07 marzo 2012

L'autunno freddo del capitalismo storico





http://3.bp.blogspot.com/_B5-Uu5SHVn4/SSf5oaDYlxI/AAAAAAAABMA/avQGx_0KyK0/s320/Albero+a+forma+di+Pianeta+Terra.jpg

Al progredire dell’ennesima crisi economica, si fa sempre più spazio l’idea che la società odierna, per come la conosciamo, abbia raggiunto l’autunno della sua esistenza. Quasi senza accorgercene siamo entrati in una fase storica di transizione dal capitalismo – l’attuale sistema storico che, come tutti i sistemi storici ha avuto un inizio e, di conseguenza, avrà anche una fine – ad un nuovo sistema delle società. Ma la questione, oggi, non è tanto sapere cosa avverrà dopo – prevedere il futuro, diceva Weber, è per demagoghi -, altresì interrogarsi su quanto è stato, e chiedersi com’è stato.
La nostra società, cui il sistema storico, come detto, è quello capitalista – l’accumulazione senza fine di capitale -, è stata definita la “società del progresso”, sottintendendo il fatto che nessun altro sistema storico precedente è stato migliore di questo. Infatti, a ben guardare, la teoria del processo evolutivo afferma una cosa ben chiara: il sistema che viene dopo è sempre migliore di quello precedente. Quindi oggi il capitalismo costituirebbe un progresso rispetto al feudalesimo, ed essendo l’ultimo sistema storico della serie, non potrebbe che essere il “migliore dei mondi possibili”. Ma è davvero così?

Non la possiamo fare soltanto una questione di crisi economica: pur non potendo parlare di “borse” e di “mercati”, di inflazione e di spread, infatti, anche 500 anni fa in Europa erano determinanti le crisi economiche. La differenza è che a causarle non era l’uomo, ma la natura: se per un anno andava male il raccolto perché faceva troppo freddo, o troppo caldo, la popolazione non mangiava, le riserve alimentari scarseggiavano, e di conseguenza si sviluppavano le crisi sociali. No, la nostra domanda non è rivolta a fattori esterni al nostro sistema storico, ma a quelli interni: come afferma Wallerstein – e come lui diversi altri grandi politologi e storici del nostro tempo – il capitalismo ha millantato, fin dalla sua nascita, migliori condizioni di vita per gli individui, maggior ricchezza collettiva, maggior attenzione per i diritti umani e maggior libertà rispetto ai sistemi storici precedenti – sotto al capitalismo, infatti, si è sviluppata la democrazia, che per dirla alla Wallerstein sarebbe la massimizzazione della partecipazione ai processi decisionali a tutti i livelli sulla base dell’eguaglianza -. Promesse che, tuttavia, non poteva promettere, o quantomeno non a tutti.
Prima dell’avvento del capitalismo il divario tra ricchi e poveri, almeno materialmente, era di gran lunga maggiore rispetto ad oggi, ed il povero – ad esempio il contadino dell’Ancien Regime – viveva in condizioni di vita miserrime, mentre il ricco godeva dello sfarzo della sua incommensurabile ricchezza. Oggi questo squarcio tra ricco e povero pensiamo di averlo appiattito, e di aver diminuito drasticamente la disuguaglianza esistente al tempo del feudalesimo. In parte è vero, ma fondamentalmente è falso. Tendiamo infatti a considerare il nostro stile di vita un modello universalmente unico, per cui crediamo che gli agi di cui godiamo siano disponibili e accessibili a tutti. In realtà nel periodo capitalista ciò che abbiamo appiattito, come afferma Wallerstein, è il divario tra l’1% dei ricchi mondiali con il 15% della cosiddetta popolazione del ceto medio. La restante popolazione, l’84%, è stata resa dal capitalismo miserrima, e forse ancor più miserrima di quanto lo fosse il povero dell’Ancien Regime. Il fatto è che, tirando le somme, non consideriamo mai il capitalismo in termini globali, cioè valido per tutto il mondo. In quanto occidentali, viviamo tra quel 15% della popolazione mondiale, e tendiamo a tener presente solamente la nostra condizione di vita. In più il ricco odierno è potenzialmente di gran lunga più ricco del nobile dell’Ancien Regime, per il fatto che la ricchezza, un tempo, si misurava in possedimenti terrieri, mentre oggi in quantità di denaro. E si sa: la terra ha dei limiti fisici, l’accumulazione di denaro no. Dunque è vero che il capitalismo ha offerto maggior ricchezza rispetto ai sistemi passati? In parte sì, ma per la gran parte della popolazione è vero il contrario.

