18 marzo 2010
Lo sport più violento d'America? La politica
«Hem batteva a macchina stando in piedi, l'usava come un fucile, come un'arma. Le corride erano un punto di riferimento per qualsiasi altra cosa, gli stava tutto in testa come un blocco di sole o di burro: e lui lo trascriveva sulla carta. Quanto a me, le corse di cavalli mi fan capire dove sono forte e dove sono debole, sanno dirmi come mi sento quel giorno e come noi mutiamo e tutto muta, tutto il tempo, e quanto poco ne sappiamo di questo». Chissà se Hunter S. Thompson si sarebbe riconosciuto almeno un po' in questo ritratto con cui Charles Bukowski si è raccontato, rendendo omaggio a Ernest Hemingway, in Storie di ordinaria follia (Feltrinelli, 1975)? Lui che si è guadagnato da vivere per tanti anni facendo il giornalista sportivo e che ammetteva candidamente: «C'è stato un tempo, non molto lontano, in cui aspettavo le partite domenicali della National Football League con un'impazienza che mi stordiva, come una vacanza alle porte». Il football come la corrida?
Scomparso nel febbraio del 2005 alla soglia dei settant'anni in circostanze misteriose, Hunter Stockton Thompson è stato considerato negli Stati Uniti una delle figure più importanti e innovative del giornalismo, ma anche della letteratura, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta: è a lui che si deve il debutto del cosiddetto "gonzo journalism", uno stile che mescola volutamente fiction e realtà, reportage e inchieste rigorose con le più bizzarre invenzioni narrative. «Mi capitava di lavorare per tre giornali insieme. Scrivevo gli avvisi pubblicitari per i casinò e i bowling appena inaugurati. Facevo il consulente per il racket dei combattimenti fra galli, il critico gastronomico più corrotto dell'isola, il fotografo di yacht e la vittima preferita della polizia locale. Era un mondo avido e io ci sguazzavo. Ho fatto amicizia con un sacco di personaggi, avevo abbastanza soldi per spassarmela e ho capito un sacco di cose sul mondo che non avrei potuto imparare in nessun altro modo», racconta Thompson in Cronache del rum (Baldini Castoldi Dalai, 2007), diario del suo soggiorno portoricano della fine degli anni Cinquanta.
Nato nel 1937 a Louisville, nel Kentucky, Thompson ha attraversato la stagione della beat generation, è stato amico e collaboratore di Allen Ginsberg e William S. Burroughs, e delle controculture giovanili, sopravvivendo a fatica all'abuso di acidi e alcol e raccontando come l'America stava cambiando a un pubblico che, almeno in parte, era protagonista di quello stesso cambiamento: la generazione statunitense cresciuta tra l'inizio della guerra in Vietnam e lo scandalo del Watergate. Giornalista sportivo, tra New York e Puerto RIco, reporter d'attualità per Time , Rolling Stones , Esquire e The Nation , l'inquietudine di Thompson si incontra nelle sua pagine come nella sua biografia: dalla Grande Mela dei Fifties all'America Latina dei primi anni Sessanta, dalla California del tramonto degli hippy al nuovo sogno fricchettone della piccola comunità di Pitkin County, alle porte di Aspen, in Colorado, dove si trasferirà con la moglie all'inizio degli anni Settanta. Una vita vissuta tutto d'un fiato e "fino all'ultimo respiro", alla ricerca di sensazioni ma anche di verità. «L'editore sportivo mi aveva dato un anticipo di 300 dollari in contanti, la maggior parte dei quali era già stata spesa in droghe estremamente pesanti - scrive in Paura e disgusto a Las Vegas (Bompiani, 2000), resoconto del viaggio che il giornalista fece insieme al suo avvocato Oscar Acosta per seguire i lavori della conferenza antidroga dell'Associazione nazionale dei procuratori distrettuali - Il baule della macchina pareva un laboratorio mobile della narcotici. Avevamo due borsate di erba, settantacinque palline di mescalina, cinque fogli di Lsd super-potente, una saliera piena zeppa di cocaina, e un'intera galassia di pillole multicolori, eccitanti, calmanti, esilaranti... e anche un litro di tequila, uno di rum, una cassa di Budweiser, una pinta di etere puro e due dozzine di fiale di popper». Nel 1998 il regista Terry Gilliam ha tratto da quel libro il film Paura e delirio a Las Vegas , interpretato da Johnny Depp e Benicio Del Toro, entrambi amici personali di Thompson.
