26 marzo 2012

Riflessioni contro la democrazia




Prima di intraprendere il discorso è necessario chiarire il titolo. Perché scrivere delle riflessioni contro la democrazia? Per due principali motivi: se la consideriamo come un dogma, ovvero un valore assoluto dal quale non si può trascendere, e dunque un regime di governo perfetto da difendere al costo di tacitare e, se necessario, eliminare chi non la pensa come noi -cioè l'antidemocratico-, allora l'uomo non saprà mai cogliere le imperfezioni di tale regime, condannandolo al ristagnamento. È certo infatti che l'antidemocratico perseguitato ed escluso non diventerà mai un liberaldemocratico. Può dunque valer la pena di mettere a repentaglio la democrazia facendo beneficiare di essa anche il suo nemico, se l'unica possibile alternativa è di restringerla sino a rischiare di soffocarla. Meglio una democrazia sempre sotto esame ma espansiva, che una democrazia protetta ma incapace di svilupparsi.
Il secondo motivo è che la democrazia attuale, in estrema sintesi, non è mai stata tale. Per meglio chiarire bisognerebbe guardare la faccenda da una visuale più ampia: come scriveva Rousseau nel "Contratto sociale" possiamo sostenere che l'uomo, per quanto ci provi, non raggiungerà mai una democrazia pura: essendo infatti il governo del pubblico sul pubblico richiederebbe l'attenzione dei cittadini 24 ore su 24. Scrive Rousseau: "non si può immaginare che il popolo resti continuamente adunato per attendere agli affari pubblici". Una democrazia perfetta richiede poi una piccola comunità: più è grande uno Stato maggiore sarà la difficoltà nel controllarlo.
Che fare dunque? La necessità sarà cercare di avvicinarsi maggiormente ad un certo tipo di democrazia che possa soddisfare il classico concetto del governo del pubblico sul pubblico, sempreché l’intenzione della società sia quella di vivere in democrazia.
Ora, individuato il fine resta da chiedersi: la democrazia attuale soddisfa tale necessità? Il potere politico, qualsiasi esso sia, destra o sinistra, ingannando il cittadino, risponderà di sì. E con quale tesi? Semplicemente sfogliando la Costituzione e rispondendo: "la sovranità appartiene al popolo, che la esercita attraverso l'elezione dei suoi rappresentanti: una testa uguale un voto". Sono grandi parole che non dicono nulla. Noi, in sostanza, non decidiamo le questioni, ma decidiamo chi decide le questioni. Ma non è tanto questo il guaio, pur essendo comunque una delega della sovranità, cioè un gap democratico: vivendo oggi in Nazioni che contano milioni di abitanti è infatti impossibile che un'intera società possa adunarsi per decidere le questioni, diventa quindi necessario scegliere un pugno di rappresentanti, chiamati a soddisfare le richieste dal basso, che si adunino in luoghi istituzionali e riconosciuti dal popolo, i parlamenti. Il vero guaio della democrazia contemporanea non è tanto chi decide, ma come si decide.
Diamo infatti per scontato, e assolutamente legittimo, che le decisioni sul nostro futuro provengano da luoghi al di fuori da quelli istituzionali. Oggigiorno il destino di uno Stato non è più deciso dalle sue forze politiche ma da tutt’altri poteri, i quali dettano legge nonostante non siano legittimati dal voto dei cittadini. Scrive Massimo Salvadori: “Uno dei primi atti che legittima o meno la formazione di un governo è la sua quotazione in borsa, vale a dire il gradimento o non gradimento da parte della finanza nazionale e internazionale”. Il potere oligarchico nella democrazia rappresentativa, in sintesi, è espressione delle multinazionali, i cosiddetti poteri forti, sottratte non solo al controllo dei cittadini, ma anche al controllo dei governi e dei parlamenti stessi. Viviamo, insomma, in una democrazia senza democrazia, o in una democrazia di subordinati, dove il nostro unico potere, quando in realtà in noi risiderebbe la sovranità assoluta e indivisibile, è il voto elettorale. L'unica facoltà che si lascia al cittadino è la scelta di chi lo comanda: in dittatura il tiranno s'impone con la forza, in democrazia, che se vogliamo è un tipo di dispotismo armonico e dolce, gli oligarchi sono scelti dal popolo. Qualcuno sosterrà che questa è una tesi fin troppo qualunquista, asserendo con forza che i partiti politici non sono tutti uguali, perché c'è chi pensa al bene comune e chi ai propri interessi. Bene, fermo restando che ogni partito tende a salvaguardare la volontà dei propri elettori, facendo del loro interesse quello generale, in realtà con questa tesi non si vuole sostenere che i partiti sono tutti uguali, altresì che è il sistema politico ad essere sbagliato.
Se è la democrazia che cerchiamo, allora è tempo di cambiarla, perché quella rappresentativa ha completamente esaurito il suo potere democratico. Paradossalmente c’era più democrazia nel primo sistema liberale, sorto con la “Gloriosa Rivoluzione”, di quanto ce ne sia oggi. Dico paradossalmente perché allora, nel ‘600, chi aveva il diritto di voto era soltanto il proprietario terriero, ovvero poco meno del 2% della popolazione, mentre il “Terzo Stato” non vantava alcun diritto politico. Ma quel 2%, a differenza di oggi, esercitava in maniera efficace la propria sovranità, anche perché allora non si parlava di “economie globali”, ma di “economie nazionali”, e dunque nessuna forza sovranazionale si permetteva di mettere il cappello sulle decisioni altrui, che erano affare del proprio governo.

