09 marzo 2008

Inflazione come SuperCiuK



Un personaggio nella serie a fumetti di Alan Ford, Superciuk da Wikipedia "È il mitico Robin Hood al contrario, che ruba ai poveri per dare ai ricchi. La sua arma è la fiatata alcolica, che l'eroe alimenta in un primo momento con del barbera di pessima qualità e poi con un mix micidiale, i terribili pomodori cipollati. Superciuk, il vendicatore grasso e mascherato, nella vita borghese è uno spazzino perennemente soggetto alle angherie della compagna, la bandita Beppa Giosef. Fondamentalmente è un idealista, convinto che i ricchi siano persone in quanto non buttano le cartacce a terra".
Il denaro divorato da soldi creati dal "nulla" non fa parte del PIL, ma si tratta di denaro rubato ai produttori di PIL. Certo, ma fino a quando questo andazzo?


L’Italia è un Paese poco produttivo, ossia che produce pochi beni e servizi. Evidentemente, ci sono troppi «segni monetari» che competono alla caccia dei pochi beni e servizi, e producono i rincari. Come si dice in gergo, l’offerta aggregata è inferiore alla domanda aggregata e solvibile. Fuori dal gergo, c’è chi ha troppi soldi da spendere, in confronto ai beni e servizi che il Paese produce.

Vediamo: chi ha troppi soldi da spendere, in confronto a ciò che produce? Non certo il 90% dei lavoratori italiani, malpagati e precari. Anzi, gli operai - i produttori di merci - sono i meno pagati d’Europa e non arrivano a fine mese (e sul loro magro salario lordo subiscono prelievi tributari del 43% direttamente, ma del 60% se vi aggiungete l’IVA, le accise, gli infiniti balzelli che gravano sul reddito fisso, e sul consumatore finale: il fisco italiano è arrivato a tassare tanto i poveri, da renderli miseri).

Anche tra i dipendenti pubblici, quelli utili - ossia che forniscono servizi - sono i meno pagati:
i guidatori municipali di autobus e tram, per esempio, o i poliziotti, o gli insegnanti. Costoro non producono inflazione, per il fatto che quel che il denaro che percepiscono è corrispettivo a cose o servizi che essi producono, anzi sono pagati meno di quel che vale ciò che producono o forniscono.

Evidentemente, a produrre la specifica inflazione italiana sono i redditi «non guadagnati», ossia quelli pagati per produrre servizi che non forniscono. Quelli che hanno i soldi, con cui comprano cose che non hanno contribuito a fare. E tanti soldi, da potersi permettere prezzi alti, sì da «spiazzare» i produttori con redditi modesti. Non è difficile identificare questa classe.

Ne fanno parte, ad esempio, gli impiegati del Comune di Roma che ogni anno si godono 37 giorni ciascuno di assenze retribuite e ingiustificate: essi percepiscono anche per quei giorni in cui non forniscono servizio alcuno. Redditi non guadagnati, e piuttosto grassi: ogni dipendente del comune di Roma costa oltre 46 mila euro annui, una paga che alla Thyssen si sognano gli ingegneri. Non stupisce che si assentino per fare shopping. Ma oltre a loro, ci sono i dipendenti di tutti i Comuni, che totalizzano 22-27 giorni di assenze per «malattia» o «permesso» ciascuno.

E ancora più su, tutte le burocrazie inadempienti che poppano denaro pubblico, e la cui scomparsa non produrrebbe nessun problema grave al Paese, perché l’utilità dei loro «servizi» è nulla, e spesso non forniscono servizio alcuno - almeno non proporzionale al livello dei loro emolumenti. La sparizione repentina delle centinaia di assessori regionali (tra 150 e 400 mila euro annui) non ci lascerebbe a piedi, come la scomparsa dei tranvieri. Anzi, ci lascerebbe lieti e allegri.

E lo stesso si dica dei consiglieri d’amministrazione delle ASL, della direttrice generale
del Demanio Elisabetta Spitz in Follini (300 mila euro), del personale di Bankitalia al completo,
dei manager pubblico-privati delle «partecipate», di moltissimi giudici il cui servizio consiste
in sentenze che arrivano dopo un decennio e sono rovesciate dal superiore grado di giudizio, dei mille deputati e senatori a 15 mila euro mensili, dei segretari parlamentari e dei commessi parlamentari (stipendio iniziale netto 7 mila euro), dei cinquemila e passa dipendenti del Quirinale, dei cuochi della buvette Montecitorio, degli autisti delle autoblù, del personale Alitalia che non vola ma viene pagato.

E’ una bella pletora, che riceve un sacco di soldi e non fornisce in cambio servizio alcuno.
Almeno, nessun servizio che aiuti la nazione ad essere più competitiva, o anche solo più attraente.
Il barbiere di Montecitorio a 10 mila euro mensili fa sì il servizio di barba e capelli a deputati in sovrannumero; ma è un servizio di nessuna utilità per gli operai della Thyssen e i giovani precari trimestrali. Il fatto che i deputati siano ben pettinati non migliora in alcun modo la quantità e qualità delle merci e dei servizi che l’Italia produce e di cui ha bisogno. Non foss’altro perché le teste dei deputati sono di per sé di nessuna utilità e in eccesso (una Camera di 100 parlamentari sarebbe più potente e incisiva), siano o no ben impomatate; e poi, perché quel servizio viene fornito da barbieri privati a molto meno.

