18 gennaio 2008

I furbetti della porta accanto


Falsi invalidi, finti disoccupati, imprenditori-fantasma, malati immaginari, evasori totali, lavoratori in nero, affittuari abusivi, furbetti e furboni del Welfare all'italiana. Sono il primo gradino della Casta. Una moltitudine di piccoli predoni dello stato sociale, che l'opinione pubblica tende a perdonare per lo stesso vizio logico che ha portato la maggioranza degli italiani ad assolvere per più di trent'anni la più massiccia evasione fiscale del mondo occidentale: se una persona ruba un miliardo di euro, tutti lo chiamano ladro; ma se dieci milioni di cittadini sottraggono cento euro ciascuno, rischiano di vincere le elezioni.

Dietro tanti micro-ammanchi può esserci una triste e dolorosa guerra tra poveri, in lotta per redditi di sopravvivenza. Ma in molti altri casi c'è la storia di una truffa continuata e diffusa, un colpo colossale con una particolarità: ci sono tantissimi complici e nessuno conosce con certezza l'entità del bottino. In Gran Bretagna, il National Audit Office ha stimato, nel 2006, che l'insieme delle frodi al sistema di sicurezza sanitaria e pensionistica faccia sparire il 2,3 per cento della grande torta del Welfare.

Applicando lo stesso criterio statistico a un paese più simile all'Italia, come la Francia, l'ammanco raggiungerebbe i 19 miliardi di euro. Una montagna di soldi rubati alla parte più povera della popolazione. Milioni di micro-frodi che, messe insieme, riducono le risorse indispensabili ai veri bisognosi. Le vittime sono gli anziani, gli invalidi, i malati, i disoccupati. Una fetta d'Italia che in tempi di crisi economica rischia più di tutti. L'obiettivo di questa inchiesta giornalistica è misurare questo furto ai danni dei più poveri partendo dal basso, mettendo in fila dati concreti e documentabili.

Per capire come e perché può succedere che in Italia, ogni anno, spariscano non meno di 23 miliardi di euro. Prelevati dalle casse sempre più misere dello Stato sociale e riversati nelle tasche di troppi privilegiati. Quasi sempre impuniti, come se il problema sociale fossero loro, quelli che stanno al primo piano, e non quelli che sono costretti a vivere in cantina perché i signori del palazzo lasciano la casa in mano agli abusivi.



Il primo mattone di questo muro socio-economico è una cifra assurda: 379 mila. Sono le famiglie che continuano a ricevere pensioni che l'Inps non dovrebbe pagare per il motivo più ovvio: i soldi erano destinati ai vivi, ma in realtà i beneficiari sono tutti morti.

Il miracolo della resurrezione previdenziale si spiega con i cronici ritardi - di giorni, mesi o anni - nell'aggiornamento degli archivi degli enti pensionistici. Le anagrafi di molti comuni sono ancora cartacee e comunque non collegate con i computer dell'Inps. Per cui lo Stato continua a pagare le pensioni anche ai defunti. Il dato dei 379 mila morti assistiti è stato accertato dai finanzieri del Nucleo speciale spesa pubblica e sarà la base per la prossima, massiccia campagna di verifiche delle Fiamme gialle. Spiega il comandante del nucleo, il colonnello Fernando Verdolotti: "È una delle priorità assegnate alla Guardia di Finanza per il 2008. Anche per le pensioni indebite, come per l'evasione fiscale, c'è un danno economico che colpisce la generalità dei cittadini onesti. All'interno di questi 379 mila casi, il nostro compito è distinguere tra le inefficienze burocratiche e le vere e proprie truffe. Oltre alla repressione degli illeciti, i nostri controlli hanno una funzione di prevenzione".

Fra tanti ritardi, in Italia fisiologici, nelle registrazioni dei decessi, non mancano casi considerati 'patologici': il familiare che nasconde nel freezer il cadavere del compianto pensionato; la donna di Olbia che continua per sette anni a incassare tre pensioni a nome della madre morta nel 2000; il figlio che cerca di giustificarsi, tra le lacrime, giurando che nessuno gli aveva mai detto che suo padre era morto cinque anni fa.

Mentre i finanzieri indagano tra dolo, colpa o errore, la dimensione dello spreco, anzi del furto oggettivo di risorse, che in mancanza di correttivi continuerebbe a perpetuarsi, si può misurare moltiplicando il numero dei defunti per la pensione media pro capite (9.511 euro, secondo l'Istat).
Risultato: almeno tre miliardi e mezzo di euro rubati allo Stato sociale.

Lo stesso nucleo della Guardia di Finanza è specializzato nella lotta alle frodi economiche a sfondo sociale: raggiri, furberie e falsi che permettono a sedicenti imprenditori (e dipendenti) di intascare i sussidi pubblici stanziati per favorire lo sviluppo.

Anche questa è una grossa torta: 7 miliardi e mezzo di euro trasferiti ogni anno dallo Stato alle aziende private. E quasi il doppio versato da altri erogatori, dall'Unione europea alle regioni, province e comuni. Con questo secondo fronte di ruberie, il bottino delle frodi accertato dalle Fiamme gialle solo nei primi 11 mesi del 2007 sale a quota 1 miliardo e 936 milioni di euro. Soprattutto al Sud, le procure più attive indagano su montagne di soldi sprecati per opere mai (o mal) realizzate, dalle discariche ai depuratori. Meno conosciute, ma non meno dannose, sono le truffe economiche diffuse, ad esempio, nelle campagne. False imprese agricole che intascano veri contributi per assumere finti braccianti.

Il sussidio è Cosa Nostra
Tre siciliani creano tra Misilmeri e Vicari una rete di società agricole che beneficiano di contributi pubblici per tre milioni di euro. Il trucco centrale è la falsa assunzione di ben 340 braccianti che in verità non hanno mai lavorato. I soldi dei sussidi, secondo l'inchiesta dei pm Roberto Scarpinato, Sara Micucci e Marco Bottino, vengono moltiplicati finanziando prestiti a usura, garantiti da minacce e intimidazioni. Secondo l'accusa il capo, arrestato, era legato alla famiglia mafiosa di Villabate, la stessa che proteggeva Bernardo Provenzano. Questo metodo di arricchimento si è ramificato soprattutto in Puglia e in Sicilia. Da San Severo a Catania, da Ragusa a Cerignola, sono migliaia i casi documentati di finti braccianti che hanno fatto arrivare sussidi veri nelle tasche di falsi imprenditori. Che li ripagavano con carta, valida per incassare assegni familiari e indennità di disoccupazione.

L'agricoltura è in tutta Europa il settore produttivo più assistito. In Italia, tra sussidi statali ed europei (10 miliardi), agevolazioni contributive (2,7) e tasse ridotte anche sui carburanti, il bilancio degli aiuti supera i 15 miliardi di euro. Un miliardo e 800 milioni l'anno servono solo a far riposare i terreni: soldi per non far coltivare nulla. Almeno questo è sicuramente uno spreco legalizzato. E come tutti i paradossi agricoli ha come giustificazione dichiarata la tutela dell'ambiente; in realtà solo il 2 per cento dei contributi è collegato a obiettivi di riduzione dell'inquinamento, che spesso nessuno controlla. L'unico risultato effettivo è il sostegno dei prezzi, delle produzioni e degli imprenditori agricoli più forti. A danno dei contadini dei paesi in via di sviluppo, quelli che non hanno i soldi per i pesticidi, restano poverissimi e quindi emigrano in massa in un'Europa sempre più chiusa e impaurita. Magari nella Penisola dove regna l'economia nera: imprese totalmente sconosciute al fisco (8.262 quelle appena scoperte dalla Guardia di Finanza) e dipendenti senza alcun contratto o irregolari part-time. Il danno, in questo caso, è l'evasione di massa dei contributi, oltre che delle tasse: nessun versamento per le pensioni e la sanità.

In settori come l'edilizia o i laboratori tessili, la fatica e il bisogno bastano e avanzano a garantire il marchio di veri sfruttati, ad esempio, ai 269 lavoratori irregolari e ai 64 totalmente in nero scoperti in una cooperativa di facchinaggio di Pomezia. O alle migliaia di operai senza nessun contributo identificati nei cantieri di Torino (28 in nero su 36), Imperia (irregolari 23 ditte su 41), Treviglio (13 clandestini su 19 cinesi al lavoro all'una di notte) o Bitonto, dove 59 operaie di turno nel frastuono delle macchine per cucire diventano fantasmi appena arriva l'ispezione. Più furba che necessitata sembra invece l'evasione totale in discoteche e ristoranti. Due esempi fra tutti. A Pozzuoli il gestore del Bagdad Cafè (terza sala da ballo in tre mesi chiusa per lavoro nero) si è visto ritirare la licenza, peraltro scaduta da un anno, perché i 500 clienti, cioè il triplo della capienza teorica, erano serviti da 15 dipendenti tutti irregolari, che non facevano gli scontrini perché mancava anche il registratore di cassa. E nel quartiere di Santa Caterina a Bari, tra i 600 consumatori accalcati sulla pista, c'erano 13 fra cassieri, buttafuori, baristi e deejay tutti rigorosamente black, visto che il gestore non aveva neppure presentato la dichiarazione dei redditi. Tra il 2003 e il 2006 l'Inps ha recuperato 11 miliardi e 760 milioni di contributi non pagati. Nello stesso periodo controlli e incentivi hanno fatto emergere 130 mila aziende totalmente in nero e circa 300 mila lavoratori senza alcun contratto. Secondo una stima del 'Sole 24 Ore', l'evasione contributiva ancora sommersa resta mastodontica: 40 miliardi di euro. Nella civile Francia la Corte dei conti previdenziali (Cpo) ha calcolato nel 2007 una cifra compresa tra gli 8 e i 15 miliardi di euro. Applicando all'Italia la stima più prudente, come se da Milano a Napoli il tasso di legalità fosse lo stesso che tra Parigi e Lione, il risultato è che dalle casse dello Stato sociale mancano almeno altri otto miliardi: non proprio rubati, ma trattenuti alla fonte. Una salute tutta d'oro
La sanità, dopo le pensioni, è l'altra grande voragine dei conti pubblici: nel 2007 ha bruciato quasi 98 miliardi di euro. Le indagini giudiziarie, che devono fornire la prova certa di ogni singola truffa, offrono solo una cifra minima: frodi documentate per 67 milioni nei primi 10 mesi dell'anno scorso. Il campionario va dalle false esenzioni per i ticket, ai rimborsi gonfiati alle cliniche private, fino agli appalti truccati negli ospedali pubblici, in cambio di tangenti, nomine o voti. Ma quanto è grande la torta delle frodi sanitarie? L'unico termometro disponibile, per il momento, è la maxi-inchiesta sulla sanità lombarda: secondo la procura di Milano, risultano documentalmente false, cioè manipolate per gonfiare i contributi, oltre 80 mila cartelle cliniche. Un'alluvione di truffe private, che prima dei blitz giudiziari erano favorite anche dalla strana abitudine dei controllori pubblici, selezionati dalla giunta Formigoni tra i più meritevoli, di esaminare solo un documento su 20 e, per correttezza, di preavvisare le strutture private con almeno 48 ore di anticipo. Il totale delle cartelle da esaminare è di otto milioni e la Guardia di Finanza è a metà dell'opera. Ammesso che i futuri controlli non riservino altre sorprese, ne risulta una quota di frodi dell'1 per cento. Questo, in Lombardia. Applicando la stessa forbice al resto d'Italia, dai rimborsi alle cliniche siciliane alle forniture agli ospedali liguri, e tenendo conto che nel 2008 la spesa sanitaria pubblica salirà a 101 miliardi, si può ritagliare una stima credibile di almeno 1 miliardo di euro.