E che dire sul miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo? Nell’era premoderna il problema principale dell’umanità era la carestia, dovuta ai cambiamenti climatici che, come detto, annualmente colpivano la produzione di alimenti. Oggi, senza dubbio, i perfezionamenti tecnologici hanno protetto le zone del mondo dai capricci climatici, mentre i collegamenti stradali, navali e aerei hanno permesso agli alimenti di viaggiare più velocemente, di conseguenza di arrivare all’uomo con maggiore quantità e in minor tempo. Ma tuttavia ancora oggi si muore di fame. È incredibile come la Coca cola, infatti, arrivi negli angoli più remoti del mondo, come nei villaggi del Congo, dove ancora la mortalità è alta per mancanza di cibo. Vien da pensare, quasi spontaneamente, che in Africa si muoia di fame da sempre come se il problema, anziché esterno, derivasse da una peculiarità del territorio. Bisognerebbe invece avere il coraggio di dire che il dramma della fame in Africa è reale da quando gli europei lo hanno considerato un territorio depredabile. Il capitalismo ha prima reso miserrimi gli africani per poi tender loro la mano.
Ma poi, anche se nel medio termine le condizioni di vita dell’uomo fossero anche migliorate – considerando solo alcune zone del mondo -, che dire del lungo termine? A quale prezzo? Ad oggi, a quanto so, non siamo del tutto in grado di valutare il danno causato dal disboscamento delle foreste, dalla desertificazione delle savane e dall’inquinamento chimico-biologico, ma è a tutti noto che questi processi saranno un grave problema per l’umanità e la natura nel lungo periodo. Dunque è vero che il capitalismo ha offerto migliori condizioni di vita, ma questo è stato per una residua parte della popolazione mondiale, e comunque nel breve termine.

E che dire dei diritti e delle libertà, da sempre cavalli di battaglia del capitalismo? Siamo nel periodo fiorente della universalizzazione delle libertà, iniziato con la Rivoluzione Francese, cui il capitalismo (mi rifaccio sempre alle parole del sociologo Wallerstein) ha avuto il “merito” di averne promosso l’espansione. A parte che esportare la democrazia con la forza non fa parte, per così dire, di un gran concetto democratico della questione, e dunque non credo per nulla nella religione dei diritti esportati – ogni Nazione ha il dovere di rifilarsi la storia da se’, senza bisogno dei monopolisti della morale -, ma che pensare, tuttavia, al fatto che i diritti umani siano dolorosamente assenti nelle prassi reali del mondo? Ancora oggi, e soprattutto oggi, si combatte in Occidente per i propri diritti, che tendono ad essere ancora idealizzati e non realizzati, e comunque sia l’impressione è che siano maggiormente riconosciuti in alcune zone del sistema-mondo piuttosto che in altre, quasi come se alcuni non possano beneficiarne (Amnesty International non incontra difficoltà nello stilare lunghi elenchi di violazione di diritti in ogni parte del mondo). L’ipotesi, quasi sotto gli occhi di tutti, è che i diritti sembrano essere sacrosanti soltanto quando a goderne sono le zone centrali del sistema-mondo – ovvero quelle zone in cui il capitalismo si è sviluppato, come l’Occidente -, mentre le zone periferiche – i territori che il capitalismo l’hanno subito -, proprio in quanto tali, non hanno gli stessi diritti. Con ciò, in conclusione, non si vuole far credere che il capitalismo sia il “peggiore dei mondi possibili”: questo sistema storico si è offerto, anche prepotentemente, non a una parte della popolazione-mondo, ma al suo intero sistema, lasciando però a goderne soltanto una residua parte dello stesso.

