22 dicembre 2010

Senza il legame con i morti la nostra vita non è che un’assurda corsa nel vuoto









Chi siamo o cosa siamo noi, se viene a cadere il legame che ci tiene uniti ai nostri morti, a coloro che ci hanno preceduto sulle strade della vita?
Non è affatto una domanda oziosa o superflua: è una domanda centrale; è LA domanda, dalla cui risposta tutto il resto dipende.
Tanto per cominciare, l’espressione “i morti” è estremamente impropria e fuorviante: come se noi, che siamo vivi, ci trovassimo nella dimensione “vera” dell’esistenza, perché attuale, tangibile, dimostrabile; mentre loro, essendo stati vivi un tempo, ma non essendolo più, godessero ora di uno statuto ontologico di serie B rispetto al nostro.
È vero, semmai, il contrario.
Chi è vivo, lo è per una manciata di anni; chi ha già terminato la propria vita, appartiene all’eternità - come vi apparteneva, del resto, prima di nascere, anzi, prima di venir concepito - e perciò è lo statuto ontologico dei vivi ad essere friabile, fuggevole, illusorio.
Noi passiamo, loro rimangono: questa è la realtà.
Noi siamo qui, adesso; ma questo “adesso” si consuma rapidamente; e, quando non ne resterà più nulla, spariremo da questa dimensione, così silenziosamente come vi siamo entrati: inquilini temporanei di un mondo che non è nostro, che ci ospita solamente.
Soltanto un materialismo tanto rozzo quanto poco intelligente potrebbe sopravvalutare la nostra condizione rispetto alla loro.
Un poco alla volta, chi prima e chi dopo, tutti scivoliamo in quell’altra condizione, entrando nel numero di quelli che “furono”: perciò, mentre questi ultimi crescono senza posa, noi, senza posa, ci andiamo assottigliando.
Finché siamo bambini, finché siamo giovani, vediamo tutto intorno delle persone che se ne andranno ben prima di noi; poi, mano a mano che cresciamo, cominciano ad andarsene anche quelli che erano bambini e ragazzi quando noi eravamo appena nati, o piccolissimi; da ultimo, divenuti anziani, ci guarderemo intorno e vedremo, forse con raccapriccio, che, intorno a noi, non è rimasto nessuno di quanti hanno accompagnato la nostra vita, ma sono subentrate solamente facce nuove, persone più giovani. Anche queste ultime destinate a finire come gli altri, ma un poco più tardi e, quindi, come se appartenessero ad un altro mondo: saranno ancora vive, infatti, quando noi chiuderemo gli occhi per sempre.
Noi siamo come i fiumi che corrono verso il mare: non possiamo pretendere di essere noi soli la “vera” acqua; il nostro destino, il nostro scopo, la nostra ragion d’essere sono quelli di raggiungere il mare, a paragone del quale siamo ben piccola cosa.
Ciò non significa che siamo fatti per la morte, se con quest’ultima espressione si vuole intendere il contrario della vita, la privazione radicale dell’esistenza.
La morte non è il contrario della vita, nemmeno sul piano strettamente logico: la morte è uno stato dell’essere, il modo in cui l’essere si spegne; la vita, invece, è un processo. Si tratta di due cose differenti, non di due cose opposte: la morte non è la negazione della vita, ma il suo naturale compimento.
La negazione e il contrario della vita, semmai, consistono nella non vita, ossia nel rifiuto dell’apertura verso la vita, nel “no” al suo incessante rinnovarsi.
La morte, inoltre, non è la “nemica” della vita, ma il suo atto conclusivo e disvelatore: grazie ad essa, la vita acquista la pienezza del proprio significato; senza di essa, la vita diventerebbe una assurda, monotona ripetizione, senza scopo e senza significato.
E tuttavia, noi siamo fatti per la vita.
Siamo fatti per la vita, per la gioia, per l’amore: altrimenti non saremmo qui, non esisteremmo; perché la vita nasce dall’amore, da un atto di amore.
Si tratta, perciò, di guardare più da vicino la misteriosa soglia che chiamiamo “morte”, cosa da cui la cultura moderna si ritrae con un fremito di spavento e che aborrisce con tutta se stessa.
La cultura moderna è basata sull’idea del Progresso, del continuo, incessante andare avanti: non è strano che la morte le appaia come lo scacco supremo, perché sembra arrestare la marcia degli uomini verso la “felicità”.
La cultura moderna odia la morte, “per fatto personale”, come si usa dire: per essa, la morte è la beffa suprema, la negazione di tutto il suo credo.
Non la pensava così il mondo pre-moderno , per il quale la morte non era né una beffa né una negazione, ma una porta spalancata sull’infinito e, quindi, la via di accesso alla piena realizzazione del nostro vero essere.
Come dice San Francesco nel «Cantico delle creature»:

«Laudato si’ mi Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
gauai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male.»