L'invalido con dieci targhe
Attorno al pianeta salute ruotano altri satelliti eccentrici. Tra i veri e sfortunati non vedenti, che sicuramente meriterebbero aiuti più generosi, le Fiamme Gialle hanno scoperto circa 200 posizioni quantomeno dubbie: persone che dichiarano una cecità totale, ma hanno rinnovato la patente e in qualche caso pure il porto d'armi. Ma ci sono anche abusi commessi sulla base di reali invalidità. Una legge di fine anni '90 garantisce l'abbattimento dell'Iva (dal 20 al 4 per cento) per l'acquisto di auto adattate ai disabili. Una modifica successiva ha esteso il beneficio ai mezzi di trasporto (senza modifiche) per gli invalidi psichici. Risultato: centinaia di invalidi sono diventati d'incanto titolari di interi garage familiari. E in qualche caso la famiglia è molto allargata: a Bologna è stato scoperto un invalido con dieci targhe. Utilitarie, berline, fuoristrada e moto, tutte intestate al parente in carrozzella. Secondo l'Agenzia delle Entrate, solo questo trucchetto dell'Iva scontata ci costa più di 200 milioni di euro all'anno.

Per fermare l'avanzata dell'esercito dei furbi, dieci anni fa una legge ha cercato di imporre un mezzo di prova dell'effettivo stato di bisogno. Assodato che in Italia l'evasione fiscale è massiccia, oltre ai redditi va dichiarato il patrimonio immobiliare e i depositi bancari. Il discorso vale per un terzo delle prestazioni sociali tipiche: circa 10 miliardi su 30. Il sistema si chiama Isee ossia Indicatore della situazione economica equivalente (vedi box a pag. 30) e vale soprattutto per il welfare locale: esonero dei ticket sanitari (in Veneto e Sicilia), sussidi scolastici, assegni familiari, aiuti per la casa. Secondo l'ultimo rapporto sull'Isee (2006), questo misuratore della ricchezza familiare interessa un italiano su cinque: oltre 11 milioni di individui, ovvero 3 milioni e 667 mila famiglie.

La Sicilia dei record
Il problema è che il sistema si basa sull'autocertificazione. E per il popolo dei piccoli e grandi evasori, nascondere i soldi resta una tentazione irresistibile. L'indizio più vistoso, di per sè, dice poco: al Sud si concentrano 2 milioni e 433 mila 'famiglie Isee', cioè due volte la quota del centro-nord, che ha il doppio della popolazione. Ma questo può voler dire solo che nel Mezzogiorno c'è più disoccupazione e meno ricchezza. I problemi cominciano quando si dividono le cifre. In Sicilia l'Isee ha fatto boom (il ministero denuncia una crescita 'abnorme') solo quando la Regione ha collegato a questo indicatore l'esenzione dai ticket sanitari. Sempre al Sud, solo tre regioni hanno più di un terzo di famiglie di 'livello Isee', con differenze singolari: la Calabria ne ha meno della Campania (36,8%) e molte meno della Sicilia, che ha il record nazionale del 57 per cento. Invece al Centro le famiglie presunte bisognose sono una su otto, al Nordest una su dieci, al Nordovest una su dodici.
(17 gennaio 2008)
Ma a far pensare che l'inventiva italiana sia riuscita a beffare anche l'Isee sono altri tre incidenti statistici. Primo guaio: per le famiglie che non hanno una casa in proprietà, la legge consente di abbassare l'autocertificazione sottraendo gli affitti. Ovviamente bisogna che i contratti siano registrati. E per chi incassa gli affitti, addio Isee. Ebbene, nel Settentrione sono meno di un quinto le 'famiglie Isee' che non possiedono case ma non pagano nemmeno affitti, evidentemente perché vivono gratis in alloggi di parenti o come usufruttuari: 18,4 per cento nel Nordovest, 16,1 nel Nordest. Al Centro la quota sale al 25,7 per cento. Al Sud schizza al 39,6. Quindi, delle due l'una: o al Sud si concentrano più di tre milioni di ospiti gratuiti di case altrui, oppure è altissima la percentuale di affitti in nero. E di proprietari di case che, oltre a evadere le tasse, possono continuare a dichiararsi bisognosi di assistenza. A spese degli inquilini.

La variabile geografica sembra influenzare anche il lavoro nero. Tra i 3,6 milioni di 'famiglie Isee', quelle che non hanno neppure un occupato in età da lavoro sono il 16 per cento, come media nazionale. Ma nel Mezzogiorno la percentuale sale al 40. Solo disoccupazione vera o anche lavoro nero?

Per i depositi bancari (e per i patrimoni mobiliari) il divario tra Nord e Sud è tanto alto da sembrare indecente agli stessi tecnici del ministero della solidarietà sociale, decisi a impedire che i furbi erodano le risorse destinate ai più poveri. Al Nord, circa metà delle 'famiglie Isee' confermano di avere un conto in banca. Al Sud solo il 2,3 per cento. Al Nord il 10 per cento ammette di avere depositi bancari superiori alla franchigia annua di 15 mila euro. Al Sud solo lo 0,5 per cento. La conclusione del ministero, nel rapporto Isee 2006, è che la frode sociale è un fenomeno di 'notevole diffusione'. Soprattutto perché i 'controlli di veridicità risultano estremamente difficili dato il ritardo nella messa in opera dell'anagrafe dei conti bancari'. Proprio l'anonimato delle ricchezze e dei depositi, difeso con i denti anche da legioni di commercialisti del ricco Nord, finisce così per funzionare come un 'incentivo a rimanere nel sommerso'. Con l'effetto di accorciare quella coperta che dovrebbe proteggere le famiglie, del Nord come del Sud, 'effettivamente molto povere'. E che lo diventeranno ancora di più se il 2008 sarà l'anno della temuta recessione mondiale.

Anche la terza mina nei conti del Welfare locale è il riflesso delle storiche furberie fiscali. Il dato grezzo è che tra le 'famiglie Isee', tanto per cambiare, i lavoratori dipendenti risultano più benestanti degli autonomi: i salariati avrebbero il 20 per cento di ricchezza in più. Questo risultato è l'incrocio tra due dati tanto opposti da sembrare quasi comici. Primo mistero (doloroso): i lavoratori autonomi dichiarano due terzi del reddito dei dipendenti, che notoriamente non possono evadere perché pagano le tasse alla fonte. Secondo mistero (gaudioso): gli autonomi in compenso dichiarano un patrimonio medio più che doppio dei lavoratori dipendenti (per l'esattezza, 2,3 volte superiore). Ma allora come hanno fatto i soldi? Tutte eredità e lotterie? L'intera catena di anomalie statistiche, a conti fatti, mette in dubbio la regolarità di almeno un quinto delle prestazioni sociali misurate dall'Isee (per non parlare di tutte le altre, che continuano a basarsi solo sui redditi dichiarati): un bottino da almeno due miliardi di euro.

La mina sotto il Welfare
Il direttore dell'Agenzia delle Entrate, Massimo Romano, è perfettamente consapevole della gravità del problema. E spiega a 'L'espresso': "Finora ci si era illusi che potessero bastare i controlli successivi alle dichiarazioni Isee. Dal luglio prossimo dovrebbe finalmente entrare in vigore una nuova norma che ci consentirà di organizzare i controlli preventivi. Redditi, immobili, patrimoni mobiliari: sono tutti dati che l'amministrazione pubblica già possiede. Si tratta solo di metterli insieme. E l'informatica ci aiuta".
"Una rete di controlli effettivi e capillari non indebolisce lo Stato sociale, ma al contrario lo rafforza", sottolinea Raffaele Tangorra, direttore generale del ministero della solidarietà sociale: "I controlli servono proprio a garantire la parte più povera della popolazione, a evitare che le prestazioni sociali vengano dirottate con comportamenti opportunistici". Più legalità, più giustizia.

Il romanzo delle piccole e grandi frodi sociali potrebbe continuare ancora a lungo, ma il capitolo finale va senz'altro dedicato alla micro-truffa più diffusa in tutte le età e classi socialie: alzi la mano chi non si è mai dato malato per saltare un giorno di scuola o di lavoro. Secondo il presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, "l'assenteismo nel pubblico impiego ci costa quasi un punto di Pil: 8,3 miliardi negli enti centrali, 5,9 in quelli locali". I tecnici del ministero dell'Economia hanno sorriso sentendo Montezemolo citare come esempio alcune amministrazioni che in realtà non controllano le presenze, ma il numero di buoni pasti ritirati, di modo che l'assentetista non solo resta impunito, ma si fa pure pagare il pranzo. Il baratro fra lavoro privato e pubblico, però, è indiscutibile: nelle assenze per malattia, c'è un rapporto è di 1 a 4. Fra i 3 milioni e 612 mila dipendenti statali, le sparizioni dal lavoro per motivi diversi dalle ferie (permessi, scioperi e, appunto, malattie) sono state, in media, 22,7. I giorni saltati, sempre nel 2006, diventano 26,3 nelle agenzie fiscali, 28,9 nella sanità, 31,6 negli enti di ricerca, addirittura 65 al ministero della Difesa.

Ma anche per gli statali generalizzare è sbagliato. Uno studio dell'Agenzia delle entrate sui giorni di malattia dimostra che più di un terzo del personale (37%) in realtà non manca mai dal lavoro. E un altro terzo (34%) fa meno assenze della media. In pratica è il 29 per cento dei dipendenti fiscali a consumare quasi tutto il monte-malattie. Con grandi differenze tra gli stessi malati cronici, che sono solo il 10 per cento dei funzionari in Alto Adige, il 20 in Veneto, il 33 in Puglia e in Molise, 36 in Campania, 38 nel Lazio, 40 in Sicilia e quasi la metà (44%) in Calabria.

I controlli sulle assenze sono affidati ai medici fiscali, che di regola non organizzano visite prima di tre giorni. Mentre i medici di famiglia tendono a certificare le malattie dichiarate dai pazienti, da cui dipendono anche i loro stipendi. Applicando a tutta Italia i dati (prudenti) dell'Agenzia delle entrate, si può concludere che le malattie di comodo sono un problema innegabile per circa un terzo dei funzionari e per un mese di stipendio. Visto che la spesa pubblica per il personale statale è di 162 miliardi e 711 milioni di euro, il costo dell'assenteismo pubblico è sicuramente superiore a 4 miliardi e mezzo di euro. Fuori da ogni controllo restano entità come la Regione Sicilia: per i 14.291 dipendenti stabili, 5455 contratti a termine e 702 lavoratori socialmente utili (dati di fine 2006, gli unici pubblicati per vie traverse) l'amministrazione guidata da Totò Cuffaro non ha neppure trasmesso i dati sulle assenze alla Ragioneria generale dello Stato.
Paolo Biondani

17 gennaio 2008

Mastella il nuovo Chiesa: «Malcostume» o «Reato»?




