sì, lui crede che tutti gli italiani guadagnino come lui o come i direttori delle ASL, da 150 a 300 mila euro l’anno.
Non gli passa per il capo che in Italia ci sono dodici milioni di pensionati, e che per lo più prendono 5 mila euro l’anno di minima.
Né che esistono ragazzi-imprenditori marginali, che dopo tasse e tassi usurari non hanno più di mille euro mensili per sé: eccoli lì i due italiani su tre.
Fra loro ci sono sicuramente i grandi evasori, ma non è che il fisco li cerchi davvero: hanno i beni in Liechtentstein, la Porsche o lo yacht appartengono a una società lussemburghese, oppure hanno profitti azionari «di rischio» all’estero.
Visco non sa che l’Italia si sta impoverendo, che le pensioni hanno perso in dieci anni il 30% del potere d’acquisto, e i salari il 10%.
Ci crede tutti ricchi come lui e quelli che lui frequenta; e se no, evasori.
Lo voglio vedere a spulciare quei 12 milioni di sicuri evasori che sono i pensionati, questi furbastri che dichiarano meno di 10 mila euro e chissà cosa nascondono.
Visco è la nostra Maria Antonietta: «Non hanno pane? Mangino la brioche» (peraltro frase mai pronunciata dalla regina, inventata di sana pianta).
La «brioche» non era il cornetto che conosciamo al bar; era la crosta succosa di pane, delle carni cucinate «en croute», al forno, cinghiali, cervi, fagiani…
Due italiani su tre hanno certo mangiato a crepapelle la cacciagione.
Maurizio Blondet

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22 maggio 2007

La fusione Unicredit-Capitalia



La fusione Unicredit-Capitalia?
Tutti i media si buttano a lodarla.
E ad escludere che, questa volta, ci sia entrata la politica.
La verità è - dunque - l’esatto contrario.
Risulta che Profumo non voleva comprare Capitalia, né mettersi con il pregiudicato bancarottiere Geronzi.
Come spiega il Financial Times, «l’acquisizione da 22 miliardi di euro di Capitalia sembra porre a rischio la tendenza (di Profumo) di ridurre l’esposizione ad un solo mercato».
Profumo ha sempre detto di voler «internazionalizzare».
E lo dice ancora, con parecchi soldi in meno.
Anche con il peso morto di Capitalia, «la banca resta internazionale e genererà ancora il 53% dei suoi introiti fuori d’Italia. … Avremmo fatto qualcosa di simile in Germania, ne avessimo avuto la possibilità».
Nessuna esultanza, come si vede.
Insomma Profumo ha dovuto obbedire.
Obtorto collo.
Alla politica.
Quale politica?
Geronzi ha ricevuto piogge di avvisi di garanzia per Parmalat, Cirio, e le mancate comunicazioni a Bankitalia sui crediti in sofferenza dei partiti.
Già, perché Capitalia ha salvato i DS dalla bancarotta.
Ha fatto prestiti a tutti i partiti (tranne ad AN e a Forza Italia), senza uno straccio di garanzie, perché dal potere politico ha sempre ottenuto la garanzia massima: ti salveremo qualunque cosa faccia.
Capitalia ha un capitale inferiore alle sue sofferenze, e Geronzi resta intoccabile.
Come scrive il blog «Finanza e Politica»: «Capitalia è una banca patrimonialmente pessima, per certi aspetti pericolosa, ma possiede tanti sportelli e le partecipazioni in Mediobanca e Generali [ecco, ecco].
E allora ecco il miracolo.
Il prezzo viene gonfiato, i bilanci imbellettati... e il vecchio Geronzi compie il suo capolavoro... porta la sua pessima banca alle nozze con il miglior principe presente sul mercato... così salva definitivamente Capitalia che annacquerà i suoi crediti incagliati con la gestione ottima di Unicredit, e in più si candida a divenire presidente di Mediobanca [Un pregiudicato? Del resto c’è già Ligresti, è il salotto buono o no?].
E allora chapeau a Geronzi che è riuscito a dimostrare che in finanza si possono compiere i miracoli e si fanno volare anche le vacche.
Ancora una volta la politica ha determinato le sorti del mercato e non viceversa».