Dunque, per l’uomo medievale il problema non è la morte, ma lo stato dell’anima allorché la morte viene; non è la morte che deve far paura, ma la prospettiva di essere da lei sorpresi in uno stato di lontananza da Dio, cioè dalla sua legge e dal suo progetto nei nostri confronti.
L’uomo medievale, come in genere l’uomo pre-moderno, sapeva perché si vive e sapeva perché si muore: si vive per rispondere alla chiamata divina, per armonizzare la propria volontà con quella del Creatore; si muore per entrare nella dimensione del permanente e per ricevere gli effetti delle proprie azioni e delle proprie scelte.
Non vi è posto per il caso, ma solo per un disegno armonioso e necessario, cui gli uomini sono chiamati a partecipare in piena libertà.
In questo senso, per la persona di fede, la morte non è la “fine”, ma il “compimento” della vita: e il defunto, lungi dall’essere divenuto una entità umbratile ed evanescente, è, propriamente parlando, colui che è divenuto “perfetto”, ossia che ha raggiunto il traguardo supremo e lo scopo ultimo per il quale è stato chiamato all’esistenza.
Una grande mistica francese, Marthe Robin, della quale altra volta abbiamo parlato (cfr. il nostro articolo «Che cos’è la natura umana quando viene ridotta all’essenziale», consultabile sul sito di Edicolaweb) soleva dire, di una persona morta (e possiamo immaginare il sorriso dolcissimo con il quale accompagnava le proprie parole), che «allora essa è compiuta».
Dovremmo smetterla, pertanto, di parlare dei “nostri poveri morti”, come se la loro condizione fosse da compiangere, rispetto alla nostra; come se loro avessero perduto un bene che noi, al contrario, possediamo e teniamo ben stretto fra le mani.
Essi non sono da compiangere o da commiserare; lo siamo noi, semmai, per le miserie e le debolezze che segnano tutto il nostro cammino terreno e che possono ridurre in condizioni pietose, fisicamente o spiritualmente, anche il più grande dei mortali.
Ciò chiarito, torniamo alla nostra domanda iniziale e proviamo a risponderle: chi siamo o cosa siamo noi, se viene a cadere il legame che ci tiene uniti ai nostri morti, a coloro che ci hanno preceduto sulle strade della vita?
La domanda sorge spontanea davanti allo spettacolo del rifiuto della morte che caratterizza le nostre esistenze e davanti al pregiudizio, cui abbiamo testé accennato, che la nostra condizione presente sia invidiabile, mentre sarebbe da compiangere quella dei defunti.
Di tutto ci piace parlare, tranne della morte: a differenza di San Francesco, consideriamo poco educato parlarne troppo apertamente, quasi fosse un argomento di per sé biasimevole, se non proprio sconveniente.
L’atteggiamento delle odierne generazioni verso i defunti è un aspetto del loro generale atteggiamento verso il passato e verso la tradizione: un misto di distrazione, di ignoranza e di vera e propria insofferenza.
«In Africa - diceva il poeta Léopold Sédar Senghor - non esistono confini, nemmeno tra la vita e la morte»; e la stessa cosa può dirsi per tutte le società tradizionali, nelle quali il legame tra il mondo dei viventi e quello degli antenati è talmente forte e vivo, da costituire l’ossatura fondamentale dell’intera struttura socioculturale.
Come è possibile, infatti, procedere sul cammino della vita, senza sentirsi parte di un processo che parte da lontano; senza sentirsi come i prosecutori dell’opera di quanti ci precedettero e come coloro i quali, al momento di andarsene, passeranno la fiaccola del domani nelle mani delle nuove generazioni?
La mancanza di memoria è anche assenza di gratitudine e, in definitiva, ignoranza del proprio posto nel mondo: perché noi non veniamo dal nulla, così come non stiamo andando verso il nulla, checché ne dicano, con funereo compiacimento, quelli che - parafrasando Henry de Montherlant - potremmo chiamare i lugubri cantori del Caos e della Notte.
Noi veniamo dal generoso «sì» alla vita dato a suo tempo dai nostri genitori, dai nostri nonni, bisnonni e trisavoli; e andiamo verso il compimento della nostra missione, che consiste nel preparare la via a coloro che ci seguiranno, nel rimuovere le erbacce dal terreno e nel lasciare ad essi in usufrutto un mondo che non sia peggiore, ma, se possibile, migliore di quello che, a nostra volta, abbiamo ricevuto.
Tutto nasce dalla consapevolezza di non essere i padroni e i signori del mondo, ma solamente degli ospiti: e il dovere degli ospiti è, oltre a quello della riconoscenza verso colui che li ha accolti, nutriti e protetti, quello di lasciare la dimora in condizioni abitabili e accoglienti per altri ospiti, che giungeranno a loro volta.
Siamo parte di un grande fiume cosmico, che va dall’umile filo d’erba alla galassia più lontana, la quale brilla negli spazi celesti a distanze inimmaginabili: tutto è in noi e noi siamo in tutto, senza che si possano tracciare dei veri confini tra noi e le cose e nemmeno, come affermava il grande poeta africano, tra la vita e la morte.
Gli amanti lo sanno: non si può dire dove finisce la loro anima e dove incominci quella dell’altro; così come, nei moneti dell’estasi, essi non potrebbero dire dove finisca il corpo dell’uno e dove incominci quello dell’altra.
Ebbene, per la grande vita cosmica di cui siamo parte, è esattamente la stessa cosa: noi siamo nel filo d’erba e nella galassia, così come il filo d’erba e la galassia sono in noi, sono parte di noi, sono tutt’uno con noi, anima e corpo.
Un soffio divino anima noi, così come pervade il filo d’erba e la lontana galassia; e quel soffio divino ci affratella a tutto ciò che esiste, a tutto ciò che è esistito in passato e a tutto ciò che esisterà nel futuro.
Del resto, che cos’è il passato, che cos’è il futuro? Non esistono in se stessi, ma soltanto nel difetto della nostra vista: sono un nostro errore di prospettiva.
L’unico tempo che esiste in sé stesso, è il presente, perché tutto è presente agli occhi dell’eternità: e non vi è differenza tra quanti hanno vissuto prima di noi e quanti vivranno dopo.
Siamo un’unica famiglia e siamo fatti per la vita, non per la morte.
La morte è solo un passaggio, non una condizione durevole dell’essere; è una crisi, nel significato greco della parola, ossia un cambiamento.
Verso che cosa avverrà tale cambiamento, ciò dipende - appunto - dal modo in cui si è vissuti.
di Francesco Lamendola