Penso che Mastella e ciò che rappresenta debba sparire dalla vita pubblica.
Con tutti i mezzi.
Ma difendere De Magistris e simili, nemmeno.
Perché penso quello che ha finalmente detto anche la Boccassini: «Una corporazione ripiegata su se stessa», che «non ha mai fatto autocritica», che «non ha il coraggio di guardare dentro se stessa», che non pretende da tutti «professionalità, rigore, indipendenza, autonomia».
Che fa, insomma, «come fanno i napoletani con la monnezza: la colpa è sempre degli altri, loro non c’entrano mai».
Insomma: lo stesso spirito di casta anima la magistratura e i politici di mestiere.
Stessa mentalità.
Stesso malcostume.
Stesso disprezzo per i principi del diritto e per i cittadini.
E soprattutto, la conseguenza di tutti questi atteggiamenti, vera tragedia italiota: la perdita di ogni autorità morale.
Che è essenziale per governare, molto più di quel che si creda.

Una delle accuse a Mastella & signora sarebbe quella di aver minacciato Bassolino: ti tolgo l’appoggio e così ti faccio cadere, se tu non ti prendi come assessore uno dei miei.
Ebbene?
Lo fanno tutti, si sbracciano a dire tutti i politici.
Formigoni e Prodi, Fini e Larussa, fate voi altri nomi, quando sono in una coalizione di governo fanno il mercato delle vacche, esercitando, se occorre, il ricatto; si accaparrano posti, forniscono appalti lucrosi agli amici, mettono a dirigere le municipalizzate e le ASL i loro candidati trombati, si scambiano favori e persino veline TV.
Che male c’è?
E’ «un malcostume, ma non è un reato».
Questa distinzione tra «malcostume» e «reato» l’hanno evocata anche quelli che prendono un poco le distanze da Mastella.
Ed è questo il segno della bassezza morale cui siamo caduti.
Se non vi rivoltate a questa distinzione, siete degradati moralmente anche voi.
Mastella fa come tutti gli altri?
Eh no, c’è una differenza di grado.

Egli ha fondato un suo partito personale, che non usa il «malcostume» come mezzo, ma come scopo finale.
Che ha il clientelismo come unico fine dichiarato, e arrogantemente dichiarato.
Ovviamente, è l’accettazione corrente del «malcostume» che glielo ha consentito.
Basta non avere alcuno scrupolo, e specie nel Meridione, ti puoi costituire un partito locale fatto di elettori che ti devono qualcosa, e che perdono qualcosa se tu non sei al potere: una base microscopica come quella di Ceppaloni, ma solidissima.
Da qui, con l’1%, puoi diventare ministro.
Restando nello stesso tempo sindaco di Ceppaloni, e mettendo la moglie alla presidenza della Regione.
Il sistema elettorale è fatto apposta per questo.
Premia chi ha pochi voti in un territorio concentrato, anche piccolo: voti che, ovviamente, vengono da favori fatti.
Non esiste un collegio unico nazionale dove possano presentarsi progetti nazionali, idee, menti intellettuali capaci di pensare in grande.
Da noi un filosofo non può entrare in parlamento, perché non ha posti da dare.
Non può uno scrittore e saggista, che ha magari un milione di lettori, però sparsi nel territorio nazionale.

Può Mastella.
Che io considero un delinquente molto più di quanto appaia ai media: un delinquente politico.
Uno che ha trasformato uno dei mezzi della politica nel suo unico fine.
Ciò dovrebbe essere vietato, perché ci trascina giù tutti, di livello in livello: fino alle montagne di monnezza, alla rovina economica di una nazione intera che manda un’immagine di sporcizia e malcostume invincibile.
Certo che questi scostumati non commettono «reati»: anzitutto perché le leggi se le fanno loro, e decidono loro cos’è la «legalità».
Ma in termini di giustizia, di diritto naturale, essi rubano denaro dei contribuenti.
A questo si riducono le loro trame e manovre, a furto di denaro pubblico.
Non lo fanno (sempre) in modo diretto, intascandosi i soldi.
Lo fanno quando assegnano una poltrona da 400 mila euro di stipendio non a un competente ma a un «cliente» partitico.
Ciò non è reato.
Viene inteso come «malcostume».
Ma quando il «malcostume» è la regola, quando è diventato così comune che il sistema lascia crescere il sindaco di Ceppaloni fino a ministro della Giustizia; quando nessun gruppo o coalizione si vergogna di avere l’appoggio di un Mastella, qui è il problema.
Un problema che supera di molto la «legalità».
Mastella, semplicemente, non ha la credibilità per governare la magistratura.

Quando fa trasferire un magistrato discusso dai suoi stessi colleghi, com’è sua prerogativa di ministro, è inevitabile che tutti si chiedano se non lo fa per impedire indagini su malversazioni e «malcostume», che è l’unica cosa per cui - per sua ammissione - è al potere.
E così lo Stato cessa di funzionare, in una marea di veleni e sospetti: che non si sa più nemmeno quanto siano giustificati, e quanto inventati.
Ecco perché Mastella non doveva pretendere la Giustizia (se avesse avuto qualche decenza); e una volta avutala, doveva dimettersi dopo che si è scoperto che era inquisito dai magistrati che ha ordinato di trasferire.
Qui il «malcostume» diventa qualcosa di peggio, e mi stupisco che non si capisca: è un ministro che perde il diritto a compiere i suoi atti d’ufficio, di cui lo investe l’autorità dello Stato, perché la sua personale autorità è quella di un piccolo ricattatore di paese.
Nel diritto naturale, questo configura vilipendio dello Stato.
Della cui autorità tutti abbiamo bisogno.

Può configurare anche un golpe: non un golpe alla Pinochet, dove un corpo dello Stato impone la sua visione del progetto nazionale con la forza, ma peggio: il golpe di una cosca, attuato allo scopo di mettere parenti e amici e clientes ai posti che contano.
Per un Paese, subire un golpe coi carri armati in strada non è necessariamente una vergogna: si cede a una forza reale, che può ucciderti.
Ma farsi governare dalla norma non scritta del «malcostume», che è il contrario della lealtà, perché ha preso il potere un sindaco mafiosetto di mezza tacca, questa sì è una vergogna.
Ma questo non significa che difendo De Magistris.
Anche lui, come tanti magistrati, pratica il «malcostume»: fa appello alle folle (di Santoro) portando le indagini in piazza.

Quella magistratura intercetta tutto e tutti non da notizia di reato, ma per cercare, con registrazioni di mesi, se parlando quei conversatori commettono un reato.
E’ molto diverso.
Anzi, spiare migliaia di persone per vedere se commettono reati, è il contrario della giustizia.
Peggio ancora se quei magistrati danno adito al sospetto di utilizzare i mezzi di cui l’autorità dello Stato li fornisce, per colpire una parte politica e favorirne un’altra: com’è accaduto in Mani Pulite.
Chiunque sa che mettendo sotto controllo per mesi i telefoni di gente che crede di parlare in privato, si possono ascoltare spropositi, volgarità, segreti ripugnanti: basta farlo abbastanza a lungo, e il gioco è fatto.
Se poi non risulta alcun reato, si possono sempre passare ai giornalisti amici, perché le diffondano, quelle parti più grassocce e ripugnanti delle conversazioni tra privati.
In modo, se non si riesce a incarcerare l’avversario, da sputtanarlo.

Sono le fughe di notizie: e chi le dà ai giornalisti?
I magistrati, è ovvio.
E’ un reato, ma per accertarlo ci vorrebbero altri magistrati, che mai e poi mai hanno condannato un loro collega di casta per violazione di segreto istruttorio.
Si accetta questo reato come «malcostume».
Ma qual è la conseguenza?
Che quando un magistrato apre un’inchiesta su un ministro, magari il suo ministro, e un personaggio dei più loschi - anche se ne ha motivi autenticamente gravi - può essere accusato di agire per interessi di casta ed odio di parte, di cui ha dato abbondanti prove in precedenza.
Insomma: anche lui ha perso l’autorità morale per compiere gli atti del suo ufficio.
Esattamente come Mastella non ha autorità morale per esercitare gli atti di ministro.
Ho sentito che il leghista Castelli, nel periodo in cui è stato ministro della Giustizia, ha ricevuto una quarantina di avvisi di reato: evidentemente da magistrati che s’erano messi in testa di farlo cadere, o anche solo di esibire il loro odio per la sua parte politica e le «riforme» che questa minacciava
(e non ha fatto).
Motivazioni serie, fattispecie penali non ce n’erano, perché appena Castelli ha perso il posto ministeriale, quelle inchieste sono finite nel nulla.
Volevano solo impedirgli di governare, di esercitare il mandato che gli aveva dato il popolo col voto.
Ci sono riusciti.

Insomma: magistratura e politicanti sono due caste eguali.
A volte contrapposte, ma per interessi di casta.
E il risultato è che, a forza di «malcostume», lo Stato non funziona, e diventa quel teatrino di sospetti e nido di veleni in cui consiste la «politica» in Italia.
Tutto perché tolleriamo il «malcostume», purchè non sia «reato».
E’ una mentalità.
Da cui dobbiamo liberarci noi, ma soprattutto i magistrati.
Proprio perché ci sarebbe bisogno di loro contro i Mastella, ma non possiamo fidarci di loro per la loro mentalità.
Questa mentalità è una cancrena inestirpabile.
L’ha dimostrato la stessa Boccassini, quando giorni fa ha svuotato il sacco contro i colleghi (non aveva ricevuto una promozione): la magistratura è politicizzata, la magistratura applica le leggi in modo diverso ad «amici» e nemici, la magistratura è piena di improduttivi («fancazzisti»), ci sono casi di corruzione, i magistrati si promuovono da sé secondo logiche di corrente e di fazione.
Ma poi, subito dopo, la Boccassini ha aggiunto: «C’era una attenuante, fino a qualche tempo fa, quando il governo Berlusconi aveva dichiarato guerra alla magistratura e dunque l’esigenza primaria era quella di difendersi coi denti, oggi quell’attenuante non vale più».
Capito?

Dice, la procuratrice, che avevano usato mezzi extralegali, fughe di notizie, violazioni del segreto istruttorio, apparizioni in TV, insomma il «malcostume» e l’abuso di potere, perché «Berlusconi aveva dichiarato guerra alla magistratura, e bisognava difendersi coi denti».
Concepisce la sua azione contro Berlusconi come una difesa della sua corporazione, e come una battaglia politica.
Ma la magistratura non deve «difendersi coi denti» (ossia: con le carcerazioni preventive per estorcere confessioni, intercettazioni illegali a tappeto, violazioni del segreto istruttorio a mezzo stampa).
A difenderla sono le leggi dello Stato.
Per questo i magistrati hanno stipendi fissi ed alti, per questo le loro carriere sono automatiche e sono praticamente insindacabili, se non dal loro stesso ordine (ordine, non corporazione né «potere»): perché non cedano per timore di perdere i loro benefici a chi gli fa «guerra».
Persino in Pakistan la magistratura ha mostrato più dignità e coraggio, e terzietà autorevole, contro il generale Musharraf, che è un po’ più pericoloso di Berlusconi.
Rimedi?
Se ne possono immaginare, certo.