Ecco chi ha tanti soldi non guadagnati. E sono tanti, tantissimi. Il governo indiano si è proposto di ridurre la sua macchina burocratica pubblica, che ritiene pletorica e (per questo) inefficiente. Fossimo un Paese serio, manderemmo di corsa degli esperti a vedere come fa l’India a funzionare oggi: la sua «pletora» è costituita da 10 milioni di dipendenti pubblici, ma stiamo parlando di un paese con 900 milioni di abitanti. E i suoi dirigenti locali massimi, i «collectors» (specie di super-prefetti) guadagnano 350 euro al mese. L’Italia, con 60 milioni scarsi di abitanti, ha 3,2 milioni di dipendenti pubblici: un terzo dell’India, con 15 volte meno di popolazione.

Senza contare i pubblici precari, assunti a termine per fare il lavoro che la parte meglio pagata
di quei tre milioni non fa. Questa è la classe che ha tanti soldi per pagare le merci che l’Italia produce scarsamente (perché ostacolata da questi percettori di denaro pubblico che non hanno guadagnato), e i cattivi e scarsi servizi. Con tanti soldi in tasca, sono loro che fanno aumentare i prezzi: la Casta. I parassiti pubblici sono attivissimi produttori d’inflazione. In che senso attivissimi?

Perché essendo vicini al potere, protetti dai sindacati e sottratti ad ogni competizione internazionale, hanno anche il privilegio di esigere o di assegnarsi, sui salari indebiti, degli aumenti che costantemente superano l’inflazione: il loro potere d’acquisto non diminuisce mai. In questi ultimi anni, gli aumenti ai pubblici dipendenti in genere sono stati attorno al 7% (poliziotti, pompieri e tranvieri, ossia gli utili, esclusi); i deputati si concedono aumenti da 200 euro mensili a botta.

La troppo numerosa casta dei parassiti e inadempienti, che hanno tanti soldi da spendere
in voluttuari (ristoranti, viaggi, feste, piscine a forma di cuore, BMW, mobili d’antiquariato) impedisce che il basso e decrescente potere d’acquisto della popolazione ottenga l’effetto che ci si attenderebbe: l’abbassamento dei prezzi al livello del basso potere d’acquisto, o almeno il rallentamento dell’inflazione.
Il ristoratore può infischiarsene di ribassare il menù per attrarre l’operaio, perché tanto sa che
il ristorante si riempirà di deputati con 15 mila euro mensili in tasca; e se il menù rincara, i deputati si aumentano l’emolumento. Naturalmente non è solo la Casta pubblica ad accendere l’inflazione. Si possono indicare di sfuggita altri.

Le banche, per esempio. Notoriamente, esse producono moneta: quando concedono un mutuo o un fido, creano dal nulla lo pseudo capitale, denaro «vuoto» che poi sarà il debitore a riempire di denaro vero – sudato in attività produttive - pagando i ratei. In questo modo, per esempio, Intesa San Paolo ha esibito quest’anno profitti per 6,85 miliardi di euro, in lire, 13 mila miliardi. Di profitti. In un anno. Che di anno in anno cresce paurosamente, immensamente superiore alla percentuale di crescita del PIL, ossia di quel che producono i veri produttori. Si tratta di denaro non guadagnato. Più precisamente, di denaro rubato ai produttori.

Gli imprenditori che hanno chiesto il fido non hanno profitti in aumento del 4% annuo, quindi hanno dato alla banca più di quanto hanno prodotto e guadagnato in termini reali. Naturalmente, la banca asserisce che i suoi profitti sono guadagnati, in quanto - col credito - offre un servizio utile alle imprese e ai lavoratori, contribuisce alla ricchezza del Paese. Ciò non è più vero, nemmeno nella modesta misura in cui era vero qualche anno fa: oggi le banche distruggono le imprese, rifilando loro «derivati» e altre fantasie speculative che, invariabilmente, rovinano con perdite schiaccianti imprese sanissime, ma ingenue.

Tipico è il caso Italease, che nel primo semestre 2006 esibì un profitto in crescita dell’80%
(80% di profitto in un anno!), ed oggi è fallita dopo aver reso insolventi i suoi clienti migliori.
Più precisamente, come ha spiegato Nino Galloni nel suo «Il grande mutuo» (Editori Riuniti, 2007), la finanza devasta le imprese almeno dal ‘92, quando ha cominciato a comprare azioni, fino a possedere pacchetti di controllo. A quel punto, essi esigono dalla azienda diventata «loro» un tasso di profitto, poniamo, del 7% annuo.

Ma un’azienda non è un BOT a tasso fisso, il suo tasso di profitto fluttua con la sua penetrazione
dei mercati, è in parte aleatorio. Per garantire il tasso voluto dai finanzieri, banche e fondi-pensione, tagliano i «costi»: licenziano i dirigenti e dipendenti più pagati perché più esperti, troncano sulla ricerca e sviluppo, possono persino ridurre la produzione per risparmiare sugli approvvigionamenti.
Per questo, negli anni scorsi, quando le grandi imprese USA annunciavano riduzioni del personale, le loro azioni salivano in Borsa: meno si spende per gli operai, pensano i finanzieri speculatori, più profitto resta per il capitale.