Così, nella produzione dell'inventore del gonzo journalism si trovano anche uno starordinario reportage sulle bande di motociclisti divenuti rapidamente i peggiori "folk devils" degli anni Sessanta, Hell's Angels (Baldini Castoldi Dalai, 2008) e Fear and Loathing on the Campaign Trail '72 , tutt'ora inedito nel nostro paese, un'antologia di articoli scritti per Rolling Stone durante la campagna elettorale di Richard Nixon. Il "Dr. Gonzo", come a volte si definiva Thompson, osservatore della politica americana non è certo da meno del reporter d'assalto in grado di provare sulla propria pelle tutto ciò di cui scrive. Dopo che lo scorso anno era uscito Meglio del sesso. Confessioni di un drogato della politica (Baldini Castoldi Dalai, pp. 344, euro 18.00) cronaca semiseria delle elezioni presidenziali americane del 1992 - di fronte alla possibile riconferma di George Bush Senior e all'ascesa del populista texano Ross Perot, Thompson decide di appoggiare il democratico Bill Clinton -, Fandango pubblica ora Hey Rube (pp. 290, euro 18,00) una raccolta di 83 articoli realizzati per l'omonima rubrica che Thompson ha tenuto per anni sul sito della testata sportiva Espn : un ritratto dissacrante dell'America dell'11 settembre e della prima presidenza di George W. Bush, alternato all'analisi del campionato di football e di basket, al racconto del circuito delle scommesse che ruota intorno alle partite e delle bevute con gli amici davanti alla tv, prima e dopo di ogni match.
Lucido e impietoso, Hunter S. Thompson affidava senza saperlo alla rubrica online quelle che possono essere considerate come le sue ultime parole. «Ammettiamolo: l'unico sport veramente violento in questo paese è la politica ad alti livelli. Puoi intrallazzare un po' con lo sport e col gioco in borsa, ma quando comincia a farti gola la Casa Bianca non si scherza più. Questa è gente che scommette sul serio, e non c'è nulla che non farebbe pur di vincere. Niente che abbia a che fare con sospensori e reggiseni sportivi gli potrà andare vicino per drammaticità, violenza, aggressività, e voglia esagerata di fare razzia dopo la vittoria... La presidenza degli Stati Uniti è il premio più ricco e influente nella storia mondiale. La differenza tra conquistare il Super Bowl e la Casa Bianca è la differenza che c'è tra un soldo di cioccolata e un caveau pieno di monete d'oro», scrive ne "Il morbo della Casa Bianca". Poco prima aveva assegnato il titolo di "porco della settimana" al democratico Al Gore, sconfitto da Bush nel 2000: «Gore verrà ricordato come lo sfortunato asino putrefatto che si è lasciato fregare la Casa Bianca da una banda di squallidi trafficanti di petrolio del Texas che non hanno promesso nulla a parte un mercato al collasso e pene pesanti per i pazzi degenerati che si dedicano al sesso orale sulle proprietà del governo Usa».
Non c'è che dire, per Thompson sembra valere per sempre l'inizio fulminante che Jack Kerouac affidò a I sotterranei (Feltrinelli, 1960): «Ero una volta giovane e aggiornato e lucido e sapevo parlare di tutto con nervosa intelligenza e con chiarezza»
di Guido Caldiron
I partiti si cambiano solo così
Lasciamo perdere, per un momento, la questione Berlusconi e le inaudite pressioni, intimidazioni, minacce che il presidente del Consiglio ha esercitato su un commissario dell'Authority per le Comunicazioni, Giancarlo Innocenzi, perché si desse da fare per chiudere Annozero, zittire Floris e la Dandini, impedire che vengano ospitati personaggi sgraditi al Cavaliere, come Ezio Mauro, Eugenio Scalfari, o, dio guardi, Antonio Di Pietro. «Se lei avesse un minimo di dignità dovrebbe dimettersi» ha sibilato Berlusconi a Innocenzi. Mentre è vero esattamente il contrario: se costui avesse avuto «un minimo di dignità» avrebbe dovuto mandare all'inferno l'energumeno ed eventualmente denunciarlo alla magistratura. Ma come avrebbe potuto il poveraccio? È un uomo di Berlusconi, è stato sottosegretario alle Comunicazioni in un suo governo e un suo dipendente quale Direttore dei servizi giornalistici Fininvest-Mediaset.
Ci sarebbe voluto non un coniglio, ma un samurai disposto al kharakiri per contrastare la violenza dell'energumeno e reggere una situazione talmente anomala, grottesca e pazzesca che non ha paragoni in alcun altro Stato al mondo, democratico o non democratico, tanto da far dire persino al Direttore generale della Rai, Masi, che «cose simili non si vedono nemmeno nello Zimbawe».