Soluzioni? La democrazia dei nostri successori, per una legge dell'evoluzione che non si arresta mai, non sarà mai uguale a quella dei nostri predecessori: è necessario estendere la rappresentanza, cioè democraticizzare i grandi padroni dell'economia che oggi decidono, senza alcuna legittimità, le sorti del futuro mondiale (vedi la Bce). Ma ovviamente non basta, la necessità maggiore è insita nel nostro lontano passato: maggior partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Ne sanno qualcosa i vecchi ateniesi.
di Marcello Frigeri

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26 marzo 2012

Riflessioni contro la democrazia




Prima di intraprendere il discorso è necessario chiarire il titolo. Perché scrivere delle riflessioni contro la democrazia? Per due principali motivi: se la consideriamo come un dogma, ovvero un valore assoluto dal quale non si può trascendere, e dunque un regime di governo perfetto da difendere al costo di tacitare e, se necessario, eliminare chi non la pensa come noi -cioè l'antidemocratico-, allora l'uomo non saprà mai cogliere le imperfezioni di tale regime, condannandolo al ristagnamento. È certo infatti che l'antidemocratico perseguitato ed escluso non diventerà mai un liberaldemocratico. Può dunque valer la pena di mettere a repentaglio la democrazia facendo beneficiare di essa anche il suo nemico, se l'unica possibile alternativa è di restringerla sino a rischiare di soffocarla. Meglio una democrazia sempre sotto esame ma espansiva, che una democrazia protetta ma incapace di svilupparsi.
Il secondo motivo è che la democrazia attuale, in estrema sintesi, non è mai stata tale. Per meglio chiarire bisognerebbe guardare la faccenda da una visuale più ampia: come scriveva Rousseau nel "Contratto sociale" possiamo sostenere che l'uomo, per quanto ci provi, non raggiungerà mai una democrazia pura: essendo infatti il governo del pubblico sul pubblico richiederebbe l'attenzione dei cittadini 24 ore su 24. Scrive Rousseau: "non si può immaginare che il popolo resti continuamente adunato per attendere agli affari pubblici". Una democrazia perfetta richiede poi una piccola comunità: più è grande uno Stato maggiore sarà la difficoltà nel controllarlo.
Che fare dunque? La necessità sarà cercare di avvicinarsi maggiormente ad un certo tipo di democrazia che possa soddisfare il classico concetto del governo del pubblico sul pubblico, sempreché l’intenzione della società sia quella di vivere in democrazia.
Ora, individuato il fine resta da chiedersi: la democrazia attuale soddisfa tale necessità? Il potere politico, qualsiasi esso sia, destra o sinistra, ingannando il cittadino, risponderà di sì. E con quale tesi? Semplicemente sfogliando la Costituzione e rispondendo: "la sovranità appartiene al popolo, che la esercita attraverso l'elezione dei suoi rappresentanti: una testa uguale un voto". Sono grandi parole che non dicono nulla. Noi, in sostanza, non decidiamo le questioni, ma decidiamo chi decide le questioni. Ma non è tanto questo il guaio, pur essendo comunque una delega della sovranità, cioè un gap democratico: vivendo oggi in Nazioni che contano milioni di abitanti è infatti impossibile che un'intera società possa adunarsi per decidere le questioni, diventa quindi necessario scegliere un pugno di rappresentanti, chiamati a soddisfare le richieste dal basso, che si adunino in luoghi istituzionali e riconosciuti dal popolo, i parlamenti. Il vero guaio della democrazia contemporanea non è tanto chi decide, ma come si decide.