Ma a forza di ridurre il personale, la ricerca, è stata la fantasia e l’inventiva, la capacità di ideare prodotti desiderati dal consumatore, a sparire… in Cina o Taiwan. Così l’Italia arranca, mentre tra il 1993 e il 2004 il reddito del lavoro dipendente è sceso dal 43,7% al 40,7% del PIL, Intesa San Paolo, distruggendo ricchezza reale, e risucchiandola dai produttori, dichiara profitti di quasi 7 miliardi di euro. Un sacco di soldi. Che vanno in parte a dividendi. Che qualcuno spende, spende senza averli guadagnati, senza aver fornito servizi. Restano altri.

Telecom Italia, per esempio, si fa pagare per un servizio insufficiente e arretrato. ENI ed ENEL hanno le bollette più care d’Europa. Tutti questi ci succhiano denaro, e ne hanno troppo da spendere. Sono un bel blocco sociale. Enorme e potentissimo, che «occupa» il potere e gli è colluso, difficile perciò da ridurre a miti consigli. Certo, c’è anche la BCE con la sua creazione di moneta dal nulla per aiutare le banche a prestarsi denaro.



fonti:M.Blondet, wikipedia

08 marzo 2008

Una crisi bancaria che non si nasconde più.



La Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), l’Agenzia federale americana per l’assicurazione dei depositi, solitamente si premura di essere il più ottimista possibile nei suoi rapporti trimestrali. Nell’ultima edizione, però, non ce l’ha fatta ad evitare i toni cupi.

Non ci sono solo i toni ma anche i fatti: la FDIC ha ampliato l’organico della sua Divisione Contenziosi e Commissariamenti in vista dell’ondata di fallimenti bancari e sul suo sito web fa sapere che cerca collaboratori con esperienza “attinente alla chiusura di istituti finanziari”.

Nel Profilo Bancario del quarto trimestre 2007 la FDIC passa in rassegna i risultati finanziari degli istituti che essa garantisce. Da una parte si legge “Le entrate nette trimestrali si riducono al minimo da 16 anni”; da un’altra: “Uno dei quattro grandi istituti ha perso denaro nel quarto trimestre”. Il profitto trimestrale registrato dalle banche si limita a 5,8 miliardi di dollari, il più basso dal 1991, ed è una riduzione dell’84% rispetto ai 35 miliardi registrati nel quarto trimestre del 2006. Per tutto il 2007, la banche registrano profitti per 105 miliardi, il 27% in meno rispetto al 2006, quando furono 145 miliardi.

I crediti in arretrato di oltre 90 giorni sono saliti a 27 miliardi, pari al 33%, negli ultimi tre mesi dell’anno. Si tratta della più alta impennata percentuale registrata da quando la FDIC raccoglie questi dati. Altrettanto rapida è l’impennata dei debiti non riscuotibili, le sofferenze. Tutte insieme, le banche hanno aggiunto 15 miliardi agli accantonamenti perdite e ciononostante il livello degli accantonamenti è sceso a 93 centesimi per ogni dollaro di credito in arretrato. E’ la prima volta dal 1993 che i crediti in arretrato di oltre 90 giorni superano le riserve.

È anche degno di nota il fatto che il volume dei derivati registrato dalle banche sia sceso da 173 a 165 mila miliardi tra settembre e fine anno. Complessivamente, nel 2007 i derivati sono aumentati del 25% rispetto al 2006. Non è la prima volta che si registra una diminuzione trimestrale, ma in ogni caso si tratta della più cospicua. Essa ammonta al 5% ed è superata soltanto da quella del 12% verificatasi nel quarto trimestre 2001, come conseguenza dell’11 settembre. Se anche i mercati dei derivati tirano i remi in barca, vuol dire che la tempesta che le banche si trovano ad affrontare è ben più grave di quanto si voglia ammettere.

06 marzo 2008

Mutui supervalutati


Il valore dei mutui dovrebbe rispettare il valore dell'immobile. Ma se l'immobile si deprezza molto, ha senso pagare per un qualcosa che non vale il suo valore? Potrebbe essere una reazione a catena del globalismo. Disinnescheranno questa miccia le banche leader nei mutui a tasso variabile?

I pignoramenti di case gravate da mutui che i proprietari non riescono più a pagare toccheranno quest’anno i due milioni.