Ma lasciamo perdere la questione Berlusconi-Innocenzi-Minzolini non solo perché Il Fatto Quotidiano, oltre ad essere stato il primo a darne notizia la sta trattando con l'ampiezza che merita, ma perché ne presuppone un'altra.
Al di là dell'atteggiamento particolarmente spudorato e violento dell'energumeno, la domanda è: quale indipendenza può mai avere la Rai-Tv, Ente di Stato, e quindi di tutti i cittadini, quando il Consiglio di amministrazione è nominato dai partiti, il presidente pure, la Commissione di Vigilanza anche, l'Autority per le Comunicazioni e ogni altra Autority idem, quando non c'è dirigente, funzionario, conduttore di programmi, giornalista, usciere il cui posto di lavoro non dipenda dall'appartenenza a una qualche formazione politica, da un rapporto di fedeltà e sudditanza, più o meno mascherato, diretto o indiretto, a qualche partito o fazione di partito?
E la questione della Rai-Tv è solo la più emblematica e evidente dell'occupazione sistematica, arbitraria, illegittima che i partiti, queste associazioni private, hanno fatto di tutti gli apparati dello Stato, del parastato, dell'amministrazione pubblica, che poi ricade a pioggia anche sull'intera società (facciamo un esempio semplice semplice, tanto per capirci: a Firenze se sei architetto e non sei infeudato a sinistra non lavori).
Si parla tanto, di questi tempi, di riforme: istituzionali, costituzionali, della giustizia, eccetera. Ma la riforma più urgente, e principale, è quella dei partiti, nel senso di un loro drastico ridimensionamento, della loro cacciata da posizioni che occupano abusivamente, arbitrariamente, illegittimamente. Ma in democrazia solo i partiti possono riformare i partiti. E non lo faranno mai perché questo vorrebbe dire perdere il potere con cui condizionano l'intera società italiana, abusandola, stuprandola, ricattandola, richiedendo ai cittadini i più umilianti infeudamenti per ottenere, come favore, ciò che spetta loro di diritto.
Come se ne esce? Agli inizi degli anni Ottanta, quando l'abuso e il sopruso partitocratico era ancora, nonostante tutto,ben lontano da quello di oggi, Guglielmo Zucconi, direttore del Giorno, quotidiano appaltato alla Dc e al Psi, mi permise di scrivere nella mia rubrica, Calcio di Rigore, un articolo in cui invocavo provocatoriamente, per l'Italia, la soluzione che il generale Evren aveva adottato per la Turchia dove l'occupazione, la corruzione, il clientelismo dei partiti aveva raggiunto vertici intollerabili, ma comunque ancora lontani da quelli dell'Italia di oggi. Il generale Evren prese il potere, spazzò via tutta la nomenklatura partitocratica, e promise che, fatta una pulizia che in altro modo era impossibile, avrebbe restituito, entro cinque anni, il potere alle legittime istituzioni democratiche. Promessa che puntualmente mantenne. E oggi la Turchia, pur in mezzo alle mille contraddizioni di un Paese la cui realtà è resa difficile dalla presenza di una fortissima minoranza curda, è un Paese "normale" con una maggioranza, un'opposizione, un premier che rispetta le leggi e la magistratura, e partiti che stanno al loro posto e nel loro ruolo, che è quello di coagulare il consenso, e non esondano in tutta la società civile. Non è la Turchia che non ha i requisiti democratici per entrare in Europa. È l'Italia che non li ha più per restarci.
di Massimo Fini
17 marzo 2010
L’Europa si arrende agli speculatori
Se ne parlerà in una prossima riunione prima della fine della presidenza spagnola in giugno. La portavoce della presidenza Ue e il ministro spagnolo delle Finanze, Elena Salgado, presidente di turno dell’Ecofin, ha spiegato che la questione dei fondi speculativi è stato rimosso dall'agenda dei lavori per avere il consenso più ampio possibile. Si tratta infatti di mettersi d'accordo su una posizione generale dalla quale far partire i negoziati con il Parlamento europeo che dovrà dare semaforo verde al progetto.
E in tale sede nasceranno sicuramente ulteriori problemi che faranno in modo che se un testo di legge uscirà, esso sarà molto annacquato rispetto al testo iniziale. Anche a Strasburgo infatti operano indisturbate numerose lobby finanziarie che attraverso i soldi versati in ogni direzione indirizzano il voto dei gentili deputati, già ben predisposti in altri settori a sostenere gli interessi della grande industria. In particolare, per un settore che riguarda l’Italia, nel campo dell’alimentare dove la salvaguardia dell’agricoltura e dei prodotti tipici viene subordinata agli interessi dell’industria trasformatrice. Ma anche di quella chimica come dimostra il via libera della Commissione europea al via libera alla produzione di cibi OGM.