Stabilire precise incompatibilità: magistrati non possono lasciare la toga per una carriera politica.
Non devono parlare in TV delle inchieste in corso.
Ministro non possono restare sindaci della loro clientela elettorale.
Senatori a vita che si drogano devono dare «spontaneamente» le dimissioni, per senso di vergogna e offesa allo Stato.
Parenti non possono avere posti assegnati dal parente ministro o governatore.
Il conflitto d’interessi non deve essere invocato solo per Berlusconi.
E ancora: il parlamento non può esprimere il governo né fornire ministri dai parlamentari, occorrono due votazioni distinte, per mantenere la tensione conflittuale tra i due poteri dello Stato, esecutivo e legislativo.
Ancor più: il parlamento non deve riunirsi in permanenza, bastano due sessioni mensili in autunno e primavera; parlamentare non è un mestiere.
A meno che non si ritenga normale che le assemblee di condominio o i consigli d’amministrazione si riuniscano tutti i santi giorni a decidere al posto del gestore condominiale o dell’amministratore delegato.
Ma soprattutto, bisogna cominciare col togliere loro gli enormi emolumenti.
Dimezzare le paghe ai parlamentari o ai loro grand commis, obietta qualche lettore, non recupera abbastanza denaro da coprire il disavanzo pubblico.
Osservazione stupida.
Il vero senso di una «riforma» del genere è impedire che la politica diventi un mestiere, e così lucroso da giustificare ogni malcostume.
Come oggi: ogni mese che la legislatura Prodi dura, sono altri 15 mila euro.
E ci tengono non solo i parlamentari filo-Prodi, ma anche quelli dell’opposizione.
Sono loro che non fanno cadere Prodi.
Anche loro.

Ecco il malcostume, dove porta: un giorno apprenderemo che la legislatura durerà cento anni. Sempre le stesse facce, Visco, Napoletano, Fini,…
Prodi, mettendo i suoi amiconi ai posti del potere economico pubblico, prepara appunto la sua immortalità extra-legale.
Ma non è un reato, attenzione: è solo «malcostume».
Ma ha ucciso la democrazia, la legalità, la competenza.

Tratto da effedieffe

16 gennaio 2008

Anche il mondo ci vede a rischio



L’assenza di una valida legge sul conflitto d’interessi è la principale ragione per la quale l’Italia nel 2007 è stata relegata al 35esimo posto nella classifica mondiale sulla libertà di stampa stilata ogni anno da Reporters sans Frontières e dalla Freedom House americana. Sul piano internazionale siamo considerati fortemente a rischio, indietro addirittura rispetto a paesi privi di istituzioni democratiche, percorsi da ondate repressive o con un bassissimo livello di sviluppo civile.

Niente fa pensare peraltro che la situazione possa significativamente migliorare quest’anno, se consideriamo che fra i fattori che condizionano una vera libertà di stampa è entrato in gioco l’avanzato tentativo di impedire, con durissime sanzioni amministrative e perfino penali contro i giornalisti, la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche anche quando, come prevede l’attuale normativa, siano liberate dal segreto istruttorio perché rese note agli imputati. Se pensiamo che la Camera dei deputati approvò il progetto di legge Mastella con solo sette deputati contrari (fra i quali, a suo onore, Beppe Giulietti) e che a niente valsero gli scioperi indetti dalla FNSI e il motivato parere contrario dell’Unione Europea, tanto che la battaglia è ancora incombente, c’è da pensare con un brivido alla suscettibilità della politica italiana su questo tema e al distacco nei confronti dell’opinione pubblica, che ha il diritto democratico di vedere illuminati tutti gli angoli bui del potere.
A riprova di questa inquietante divaricazione e dei guasti prodotti dall’enorme conflitto d’interessi ancora aperto, sono recentemente venute le reazioni alle rivelazioni sulle esplicite telefonate intercorse fra i vertici operativi di Mediaset e i dirigenti legati direttamente a Berlusconi all’interno della Rai, con particolare riferimento a Deborah Bergamini e a Saccà.
In queste due occasioni si è avverata l’antica metafora sullo stolto che quando il dito indica la luna si limita a guardare il dito…Una miriade di esponenti politici, di opposizione come della maggioranza, ha scatenato una campagna sulla responsabilità professionale ed etica della stampa e di singoli giornalisti, sottovalutando o ignorando totalmente il contenuto delle intercettazioni. E’ così passato in secondo piano prima la gravità del “golpe” tentato e in buona parte riuscito sul Servizio Pubblico da parte dell’azienda televisiva di proprietà dell’allora capo del governo, attraverso una sorta di “quinta colonna” che ha alterato per anni funzioni, autonomia, capacità competitiva, scelte editoriali e produttive. Come tanti altri dirigenti della Rai, io stesso, allora Direttore di Rai News 24, ho personalmente avvertito sulla pelle della Testata l’evidente anomalia e la sopraffazione in corso sugli interessi generali e le prospettive aziendali. Poi il tentativo, sempre mediante vincoli di “sudditanza” politica e personale di personaggi che tradivano il mandato, di usare la Rai come mezzo di pressione per influenzare il voto di esponenti politici dello schieramento di governo. Non sappiamo ovviamente se e in quale misura queste vicende assumeranno peso giudiziario e come influiranno sui disastrati e instabili equilibri di gestione del Servizio Pubblico, ma siamo assolutamente certi della loro rilevanza morale e politica, del diritto dei cittadini a conoscerle fino in fondo e del conseguente dovere dell’informazione di descriverle ed analizzarle. Allo stesso tempo si può non coglierne l’ulteriore urgenza di una legislazione che spezzi il perpetuarsi del conflitto d’interessi e che cambi allo stesso tempo profondamente la normativa del Servizio Pubblico, mettendolo in condizione di reale autonomia dal potere politico e rinnovandone la missione culturale?
Voglio però sottolineare che, quando parliamo di conflitto d’interessi, non possiamo riferirci esclusivamente alla posizione dominante di Silvio Berlusconi, certo centrale e decisiva per qualsiasi futuro assetto politico come per determinare equilibri e opportunità di un mercato editoriale competitivo, dotato di regole condivise e all’altezza di una democrazia matura.
Su questo punto il governo deve senza ulteriori indugi aprire sul serio il confronto in Parlamento, facendo sì – come giustamente sottolinea Giulietti – che la fondamentale trattativa per arrivare a definire una nuova, corretta legge elettorale, non ponga in alcun modo in secondo piano il confronto legislativo sul conflitto d’interessi e sul sia pur timido progetto Gentiloni per la riforma della Rai.
Sia per l’uno che per l’altro aspetto, così evidentemente diversi e distanti, è infatti in gioco la democrazia.
Partiamo dunque da qui, ma non dimentichiamo che l’Italia è ormai immersa in una inquietante deriva nella quale fattori di crisi investono tutti i poteri previsti dalla Costituzione, che vedono ciascuno la presenza di piccoli o macroscopici conflitti d’interesse e comportamenti al di fuori o al di sopra di ogni regola, che tradiscono il mandato e le competenze istituzionali dei gruppi e di singoli rappresentanti… Si potrebbero elencare a lungo le contraddizioni, le deviazioni, i condizionamenti, le interferenze, gli interessi corporativi e di casta – intrisi di sottopotere ed arrivismo se non in alcuni casi di arricchimento personale – che costellano i percorsi legislativi e parlamentari, del governo, della stessa magistratura (come dimostrano le recenti polemiche innescate dalla dura denuncia di Ilda Boccassini). Per non parlare della società italiana, che appare
a ogni livello frammentata in interessi di parte, in angusti egoismi di consorterie, in individualismi anarcoidi, ben al di fuori dal rispetto degli altri e dall’osservanza di regole e leggi certe per tutti, sempre più priva di principi etici validi al di fuori del ristretto confine del giardino di casa, del proprio tavolo di ufficio, della propria autovettura.
E’ contro questa deriva che continuano a combattere spezzoni della società civile, sia ben chiaro insieme con tante persone oneste e motivate in ogni settore, a partire ovviamente da quello delle responsabilità politiche e amministrative, sempre però in posizioni di minoranza, come un esercito assediato e diviso che stenta a tenere il campo, a riconoscersi in obiettivi e sedi collegate di comando, a mantenere un solo schieramento di fronte alle multiformi “invasioni barbariche”.
E ancora una volta l’informazione è contaminata e partecipe in vari modi della deriva invece che della resistenza alla devastazione, venendo molto spesso meno a quell’impegno di illuminazione e conoscenza critica della realtà, che consentirebbe di saldare fronti comuni più vasti e consapevoli, di ripristinare una scala corretta di ideali, di modelli positivi, di capacità critica, di comportamenti pubblici e privati nello spirito della Costituzione.
Se il personaggio e il ruolo assunti da Berlusconi sono ormai divenuti totalizzanti nella vita e nell’immaginario del Paese, parametro insostituibile di antitetiche scelte politiche, come di quelle civili, sociali e culturali, traiamone almeno un esempio emblematico di ciò che è divenuta e di ciò che invece non dovrebbe essere la realtà, a partire da quella dell’informazione.

Due mesi fa, l’11 Novembre 2007, dal palco di Montecatini, dinanzi ai Comitati del Buon Governo costruiti da Marcello Dell’Utri, Berlusconi si mise al fianco il senatore siciliano, un braccio fraternamente attorno alle spalle e inscenò una sua strenua e dettagliata difesa, in attesa del verdetto di secondo grado dopo la condanna in Assise per partecipazione esterna all’organizzazione mafiosa. Ovviamente silenzio su questa sentenza, su altre di natura penale già passate in giudicato, su notissime circostanze di conoscenze e frequentazioni mafiose. Non contento di questo gesto di considerazione e amicizia, che a suo tempo si era ben guardato di fare pubblicamente nei confronti del suo avvocato Cesare Previti, il Cavaliere ha esteso la difesa al ricordo del capo-mafia Vittorio Mangano, a suo tempo per anni fattore dei possedimenti ad Arcore e in stretti rapporti con lo stesso Dell’Utri.

Mangano, morto di malattia mentre scontava in carcere una definitiva condanna per partecipazione a omicidi, traffici di droga, racket, estorsioni e che il giudice Paolo Borsellino definì nell’ultima intervista televisiva come uno dei capi-fila della mafia al Nord, è stato ricordato da Berlusconi solo come un buon uomo vittima di magistrati feroci. Inutilmente – sono parole testuali – questi magistrati cercarono di suggerirgli “accuse inventate” contro Marcello Dell’Utri e contro lui stesso. Insomma, possiamo tranquillamente dire, il ritratto lusinghiero di un vero “ uomo d’onore”, dipinto con un linguaggio e un racconto, al di là delle omissioni e delle evidenti menzogne, davvero degni di Cosa Nostra…
Cosa sarebbe accaduto nella stampa e nelle televisioni di mezzo mondo, se un ex-premier potentissimo e leader dell’opposizione si fosse lasciato andare a questo sfogo pubblico, evidentemente calcolato e probabilmente da qualcuno richiesto? E cosa si sarebbe mosso in Parlamento e nell’opinione pubblica? Da noi non è avvenuto alcunché: due giorni di smilza cronaca, qualche raro commento dei “soliti fogli comunisti”, l’indignazione di pochi siti pervicacemente contestatori (per fortuna almeno il sonoro originale è ascoltabile sul salvifico You Tube).
Questa è oggi l’Italia e non solo quella dell’informazione.

di Roberto Morrione

18 gennaio 2008

I furbetti della porta accanto


Falsi invalidi, finti disoccupati, imprenditori-fantasma, malati immaginari, evasori totali, lavoratori in nero, affittuari abusivi, furbetti e furboni del Welfare all'italiana. Sono il primo gradino della Casta. Una moltitudine di piccoli predoni dello stato sociale, che l'opinione pubblica tende a perdonare per lo stesso vizio logico che ha portato la maggioranza degli italiani ad assolvere per più di trent'anni la più massiccia evasione fiscale del mondo occidentale: se una persona ruba un miliardo di euro, tutti lo chiamano ladro; ma se dieci milioni di cittadini sottraggono cento euro ciascuno, rischiano di vincere le elezioni.