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22 dicembre 2010

Senza il legame con i morti la nostra vita non è che un’assurda corsa nel vuoto









Chi siamo o cosa siamo noi, se viene a cadere il legame che ci tiene uniti ai nostri morti, a coloro che ci hanno preceduto sulle strade della vita?
Non è affatto una domanda oziosa o superflua: è una domanda centrale; è LA domanda, dalla cui risposta tutto il resto dipende.
Tanto per cominciare, l’espressione “i morti” è estremamente impropria e fuorviante: come se noi, che siamo vivi, ci trovassimo nella dimensione “vera” dell’esistenza, perché attuale, tangibile, dimostrabile; mentre loro, essendo stati vivi un tempo, ma non essendolo più, godessero ora di uno statuto ontologico di serie B rispetto al nostro.
È vero, semmai, il contrario.
Chi è vivo, lo è per una manciata di anni; chi ha già terminato la propria vita, appartiene all’eternità - come vi apparteneva, del resto, prima di nascere, anzi, prima di venir concepito - e perciò è lo statuto ontologico dei vivi ad essere friabile, fuggevole, illusorio.
Noi passiamo, loro rimangono: questa è la realtà.
Noi siamo qui, adesso; ma questo “adesso” si consuma rapidamente; e, quando non ne resterà più nulla, spariremo da questa dimensione, così silenziosamente come vi siamo entrati: inquilini temporanei di un mondo che non è nostro, che ci ospita solamente.
Soltanto un materialismo tanto rozzo quanto poco intelligente potrebbe sopravvalutare la nostra condizione rispetto alla loro.
Un poco alla volta, chi prima e chi dopo, tutti scivoliamo in quell’altra condizione, entrando nel numero di quelli che “furono”: perciò, mentre questi ultimi crescono senza posa, noi, senza posa, ci andiamo assottigliando.
Finché siamo bambini, finché siamo giovani, vediamo tutto intorno delle persone che se ne andranno ben prima di noi; poi, mano a mano che cresciamo, cominciano ad andarsene anche quelli che erano bambini e ragazzi quando noi eravamo appena nati, o piccolissimi; da ultimo, divenuti anziani, ci guarderemo intorno e vedremo, forse con raccapriccio, che, intorno a noi, non è rimasto nessuno di quanti hanno accompagnato la nostra vita, ma sono subentrate solamente facce nuove, persone più giovani. Anche queste ultime destinate a finire come gli altri, ma un poco più tardi e, quindi, come se appartenessero ad un altro mondo: saranno ancora vive, infatti, quando noi chiuderemo gli occhi per sempre.
Noi siamo come i fiumi che corrono verso il mare: non possiamo pretendere di essere noi soli la “vera” acqua; il nostro destino, il nostro scopo, la nostra ragion d’essere sono quelli di raggiungere il mare, a paragone del quale siamo ben piccola cosa.
Ciò non significa che siamo fatti per la morte, se con quest’ultima espressione si vuole intendere il contrario della vita, la privazione radicale dell’esistenza.
La morte non è il contrario della vita, nemmeno sul piano strettamente logico: la morte è uno stato dell’essere, il modo in cui l’essere si spegne; la vita, invece, è un processo. Si tratta di due cose differenti, non di due cose opposte: la morte non è la negazione della vita, ma il suo naturale compimento.
La negazione e il contrario della vita, semmai, consistono nella non vita, ossia nel rifiuto dell’apertura verso la vita, nel “no” al suo incessante rinnovarsi.
La morte, inoltre, non è la “nemica” della vita, ma il suo atto conclusivo e disvelatore: grazie ad essa, la vita acquista la pienezza del proprio significato; senza di essa, la vita diventerebbe una assurda, monotona ripetizione, senza scopo e senza significato.
E tuttavia, noi siamo fatti per la vita.
Siamo fatti per la vita, per la gioia, per l’amore: altrimenti non saremmo qui, non esisteremmo; perché la vita nasce dall’amore, da un atto di amore.
Si tratta, perciò, di guardare più da vicino la misteriosa soglia che chiamiamo “morte”, cosa da cui la cultura moderna si ritrae con un fremito di spavento e che aborrisce con tutta se stessa.
La cultura moderna è basata sull’idea del Progresso, del continuo, incessante andare avanti: non è strano che la morte le appaia come lo scacco supremo, perché sembra arrestare la marcia degli uomini verso la “felicità”.
La cultura moderna odia la morte, “per fatto personale”, come si usa dire: per essa, la morte è la beffa suprema, la negazione di tutto il suo credo.
Non la pensava così il mondo pre-moderno , per il quale la morte non era né una beffa né una negazione, ma una porta spalancata sull’infinito e, quindi, la via di accesso alla piena realizzazione del nostro vero essere.
Come dice San Francesco nel «Cantico delle creature»:

«Laudato si’ mi Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
gauai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male.»