di Marcello Frigeri

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07 marzo 2012

L'autunno freddo del capitalismo storico





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Al progredire dell’ennesima crisi economica, si fa sempre più spazio l’idea che la società odierna, per come la conosciamo, abbia raggiunto l’autunno della sua esistenza. Quasi senza accorgercene siamo entrati in una fase storica di transizione dal capitalismo – l’attuale sistema storico che, come tutti i sistemi storici ha avuto un inizio e, di conseguenza, avrà anche una fine – ad un nuovo sistema delle società. Ma la questione, oggi, non è tanto sapere cosa avverrà dopo – prevedere il futuro, diceva Weber, è per demagoghi -, altresì interrogarsi su quanto è stato, e chiedersi com’è stato.
La nostra società, cui il sistema storico, come detto, è quello capitalista – l’accumulazione senza fine di capitale -, è stata definita la “società del progresso”, sottintendendo il fatto che nessun altro sistema storico precedente è stato migliore di questo. Infatti, a ben guardare, la teoria del processo evolutivo afferma una cosa ben chiara: il sistema che viene dopo è sempre migliore di quello precedente. Quindi oggi il capitalismo costituirebbe un progresso rispetto al feudalesimo, ed essendo l’ultimo sistema storico della serie, non potrebbe che essere il “migliore dei mondi possibili”. Ma è davvero così?

Non la possiamo fare soltanto una questione di crisi economica: pur non potendo parlare di “borse” e di “mercati”, di inflazione e di spread, infatti, anche 500 anni fa in Europa erano determinanti le crisi economiche. La differenza è che a causarle non era l’uomo, ma la natura: se per un anno andava male il raccolto perché faceva troppo freddo, o troppo caldo, la popolazione non mangiava, le riserve alimentari scarseggiavano, e di conseguenza si sviluppavano le crisi sociali. No, la nostra domanda non è rivolta a fattori esterni al nostro sistema storico, ma a quelli interni: come afferma Wallerstein – e come lui diversi altri grandi politologi e storici del nostro tempo – il capitalismo ha millantato, fin dalla sua nascita, migliori condizioni di vita per gli individui, maggior ricchezza collettiva, maggior attenzione per i diritti umani e maggior libertà rispetto ai sistemi storici precedenti – sotto al capitalismo, infatti, si è sviluppata la democrazia, che per dirla alla Wallerstein sarebbe la massimizzazione della partecipazione ai processi decisionali a tutti i livelli sulla base dell’eguaglianza -. Promesse che, tuttavia, non poteva promettere, o quantomeno non a tutti.
Prima dell’avvento del capitalismo il divario tra ricchi e poveri, almeno materialmente, era di gran lunga maggiore rispetto ad oggi, ed il povero – ad esempio il contadino dell’Ancien Regime – viveva in condizioni di vita miserrime, mentre il ricco godeva dello sfarzo della sua incommensurabile ricchezza. Oggi questo squarcio tra ricco e povero pensiamo di averlo appiattito, e di aver diminuito drasticamente la disuguaglianza esistente al tempo del feudalesimo. In parte è vero, ma fondamentalmente è falso. Tendiamo infatti a considerare il nostro stile di vita un modello universalmente unico, per cui crediamo che gli agi di cui godiamo siano disponibili e accessibili a tutti. In realtà nel periodo capitalista ciò che abbiamo appiattito, come afferma Wallerstein, è il divario tra l’1% dei ricchi mondiali con il 15% della cosiddetta popolazione del ceto medio. La restante popolazione, l’84%, è stata resa dal capitalismo miserrima, e forse ancor più miserrima di quanto lo fosse il povero dell’Ancien Regime. Il fatto è che, tirando le somme, non consideriamo mai il capitalismo in termini globali, cioè valido per tutto il mondo. In quanto occidentali, viviamo tra quel 15% della popolazione mondiale, e tendiamo a tener presente solamente la nostra condizione di vita. In più il ricco odierno è potenzialmente di gran lunga più ricco del nobile dell’Ancien Regime, per il fatto che la ricchezza, un tempo, si misurava in possedimenti terrieri, mentre oggi in quantità di denaro. E si sa: la terra ha dei limiti fisici, l’accumulazione di denaro no. Dunque è vero che il capitalismo ha offerto maggior ricchezza rispetto ai sistemi passati? In parte sì, ma per la gran parte della popolazione è vero il contrario.