Ma la finanza resta il settore nel quale sono maggiori i guadagni per gli speculatori e per i loro amici politici. Quando si è cominciato a parlare in Europa di mettere un freno alle attività degli speculatori, siano essi banche o società finanziarie, subito da Washington e da Londra si è levato un intenso fuoco di fila.
Il segretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner aveva protestato la settimana scorsa affermando che le nuove regole avrebbero danneggiato le banche Usa compromettendo la loro capacità di fare affari con l'Europa. Insomma le banche americane non possono permettersi di vedersi porre veti. Uguale reazione da Londra con il Cancelliere dello Scacchiere, Alistair Darling, a difendere le banche di casa. Che diamine, era la loro reazione, la speculazione è una cosa troppo seria che va lasciata in mano ai soli speculatori. Come la Goldman Sachs (la banca cara a Romano Prodi e Mario Draghi) o George Soros e tutti gli altri banditi della sua risma. Si deve infatti ricordare sempre che sono state le banche e le società anglosassoni a scatenare la crisi finanziaria del 2008 con le loro speculazioni sui derivati e su altri consimili titoli spazzatura. Gli stessi speculatori che grazie a prestiti di centinaia di miliardi di dollari sono stati salvati dal fallimento da Barack Obama che solamente i soliti idioti di casa nostra o dell’Europa intera possono considerare ancora qualcosa di diverso dal suo predecessore. Così quando Geithner protesta con Bruxelles, è sicuro che delle sue rimostranze se ne terrà conto, perché l’Unione europea, che pure dovrebbe aspirare a recitare un ruolo forte e autonomo nel mondo, finisce per non fare altro che calarsi le braghe di fronte ai diktat degli Stati Uniti.
In tutta questa vicenda risalta ancora una volta l’incompatibilità della presenza della Gran Bretagna nell’Unione europea ed il suo conflitto di interesse con gli altri Paesi membri. Non si tratta solamente del fatto che Londra possa continuare a lasciare mano libera alle banche britanniche di speculare a loro piacimento, utilizzando i suoi paradisi fiscali europei come Jersey e Guernsey, ma c’è anche la questione dell’euro nel cui sistema Londra non ha mai avuto alcuna intenzione di entrare. Diciamo questo a prescindere da qualsiasi giudizio di valore o di merito sulla moneta unica. Si ripropone in tal modo in tutta la sua chiarezza il no che Charles De Gaulle oppose sempre all’entrata di Londra nella Comunità economica europea, Il Generale considerava infatti gli inglesi una testa di ponte degli americani per sabotare dal di dentro qualsiasi progetto comunitario che volesse trasformarsi in un progetto politico come quello de “L’Europa delle Patrie” da lui vagheggiato.
Nelle prossime settimane il commissario ai servizi finanziari, il francese Michel Barnier, partirà per gli Stati Uniti per discutere della questione centrale oggi sul tavolo, ossia l'accesso al mercato europeo dei gestori di fondi basati in Europa ma i cui capitali risiedono alle isole Cayman o in altri paradisi fiscali. Misure drastiche da parte della Ue potrebbero infatti spingere molti fondi a lasciare Londra, qui risiede circa l'80% di quelli più importanti, per stabilirsi in altri Paesi al di fuori della Ue, ad incominciare dalla in Svizzera. Barnier ha insistito sul fatto che la linea europea non è protezionista ma che semmai è in linea con gli orientamenti emersi all’ultima riunione del G20 e che quindi essa va nella direzione del rafforzamento della trasparenza e della responsabilità.
Giulio Tremonti, che da sempre attacca il modello anglosassone della finanza fine a se stessa e svincolata dall’economia reale, anche se non ha gradito il rinvio della discussione sulla direttiva per gli hedge fund, giudica però importante che la macchina si sia messa in movimento e che la sensibilità europea sul tema sia cambiata, considerato che anni fa una discussione simile con la Gran Bretagna sarebbe stata addirittura irrealistica.