L’esatto contrario di quel che strillano Il Corriere e Repubblica.
Il regista del salvataggio sembra essere ancora una volta D’Alema (il genio che ha «salvato» Telecom, ricordate), perché deve farsi un suo impero finanziario personale per contrastare l’occupazione di tutti i poteri che Prodi sta realizzando pro domo sua.
Che la fusione sia pro D’Alema, lo dice la rabbia malcelata di Veltroni, che s’è lamentato con Geronzi di aver saputo la cosa dai giornali.
Il tutto si situa nel quadro della lotta di potere in cui i leader della varie «sinistre» si fanno le scarpe l’uno l’altro, dietro le quinte, senza farlo sapere a noi.
Prodi ha lasciato fare, perché quelli si fanno le scarpe sì, ma non poteva negare a D’Alema la «sua» banca, finalmente.
Draghi e Padoa Schioppa ovviamente hanno dato l’assenso: bravi!, strillano i media, tutt’altra pasta che Fazio!
Questa menzogna corale e dura come il cemento ci dovrebbe dire qualcosa: che il sistema dei partiti-sindacati-statali-Confindustria (il blocco dei parassiti miliardari) ha completato il cerchio, il sistema di saccheggio del contribuente e del cittadino.
Si fanno le scarpe a spese nostre.
Un’ascoltatrice chiedeva al giornalista (Stefano Folli di 24 Ore) che cosa migliorerà, per lei correntista, la fusione.
Folli (di 24 Ore che lo paga benissimo) l’ha paternamente rassicurata.
No, non tema nulla.
Mettetevi per un attimo nei panni di un giovane - uno di quei famosi giovani di cui tanto si occupano i politici - che voglia aprire un’aziendina, un laboratorio artigiano.
Lo deve fare perché il lavoro dipendente, semplicemente, non c’è più.
Dunque il nostro giovane apre una cartoleria, un’erboristeria, una palestra di body building.
Appena adempiute alle immense pratiche burocratiche (la Volontà Generale diffida di chi si mette in proprio, vuole punirlo con il controllo burocratico: migliaia di documenti, stato di famiglia, certificato di matrimonio compreso), il nostro giovane deve pagare le tasse a Visco.
Prima ancora di aver venduto il primo flaconcino di erbe.
Prima, cioè, di aver avuto un reddito tassabile, un reddito che può anche mancare (e che manca difatti a due neo-impresine su tre, che colano a picco subito).
Ma non basta.
Il nostro giovane ha bisogno di un capitale, anche piccolo, per cominciare.
Si rivolge alla banca, a chi altro?
Le banche sono qui per questo.
Gli viene concesso un fido: al 18% o anche più.