Dietro tanti micro-ammanchi può esserci una triste e dolorosa guerra tra poveri, in lotta per redditi di sopravvivenza. Ma in molti altri casi c'è la storia di una truffa continuata e diffusa, un colpo colossale con una particolarità: ci sono tantissimi complici e nessuno conosce con certezza l'entità del bottino. In Gran Bretagna, il National Audit Office ha stimato, nel 2006, che l'insieme delle frodi al sistema di sicurezza sanitaria e pensionistica faccia sparire il 2,3 per cento della grande torta del Welfare.

Applicando lo stesso criterio statistico a un paese più simile all'Italia, come la Francia, l'ammanco raggiungerebbe i 19 miliardi di euro. Una montagna di soldi rubati alla parte più povera della popolazione. Milioni di micro-frodi che, messe insieme, riducono le risorse indispensabili ai veri bisognosi. Le vittime sono gli anziani, gli invalidi, i malati, i disoccupati. Una fetta d'Italia che in tempi di crisi economica rischia più di tutti. L'obiettivo di questa inchiesta giornalistica è misurare questo furto ai danni dei più poveri partendo dal basso, mettendo in fila dati concreti e documentabili.

Per capire come e perché può succedere che in Italia, ogni anno, spariscano non meno di 23 miliardi di euro. Prelevati dalle casse sempre più misere dello Stato sociale e riversati nelle tasche di troppi privilegiati. Quasi sempre impuniti, come se il problema sociale fossero loro, quelli che stanno al primo piano, e non quelli che sono costretti a vivere in cantina perché i signori del palazzo lasciano la casa in mano agli abusivi.



Il primo mattone di questo muro socio-economico è una cifra assurda: 379 mila. Sono le famiglie che continuano a ricevere pensioni che l'Inps non dovrebbe pagare per il motivo più ovvio: i soldi erano destinati ai vivi, ma in realtà i beneficiari sono tutti morti.

Il miracolo della resurrezione previdenziale si spiega con i cronici ritardi - di giorni, mesi o anni - nell'aggiornamento degli archivi degli enti pensionistici. Le anagrafi di molti comuni sono ancora cartacee e comunque non collegate con i computer dell'Inps. Per cui lo Stato continua a pagare le pensioni anche ai defunti. Il dato dei 379 mila morti assistiti è stato accertato dai finanzieri del Nucleo speciale spesa pubblica e sarà la base per la prossima, massiccia campagna di verifiche delle Fiamme gialle. Spiega il comandante del nucleo, il colonnello Fernando Verdolotti: "È una delle priorità assegnate alla Guardia di Finanza per il 2008. Anche per le pensioni indebite, come per l'evasione fiscale, c'è un danno economico che colpisce la generalità dei cittadini onesti. All'interno di questi 379 mila casi, il nostro compito è distinguere tra le inefficienze burocratiche e le vere e proprie truffe. Oltre alla repressione degli illeciti, i nostri controlli hanno una funzione di prevenzione".

Fra tanti ritardi, in Italia fisiologici, nelle registrazioni dei decessi, non mancano casi considerati 'patologici': il familiare che nasconde nel freezer il cadavere del compianto pensionato; la donna di Olbia che continua per sette anni a incassare tre pensioni a nome della madre morta nel 2000; il figlio che cerca di giustificarsi, tra le lacrime, giurando che nessuno gli aveva mai detto che suo padre era morto cinque anni fa.

Mentre i finanzieri indagano tra dolo, colpa o errore, la dimensione dello spreco, anzi del furto oggettivo di risorse, che in mancanza di correttivi continuerebbe a perpetuarsi, si può misurare moltiplicando il numero dei defunti per la pensione media pro capite (9.511 euro, secondo l'Istat).
Risultato: almeno tre miliardi e mezzo di euro rubati allo Stato sociale.

Lo stesso nucleo della Guardia di Finanza è specializzato nella lotta alle frodi economiche a sfondo sociale: raggiri, furberie e falsi che permettono a sedicenti imprenditori (e dipendenti) di intascare i sussidi pubblici stanziati per favorire lo sviluppo.

Anche questa è una grossa torta: 7 miliardi e mezzo di euro trasferiti ogni anno dallo Stato alle aziende private. E quasi il doppio versato da altri erogatori, dall'Unione europea alle regioni, province e comuni. Con questo secondo fronte di ruberie, il bottino delle frodi accertato dalle Fiamme gialle solo nei primi 11 mesi del 2007 sale a quota 1 miliardo e 936 milioni di euro. Soprattutto al Sud, le procure più attive indagano su montagne di soldi sprecati per opere mai (o mal) realizzate, dalle discariche ai depuratori. Meno conosciute, ma non meno dannose, sono le truffe economiche diffuse, ad esempio, nelle campagne. False imprese agricole che intascano veri contributi per assumere finti braccianti.

Il sussidio è Cosa Nostra
Tre siciliani creano tra Misilmeri e Vicari una rete di società agricole che beneficiano di contributi pubblici per tre milioni di euro. Il trucco centrale è la falsa assunzione di ben 340 braccianti che in verità non hanno mai lavorato. I soldi dei sussidi, secondo l'inchiesta dei pm Roberto Scarpinato, Sara Micucci e Marco Bottino, vengono moltiplicati finanziando prestiti a usura, garantiti da minacce e intimidazioni. Secondo l'accusa il capo, arrestato, era legato alla famiglia mafiosa di Villabate, la stessa che proteggeva Bernardo Provenzano. Questo metodo di arricchimento si è ramificato soprattutto in Puglia e in Sicilia. Da San Severo a Catania, da Ragusa a Cerignola, sono migliaia i casi documentati di finti braccianti che hanno fatto arrivare sussidi veri nelle tasche di falsi imprenditori. Che li ripagavano con carta, valida per incassare assegni familiari e indennità di disoccupazione.

L'agricoltura è in tutta Europa il settore produttivo più assistito. In Italia, tra sussidi statali ed europei (10 miliardi), agevolazioni contributive (2,7) e tasse ridotte anche sui carburanti, il bilancio degli aiuti supera i 15 miliardi di euro. Un miliardo e 800 milioni l'anno servono solo a far riposare i terreni: soldi per non far coltivare nulla. Almeno questo è sicuramente uno spreco legalizzato. E come tutti i paradossi agricoli ha come giustificazione dichiarata la tutela dell'ambiente; in realtà solo il 2 per cento dei contributi è collegato a obiettivi di riduzione dell'inquinamento, che spesso nessuno controlla. L'unico risultato effettivo è il sostegno dei prezzi, delle produzioni e degli imprenditori agricoli più forti. A danno dei contadini dei paesi in via di sviluppo, quelli che non hanno i soldi per i pesticidi, restano poverissimi e quindi emigrano in massa in un'Europa sempre più chiusa e impaurita. Magari nella Penisola dove regna l'economia nera: imprese totalmente sconosciute al fisco (8.262 quelle appena scoperte dalla Guardia di Finanza) e dipendenti senza alcun contratto o irregolari part-time. Il danno, in questo caso, è l'evasione di massa dei contributi, oltre che delle tasse: nessun versamento per le pensioni e la sanità.

In settori come l'edilizia o i laboratori tessili, la fatica e il bisogno bastano e avanzano a garantire il marchio di veri sfruttati, ad esempio, ai 269 lavoratori irregolari e ai 64 totalmente in nero scoperti in una cooperativa di facchinaggio di Pomezia. O alle migliaia di operai senza nessun contributo identificati nei cantieri di Torino (28 in nero su 36), Imperia (irregolari 23 ditte su 41), Treviglio (13 clandestini su 19 cinesi al lavoro all'una di notte) o Bitonto, dove 59 operaie di turno nel frastuono delle macchine per cucire diventano fantasmi appena arriva l'ispezione. Più furba che necessitata sembra invece l'evasione totale in discoteche e ristoranti. Due esempi fra tutti. A Pozzuoli il gestore del Bagdad Cafè (terza sala da ballo in tre mesi chiusa per lavoro nero) si è visto ritirare la licenza, peraltro scaduta da un anno, perché i 500 clienti, cioè il triplo della capienza teorica, erano serviti da 15 dipendenti tutti irregolari, che non facevano gli scontrini perché mancava anche il registratore di cassa. E nel quartiere di Santa Caterina a Bari, tra i 600 consumatori accalcati sulla pista, c'erano 13 fra cassieri, buttafuori, baristi e deejay tutti rigorosamente black, visto che il gestore non aveva neppure presentato la dichiarazione dei redditi. Tra il 2003 e il 2006 l'Inps ha recuperato 11 miliardi e 760 milioni di contributi non pagati. Nello stesso periodo controlli e incentivi hanno fatto emergere 130 mila aziende totalmente in nero e circa 300 mila lavoratori senza alcun contratto. Secondo una stima del 'Sole 24 Ore', l'evasione contributiva ancora sommersa resta mastodontica: 40 miliardi di euro. Nella civile Francia la Corte dei conti previdenziali (Cpo) ha calcolato nel 2007 una cifra compresa tra gli 8 e i 15 miliardi di euro. Applicando all'Italia la stima più prudente, come se da Milano a Napoli il tasso di legalità fosse lo stesso che tra Parigi e Lione, il risultato è che dalle casse dello Stato sociale mancano almeno altri otto miliardi: non proprio rubati, ma trattenuti alla fonte. Una salute tutta d'oro
La sanità, dopo le pensioni, è l'altra grande voragine dei conti pubblici: nel 2007 ha bruciato quasi 98 miliardi di euro. Le indagini giudiziarie, che devono fornire la prova certa di ogni singola truffa, offrono solo una cifra minima: frodi documentate per 67 milioni nei primi 10 mesi dell'anno scorso. Il campionario va dalle false esenzioni per i ticket, ai rimborsi gonfiati alle cliniche private, fino agli appalti truccati negli ospedali pubblici, in cambio di tangenti, nomine o voti. Ma quanto è grande la torta delle frodi sanitarie? L'unico termometro disponibile, per il momento, è la maxi-inchiesta sulla sanità lombarda: secondo la procura di Milano, risultano documentalmente false, cioè manipolate per gonfiare i contributi, oltre 80 mila cartelle cliniche. Un'alluvione di truffe private, che prima dei blitz giudiziari erano favorite anche dalla strana abitudine dei controllori pubblici, selezionati dalla giunta Formigoni tra i più meritevoli, di esaminare solo un documento su 20 e, per correttezza, di preavvisare le strutture private con almeno 48 ore di anticipo. Il totale delle cartelle da esaminare è di otto milioni e la Guardia di Finanza è a metà dell'opera. Ammesso che i futuri controlli non riservino altre sorprese, ne risulta una quota di frodi dell'1 per cento. Questo, in Lombardia. Applicando la stessa forbice al resto d'Italia, dai rimborsi alle cliniche siciliane alle forniture agli ospedali liguri, e tenendo conto che nel 2008 la spesa sanitaria pubblica salirà a 101 miliardi, si può ritagliare una stima credibile di almeno 1 miliardo di euro.