Nel frattempo negli Stati Uniti, tanto per dimostrare chi comanda davvero, le grandi banche di investimento, nonostante le raccomandazioni in senso contrario dello stesso Barack Obama, hanno continuato nel 2009 a versare premi di produzione, i bonus, ai dirigenti responsabili delle speculazioni ma che sono riusciti a rimettere in sesto i conti grazie all’aiuto pubblico. Anche a Wall Street infatti si socializzano le perdite e si privatizzano i profitti.
di Filippo Ghira
18 marzo 2010
Lo sport più violento d'America? La politica
«Hem batteva a macchina stando in piedi, l'usava come un fucile, come un'arma. Le corride erano un punto di riferimento per qualsiasi altra cosa, gli stava tutto in testa come un blocco di sole o di burro: e lui lo trascriveva sulla carta. Quanto a me, le corse di cavalli mi fan capire dove sono forte e dove sono debole, sanno dirmi come mi sento quel giorno e come noi mutiamo e tutto muta, tutto il tempo, e quanto poco ne sappiamo di questo». Chissà se Hunter S. Thompson si sarebbe riconosciuto almeno un po' in questo ritratto con cui Charles Bukowski si è raccontato, rendendo omaggio a Ernest Hemingway, in Storie di ordinaria follia (Feltrinelli, 1975)? Lui che si è guadagnato da vivere per tanti anni facendo il giornalista sportivo e che ammetteva candidamente: «C'è stato un tempo, non molto lontano, in cui aspettavo le partite domenicali della National Football League con un'impazienza che mi stordiva, come una vacanza alle porte». Il football come la corrida?
Scomparso nel febbraio del 2005 alla soglia dei settant'anni in circostanze misteriose, Hunter Stockton Thompson è stato considerato negli Stati Uniti una delle figure più importanti e innovative del giornalismo, ma anche della letteratura, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta: è a lui che si deve il debutto del cosiddetto "gonzo journalism", uno stile che mescola volutamente fiction e realtà, reportage e inchieste rigorose con le più bizzarre invenzioni narrative. «Mi capitava di lavorare per tre giornali insieme. Scrivevo gli avvisi pubblicitari per i casinò e i bowling appena inaugurati. Facevo il consulente per il racket dei combattimenti fra galli, il critico gastronomico più corrotto dell'isola, il fotografo di yacht e la vittima preferita della polizia locale. Era un mondo avido e io ci sguazzavo. Ho fatto amicizia con un sacco di personaggi, avevo abbastanza soldi per spassarmela e ho capito un sacco di cose sul mondo che non avrei potuto imparare in nessun altro modo», racconta Thompson in Cronache del rum (Baldini Castoldi Dalai, 2007), diario del suo soggiorno portoricano della fine degli anni Cinquanta.
Nato nel 1937 a Louisville, nel Kentucky, Thompson ha attraversato la stagione della beat generation, è stato amico e collaboratore di Allen Ginsberg e William S. Burroughs, e delle controculture giovanili, sopravvivendo a fatica all'abuso di acidi e alcol e raccontando come l'America stava cambiando a un pubblico che, almeno in parte, era protagonista di quello stesso cambiamento: la generazione statunitense cresciuta tra l'inizio della guerra in Vietnam e lo scandalo del Watergate. Giornalista sportivo, tra New York e Puerto RIco, reporter d'attualità per Time , Rolling Stones , Esquire e The Nation , l'inquietudine di Thompson si incontra nelle sua pagine come nella sua biografia: dalla Grande Mela dei Fifties all'America Latina dei primi anni Sessanta, dalla California del tramonto degli hippy al nuovo sogno fricchettone della piccola comunità di Pitkin County, alle porte di Aspen, in Colorado, dove si trasferirà con la moglie all'inizio degli anni Settanta. Una vita vissuta tutto d'un fiato e "fino all'ultimo respiro", alla ricerca di sensazioni ma anche di verità. «L'editore sportivo mi aveva dato un anticipo di 300 dollari in contanti, la maggior parte dei quali era già stata spesa in droghe estremamente pesanti - scrive in Paura e disgusto a Las Vegas (Bompiani, 2000), resoconto del viaggio che il giornalista fece insieme al suo avvocato Oscar Acosta per seguire i lavori della conferenza antidroga dell'Associazione nazionale dei procuratori distrettuali - Il baule della macchina pareva un laboratorio mobile della narcotici. Avevamo due borsate di erba, settantacinque palline di mescalina, cinque fogli di Lsd super-potente, una saliera piena zeppa di cocaina, e un'intera galassia di pillole multicolori, eccitanti, calmanti, esilaranti... e anche un litro di tequila, uno di rum, una cassa di Budweiser, una pinta di etere puro e due dozzine di fiale di popper». Nel 1998 il regista Terry Gilliam ha tratto da quel libro il film Paura e delirio a Las Vegas , interpretato da Johnny Depp e Benicio Del Toro, entrambi amici personali di Thompson.