Dunque, per l’uomo medievale il problema non è la morte, ma lo stato dell’anima allorché la morte viene; non è la morte che deve far paura, ma la prospettiva di essere da lei sorpresi in uno stato di lontananza da Dio, cioè dalla sua legge e dal suo progetto nei nostri confronti.
L’uomo medievale, come in genere l’uomo pre-moderno, sapeva perché si vive e sapeva perché si muore: si vive per rispondere alla chiamata divina, per armonizzare la propria volontà con quella del Creatore; si muore per entrare nella dimensione del permanente e per ricevere gli effetti delle proprie azioni e delle proprie scelte.
Non vi è posto per il caso, ma solo per un disegno armonioso e necessario, cui gli uomini sono chiamati a partecipare in piena libertà.
In questo senso, per la persona di fede, la morte non è la “fine”, ma il “compimento” della vita: e il defunto, lungi dall’essere divenuto una entità umbratile ed evanescente, è, propriamente parlando, colui che è divenuto “perfetto”, ossia che ha raggiunto il traguardo supremo e lo scopo ultimo per il quale è stato chiamato all’esistenza.
Una grande mistica francese, Marthe Robin, della quale altra volta abbiamo parlato (cfr. il nostro articolo «Che cos’è la natura umana quando viene ridotta all’essenziale», consultabile sul sito di Edicolaweb) soleva dire, di una persona morta (e possiamo immaginare il sorriso dolcissimo con il quale accompagnava le proprie parole), che «allora essa è compiuta».
Dovremmo smetterla, pertanto, di parlare dei “nostri poveri morti”, come se la loro condizione fosse da compiangere, rispetto alla nostra; come se loro avessero perduto un bene che noi, al contrario, possediamo e teniamo ben stretto fra le mani.
Essi non sono da compiangere o da commiserare; lo siamo noi, semmai, per le miserie e le debolezze che segnano tutto il nostro cammino terreno e che possono ridurre in condizioni pietose, fisicamente o spiritualmente, anche il più grande dei mortali.
Ciò chiarito, torniamo alla nostra domanda iniziale e proviamo a risponderle: chi siamo o cosa siamo noi, se viene a cadere il legame che ci tiene uniti ai nostri morti, a coloro che ci hanno preceduto sulle strade della vita?
La domanda sorge spontanea davanti allo spettacolo del rifiuto della morte che caratterizza le nostre esistenze e davanti al pregiudizio, cui abbiamo testé accennato, che la nostra condizione presente sia invidiabile, mentre sarebbe da compiangere quella dei defunti.
Di tutto ci piace parlare, tranne della morte: a differenza di San Francesco, consideriamo poco educato parlarne troppo apertamente, quasi fosse un argomento di per sé biasimevole, se non proprio sconveniente.
L’atteggiamento delle odierne generazioni verso i defunti è un aspetto del loro generale atteggiamento verso il passato e verso la tradizione: un misto di distrazione, di ignoranza e di vera e propria insofferenza.
«In Africa - diceva il poeta Léopold Sédar Senghor - non esistono confini, nemmeno tra la vita e la morte»; e la stessa cosa può dirsi per tutte le società tradizionali, nelle quali il legame tra il mondo dei viventi e quello degli antenati è talmente forte e vivo, da costituire l’ossatura fondamentale dell’intera struttura socioculturale.