Una tragedia per due milioni di famiglie buttate sul marciapiede; ma un dramma anche per le banche prestatrici, che si troveranno con due milioni di immobili da vendere su un mercato che sta crollando (i prezzi delle case esistenti sono scesi in USA per la prima volta dalla Grande Depressione), e probabilmente resteranno invendute.
Per questo Ben Bernanke, parlando ad una riunione di uomini d’affari a Orlando in Florida, ha invitato i prestatori a condonare ai debitori una parte del capitale.
«Questo può essere il mezzo relativamente più efficace per scongiurare insolvenze e pignoramenti», ha detto, che rinegoziare i tassi d’interesse .
Ogni rata di mutuo, come si sa, è composta di due parti: una parte è la restituzione del capitale, un’altra gli interessi.
Il segretario al Tesoro USA Hank Paulson ha finora esortato i banchieri a rinegoziare gli interessi (a tasso variabile, nodo scorsoio per i debitori), prolungano la durata del mutuo.
Ben Bernanke l’ha scavalcato in «socialità», con una proposta rivoluzionaria per un banchiere centrale: condonare parte del capitale significa, anzitutto, ammettere che non è più tempo di lasciar agire la mano invisibile del mercato, ossia la legge della domanda-offerta; significa anche che le banche devono riconoscere che una casa che hanno ipotecato per un valore 100, oggi - dopo il collasso della bolla immobiliare subprime - vale 80 o 60.
E che il debitore ha il diritto morale di pagare il mutuo su 80 (o 60), non su 100.
Il che è la pura verità, nel senso che rispecchia la realtà di fatto.
A preoccupare Bernanke sono appunto i milioni di debitori il cui mutuo supera il valore, agli attuali prezzi di mercato, della casa su cui il mutuo grava.
Questi disgraziati hanno un perverso incentivo a non pagare, rendersi insolventi (stanno pagando troppo un attivo svalutato), e persino a farsi pignorare la casa, che ormai è un nodo scorsoio di ratei crescenti.
Gli effetti a catena sull’economia generale di 2 milioni di immobili buttati su un mercato che non compra, e venduti all’incanto in piena crisi, sarebbero spaventosi sull’intera economia; i prezzi degli immobili, già calanti, precipiterebbero nell’abisso, volatilizzando trilioni di dollari di «valore»; l’attività edilizia sarebbe paralizzata per anni; le banche e in generale i prestatori ne soffrirebbero per la diminuzione generale dei «valori» su cui hanno concesso mutui e prestiti.
Un avvitamento in un circolo vizioso dalle conseguenze esplosive sulla società intera.
Giustamente Bernanke ha detto che «un più ampio uso dei condoni di capitale sarebbe nell’interesse sia dei creditori che dei debitori», specie se - ha aggiunto – «con una valutazione condivisa».
I banchieri e i debitori dovrebbero accordarsi sul valore attuale e minore del bene immobile.
Dal punto di vista dell’ideologia liberista, la proposta di Bernanke è un’inaudita eresia .
Il capitalismo iper-speculativo si è già sollevato contro come un sol uomo: chi ha comprato a man bassa le varie obbligazioni «garantite da mutuo», ora teme che il valore di quelle obbligazioni, già precipitato obbligando le banche a confessare miliardi di dollari di perdite di crediti, cali a zero e sottozero.
I creditori non hanno mai accettato di riconoscere la svalutazione della quota-capitale, perché è su quel «valore» che essi costruiscono i loro trucchi finanziari, e devono continuare a far credere che quel valore sia solido e fisso; preferiscono concedere rinegoziazioni sulla quota-interessi.
Le proposte del segretario al tesoro Hank Paulson risponde appunto alle preoccupazioni della finanza speculativa e virtuale.
L’idea di Bernanke invece - e questo è rivoluzionario - intende rispondere alle preoccupazioni delle famiglie reali che abitano nelle case reali: lasciarli abitare in quelle case svalutate - e svalutate in modo che le rate del mutuo diventino miti e pagabili - è sempre meglio che aver due milioni di senzatetto.
Inoltre, i «valori» del «capitale» a cui le banche tengono tanto, sono già svalutati nella realtà.
Le banche stesse praticano la riduzione del capitale quando, alle prese con crediti difficili da esigere, li vendono ad agenzie di recupero al 40% del «valore», avendo comunque realizzato un guadagno netto una volta detratte le loro spese.
Perché dunque non fare alle famiglie debitrici lo sconto che fanno alle agenzie di recupero-crediti?
Certo per la speculazione questa svalutazione degli immobili reali sarebbe «napalm sul fuoco», come ha detto Julian Mans, gestore del fondo First Pacific Advisory (che ha minacciato: «Se il capitale collaterale è diminuito, io chiederò interessi altissimi per comprare debito da mutui»).
Ma per l’economia reale, sarebbe una guarigione.
Ribassati i valori degli immobili a termini più realistici, per esempio l’industria edilizia - parte notevole del PIL di ogni Paese - potrebbe riprendere a costruire, attività che ora è bloccata; le banche stesse, imbarcate le loro perdite, potrebbero passare oltre, in un’economia che riprende e non quella di oggi, paralizzata da montagne di debiti inconfessabili.
Basta ricordare che il rifiuto di svalutare e condonare i debiti, con le banche che si tenevano crediti ormai inesigibili scritti a valori irreali sui loro libri contabili, è stata la causa della decennale recessione-deflazione giapponese.
L’idea di Bernanke segnala la fine del capitalismo senza freni, e l’inizio dell’intervento pubblico nella finanza.
Ogni tanto, gli usurai hanno bisogno che lo Stato indìca un giubileo: per il loro stesso bene.