Così, nella produzione dell'inventore del gonzo journalism si trovano anche uno starordinario reportage sulle bande di motociclisti divenuti rapidamente i peggiori "folk devils" degli anni Sessanta, Hell's Angels (Baldini Castoldi Dalai, 2008) e Fear and Loathing on the Campaign Trail '72 , tutt'ora inedito nel nostro paese, un'antologia di articoli scritti per Rolling Stone durante la campagna elettorale di Richard Nixon. Il "Dr. Gonzo", come a volte si definiva Thompson, osservatore della politica americana non è certo da meno del reporter d'assalto in grado di provare sulla propria pelle tutto ciò di cui scrive. Dopo che lo scorso anno era uscito Meglio del sesso. Confessioni di un drogato della politica (Baldini Castoldi Dalai, pp. 344, euro 18.00) cronaca semiseria delle elezioni presidenziali americane del 1992 - di fronte alla possibile riconferma di George Bush Senior e all'ascesa del populista texano Ross Perot, Thompson decide di appoggiare il democratico Bill Clinton -, Fandango pubblica ora Hey Rube (pp. 290, euro 18,00) una raccolta di 83 articoli realizzati per l'omonima rubrica che Thompson ha tenuto per anni sul sito della testata sportiva Espn : un ritratto dissacrante dell'America dell'11 settembre e della prima presidenza di George W. Bush, alternato all'analisi del campionato di football e di basket, al racconto del circuito delle scommesse che ruota intorno alle partite e delle bevute con gli amici davanti alla tv, prima e dopo di ogni match.
Lucido e impietoso, Hunter S. Thompson affidava senza saperlo alla rubrica online quelle che possono essere considerate come le sue ultime parole. «Ammettiamolo: l'unico sport veramente violento in questo paese è la politica ad alti livelli. Puoi intrallazzare un po' con lo sport e col gioco in borsa, ma quando comincia a farti gola la Casa Bianca non si scherza più. Questa è gente che scommette sul serio, e non c'è nulla che non farebbe pur di vincere. Niente che abbia a che fare con sospensori e reggiseni sportivi gli potrà andare vicino per drammaticità, violenza, aggressività, e voglia esagerata di fare razzia dopo la vittoria... La presidenza degli Stati Uniti è il premio più ricco e influente nella storia mondiale. La differenza tra conquistare il Super Bowl e la Casa Bianca è la differenza che c'è tra un soldo di cioccolata e un caveau pieno di monete d'oro», scrive ne "Il morbo della Casa Bianca". Poco prima aveva assegnato il titolo di "porco della settimana" al democratico Al Gore, sconfitto da Bush nel 2000: «Gore verrà ricordato come lo sfortunato asino putrefatto che si è lasciato fregare la Casa Bianca da una banda di squallidi trafficanti di petrolio del Texas che non hanno promesso nulla a parte un mercato al collasso e pene pesanti per i pazzi degenerati che si dedicano al sesso orale sulle proprietà del governo Usa».
Non c'è che dire, per Thompson sembra valere per sempre l'inizio fulminante che Jack Kerouac affidò a I sotterranei (Feltrinelli, 1960): «Ero una volta giovane e aggiornato e lucido e sapevo parlare di tutto con nervosa intelligenza e con chiarezza»
di Guido Caldiron
I partiti si cambiano solo così
Lasciamo perdere, per un momento, la questione Berlusconi e le inaudite pressioni, intimidazioni, minacce che il presidente del Consiglio ha esercitato su un commissario dell'Authority per le Comunicazioni, Giancarlo Innocenzi, perché si desse da fare per chiudere Annozero, zittire Floris e la Dandini, impedire che vengano ospitati personaggi sgraditi al Cavaliere, come Ezio Mauro, Eugenio Scalfari, o, dio guardi, Antonio Di Pietro. «Se lei avesse un minimo di dignità dovrebbe dimettersi» ha sibilato Berlusconi a Innocenzi. Mentre è vero esattamente il contrario: se costui avesse avuto «un minimo di dignità» avrebbe dovuto mandare all'inferno l'energumeno ed eventualmente denunciarlo alla magistratura. Ma come avrebbe potuto il poveraccio? È un uomo di Berlusconi, è stato sottosegretario alle Comunicazioni in un suo governo e un suo dipendente quale Direttore dei servizi giornalistici Fininvest-Mediaset.
Ci sarebbe voluto non un coniglio, ma un samurai disposto al kharakiri per contrastare la violenza dell'energumeno e reggere una situazione talmente anomala, grottesca e pazzesca che non ha paragoni in alcun altro Stato al mondo, democratico o non democratico, tanto da far dire persino al Direttore generale della Rai, Masi, che «cose simili non si vedono nemmeno nello Zimbawe».