L'invalido con dieci targhe
Attorno al pianeta salute ruotano altri satelliti eccentrici. Tra i veri e sfortunati non vedenti, che sicuramente meriterebbero aiuti più generosi, le Fiamme Gialle hanno scoperto circa 200 posizioni quantomeno dubbie: persone che dichiarano una cecità totale, ma hanno rinnovato la patente e in qualche caso pure il porto d'armi. Ma ci sono anche abusi commessi sulla base di reali invalidità. Una legge di fine anni '90 garantisce l'abbattimento dell'Iva (dal 20 al 4 per cento) per l'acquisto di auto adattate ai disabili. Una modifica successiva ha esteso il beneficio ai mezzi di trasporto (senza modifiche) per gli invalidi psichici. Risultato: centinaia di invalidi sono diventati d'incanto titolari di interi garage familiari. E in qualche caso la famiglia è molto allargata: a Bologna è stato scoperto un invalido con dieci targhe. Utilitarie, berline, fuoristrada e moto, tutte intestate al parente in carrozzella. Secondo l'Agenzia delle Entrate, solo questo trucchetto dell'Iva scontata ci costa più di 200 milioni di euro all'anno.

Per fermare l'avanzata dell'esercito dei furbi, dieci anni fa una legge ha cercato di imporre un mezzo di prova dell'effettivo stato di bisogno. Assodato che in Italia l'evasione fiscale è massiccia, oltre ai redditi va dichiarato il patrimonio immobiliare e i depositi bancari. Il discorso vale per un terzo delle prestazioni sociali tipiche: circa 10 miliardi su 30. Il sistema si chiama Isee ossia Indicatore della situazione economica equivalente (vedi box a pag. 30) e vale soprattutto per il welfare locale: esonero dei ticket sanitari (in Veneto e Sicilia), sussidi scolastici, assegni familiari, aiuti per la casa. Secondo l'ultimo rapporto sull'Isee (2006), questo misuratore della ricchezza familiare interessa un italiano su cinque: oltre 11 milioni di individui, ovvero 3 milioni e 667 mila famiglie.

La Sicilia dei record
Il problema è che il sistema si basa sull'autocertificazione. E per il popolo dei piccoli e grandi evasori, nascondere i soldi resta una tentazione irresistibile. L'indizio più vistoso, di per sè, dice poco: al Sud si concentrano 2 milioni e 433 mila 'famiglie Isee', cioè due volte la quota del centro-nord, che ha il doppio della popolazione. Ma questo può voler dire solo che nel Mezzogiorno c'è più disoccupazione e meno ricchezza. I problemi cominciano quando si dividono le cifre. In Sicilia l'Isee ha fatto boom (il ministero denuncia una crescita 'abnorme') solo quando la Regione ha collegato a questo indicatore l'esenzione dai ticket sanitari. Sempre al Sud, solo tre regioni hanno più di un terzo di famiglie di 'livello Isee', con differenze singolari: la Calabria ne ha meno della Campania (36,8%) e molte meno della Sicilia, che ha il record nazionale del 57 per cento. Invece al Centro le famiglie presunte bisognose sono una su otto, al Nordest una su dieci, al Nordovest una su dodici.
(17 gennaio 2008)
Ma a far pensare che l'inventiva italiana sia riuscita a beffare anche l'Isee sono altri tre incidenti statistici. Primo guaio: per le famiglie che non hanno una casa in proprietà, la legge consente di abbassare l'autocertificazione sottraendo gli affitti. Ovviamente bisogna che i contratti siano registrati. E per chi incassa gli affitti, addio Isee. Ebbene, nel Settentrione sono meno di un quinto le 'famiglie Isee' che non possiedono case ma non pagano nemmeno affitti, evidentemente perché vivono gratis in alloggi di parenti o come usufruttuari: 18,4 per cento nel Nordovest, 16,1 nel Nordest. Al Centro la quota sale al 25,7 per cento. Al Sud schizza al 39,6. Quindi, delle due l'una: o al Sud si concentrano più di tre milioni di ospiti gratuiti di case altrui, oppure è altissima la percentuale di affitti in nero. E di proprietari di case che, oltre a evadere le tasse, possono continuare a dichiararsi bisognosi di assistenza. A spese degli inquilini.

La variabile geografica sembra influenzare anche il lavoro nero. Tra i 3,6 milioni di 'famiglie Isee', quelle che non hanno neppure un occupato in età da lavoro sono il 16 per cento, come media nazionale. Ma nel Mezzogiorno la percentuale sale al 40. Solo disoccupazione vera o anche lavoro nero?

Per i depositi bancari (e per i patrimoni mobiliari) il divario tra Nord e Sud è tanto alto da sembrare indecente agli stessi tecnici del ministero della solidarietà sociale, decisi a impedire che i furbi erodano le risorse destinate ai più poveri. Al Nord, circa metà delle 'famiglie Isee' confermano di avere un conto in banca. Al Sud solo il 2,3 per cento. Al Nord il 10 per cento ammette di avere depositi bancari superiori alla franchigia annua di 15 mila euro. Al Sud solo lo 0,5 per cento. La conclusione del ministero, nel rapporto Isee 2006, è che la frode sociale è un fenomeno di 'notevole diffusione'. Soprattutto perché i 'controlli di veridicità risultano estremamente difficili dato il ritardo nella messa in opera dell'anagrafe dei conti bancari'. Proprio l'anonimato delle ricchezze e dei depositi, difeso con i denti anche da legioni di commercialisti del ricco Nord, finisce così per funzionare come un 'incentivo a rimanere nel sommerso'. Con l'effetto di accorciare quella coperta che dovrebbe proteggere le famiglie, del Nord come del Sud, 'effettivamente molto povere'. E che lo diventeranno ancora di più se il 2008 sarà l'anno della temuta recessione mondiale.

Anche la terza mina nei conti del Welfare locale è il riflesso delle storiche furberie fiscali. Il dato grezzo è che tra le 'famiglie Isee', tanto per cambiare, i lavoratori dipendenti risultano più benestanti degli autonomi: i salariati avrebbero il 20 per cento di ricchezza in più. Questo risultato è l'incrocio tra due dati tanto opposti da sembrare quasi comici. Primo mistero (doloroso): i lavoratori autonomi dichiarano due terzi del reddito dei dipendenti, che notoriamente non possono evadere perché pagano le tasse alla fonte. Secondo mistero (gaudioso): gli autonomi in compenso dichiarano un patrimonio medio più che doppio dei lavoratori dipendenti (per l'esattezza, 2,3 volte superiore). Ma allora come hanno fatto i soldi? Tutte eredità e lotterie? L'intera catena di anomalie statistiche, a conti fatti, mette in dubbio la regolarità di almeno un quinto delle prestazioni sociali misurate dall'Isee (per non parlare di tutte le altre, che continuano a basarsi solo sui redditi dichiarati): un bottino da almeno due miliardi di euro.

La mina sotto il Welfare
Il direttore dell'Agenzia delle Entrate, Massimo Romano, è perfettamente consapevole della gravità del problema. E spiega a 'L'espresso': "Finora ci si era illusi che potessero bastare i controlli successivi alle dichiarazioni Isee. Dal luglio prossimo dovrebbe finalmente entrare in vigore una nuova norma che ci consentirà di organizzare i controlli preventivi. Redditi, immobili, patrimoni mobiliari: sono tutti dati che l'amministrazione pubblica già possiede. Si tratta solo di metterli insieme. E l'informatica ci aiuta".
"Una rete di controlli effettivi e capillari non indebolisce lo Stato sociale, ma al contrario lo rafforza", sottolinea Raffaele Tangorra, direttore generale del ministero della solidarietà sociale: "I controlli servono proprio a garantire la parte più povera della popolazione, a evitare che le prestazioni sociali vengano dirottate con comportamenti opportunistici". Più legalità, più giustizia.

Il romanzo delle piccole e grandi frodi sociali potrebbe continuare ancora a lungo, ma il capitolo finale va senz'altro dedicato alla micro-truffa più diffusa in tutte le età e classi socialie: alzi la mano chi non si è mai dato malato per saltare un giorno di scuola o di lavoro. Secondo il presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, "l'assenteismo nel pubblico impiego ci costa quasi un punto di Pil: 8,3 miliardi negli enti centrali, 5,9 in quelli locali". I tecnici del ministero dell'Economia hanno sorriso sentendo Montezemolo citare come esempio alcune amministrazioni che in realtà non controllano le presenze, ma il numero di buoni pasti ritirati, di modo che l'assentetista non solo resta impunito, ma si fa pure pagare il pranzo. Il baratro fra lavoro privato e pubblico, però, è indiscutibile: nelle assenze per malattia, c'è un rapporto è di 1 a 4. Fra i 3 milioni e 612 mila dipendenti statali, le sparizioni dal lavoro per motivi diversi dalle ferie (permessi, scioperi e, appunto, malattie) sono state, in media, 22,7. I giorni saltati, sempre nel 2006, diventano 26,3 nelle agenzie fiscali, 28,9 nella sanità, 31,6 negli enti di ricerca, addirittura 65 al ministero della Difesa.

Ma anche per gli statali generalizzare è sbagliato. Uno studio dell'Agenzia delle entrate sui giorni di malattia dimostra che più di un terzo del personale (37%) in realtà non manca mai dal lavoro. E un altro terzo (34%) fa meno assenze della media. In pratica è il 29 per cento dei dipendenti fiscali a consumare quasi tutto il monte-malattie. Con grandi differenze tra gli stessi malati cronici, che sono solo il 10 per cento dei funzionari in Alto Adige, il 20 in Veneto, il 33 in Puglia e in Molise, 36 in Campania, 38 nel Lazio, 40 in Sicilia e quasi la metà (44%) in Calabria.

I controlli sulle assenze sono affidati ai medici fiscali, che di regola non organizzano visite prima di tre giorni. Mentre i medici di famiglia tendono a certificare le malattie dichiarate dai pazienti, da cui dipendono anche i loro stipendi. Applicando a tutta Italia i dati (prudenti) dell'Agenzia delle entrate, si può concludere che le malattie di comodo sono un problema innegabile per circa un terzo dei funzionari e per un mese di stipendio. Visto che la spesa pubblica per il personale statale è di 162 miliardi e 711 milioni di euro, il costo dell'assenteismo pubblico è sicuramente superiore a 4 miliardi e mezzo di euro. Fuori da ogni controllo restano entità come la Regione Sicilia: per i 14.291 dipendenti stabili, 5455 contratti a termine e 702 lavoratori socialmente utili (dati di fine 2006, gli unici pubblicati per vie traverse) l'amministrazione guidata da Totò Cuffaro non ha neppure trasmesso i dati sulle assenze alla Ragioneria generale dello Stato.
Paolo Biondani

17 gennaio 2008

Mastella il nuovo Chiesa: «Malcostume» o «Reato»?