Come è possibile, infatti, procedere sul cammino della vita, senza sentirsi parte di un processo che parte da lontano; senza sentirsi come i prosecutori dell’opera di quanti ci precedettero e come coloro i quali, al momento di andarsene, passeranno la fiaccola del domani nelle mani delle nuove generazioni?
La mancanza di memoria è anche assenza di gratitudine e, in definitiva, ignoranza del proprio posto nel mondo: perché noi non veniamo dal nulla, così come non stiamo andando verso il nulla, checché ne dicano, con funereo compiacimento, quelli che - parafrasando Henry de Montherlant - potremmo chiamare i lugubri cantori del Caos e della Notte.
Noi veniamo dal generoso «sì» alla vita dato a suo tempo dai nostri genitori, dai nostri nonni, bisnonni e trisavoli; e andiamo verso il compimento della nostra missione, che consiste nel preparare la via a coloro che ci seguiranno, nel rimuovere le erbacce dal terreno e nel lasciare ad essi in usufrutto un mondo che non sia peggiore, ma, se possibile, migliore di quello che, a nostra volta, abbiamo ricevuto.
Tutto nasce dalla consapevolezza di non essere i padroni e i signori del mondo, ma solamente degli ospiti: e il dovere degli ospiti è, oltre a quello della riconoscenza verso colui che li ha accolti, nutriti e protetti, quello di lasciare la dimora in condizioni abitabili e accoglienti per altri ospiti, che giungeranno a loro volta.
Siamo parte di un grande fiume cosmico, che va dall’umile filo d’erba alla galassia più lontana, la quale brilla negli spazi celesti a distanze inimmaginabili: tutto è in noi e noi siamo in tutto, senza che si possano tracciare dei veri confini tra noi e le cose e nemmeno, come affermava il grande poeta africano, tra la vita e la morte.
Gli amanti lo sanno: non si può dire dove finisce la loro anima e dove incominci quella dell’altro; così come, nei moneti dell’estasi, essi non potrebbero dire dove finisca il corpo dell’uno e dove incominci quello dell’altra.
Ebbene, per la grande vita cosmica di cui siamo parte, è esattamente la stessa cosa: noi siamo nel filo d’erba e nella galassia, così come il filo d’erba e la galassia sono in noi, sono parte di noi, sono tutt’uno con noi, anima e corpo.
Un soffio divino anima noi, così come pervade il filo d’erba e la lontana galassia; e quel soffio divino ci affratella a tutto ciò che esiste, a tutto ciò che è esistito in passato e a tutto ciò che esisterà nel futuro.
Del resto, che cos’è il passato, che cos’è il futuro? Non esistono in se stessi, ma soltanto nel difetto della nostra vista: sono un nostro errore di prospettiva.
L’unico tempo che esiste in sé stesso, è il presente, perché tutto è presente agli occhi dell’eternità: e non vi è differenza tra quanti hanno vissuto prima di noi e quanti vivranno dopo.
Siamo un’unica famiglia e siamo fatti per la vita, non per la morte.
La morte è solo un passaggio, non una condizione durevole dell’essere; è una crisi, nel significato greco della parola, ossia un cambiamento.
Verso che cosa avverrà tale cambiamento, ciò dipende - appunto - dal modo in cui si è vissuti.
di Francesco Lamendola

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