Ma lasciamo perdere la questione Berlusconi-Innocenzi-Minzolini non solo perché Il Fatto Quotidiano, oltre ad essere stato il primo a darne notizia la sta trattando con l'ampiezza che merita, ma perché ne presuppone un'altra.
Al di là dell'atteggiamento particolarmente spudorato e violento dell'energumeno, la domanda è: quale indipendenza può mai avere la Rai-Tv, Ente di Stato, e quindi di tutti i cittadini, quando il Consiglio di amministrazione è nominato dai partiti, il presidente pure, la Commissione di Vigilanza anche, l'Autority per le Comunicazioni e ogni altra Autority idem, quando non c'è dirigente, funzionario, conduttore di programmi, giornalista, usciere il cui posto di lavoro non dipenda dall'appartenenza a una qualche formazione politica, da un rapporto di fedeltà e sudditanza, più o meno mascherato, diretto o indiretto, a qualche partito o fazione di partito?
E la questione della Rai-Tv è solo la più emblematica e evidente dell'occupazione sistematica, arbitraria, illegittima che i partiti, queste associazioni private, hanno fatto di tutti gli apparati dello Stato, del parastato, dell'amministrazione pubblica, che poi ricade a pioggia anche sull'intera società (facciamo un esempio semplice semplice, tanto per capirci: a Firenze se sei architetto e non sei infeudato a sinistra non lavori).
Si parla tanto, di questi tempi, di riforme: istituzionali, costituzionali, della giustizia, eccetera. Ma la riforma più urgente, e principale, è quella dei partiti, nel senso di un loro drastico ridimensionamento, della loro cacciata da posizioni che occupano abusivamente, arbitrariamente, illegittimamente. Ma in democrazia solo i partiti possono riformare i partiti. E non lo faranno mai perché questo vorrebbe dire perdere il potere con cui condizionano l'intera società italiana, abusandola, stuprandola, ricattandola, richiedendo ai cittadini i più umilianti infeudamenti per ottenere, come favore, ciò che spetta loro di diritto.
Come se ne esce? Agli inizi degli anni Ottanta, quando l'abuso e il sopruso partitocratico era ancora, nonostante tutto,ben lontano da quello di oggi, Guglielmo Zucconi, direttore del Giorno, quotidiano appaltato alla Dc e al Psi, mi permise di scrivere nella mia rubrica, Calcio di Rigore, un articolo in cui invocavo provocatoriamente, per l'Italia, la soluzione che il generale Evren aveva adottato per la Turchia dove l'occupazione, la corruzione, il clientelismo dei partiti aveva raggiunto vertici intollerabili, ma comunque ancora lontani da quelli dell'Italia di oggi. Il generale Evren prese il potere, spazzò via tutta la nomenklatura partitocratica, e promise che, fatta una pulizia che in altro modo era impossibile, avrebbe restituito, entro cinque anni, il potere alle legittime istituzioni democratiche. Promessa che puntualmente mantenne. E oggi la Turchia, pur in mezzo alle mille contraddizioni di un Paese la cui realtà è resa difficile dalla presenza di una fortissima minoranza curda, è un Paese "normale" con una maggioranza, un'opposizione, un premier che rispetta le leggi e la magistratura, e partiti che stanno al loro posto e nel loro ruolo, che è quello di coagulare il consenso, e non esondano in tutta la società civile. Non è la Turchia che non ha i requisiti democratici per entrare in Europa. È l'Italia che non li ha più per restarci.
di Massimo Fini
17 marzo 2010
L’Europa si arrende agli speculatori
Se ne parlerà in una prossima riunione prima della fine della presidenza spagnola in giugno. La portavoce della presidenza Ue e il ministro spagnolo delle Finanze, Elena Salgado, presidente di turno dell’Ecofin, ha spiegato che la questione dei fondi speculativi è stato rimosso dall'agenda dei lavori per avere il consenso più ampio possibile. Si tratta infatti di mettersi d'accordo su una posizione generale dalla quale far partire i negoziati con il Parlamento europeo che dovrà dare semaforo verde al progetto.
E in tale sede nasceranno sicuramente ulteriori problemi che faranno in modo che se un testo di legge uscirà, esso sarà molto annacquato rispetto al testo iniziale. Anche a Strasburgo infatti operano indisturbate numerose lobby finanziarie che attraverso i soldi versati in ogni direzione indirizzano il voto dei gentili deputati, già ben predisposti in altri settori a sostenere gli interessi della grande industria. In particolare, per un settore che riguarda l’Italia, nel campo dell’alimentare dove la salvaguardia dell’agricoltura e dei prodotti tipici viene subordinata agli interessi dell’industria trasformatrice. Ma anche di quella chimica come dimostra il via libera della Commissione europea al via libera alla produzione di cibi OGM.