Penso che Mastella e ciò che rappresenta debba sparire dalla vita pubblica.
Con tutti i mezzi.
Ma difendere De Magistris e simili, nemmeno.
Perché penso quello che ha finalmente detto anche la Boccassini: «Una corporazione ripiegata su se stessa», che «non ha mai fatto autocritica», che «non ha il coraggio di guardare dentro se stessa», che non pretende da tutti «professionalità, rigore, indipendenza, autonomia».
Che fa, insomma, «come fanno i napoletani con la monnezza: la colpa è sempre degli altri, loro non c’entrano mai».
Insomma: lo stesso spirito di casta anima la magistratura e i politici di mestiere.
Stessa mentalità.
Stesso malcostume.
Stesso disprezzo per i principi del diritto e per i cittadini.
E soprattutto, la conseguenza di tutti questi atteggiamenti, vera tragedia italiota: la perdita di ogni autorità morale.
Che è essenziale per governare, molto più di quel che si creda.

Una delle accuse a Mastella & signora sarebbe quella di aver minacciato Bassolino: ti tolgo l’appoggio e così ti faccio cadere, se tu non ti prendi come assessore uno dei miei.
Ebbene?
Lo fanno tutti, si sbracciano a dire tutti i politici.
Formigoni e Prodi, Fini e Larussa, fate voi altri nomi, quando sono in una coalizione di governo fanno il mercato delle vacche, esercitando, se occorre, il ricatto; si accaparrano posti, forniscono appalti lucrosi agli amici, mettono a dirigere le municipalizzate e le ASL i loro candidati trombati, si scambiano favori e persino veline TV.
Che male c’è?
E’ «un malcostume, ma non è un reato».
Questa distinzione tra «malcostume» e «reato» l’hanno evocata anche quelli che prendono un poco le distanze da Mastella.
Ed è questo il segno della bassezza morale cui siamo caduti.
Se non vi rivoltate a questa distinzione, siete degradati moralmente anche voi.
Mastella fa come tutti gli altri?
Eh no, c’è una differenza di grado.

Egli ha fondato un suo partito personale, che non usa il «malcostume» come mezzo, ma come scopo finale.
Che ha il clientelismo come unico fine dichiarato, e arrogantemente dichiarato.
Ovviamente, è l’accettazione corrente del «malcostume» che glielo ha consentito.
Basta non avere alcuno scrupolo, e specie nel Meridione, ti puoi costituire un partito locale fatto di elettori che ti devono qualcosa, e che perdono qualcosa se tu non sei al potere: una base microscopica come quella di Ceppaloni, ma solidissima.
Da qui, con l’1%, puoi diventare ministro.
Restando nello stesso tempo sindaco di Ceppaloni, e mettendo la moglie alla presidenza della Regione.
Il sistema elettorale è fatto apposta per questo.
Premia chi ha pochi voti in un territorio concentrato, anche piccolo: voti che, ovviamente, vengono da favori fatti.
Non esiste un collegio unico nazionale dove possano presentarsi progetti nazionali, idee, menti intellettuali capaci di pensare in grande.
Da noi un filosofo non può entrare in parlamento, perché non ha posti da dare.
Non può uno scrittore e saggista, che ha magari un milione di lettori, però sparsi nel territorio nazionale.

Può Mastella.
Che io considero un delinquente molto più di quanto appaia ai media: un delinquente politico.
Uno che ha trasformato uno dei mezzi della politica nel suo unico fine.
Ciò dovrebbe essere vietato, perché ci trascina giù tutti, di livello in livello: fino alle montagne di monnezza, alla rovina economica di una nazione intera che manda un’immagine di sporcizia e malcostume invincibile.
Certo che questi scostumati non commettono «reati»: anzitutto perché le leggi se le fanno loro, e decidono loro cos’è la «legalità».
Ma in termini di giustizia, di diritto naturale, essi rubano denaro dei contribuenti.
A questo si riducono le loro trame e manovre, a furto di denaro pubblico.
Non lo fanno (sempre) in modo diretto, intascandosi i soldi.
Lo fanno quando assegnano una poltrona da 400 mila euro di stipendio non a un competente ma a un «cliente» partitico.
Ciò non è reato.
Viene inteso come «malcostume».
Ma quando il «malcostume» è la regola, quando è diventato così comune che il sistema lascia crescere il sindaco di Ceppaloni fino a ministro della Giustizia; quando nessun gruppo o coalizione si vergogna di avere l’appoggio di un Mastella, qui è il problema.
Un problema che supera di molto la «legalità».
Mastella, semplicemente, non ha la credibilità per governare la magistratura.

Quando fa trasferire un magistrato discusso dai suoi stessi colleghi, com’è sua prerogativa di ministro, è inevitabile che tutti si chiedano se non lo fa per impedire indagini su malversazioni e «malcostume», che è l’unica cosa per cui - per sua ammissione - è al potere.
E così lo Stato cessa di funzionare, in una marea di veleni e sospetti: che non si sa più nemmeno quanto siano giustificati, e quanto inventati.
Ecco perché Mastella non doveva pretendere la Giustizia (se avesse avuto qualche decenza); e una volta avutala, doveva dimettersi dopo che si è scoperto che era inquisito dai magistrati che ha ordinato di trasferire.
Qui il «malcostume» diventa qualcosa di peggio, e mi stupisco che non si capisca: è un ministro che perde il diritto a compiere i suoi atti d’ufficio, di cui lo investe l’autorità dello Stato, perché la sua personale autorità è quella di un piccolo ricattatore di paese.
Nel diritto naturale, questo configura vilipendio dello Stato.
Della cui autorità tutti abbiamo bisogno.

Può configurare anche un golpe: non un golpe alla Pinochet, dove un corpo dello Stato impone la sua visione del progetto nazionale con la forza, ma peggio: il golpe di una cosca, attuato allo scopo di mettere parenti e amici e clientes ai posti che contano.
Per un Paese, subire un golpe coi carri armati in strada non è necessariamente una vergogna: si cede a una forza reale, che può ucciderti.
Ma farsi governare dalla norma non scritta del «malcostume», che è il contrario della lealtà, perché ha preso il potere un sindaco mafiosetto di mezza tacca, questa sì è una vergogna.
Ma questo non significa che difendo De Magistris.
Anche lui, come tanti magistrati, pratica il «malcostume»: fa appello alle folle (di Santoro) portando le indagini in piazza.

Quella magistratura intercetta tutto e tutti non da notizia di reato, ma per cercare, con registrazioni di mesi, se parlando quei conversatori commettono un reato.
E’ molto diverso.
Anzi, spiare migliaia di persone per vedere se commettono reati, è il contrario della giustizia.
Peggio ancora se quei magistrati danno adito al sospetto di utilizzare i mezzi di cui l’autorità dello Stato li fornisce, per colpire una parte politica e favorirne un’altra: com’è accaduto in Mani Pulite.
Chiunque sa che mettendo sotto controllo per mesi i telefoni di gente che crede di parlare in privato, si possono ascoltare spropositi, volgarità, segreti ripugnanti: basta farlo abbastanza a lungo, e il gioco è fatto.
Se poi non risulta alcun reato, si possono sempre passare ai giornalisti amici, perché le diffondano, quelle parti più grassocce e ripugnanti delle conversazioni tra privati.
In modo, se non si riesce a incarcerare l’avversario, da sputtanarlo.

Sono le fughe di notizie: e chi le dà ai giornalisti?
I magistrati, è ovvio.
E’ un reato, ma per accertarlo ci vorrebbero altri magistrati, che mai e poi mai hanno condannato un loro collega di casta per violazione di segreto istruttorio.
Si accetta questo reato come «malcostume».
Ma qual è la conseguenza?
Che quando un magistrato apre un’inchiesta su un ministro, magari il suo ministro, e un personaggio dei più loschi - anche se ne ha motivi autenticamente gravi - può essere accusato di agire per interessi di casta ed odio di parte, di cui ha dato abbondanti prove in precedenza.
Insomma: anche lui ha perso l’autorità morale per compiere gli atti del suo ufficio.
Esattamente come Mastella non ha autorità morale per esercitare gli atti di ministro.
Ho sentito che il leghista Castelli, nel periodo in cui è stato ministro della Giustizia, ha ricevuto una quarantina di avvisi di reato: evidentemente da magistrati che s’erano messi in testa di farlo cadere, o anche solo di esibire il loro odio per la sua parte politica e le «riforme» che questa minacciava
(e non ha fatto).
Motivazioni serie, fattispecie penali non ce n’erano, perché appena Castelli ha perso il posto ministeriale, quelle inchieste sono finite nel nulla.
Volevano solo impedirgli di governare, di esercitare il mandato che gli aveva dato il popolo col voto.
Ci sono riusciti.

Insomma: magistratura e politicanti sono due caste eguali.
A volte contrapposte, ma per interessi di casta.
E il risultato è che, a forza di «malcostume», lo Stato non funziona, e diventa quel teatrino di sospetti e nido di veleni in cui consiste la «politica» in Italia.
Tutto perché tolleriamo il «malcostume», purchè non sia «reato».
E’ una mentalità.
Da cui dobbiamo liberarci noi, ma soprattutto i magistrati.
Proprio perché ci sarebbe bisogno di loro contro i Mastella, ma non possiamo fidarci di loro per la loro mentalità.
Questa mentalità è una cancrena inestirpabile.
L’ha dimostrato la stessa Boccassini, quando giorni fa ha svuotato il sacco contro i colleghi (non aveva ricevuto una promozione): la magistratura è politicizzata, la magistratura applica le leggi in modo diverso ad «amici» e nemici, la magistratura è piena di improduttivi («fancazzisti»), ci sono casi di corruzione, i magistrati si promuovono da sé secondo logiche di corrente e di fazione.
Ma poi, subito dopo, la Boccassini ha aggiunto: «C’era una attenuante, fino a qualche tempo fa, quando il governo Berlusconi aveva dichiarato guerra alla magistratura e dunque l’esigenza primaria era quella di difendersi coi denti, oggi quell’attenuante non vale più».
Capito?

Dice, la procuratrice, che avevano usato mezzi extralegali, fughe di notizie, violazioni del segreto istruttorio, apparizioni in TV, insomma il «malcostume» e l’abuso di potere, perché «Berlusconi aveva dichiarato guerra alla magistratura, e bisognava difendersi coi denti».
Concepisce la sua azione contro Berlusconi come una difesa della sua corporazione, e come una battaglia politica.
Ma la magistratura non deve «difendersi coi denti» (ossia: con le carcerazioni preventive per estorcere confessioni, intercettazioni illegali a tappeto, violazioni del segreto istruttorio a mezzo stampa).
A difenderla sono le leggi dello Stato.
Per questo i magistrati hanno stipendi fissi ed alti, per questo le loro carriere sono automatiche e sono praticamente insindacabili, se non dal loro stesso ordine (ordine, non corporazione né «potere»): perché non cedano per timore di perdere i loro benefici a chi gli fa «guerra».
Persino in Pakistan la magistratura ha mostrato più dignità e coraggio, e terzietà autorevole, contro il generale Musharraf, che è un po’ più pericoloso di Berlusconi.
Rimedi?
Se ne possono immaginare, certo.