M. Blondet

09 marzo 2008

Inflazione come SuperCiuK



Un personaggio nella serie a fumetti di Alan Ford, Superciuk da Wikipedia "È il mitico Robin Hood al contrario, che ruba ai poveri per dare ai ricchi. La sua arma è la fiatata alcolica, che l'eroe alimenta in un primo momento con del barbera di pessima qualità e poi con un mix micidiale, i terribili pomodori cipollati. Superciuk, il vendicatore grasso e mascherato, nella vita borghese è uno spazzino perennemente soggetto alle angherie della compagna, la bandita Beppa Giosef. Fondamentalmente è un idealista, convinto che i ricchi siano persone in quanto non buttano le cartacce a terra".
Il denaro divorato da soldi creati dal "nulla" non fa parte del PIL, ma si tratta di denaro rubato ai produttori di PIL. Certo, ma fino a quando questo andazzo?


L’Italia è un Paese poco produttivo, ossia che produce pochi beni e servizi. Evidentemente, ci sono troppi «segni monetari» che competono alla caccia dei pochi beni e servizi, e producono i rincari. Come si dice in gergo, l’offerta aggregata è inferiore alla domanda aggregata e solvibile. Fuori dal gergo, c’è chi ha troppi soldi da spendere, in confronto ai beni e servizi che il Paese produce.

Vediamo: chi ha troppi soldi da spendere, in confronto a ciò che produce? Non certo il 90% dei lavoratori italiani, malpagati e precari. Anzi, gli operai - i produttori di merci - sono i meno pagati d’Europa e non arrivano a fine mese (e sul loro magro salario lordo subiscono prelievi tributari del 43% direttamente, ma del 60% se vi aggiungete l’IVA, le accise, gli infiniti balzelli che gravano sul reddito fisso, e sul consumatore finale: il fisco italiano è arrivato a tassare tanto i poveri, da renderli miseri).

Anche tra i dipendenti pubblici, quelli utili - ossia che forniscono servizi - sono i meno pagati:
i guidatori municipali di autobus e tram, per esempio, o i poliziotti, o gli insegnanti. Costoro non producono inflazione, per il fatto che quel che il denaro che percepiscono è corrispettivo a cose o servizi che essi producono, anzi sono pagati meno di quel che vale ciò che producono o forniscono.

Evidentemente, a produrre la specifica inflazione italiana sono i redditi «non guadagnati», ossia quelli pagati per produrre servizi che non forniscono. Quelli che hanno i soldi, con cui comprano cose che non hanno contribuito a fare. E tanti soldi, da potersi permettere prezzi alti, sì da «spiazzare» i produttori con redditi modesti. Non è difficile identificare questa classe.

Ne fanno parte, ad esempio, gli impiegati del Comune di Roma che ogni anno si godono 37 giorni ciascuno di assenze retribuite e ingiustificate: essi percepiscono anche per quei giorni in cui non forniscono servizio alcuno. Redditi non guadagnati, e piuttosto grassi: ogni dipendente del comune di Roma costa oltre 46 mila euro annui, una paga che alla Thyssen si sognano gli ingegneri. Non stupisce che si assentino per fare shopping. Ma oltre a loro, ci sono i dipendenti di tutti i Comuni, che totalizzano 22-27 giorni di assenze per «malattia» o «permesso» ciascuno.

E ancora più su, tutte le burocrazie inadempienti che poppano denaro pubblico, e la cui scomparsa non produrrebbe nessun problema grave al Paese, perché l’utilità dei loro «servizi» è nulla, e spesso non forniscono servizio alcuno - almeno non proporzionale al livello dei loro emolumenti. La sparizione repentina delle centinaia di assessori regionali (tra 150 e 400 mila euro annui) non ci lascerebbe a piedi, come la scomparsa dei tranvieri. Anzi, ci lascerebbe lieti e allegri.

E lo stesso si dica dei consiglieri d’amministrazione delle ASL, della direttrice generale
del Demanio Elisabetta Spitz in Follini (300 mila euro), del personale di Bankitalia al completo,
dei manager pubblico-privati delle «partecipate», di moltissimi giudici il cui servizio consiste
in sentenze che arrivano dopo un decennio e sono rovesciate dal superiore grado di giudizio, dei mille deputati e senatori a 15 mila euro mensili, dei segretari parlamentari e dei commessi parlamentari (stipendio iniziale netto 7 mila euro), dei cinquemila e passa dipendenti del Quirinale, dei cuochi della buvette Montecitorio, degli autisti delle autoblù, del personale Alitalia che non vola ma viene pagato.

E’ una bella pletora, che riceve un sacco di soldi e non fornisce in cambio servizio alcuno.
Almeno, nessun servizio che aiuti la nazione ad essere più competitiva, o anche solo più attraente.
Il barbiere di Montecitorio a 10 mila euro mensili fa sì il servizio di barba e capelli a deputati in sovrannumero; ma è un servizio di nessuna utilità per gli operai della Thyssen e i giovani precari trimestrali. Il fatto che i deputati siano ben pettinati non migliora in alcun modo la quantità e qualità delle merci e dei servizi che l’Italia produce e di cui ha bisogno. Non foss’altro perché le teste dei deputati sono di per sé di nessuna utilità e in eccesso (una Camera di 100 parlamentari sarebbe più potente e incisiva), siano o no ben impomatate; e poi, perché quel servizio viene fornito da barbieri privati a molto meno.