Ma la finanza resta il settore nel quale sono maggiori i guadagni per gli speculatori e per i loro amici politici. Quando si è cominciato a parlare in Europa di mettere un freno alle attività degli speculatori, siano essi banche o società finanziarie, subito da Washington e da Londra si è levato un intenso fuoco di fila.
Il segretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner aveva protestato la settimana scorsa affermando che le nuove regole avrebbero danneggiato le banche Usa compromettendo la loro capacità di fare affari con l'Europa. Insomma le banche americane non possono permettersi di vedersi porre veti. Uguale reazione da Londra con il Cancelliere dello Scacchiere, Alistair Darling, a difendere le banche di casa. Che diamine, era la loro reazione, la speculazione è una cosa troppo seria che va lasciata in mano ai soli speculatori. Come la Goldman Sachs (la banca cara a Romano Prodi e Mario Draghi) o George Soros e tutti gli altri banditi della sua risma. Si deve infatti ricordare sempre che sono state le banche e le società anglosassoni a scatenare la crisi finanziaria del 2008 con le loro speculazioni sui derivati e su altri consimili titoli spazzatura. Gli stessi speculatori che grazie a prestiti di centinaia di miliardi di dollari sono stati salvati dal fallimento da Barack Obama che solamente i soliti idioti di casa nostra o dell’Europa intera possono considerare ancora qualcosa di diverso dal suo predecessore. Così quando Geithner protesta con Bruxelles, è sicuro che delle sue rimostranze se ne terrà conto, perché l’Unione europea, che pure dovrebbe aspirare a recitare un ruolo forte e autonomo nel mondo, finisce per non fare altro che calarsi le braghe di fronte ai diktat degli Stati Uniti.
In tutta questa vicenda risalta ancora una volta l’incompatibilità della presenza della Gran Bretagna nell’Unione europea ed il suo conflitto di interesse con gli altri Paesi membri. Non si tratta solamente del fatto che Londra possa continuare a lasciare mano libera alle banche britanniche di speculare a loro piacimento, utilizzando i suoi paradisi fiscali europei come Jersey e Guernsey, ma c’è anche la questione dell’euro nel cui sistema Londra non ha mai avuto alcuna intenzione di entrare. Diciamo questo a prescindere da qualsiasi giudizio di valore o di merito sulla moneta unica. Si ripropone in tal modo in tutta la sua chiarezza il no che Charles De Gaulle oppose sempre all’entrata di Londra nella Comunità economica europea, Il Generale considerava infatti gli inglesi una testa di ponte degli americani per sabotare dal di dentro qualsiasi progetto comunitario che volesse trasformarsi in un progetto politico come quello de “L’Europa delle Patrie” da lui vagheggiato.
Nelle prossime settimane il commissario ai servizi finanziari, il francese Michel Barnier, partirà per gli Stati Uniti per discutere della questione centrale oggi sul tavolo, ossia l'accesso al mercato europeo dei gestori di fondi basati in Europa ma i cui capitali risiedono alle isole Cayman o in altri paradisi fiscali. Misure drastiche da parte della Ue potrebbero infatti spingere molti fondi a lasciare Londra, qui risiede circa l'80% di quelli più importanti, per stabilirsi in altri Paesi al di fuori della Ue, ad incominciare dalla in Svizzera. Barnier ha insistito sul fatto che la linea europea non è protezionista ma che semmai è in linea con gli orientamenti emersi all’ultima riunione del G20 e che quindi essa va nella direzione del rafforzamento della trasparenza e della responsabilità.
Giulio Tremonti, che da sempre attacca il modello anglosassone della finanza fine a se stessa e svincolata dall’economia reale, anche se non ha gradito il rinvio della discussione sulla direttiva per gli hedge fund, giudica però importante che la macchina si sia messa in movimento e che la sensibilità europea sul tema sia cambiata, considerato che anni fa una discussione simile con la Gran Bretagna sarebbe stata addirittura irrealistica.
Nel frattempo negli Stati Uniti, tanto per dimostrare chi comanda davvero, le grandi banche di investimento, nonostante le raccomandazioni in senso contrario dello stesso Barack Obama, hanno continuato nel 2009 a versare premi di produzione, i bonus, ai dirigenti responsabili delle speculazioni ma che sono riusciti a rimettere in sesto i conti grazie all’aiuto pubblico. Anche a Wall Street infatti si socializzano le perdite e si privatizzano i profitti.
di Filippo Ghira