23 gennaio 2011

Che noia i talk di approfondimento


Faccio ormai una fatica enorme a seguire programmi come «Annozero», «Ballarò», «L’infedele », «L’ultima parola» e tutti i cosiddetti talk d’approfondimento. Solo il senso del dovere mi inchioda allo schermo. Posso mettere in conto motivi strettamente personali (qualche bella serie tv da seguire o una partita di calcio o un film), ma credo che a nessuno sfugga il senso di frustrazione che questi programmi generano.

Intanto perché non si approfondisce mai nulla, si assiste solo a uno scontro di opinioni, non c’è mai una crescita narrativa che permetta allo spettatore di farsi una sua convinzione. E poi perché interviene sempre la solita compagnia di giro: da una parte Daniela Santanché (sempre più intollerante e intollerabile), dall’altra Concita De Gregorio; da una parte Marco Travaglio, dall’altra Maurizio Belpietro e, a seguire, tutti gli altri scritturati.

In altri paesi, questo tipo di discussione ha una durata contenuta; da noi sono messe cantate dove il conduttore, se riesce a superare i primi due o tre anni, diventa una specie di sacerdote, di guru, tutelato persino dai giudici del lavoro, capace di mettere sulla bilancia dell’audience il suo gruzzolo di fedeli. Certo, in Italia, salvo lodevoli eccezioni, i tg non informano più, tutt’al più distraggono e, in assenza di inchieste, ci dobbiamo accontentare di schermaglie verbali. Già, ma proprio in termini tecnici, linguistici, dove porta la schermaglia? Ovviamente da nessuna parte perché il suo modello comunicativo è rappresentato dal capannello, così ben descritto da Karl Kraus. I cosiddetti talk d’approfondimento non sono una forma di spontaneità democratica, rappresentano piuttosto un antico rituale, una danza attorno al morto (il cadavere dell’idea). Servono a convertire i già convertiti e a indignare i già indignati. Se poi il tema è il «bunga bunga», tendenza zoccole, il gioco è fatto. Ma che noia! ©

Aldo Grasso

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23 gennaio 2011

Che noia i talk di approfondimento


Faccio ormai una fatica enorme a seguire programmi come «Annozero», «Ballarò», «L’infedele », «L’ultima parola» e tutti i cosiddetti talk d’approfondimento. Solo il senso del dovere mi inchioda allo schermo. Posso mettere in conto motivi strettamente personali (qualche bella serie tv da seguire o una partita di calcio o un film), ma credo che a nessuno sfugga il senso di frustrazione che questi programmi generano.

Intanto perché non si approfondisce mai nulla, si assiste solo a uno scontro di opinioni, non c’è mai una crescita narrativa che permetta allo spettatore di farsi una sua convinzione. E poi perché interviene sempre la solita compagnia di giro: da una parte Daniela Santanché (sempre più intollerante e intollerabile), dall’altra Concita De Gregorio; da una parte Marco Travaglio, dall’altra Maurizio Belpietro e, a seguire, tutti gli altri scritturati.

In altri paesi, questo tipo di discussione ha una durata contenuta; da noi sono messe cantate dove il conduttore, se riesce a superare i primi due o tre anni, diventa una specie di sacerdote, di guru, tutelato persino dai giudici del lavoro, capace di mettere sulla bilancia dell’audience il suo gruzzolo di fedeli. Certo, in Italia, salvo lodevoli eccezioni, i tg non informano più, tutt’al più distraggono e, in assenza di inchieste, ci dobbiamo accontentare di schermaglie verbali. Già, ma proprio in termini tecnici, linguistici, dove porta la schermaglia? Ovviamente da nessuna parte perché il suo modello comunicativo è rappresentato dal capannello, così ben descritto da Karl Kraus. I cosiddetti talk d’approfondimento non sono una forma di spontaneità democratica, rappresentano piuttosto un antico rituale, una danza attorno al morto (il cadavere dell’idea). Servono a convertire i già convertiti e a indignare i già indignati. Se poi il tema è il «bunga bunga», tendenza zoccole, il gioco è fatto. Ma che noia! ©

Aldo Grasso

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