Ecco chi ha tanti soldi non guadagnati. E sono tanti, tantissimi. Il governo indiano si è proposto di ridurre la sua macchina burocratica pubblica, che ritiene pletorica e (per questo) inefficiente. Fossimo un Paese serio, manderemmo di corsa degli esperti a vedere come fa l’India a funzionare oggi: la sua «pletora» è costituita da 10 milioni di dipendenti pubblici, ma stiamo parlando di un paese con 900 milioni di abitanti. E i suoi dirigenti locali massimi, i «collectors» (specie di super-prefetti) guadagnano 350 euro al mese. L’Italia, con 60 milioni scarsi di abitanti, ha 3,2 milioni di dipendenti pubblici: un terzo dell’India, con 15 volte meno di popolazione.

Senza contare i pubblici precari, assunti a termine per fare il lavoro che la parte meglio pagata
di quei tre milioni non fa. Questa è la classe che ha tanti soldi per pagare le merci che l’Italia produce scarsamente (perché ostacolata da questi percettori di denaro pubblico che non hanno guadagnato), e i cattivi e scarsi servizi. Con tanti soldi in tasca, sono loro che fanno aumentare i prezzi: la Casta. I parassiti pubblici sono attivissimi produttori d’inflazione. In che senso attivissimi?

Perché essendo vicini al potere, protetti dai sindacati e sottratti ad ogni competizione internazionale, hanno anche il privilegio di esigere o di assegnarsi, sui salari indebiti, degli aumenti che costantemente superano l’inflazione: il loro potere d’acquisto non diminuisce mai. In questi ultimi anni, gli aumenti ai pubblici dipendenti in genere sono stati attorno al 7% (poliziotti, pompieri e tranvieri, ossia gli utili, esclusi); i deputati si concedono aumenti da 200 euro mensili a botta.

La troppo numerosa casta dei parassiti e inadempienti, che hanno tanti soldi da spendere
in voluttuari (ristoranti, viaggi, feste, piscine a forma di cuore, BMW, mobili d’antiquariato) impedisce che il basso e decrescente potere d’acquisto della popolazione ottenga l’effetto che ci si attenderebbe: l’abbassamento dei prezzi al livello del basso potere d’acquisto, o almeno il rallentamento dell’inflazione.
Il ristoratore può infischiarsene di ribassare il menù per attrarre l’operaio, perché tanto sa che
il ristorante si riempirà di deputati con 15 mila euro mensili in tasca; e se il menù rincara, i deputati si aumentano l’emolumento. Naturalmente non è solo la Casta pubblica ad accendere l’inflazione. Si possono indicare di sfuggita altri.

Le banche, per esempio. Notoriamente, esse producono moneta: quando concedono un mutuo o un fido, creano dal nulla lo pseudo capitale, denaro «vuoto» che poi sarà il debitore a riempire di denaro vero – sudato in attività produttive - pagando i ratei. In questo modo, per esempio, Intesa San Paolo ha esibito quest’anno profitti per 6,85 miliardi di euro, in lire, 13 mila miliardi. Di profitti. In un anno. Che di anno in anno cresce paurosamente, immensamente superiore alla percentuale di crescita del PIL, ossia di quel che producono i veri produttori. Si tratta di denaro non guadagnato. Più precisamente, di denaro rubato ai produttori.

Gli imprenditori che hanno chiesto il fido non hanno profitti in aumento del 4% annuo, quindi hanno dato alla banca più di quanto hanno prodotto e guadagnato in termini reali. Naturalmente, la banca asserisce che i suoi profitti sono guadagnati, in quanto - col credito - offre un servizio utile alle imprese e ai lavoratori, contribuisce alla ricchezza del Paese. Ciò non è più vero, nemmeno nella modesta misura in cui era vero qualche anno fa: oggi le banche distruggono le imprese, rifilando loro «derivati» e altre fantasie speculative che, invariabilmente, rovinano con perdite schiaccianti imprese sanissime, ma ingenue.

Tipico è il caso Italease, che nel primo semestre 2006 esibì un profitto in crescita dell’80%
(80% di profitto in un anno!), ed oggi è fallita dopo aver reso insolventi i suoi clienti migliori.
Più precisamente, come ha spiegato Nino Galloni nel suo «Il grande mutuo» (Editori Riuniti, 2007), la finanza devasta le imprese almeno dal ‘92, quando ha cominciato a comprare azioni, fino a possedere pacchetti di controllo. A quel punto, essi esigono dalla azienda diventata «loro» un tasso di profitto, poniamo, del 7% annuo.

Ma un’azienda non è un BOT a tasso fisso, il suo tasso di profitto fluttua con la sua penetrazione
dei mercati, è in parte aleatorio. Per garantire il tasso voluto dai finanzieri, banche e fondi-pensione, tagliano i «costi»: licenziano i dirigenti e dipendenti più pagati perché più esperti, troncano sulla ricerca e sviluppo, possono persino ridurre la produzione per risparmiare sugli approvvigionamenti.
Per questo, negli anni scorsi, quando le grandi imprese USA annunciavano riduzioni del personale, le loro azioni salivano in Borsa: meno si spende per gli operai, pensano i finanzieri speculatori, più profitto resta per il capitale.