Stabilire precise incompatibilità: magistrati non possono lasciare la toga per una carriera politica.
Non devono parlare in TV delle inchieste in corso.
Ministro non possono restare sindaci della loro clientela elettorale.
Senatori a vita che si drogano devono dare «spontaneamente» le dimissioni, per senso di vergogna e offesa allo Stato.
Parenti non possono avere posti assegnati dal parente ministro o governatore.
Il conflitto d’interessi non deve essere invocato solo per Berlusconi.
E ancora: il parlamento non può esprimere il governo né fornire ministri dai parlamentari, occorrono due votazioni distinte, per mantenere la tensione conflittuale tra i due poteri dello Stato, esecutivo e legislativo.
Ancor più: il parlamento non deve riunirsi in permanenza, bastano due sessioni mensili in autunno e primavera; parlamentare non è un mestiere.
A meno che non si ritenga normale che le assemblee di condominio o i consigli d’amministrazione si riuniscano tutti i santi giorni a decidere al posto del gestore condominiale o dell’amministratore delegato.
Ma soprattutto, bisogna cominciare col togliere loro gli enormi emolumenti.
Dimezzare le paghe ai parlamentari o ai loro grand commis, obietta qualche lettore, non recupera abbastanza denaro da coprire il disavanzo pubblico.
Osservazione stupida.
Il vero senso di una «riforma» del genere è impedire che la politica diventi un mestiere, e così lucroso da giustificare ogni malcostume.
Come oggi: ogni mese che la legislatura Prodi dura, sono altri 15 mila euro.
E ci tengono non solo i parlamentari filo-Prodi, ma anche quelli dell’opposizione.
Sono loro che non fanno cadere Prodi.
Anche loro.

Ecco il malcostume, dove porta: un giorno apprenderemo che la legislatura durerà cento anni. Sempre le stesse facce, Visco, Napoletano, Fini,…
Prodi, mettendo i suoi amiconi ai posti del potere economico pubblico, prepara appunto la sua immortalità extra-legale.
Ma non è un reato, attenzione: è solo «malcostume».
Ma ha ucciso la democrazia, la legalità, la competenza.

Tratto da effedieffe

16 gennaio 2008

Anche il mondo ci vede a rischio



L’assenza di una valida legge sul conflitto d’interessi è la principale ragione per la quale l’Italia nel 2007 è stata relegata al 35esimo posto nella classifica mondiale sulla libertà di stampa stilata ogni anno da Reporters sans Frontières e dalla Freedom House americana. Sul piano internazionale siamo considerati fortemente a rischio, indietro addirittura rispetto a paesi privi di istituzioni democratiche, percorsi da ondate repressive o con un bassissimo livello di sviluppo civile.

Niente fa pensare peraltro che la situazione possa significativamente migliorare quest’anno, se consideriamo che fra i fattori che condizionano una vera libertà di stampa è entrato in gioco l’avanzato tentativo di impedire, con durissime sanzioni amministrative e perfino penali contro i giornalisti, la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche anche quando, come prevede l’attuale normativa, siano liberate dal segreto istruttorio perché rese note agli imputati. Se pensiamo che la Camera dei deputati approvò il progetto di legge Mastella con solo sette deputati contrari (fra i quali, a suo onore, Beppe Giulietti) e che a niente valsero gli scioperi indetti dalla FNSI e il motivato parere contrario dell’Unione Europea, tanto che la battaglia è ancora incombente, c’è da pensare con un brivido alla suscettibilità della politica italiana su questo tema e al distacco nei confronti dell’opinione pubblica, che ha il diritto democratico di vedere illuminati tutti gli angoli bui del potere.
A riprova di questa inquietante divaricazione e dei guasti prodotti dall’enorme conflitto d’interessi ancora aperto, sono recentemente venute le reazioni alle rivelazioni sulle esplicite telefonate intercorse fra i vertici operativi di Mediaset e i dirigenti legati direttamente a Berlusconi all’interno della Rai, con particolare riferimento a Deborah Bergamini e a Saccà.
In queste due occasioni si è avverata l’antica metafora sullo stolto che quando il dito indica la luna si limita a guardare il dito…Una miriade di esponenti politici, di opposizione come della maggioranza, ha scatenato una campagna sulla responsabilità professionale ed etica della stampa e di singoli giornalisti, sottovalutando o ignorando totalmente il contenuto delle intercettazioni. E’ così passato in secondo piano prima la gravità del “golpe” tentato e in buona parte riuscito sul Servizio Pubblico da parte dell’azienda televisiva di proprietà dell’allora capo del governo, attraverso una sorta di “quinta colonna” che ha alterato per anni funzioni, autonomia, capacità competitiva, scelte editoriali e produttive. Come tanti altri dirigenti della Rai, io stesso, allora Direttore di Rai News 24, ho personalmente avvertito sulla pelle della Testata l’evidente anomalia e la sopraffazione in corso sugli interessi generali e le prospettive aziendali. Poi il tentativo, sempre mediante vincoli di “sudditanza” politica e personale di personaggi che tradivano il mandato, di usare la Rai come mezzo di pressione per influenzare il voto di esponenti politici dello schieramento di governo. Non sappiamo ovviamente se e in quale misura queste vicende assumeranno peso giudiziario e come influiranno sui disastrati e instabili equilibri di gestione del Servizio Pubblico, ma siamo assolutamente certi della loro rilevanza morale e politica, del diritto dei cittadini a conoscerle fino in fondo e del conseguente dovere dell’informazione di descriverle ed analizzarle. Allo stesso tempo si può non coglierne l’ulteriore urgenza di una legislazione che spezzi il perpetuarsi del conflitto d’interessi e che cambi allo stesso tempo profondamente la normativa del Servizio Pubblico, mettendolo in condizione di reale autonomia dal potere politico e rinnovandone la missione culturale?
Voglio però sottolineare che, quando parliamo di conflitto d’interessi, non possiamo riferirci esclusivamente alla posizione dominante di Silvio Berlusconi, certo centrale e decisiva per qualsiasi futuro assetto politico come per determinare equilibri e opportunità di un mercato editoriale competitivo, dotato di regole condivise e all’altezza di una democrazia matura.
Su questo punto il governo deve senza ulteriori indugi aprire sul serio il confronto in Parlamento, facendo sì – come giustamente sottolinea Giulietti – che la fondamentale trattativa per arrivare a definire una nuova, corretta legge elettorale, non ponga in alcun modo in secondo piano il confronto legislativo sul conflitto d’interessi e sul sia pur timido progetto Gentiloni per la riforma della Rai.
Sia per l’uno che per l’altro aspetto, così evidentemente diversi e distanti, è infatti in gioco la democrazia.
Partiamo dunque da qui, ma non dimentichiamo che l’Italia è ormai immersa in una inquietante deriva nella quale fattori di crisi investono tutti i poteri previsti dalla Costituzione, che vedono ciascuno la presenza di piccoli o macroscopici conflitti d’interesse e comportamenti al di fuori o al di sopra di ogni regola, che tradiscono il mandato e le competenze istituzionali dei gruppi e di singoli rappresentanti… Si potrebbero elencare a lungo le contraddizioni, le deviazioni, i condizionamenti, le interferenze, gli interessi corporativi e di casta – intrisi di sottopotere ed arrivismo se non in alcuni casi di arricchimento personale – che costellano i percorsi legislativi e parlamentari, del governo, della stessa magistratura (come dimostrano le recenti polemiche innescate dalla dura denuncia di Ilda Boccassini). Per non parlare della società italiana, che appare
a ogni livello frammentata in interessi di parte, in angusti egoismi di consorterie, in individualismi anarcoidi, ben al di fuori dal rispetto degli altri e dall’osservanza di regole e leggi certe per tutti, sempre più priva di principi etici validi al di fuori del ristretto confine del giardino di casa, del proprio tavolo di ufficio, della propria autovettura.
E’ contro questa deriva che continuano a combattere spezzoni della società civile, sia ben chiaro insieme con tante persone oneste e motivate in ogni settore, a partire ovviamente da quello delle responsabilità politiche e amministrative, sempre però in posizioni di minoranza, come un esercito assediato e diviso che stenta a tenere il campo, a riconoscersi in obiettivi e sedi collegate di comando, a mantenere un solo schieramento di fronte alle multiformi “invasioni barbariche”.
E ancora una volta l’informazione è contaminata e partecipe in vari modi della deriva invece che della resistenza alla devastazione, venendo molto spesso meno a quell’impegno di illuminazione e conoscenza critica della realtà, che consentirebbe di saldare fronti comuni più vasti e consapevoli, di ripristinare una scala corretta di ideali, di modelli positivi, di capacità critica, di comportamenti pubblici e privati nello spirito della Costituzione.
Se il personaggio e il ruolo assunti da Berlusconi sono ormai divenuti totalizzanti nella vita e nell’immaginario del Paese, parametro insostituibile di antitetiche scelte politiche, come di quelle civili, sociali e culturali, traiamone almeno un esempio emblematico di ciò che è divenuta e di ciò che invece non dovrebbe essere la realtà, a partire da quella dell’informazione.

Due mesi fa, l’11 Novembre 2007, dal palco di Montecatini, dinanzi ai Comitati del Buon Governo costruiti da Marcello Dell’Utri, Berlusconi si mise al fianco il senatore siciliano, un braccio fraternamente attorno alle spalle e inscenò una sua strenua e dettagliata difesa, in attesa del verdetto di secondo grado dopo la condanna in Assise per partecipazione esterna all’organizzazione mafiosa. Ovviamente silenzio su questa sentenza, su altre di natura penale già passate in giudicato, su notissime circostanze di conoscenze e frequentazioni mafiose. Non contento di questo gesto di considerazione e amicizia, che a suo tempo si era ben guardato di fare pubblicamente nei confronti del suo avvocato Cesare Previti, il Cavaliere ha esteso la difesa al ricordo del capo-mafia Vittorio Mangano, a suo tempo per anni fattore dei possedimenti ad Arcore e in stretti rapporti con lo stesso Dell’Utri.

Mangano, morto di malattia mentre scontava in carcere una definitiva condanna per partecipazione a omicidi, traffici di droga, racket, estorsioni e che il giudice Paolo Borsellino definì nell’ultima intervista televisiva come uno dei capi-fila della mafia al Nord, è stato ricordato da Berlusconi solo come un buon uomo vittima di magistrati feroci. Inutilmente – sono parole testuali – questi magistrati cercarono di suggerirgli “accuse inventate” contro Marcello Dell’Utri e contro lui stesso. Insomma, possiamo tranquillamente dire, il ritratto lusinghiero di un vero “ uomo d’onore”, dipinto con un linguaggio e un racconto, al di là delle omissioni e delle evidenti menzogne, davvero degni di Cosa Nostra…
Cosa sarebbe accaduto nella stampa e nelle televisioni di mezzo mondo, se un ex-premier potentissimo e leader dell’opposizione si fosse lasciato andare a questo sfogo pubblico, evidentemente calcolato e probabilmente da qualcuno richiesto? E cosa si sarebbe mosso in Parlamento e nell’opinione pubblica? Da noi non è avvenuto alcunché: due giorni di smilza cronaca, qualche raro commento dei “soliti fogli comunisti”, l’indignazione di pochi siti pervicacemente contestatori (per fortuna almeno il sonoro originale è ascoltabile sul salvifico You Tube).
Questa è oggi l’Italia e non solo quella dell’informazione.

di Roberto Morrione