06 gennaio 2011

La crescita di Pechino è davvero sostenibile?




L'Australia rappresenta l'esempio più lampante di come la crescita cinese sostenga la bolla finanziaria sostenuta dall'erogazione, a costo zero, negli Usa, in Europa e in Giappone, di denaro pubblico al sistema bancario.

Quando la crisi precipitò nel 2008 sembrava che per l'Australia le cose dovessero andare malissimo. Con il crollo dei prezzi mondiali delle materie prime il dollaro australiano si svalutò fortemente toccando i 48 centesimi di euro. Oggi il dollaro australiano si situa sui 77 centesimi ed ha superato il dollaro statunitense.
Tutto grazie alla Cina, che ha generato un enorme boom minerario, superiore alla grande la corsa all'oro della seconda metà del diciannovesimo secolo che trasformò l'Australia nella regione col reddito pro capite più alto al mondo. I capitali stanno affluendo nel paese sia per investimenti nelle attività minerarie che per via la politica della banca centrale di alzare i tassi di interesse alfine di controllare l'inflazione.

Ciò ha rilanciato il credito ai mutui ipotecari con prestiti fondati su aspettative di un continuo rialzo dei valori immobiliari. La bolla cinese ha pienamente inglobato il paese: un modesto calo del tasso di crescita di Pechino creerebbe delle voragini nella posizione debitoria delle famiglie e nell'esposizione delle banche.

Se le aspettative di lucro del sistema finanziario mondiale si appuntano sulla Cina e i paesi al suo traino, la crescita di quest'ultima sta giungendo a un punto di svolta. Sul China Daily del 23 dicembre scorso è apparso un articolo di grande importanza a firma di Yu Yongding, già membro della commissione per la politica monetaria della Banca del Popolo (centrale). La sua analisi è severissima. Lo sviluppo cinese ha dei costi esorbitanti col 50% del reddito assorbito dagli investimenti, 1/4 dei quali è destinato all'edilizia. Le autorità spingono a costruire per aumentare il Pil. Infatti l'esistenza di città nuovissime e disabitate è nota. In Cina, sottolinea Yongding, polveri e fumo stanno asfissiando le città, i maggiori fiumi sono gravemente inquinati e, malgrado i progressi realizzati, avanza la deforestazione e la desertificazione. Siccità, inondazioni e frane sono ormai fenomeni comuni, mentre l'incessante attività estrattiva esaurisce le risorse naturali.

Si impone, osserva l'articolo, un drastico mutamento di rotta, tuttavia l'industria cinese non riesce a superare il suo status di fabbrica di massa mondiale e trasformarsi in una forza di innovazione. Ne consegue che la dipendenza dalle esportazioni è strutturale: il cambiamento di rotta richiederebbe un aggiustamento molto doloroso.

A ciò si aggiunge il fatto che lo sviluppo cinese è stato fortemente orientato in favore degli strati più ricchi, mentre il governo ha fallito nel provvedere beni di utilità pubblica. Per l'autore dell'articolo, sebbene la crescita attuale non sia sostenibile, il paese è dominato da una ferrea alleanza tra burocrazia pubblica e strati capitalisti che hanno addirittura tratto beneficio dai tentativi di riforma.

La Cina, scrive Yongdin, «è il paese del capitalismo dei ricchi e dei potenti», questi difendono con ogni mezzo i loro interessi. In tale contesto la possibilità di usare in maniera socialmente razionale il surplus estero del paese sta scemando. L'analisi dell'autore mi risulta corretta e senza maschere nazionalistiche. Essa implica che in Cina il mutamento avverrà con una profonda crisi che coinvolgerà ampiamente il capitalismo americano, nipponico e anche europeo.
di Joseph Halevi

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06 gennaio 2011

La crescita di Pechino è davvero sostenibile?




L'Australia rappresenta l'esempio più lampante di come la crescita cinese sostenga la bolla finanziaria sostenuta dall'erogazione, a costo zero, negli Usa, in Europa e in Giappone, di denaro pubblico al sistema bancario.

Quando la crisi precipitò nel 2008 sembrava che per l'Australia le cose dovessero andare malissimo. Con il crollo dei prezzi mondiali delle materie prime il dollaro australiano si svalutò fortemente toccando i 48 centesimi di euro. Oggi il dollaro australiano si situa sui 77 centesimi ed ha superato il dollaro statunitense.
Tutto grazie alla Cina, che ha generato un enorme boom minerario, superiore alla grande la corsa all'oro della seconda metà del diciannovesimo secolo che trasformò l'Australia nella regione col reddito pro capite più alto al mondo. I capitali stanno affluendo nel paese sia per investimenti nelle attività minerarie che per via la politica della banca centrale di alzare i tassi di interesse alfine di controllare l'inflazione.

Ciò ha rilanciato il credito ai mutui ipotecari con prestiti fondati su aspettative di un continuo rialzo dei valori immobiliari. La bolla cinese ha pienamente inglobato il paese: un modesto calo del tasso di crescita di Pechino creerebbe delle voragini nella posizione debitoria delle famiglie e nell'esposizione delle banche.

Se le aspettative di lucro del sistema finanziario mondiale si appuntano sulla Cina e i paesi al suo traino, la crescita di quest'ultima sta giungendo a un punto di svolta. Sul China Daily del 23 dicembre scorso è apparso un articolo di grande importanza a firma di Yu Yongding, già membro della commissione per la politica monetaria della Banca del Popolo (centrale). La sua analisi è severissima. Lo sviluppo cinese ha dei costi esorbitanti col 50% del reddito assorbito dagli investimenti, 1/4 dei quali è destinato all'edilizia. Le autorità spingono a costruire per aumentare il Pil. Infatti l'esistenza di città nuovissime e disabitate è nota. In Cina, sottolinea Yongding, polveri e fumo stanno asfissiando le città, i maggiori fiumi sono gravemente inquinati e, malgrado i progressi realizzati, avanza la deforestazione e la desertificazione. Siccità, inondazioni e frane sono ormai fenomeni comuni, mentre l'incessante attività estrattiva esaurisce le risorse naturali.

Si impone, osserva l'articolo, un drastico mutamento di rotta, tuttavia l'industria cinese non riesce a superare il suo status di fabbrica di massa mondiale e trasformarsi in una forza di innovazione. Ne consegue che la dipendenza dalle esportazioni è strutturale: il cambiamento di rotta richiederebbe un aggiustamento molto doloroso.

A ciò si aggiunge il fatto che lo sviluppo cinese è stato fortemente orientato in favore degli strati più ricchi, mentre il governo ha fallito nel provvedere beni di utilità pubblica. Per l'autore dell'articolo, sebbene la crescita attuale non sia sostenibile, il paese è dominato da una ferrea alleanza tra burocrazia pubblica e strati capitalisti che hanno addirittura tratto beneficio dai tentativi di riforma.

La Cina, scrive Yongdin, «è il paese del capitalismo dei ricchi e dei potenti», questi difendono con ogni mezzo i loro interessi. In tale contesto la possibilità di usare in maniera socialmente razionale il surplus estero del paese sta scemando. L'analisi dell'autore mi risulta corretta e senza maschere nazionalistiche. Essa implica che in Cina il mutamento avverrà con una profonda crisi che coinvolgerà ampiamente il capitalismo americano, nipponico e anche europeo.
di Joseph Halevi

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