Ma a forza di ridurre il personale, la ricerca, è stata la fantasia e l’inventiva, la capacità di ideare prodotti desiderati dal consumatore, a sparire… in Cina o Taiwan. Così l’Italia arranca, mentre tra il 1993 e il 2004 il reddito del lavoro dipendente è sceso dal 43,7% al 40,7% del PIL, Intesa San Paolo, distruggendo ricchezza reale, e risucchiandola dai produttori, dichiara profitti di quasi 7 miliardi di euro. Un sacco di soldi. Che vanno in parte a dividendi. Che qualcuno spende, spende senza averli guadagnati, senza aver fornito servizi. Restano altri.

Telecom Italia, per esempio, si fa pagare per un servizio insufficiente e arretrato. ENI ed ENEL hanno le bollette più care d’Europa. Tutti questi ci succhiano denaro, e ne hanno troppo da spendere. Sono un bel blocco sociale. Enorme e potentissimo, che «occupa» il potere e gli è colluso, difficile perciò da ridurre a miti consigli. Certo, c’è anche la BCE con la sua creazione di moneta dal nulla per aiutare le banche a prestarsi denaro.



fonti:M.Blondet, wikipedia

08 marzo 2008

Una crisi bancaria che non si nasconde più.



La Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), l’Agenzia federale americana per l’assicurazione dei depositi, solitamente si premura di essere il più ottimista possibile nei suoi rapporti trimestrali. Nell’ultima edizione, però, non ce l’ha fatta ad evitare i toni cupi.

Non ci sono solo i toni ma anche i fatti: la FDIC ha ampliato l’organico della sua Divisione Contenziosi e Commissariamenti in vista dell’ondata di fallimenti bancari e sul suo sito web fa sapere che cerca collaboratori con esperienza “attinente alla chiusura di istituti finanziari”.

Nel Profilo Bancario del quarto trimestre 2007 la FDIC passa in rassegna i risultati finanziari degli istituti che essa garantisce. Da una parte si legge “Le entrate nette trimestrali si riducono al minimo da 16 anni”; da un’altra: “Uno dei quattro grandi istituti ha perso denaro nel quarto trimestre”. Il profitto trimestrale registrato dalle banche si limita a 5,8 miliardi di dollari, il più basso dal 1991, ed è una riduzione dell’84% rispetto ai 35 miliardi registrati nel quarto trimestre del 2006. Per tutto il 2007, la banche registrano profitti per 105 miliardi, il 27% in meno rispetto al 2006, quando furono 145 miliardi.

I crediti in arretrato di oltre 90 giorni sono saliti a 27 miliardi, pari al 33%, negli ultimi tre mesi dell’anno. Si tratta della più alta impennata percentuale registrata da quando la FDIC raccoglie questi dati. Altrettanto rapida è l’impennata dei debiti non riscuotibili, le sofferenze. Tutte insieme, le banche hanno aggiunto 15 miliardi agli accantonamenti perdite e ciononostante il livello degli accantonamenti è sceso a 93 centesimi per ogni dollaro di credito in arretrato. E’ la prima volta dal 1993 che i crediti in arretrato di oltre 90 giorni superano le riserve.

È anche degno di nota il fatto che il volume dei derivati registrato dalle banche sia sceso da 173 a 165 mila miliardi tra settembre e fine anno. Complessivamente, nel 2007 i derivati sono aumentati del 25% rispetto al 2006. Non è la prima volta che si registra una diminuzione trimestrale, ma in ogni caso si tratta della più cospicua. Essa ammonta al 5% ed è superata soltanto da quella del 12% verificatasi nel quarto trimestre 2001, come conseguenza dell’11 settembre. Se anche i mercati dei derivati tirano i remi in barca, vuol dire che la tempesta che le banche si trovano ad affrontare è ben più grave di quanto si voglia ammettere.

06 marzo 2008

Mutui supervalutati


Il valore dei mutui dovrebbe rispettare il valore dell'immobile. Ma se l'immobile si deprezza molto, ha senso pagare per un qualcosa che non vale il suo valore? Potrebbe essere una reazione a catena del globalismo. Disinnescheranno questa miccia le banche leader nei mutui a tasso variabile?

I pignoramenti di case gravate da mutui che i proprietari non riescono più a pagare toccheranno quest’anno i due milioni.