Unicredito e Capitalia che regalano i soldi ai partiti, che ai depositanti e risparmiatori pagano lo 0%, al ragazzo chiedono il 18%.
E così a tutti gli altri piccoli e piccolissimi bisognosi di capitale: possono prestare quanto vogliono; grazie al credito frazionale i depositi veri si moltiplicano, e su quel denaro creato dal nulla la banca prende il 18-25%.
Ne segue questo piccolo, ridicolo fatto: che il giovane imprenditore alle prime armi, per farcela, deve produrre profitti superiori al 50%, e subito.
Perché il 18-25% se lo prende la banca (e subito; un fido non è un mutuo, non corre a 15 anni, è annuale o semestrale), il resto se lo divora il fisco.
Resta poco, al giovinotto, per mangiare, campare e vestirsi.
Per lui niente autoblù gratis.
Anzi, Visco gli controlla: quante auto ha l’azienda, ossia con costi scaricabili?
Sono troppe, te le dimezzo (è Visco che decide di quante auto ha bisogno una ditta privata).
Il giovane dovrebbe dunque gestire una start-up ad altissima tecnologia e di fulminante successo, come quelle di Sylicon Valley.
Ma lui s’è messo in proprio perché non trova lavoro.
La sua ideuzza e impresina possono funzionare, ma più probabilmente come attività «marginali».
A lui basterebbe poco, per campare.
Se non dovesse pagare l’usuraio Capitalia (18%) e il fisco di Visco (30-45%), ce la farebbe pure, a campare.
Invece no.
Naturalmente, una ovvia misura a favore dei «giovani» sarebbe l’esenzione fiscale per un paio d’anni; lo Stato non ci perde niente, ci perde di più soffocando una ditta su tre nel nido, un colossale mancato introito, uno strangolamento di attività economiche inaudito, che danno lavoro e possono darne in futuro.
Visco lo sa benissimo.
Ma non lo fa.
E perché non lo fa?
Non perché è stupido; non lo fa perchè Visco non presiede alle risorse necessarie al governo del Paese.
Presiede al sistema di saccheggio partitico-sindacale.
Il suo scopo è depredare, mica incentivare l’economia e l’iniziativa privata.
Ora, le banche sono collegate a filo doppio col sistema di saccheggio politico.

Il ragazzo-neo-imprenditore è derubato alla perfezione da tutti i lati: come contribuente, come consumatore (tariffe ENEL e Telecom, le più costose del mondo), come debitore.
Il sistema è chiuso, è perfetto.
E poi D’Alema si permette pure di dire che nel Paese c’è un certo umore contro i politici, insofferenza tipo Mani Pulite.
Ha ragione De Rita del Censis: dice che la faccenda del «tesoretto» è uno «scandalo infernale». Aggiunge: «Gli italiani hanno capito benissimo cosa è successo. Si sono messi a un tavolo Padoa-Schioppa, i tre segretari sindacali, ovviamente Prodi e pochi altri. Questa oligarchia ha creato un inutile aumento di tasse per i propri bisogni: sistemare i precari, accontentare Rifondazione…».
Finalmente uno che usa le parole giuste: una oligarchia (plutocratica e parassitaria) ha strizzato i contribuenti oltre ogni limite per «i propri bisogni».
Non per i bisogni del governo, è ben chiaro.
Non per riasfaltare le strade né per amministrare bene.
Il governo non governa affatto, non governa nulla.
Non fa nemmeno finta.
Quando ha dei problemi (detti «emergenze») li butta sui cittadini, come i napoletani buttano la spazzatura in strada.
Le carceri scoppiano?
Un bell’indulto, decine di migliaia di delinquenti tornano a rapinare e a uccidere i cittadini privati (loro no, hanno le scorte da noi pagate).
Il problema-immigrazione?
Legalizzata per incanto, non esistono più clandestini.
Altre migliaia di zingari rumeni, di criminali maghrebini e venezuelani, ben felici di darsi da fare in un Paese dove la polizia fa paura solo ai deboli, e lo Stato solo agli onesti.
Nei loro Paesi, la polizia porta fucili a pompa e spara con revolver 45.
Qui da noi, da decenni, la polizia ha perso ogni autonomia d’indagine.
Non è più guidata dal prefetto o dal questore, e comandata dal procuratore e dai sostituti.
E’ «polizia giudiziaria» nel senso che, per indagare, deve avere il permesso del magistrato, anzi aspettare che sia il magistrato a ordinare l’indagine.
E come si sa, se qualche agente osa fermare lo zingaro borsaiolo di sua iniziativa, il magistrato si affretta, per ripicca, a liberarlo.