E che dire sul miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo? Nell’era premoderna il problema principale dell’umanità era la carestia, dovuta ai cambiamenti climatici che, come detto, annualmente colpivano la produzione di alimenti. Oggi, senza dubbio, i perfezionamenti tecnologici hanno protetto le zone del mondo dai capricci climatici, mentre i collegamenti stradali, navali e aerei hanno permesso agli alimenti di viaggiare più velocemente, di conseguenza di arrivare all’uomo con maggiore quantità e in minor tempo. Ma tuttavia ancora oggi si muore di fame. È incredibile come la Coca cola, infatti, arrivi negli angoli più remoti del mondo, come nei villaggi del Congo, dove ancora la mortalità è alta per mancanza di cibo. Vien da pensare, quasi spontaneamente, che in Africa si muoia di fame da sempre come se il problema, anziché esterno, derivasse da una peculiarità del territorio. Bisognerebbe invece avere il coraggio di dire che il dramma della fame in Africa è reale da quando gli europei lo hanno considerato un territorio depredabile. Il capitalismo ha prima reso miserrimi gli africani per poi tender loro la mano.
Ma poi, anche se nel medio termine le condizioni di vita dell’uomo fossero anche migliorate – considerando solo alcune zone del mondo -, che dire del lungo termine? A quale prezzo? Ad oggi, a quanto so, non siamo del tutto in grado di valutare il danno causato dal disboscamento delle foreste, dalla desertificazione delle savane e dall’inquinamento chimico-biologico, ma è a tutti noto che questi processi saranno un grave problema per l’umanità e la natura nel lungo periodo. Dunque è vero che il capitalismo ha offerto migliori condizioni di vita, ma questo è stato per una residua parte della popolazione mondiale, e comunque nel breve termine.

E che dire dei diritti e delle libertà, da sempre cavalli di battaglia del capitalismo? Siamo nel periodo fiorente della universalizzazione delle libertà, iniziato con la Rivoluzione Francese, cui il capitalismo (mi rifaccio sempre alle parole del sociologo Wallerstein) ha avuto il “merito” di averne promosso l’espansione. A parte che esportare la democrazia con la forza non fa parte, per così dire, di un gran concetto democratico della questione, e dunque non credo per nulla nella religione dei diritti esportati – ogni Nazione ha il dovere di rifilarsi la storia da se’, senza bisogno dei monopolisti della morale -, ma che pensare, tuttavia, al fatto che i diritti umani siano dolorosamente assenti nelle prassi reali del mondo? Ancora oggi, e soprattutto oggi, si combatte in Occidente per i propri diritti, che tendono ad essere ancora idealizzati e non realizzati, e comunque sia l’impressione è che siano maggiormente riconosciuti in alcune zone del sistema-mondo piuttosto che in altre, quasi come se alcuni non possano beneficiarne (Amnesty International non incontra difficoltà nello stilare lunghi elenchi di violazione di diritti in ogni parte del mondo). L’ipotesi, quasi sotto gli occhi di tutti, è che i diritti sembrano essere sacrosanti soltanto quando a goderne sono le zone centrali del sistema-mondo – ovvero quelle zone in cui il capitalismo si è sviluppato, come l’Occidente -, mentre le zone periferiche – i territori che il capitalismo l’hanno subito -, proprio in quanto tali, non hanno gli stessi diritti. Con ciò, in conclusione, non si vuole far credere che il capitalismo sia il “peggiore dei mondi possibili”: questo sistema storico si è offerto, anche prepotentemente, non a una parte della popolazione-mondo, ma al suo intero sistema, lasciando però a goderne soltanto una residua parte dello stesso.

di Marcello Frigeri

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