Diamo infatti per scontato, e assolutamente legittimo, che le decisioni sul nostro futuro provengano da luoghi al di fuori da quelli istituzionali. Oggigiorno il destino di uno Stato non è più deciso dalle sue forze politiche ma da tutt’altri poteri, i quali dettano legge nonostante non siano legittimati dal voto dei cittadini. Scrive Massimo Salvadori: “Uno dei primi atti che legittima o meno la formazione di un governo è la sua quotazione in borsa, vale a dire il gradimento o non gradimento da parte della finanza nazionale e internazionale”. Il potere oligarchico nella democrazia rappresentativa, in sintesi, è espressione delle multinazionali, i cosiddetti poteri forti, sottratte non solo al controllo dei cittadini, ma anche al controllo dei governi e dei parlamenti stessi. Viviamo, insomma, in una democrazia senza democrazia, o in una democrazia di subordinati, dove il nostro unico potere, quando in realtà in noi risiderebbe la sovranità assoluta e indivisibile, è il voto elettorale. L'unica facoltà che si lascia al cittadino è la scelta di chi lo comanda: in dittatura il tiranno s'impone con la forza, in democrazia, che se vogliamo è un tipo di dispotismo armonico e dolce, gli oligarchi sono scelti dal popolo. Qualcuno sosterrà che questa è una tesi fin troppo qualunquista, asserendo con forza che i partiti politici non sono tutti uguali, perché c'è chi pensa al bene comune e chi ai propri interessi. Bene, fermo restando che ogni partito tende a salvaguardare la volontà dei propri elettori, facendo del loro interesse quello generale, in realtà con questa tesi non si vuole sostenere che i partiti sono tutti uguali, altresì che è il sistema politico ad essere sbagliato.
Se è la democrazia che cerchiamo, allora è tempo di cambiarla, perché quella rappresentativa ha completamente esaurito il suo potere democratico. Paradossalmente c’era più democrazia nel primo sistema liberale, sorto con la “Gloriosa Rivoluzione”, di quanto ce ne sia oggi. Dico paradossalmente perché allora, nel ‘600, chi aveva il diritto di voto era soltanto il proprietario terriero, ovvero poco meno del 2% della popolazione, mentre il “Terzo Stato” non vantava alcun diritto politico. Ma quel 2%, a differenza di oggi, esercitava in maniera efficace la propria sovranità, anche perché allora non si parlava di “economie globali”, ma di “economie nazionali”, e dunque nessuna forza sovranazionale si permetteva di mettere il cappello sulle decisioni altrui, che erano affare del proprio governo.

Soluzioni? La democrazia dei nostri successori, per una legge dell'evoluzione che non si arresta mai, non sarà mai uguale a quella dei nostri predecessori: è necessario estendere la rappresentanza, cioè democraticizzare i grandi padroni dell'economia che oggi decidono, senza alcuna legittimità, le sorti del futuro mondiale (vedi la Bce). Ma ovviamente non basta, la necessità maggiore è insita nel nostro lontano passato: maggior partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Ne sanno qualcosa i vecchi ateniesi.
di Marcello Frigeri

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