Dopo anni ed anni di questo regime, la polizia italiana non solo ha perso la voglia.
Ha perso la competenza.
Non ha più informatori né metodologia; nemmeno può usare il ceffone, vecchia specialità di certi appuntati e questurini di un tempo, a volte così efficace per far sbollire un violento e arrogante, o parlare un sospetto: parte una denuncia del criminale, e il giudice è ovviamente dalla parte del pregiudicato recidivo, poveretto, che «ha subito violenza».
Il poliziotto rischia grosso, guai giudiziari a cui è esposto senza difesa.
E allora aspetta che sia «il signor giudice» a dirgli cosa fare.
Come affronta dunque le segretissime Triadi?
Le bande venezuelane?
Le bande rumene che ammazzano con la punta dell’ombrello?
Tutta la delinquenza di Paesi estremamente più violenti del nostro, dove la malavita è veramente dura e malvagia, veramente famelica, assassina e organizzata?
Al magistrato non importa nulla.
Anche lui è parte integrale del sistema di saccheggio: butta la spazzatura umana sulla testa dei cittadini e dei contribuenti che lo mantengono.
Non c’è governo in Italia.
Ci sono solo «le spese di governo», decise a tre (coi sindacati) per i «i bisogni» dei politici.
Il tesoretto è già bell’e divorato: per gli aumenti agli statali (al ministero del Tesoro, il premio di efficienza va per contratto integrativo a tutti coloro che sono «presenti»: firmi il cartellino e basta, sei già efficiente e premiato), per i sindacati e per le clientele della sinistra cosiddetta.
Niente grandi opere, niente strade, bisogna accontentare Rifondazione se no abbandona il non-governo.
Bisogna contentare Mastella, perché se no passa al Polo.
Un sacco di spese.
E in cambio, riceviamo spazzatura sulla testa; spazzatura vera come a Napoli (centinaia di addetti appaltanti che hanno altro da fare), nonchè i rifiuti solidi urbani dello zingarame, dei non più clandestini, dei liberati dall'indulto di cui lorsignori «governanti» non vogliono farsi carico (hanno ben altro da fare).
Riceviamo al spazzatura Telecom che è al loro servizio e non al nostro e dunque non mette l’ADSL dove dovrebbe, la spazzatura ENI che ci carica di bollette perché non c’è authority che imponga la chiarezza e la concorrenza.
Paghiamo i costi delle banche-spazzatura, salvate da D’Alema.

Tartassati da tutti i lati, sepolti nella rumenta dello Stato, e pure sospettati di continuo di evasione, da Visco.
Il Visco cui pare sospetto che «due italiani su tre dichiarino meno di 10 mila euro l’anno di reddito».
Eh sì, lui crede che tutti gli italiani guadagnino come lui o come i direttori delle ASL, da 150 a 300 mila euro l’anno.
Non gli passa per il capo che in Italia ci sono dodici milioni di pensionati, e che per lo più prendono 5 mila euro l’anno di minima.
Né che esistono ragazzi-imprenditori marginali, che dopo tasse e tassi usurari non hanno più di mille euro mensili per sé: eccoli lì i due italiani su tre.
Fra loro ci sono sicuramente i grandi evasori, ma non è che il fisco li cerchi davvero: hanno i beni in Liechtentstein, la Porsche o lo yacht appartengono a una società lussemburghese, oppure hanno profitti azionari «di rischio» all’estero.
Visco non sa che l’Italia si sta impoverendo, che le pensioni hanno perso in dieci anni il 30% del potere d’acquisto, e i salari il 10%.
Ci crede tutti ricchi come lui e quelli che lui frequenta; e se no, evasori.
Lo voglio vedere a spulciare quei 12 milioni di sicuri evasori che sono i pensionati, questi furbastri che dichiarano meno di 10 mila euro e chissà cosa nascondono.
Visco è la nostra Maria Antonietta: «Non hanno pane? Mangino la brioche» (peraltro frase mai pronunciata dalla regina, inventata di sana pianta).
La «brioche» non era il cornetto che conosciamo al bar; era la crosta succosa di pane, delle carni cucinate «en croute», al forno, cinghiali, cervi, fagiani…
Due italiani su tre hanno certo mangiato a crepapelle la cacciagione.
Maurizio Blondet

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