Una tragedia per due milioni di famiglie buttate sul marciapiede; ma un dramma anche per le banche prestatrici, che si troveranno con due milioni di immobili da vendere su un mercato che sta crollando (i prezzi delle case esistenti sono scesi in USA per la prima volta dalla Grande Depressione), e probabilmente resteranno invendute.
Per questo Ben Bernanke, parlando ad una riunione di uomini d’affari a Orlando in Florida, ha invitato i prestatori a condonare ai debitori una parte del capitale.
«Questo può essere il mezzo relativamente più efficace per scongiurare insolvenze e pignoramenti», ha detto, che rinegoziare i tassi d’interesse .
Ogni rata di mutuo, come si sa, è composta di due parti: una parte è la restituzione del capitale, un’altra gli interessi.
Il segretario al Tesoro USA Hank Paulson ha finora esortato i banchieri a rinegoziare gli interessi (a tasso variabile, nodo scorsoio per i debitori), prolungano la durata del mutuo.
Ben Bernanke l’ha scavalcato in «socialità», con una proposta rivoluzionaria per un banchiere centrale: condonare parte del capitale significa, anzitutto, ammettere che non è più tempo di lasciar agire la mano invisibile del mercato, ossia la legge della domanda-offerta; significa anche che le banche devono riconoscere che una casa che hanno ipotecato per un valore 100, oggi - dopo il collasso della bolla immobiliare subprime - vale 80 o 60.
E che il debitore ha il diritto morale di pagare il mutuo su 80 (o 60), non su 100.
Il che è la pura verità, nel senso che rispecchia la realtà di fatto.
A preoccupare Bernanke sono appunto i milioni di debitori il cui mutuo supera il valore, agli attuali prezzi di mercato, della casa su cui il mutuo grava.
Questi disgraziati hanno un perverso incentivo a non pagare, rendersi insolventi (stanno pagando troppo un attivo svalutato), e persino a farsi pignorare la casa, che ormai è un nodo scorsoio di ratei crescenti.
Gli effetti a catena sull’economia generale di 2 milioni di immobili buttati su un mercato che non compra, e venduti all’incanto in piena crisi, sarebbero spaventosi sull’intera economia; i prezzi degli immobili, già calanti, precipiterebbero nell’abisso, volatilizzando trilioni di dollari di «valore»; l’attività edilizia sarebbe paralizzata per anni; le banche e in generale i prestatori ne soffrirebbero per la diminuzione generale dei «valori» su cui hanno concesso mutui e prestiti.
Un avvitamento in un circolo vizioso dalle conseguenze esplosive sulla società intera.
Giustamente Bernanke ha detto che «un più ampio uso dei condoni di capitale sarebbe nell’interesse sia dei creditori che dei debitori», specie se - ha aggiunto – «con una valutazione condivisa».
I banchieri e i debitori dovrebbero accordarsi sul valore attuale e minore del bene immobile.
Dal punto di vista dell’ideologia liberista, la proposta di Bernanke è un’inaudita eresia .
Il capitalismo iper-speculativo si è già sollevato contro come un sol uomo: chi ha comprato a man bassa le varie obbligazioni «garantite da mutuo», ora teme che il valore di quelle obbligazioni, già precipitato obbligando le banche a confessare miliardi di dollari di perdite di crediti, cali a zero e sottozero.
I creditori non hanno mai accettato di riconoscere la svalutazione della quota-capitale, perché è su quel «valore» che essi costruiscono i loro trucchi finanziari, e devono continuare a far credere che quel valore sia solido e fisso; preferiscono concedere rinegoziazioni sulla quota-interessi.
Le proposte del segretario al tesoro Hank Paulson risponde appunto alle preoccupazioni della finanza speculativa e virtuale.
L’idea di Bernanke invece - e questo è rivoluzionario - intende rispondere alle preoccupazioni delle famiglie reali che abitano nelle case reali: lasciarli abitare in quelle case svalutate - e svalutate in modo che le rate del mutuo diventino miti e pagabili - è sempre meglio che aver due milioni di senzatetto.
Inoltre, i «valori» del «capitale» a cui le banche tengono tanto, sono già svalutati nella realtà.
Le banche stesse praticano la riduzione del capitale quando, alle prese con crediti difficili da esigere, li vendono ad agenzie di recupero al 40% del «valore», avendo comunque realizzato un guadagno netto una volta detratte le loro spese.
Perché dunque non fare alle famiglie debitrici lo sconto che fanno alle agenzie di recupero-crediti?
Certo per la speculazione questa svalutazione degli immobili reali sarebbe «napalm sul fuoco», come ha detto Julian Mans, gestore del fondo First Pacific Advisory (che ha minacciato: «Se il capitale collaterale è diminuito, io chiederò interessi altissimi per comprare debito da mutui»).
Ma per l’economia reale, sarebbe una guarigione.
Ribassati i valori degli immobili a termini più realistici, per esempio l’industria edilizia - parte notevole del PIL di ogni Paese - potrebbe riprendere a costruire, attività che ora è bloccata; le banche stesse, imbarcate le loro perdite, potrebbero passare oltre, in un’economia che riprende e non quella di oggi, paralizzata da montagne di debiti inconfessabili.
Basta ricordare che il rifiuto di svalutare e condonare i debiti, con le banche che si tenevano crediti ormai inesigibili scritti a valori irreali sui loro libri contabili, è stata la causa della decennale recessione-deflazione giapponese.
L’idea di Bernanke segnala la fine del capitalismo senza freni, e l’inizio dell’intervento pubblico nella finanza.
Ogni tanto, gli usurai hanno bisogno che lo Stato indìca un giubileo: per il loro stesso bene.

M. Blondet