01 giugno 2008

L'imperialismo coloniale americano: le basi militari


Pur in presenza di un debito estero da capogiro, oltre 8.000 miliardi di dollari nel 2007, il bilancio militare degli Stati Uniti ha superato i 625 miliardi durante lo stesso anno e raggiungerà i 640 nel 2008 (in confronto ai 47 della Russia ed ai 43 dell’intera Unione Europea…). Alla fine degli anni settanta, esso ammontava a circa 100 miliardi, era triplicato all’inizio degli anni novanta, nel 2001 era pari a 404 miliardi. Nel 2006 corrispondeva al 3,7% del Pil statunitense ed a poco meno di mille dollari procapite.
Certo, c’è da dire che gli Stati Uniti mantengono 700 e più installazioni militari (il numero non è definibile in modo certo, per motivi di segretezza) in Europa, Africa, Vicino Oriente, Golfo Persico, Asia Centrale, Oceania ed Estremo Oriente, ed in mare una forza aereonavale di 9 portaerei, 75 sommergibili ed uno stuolo di incrociatori, fregate lanciamissili, corvette e naviglio di difesa costiera, scorta ed appoggio.
Secondo il Rapporto Gelman, militari statunitensi sono presenti in 156 Paesi mentre le basi militari sono installate in 63 Stati di quattro continenti. Con quelle del territorio metropolitano e dei loro possedimenti, le basi coprono una superficie totale superiore a 2 milioni di ettari, cosa che fa del Pentagono uno dei più grandi proprietari terrieri del pianeta.
Il numero totale di personale civile e militare statunitense residente in permanenza fuori dal territorio metropolitano è stimato, anche se fluttuante, in 366.000 unità. Di questi, 116.000 sono di stanza in Europa, di cui 75.000 circa in Germania. Secondo le statistiche del Dipartimento della Difesa statunitense, riferite al 31 dicembre 2005, circa 271.000 di queste unità sono di personale militare: 96.000 operano in Paesi Nato, e l’Italia ne ospita più di 11.000. Non meno significativi i contingenti dispiegati in Giappone (35.000) e Corea del Sud (30.000).
L’operazione Iraqi Freedom è condotta da 207.000 effettivi, quella Enduring Freedom in Afghanistan da 20.400: di questi, una percentuale di circa il 10% è stata dislocata a partire dai contingenti statunitensi sparsi nel mondo (in particolare, dalla Germania).
Per la gestione del centro di detenzione di Guantanamo, dulcis in fundo, sono impiegati circa 1.000 soldati.

Le statistiche ufficiali, per quanto accurate, mancano di menzionare alcuni importanti insediamenti: ad esempio, il Base Structure Report del 2003 non nominava l’immensa base di Camp Bondsteel in Kosovo, e diversi altri insediamenti in Afghanistan, Iraq, Israele, Kuwait, Qatar e Kirghizistan,ed Uzbekistan. Nemmeno citava importanti infrastrutture militari e spionistiche presenti nel Regno Unito, a lungo convenientemente classificate come basi dell’aviazione britannica.
Usando onestà, probabilmente si arriverebbero a contare non meno di 1.000 installazioni militari statunitensi in Paesi stranieri, ma nessuno – allo stato attuale neanche lo stesso Pentagono – è in grado di determinare questa cifra con certezza.

Alcune curiosità, per finire:
- alla base di Camp Anaconda, vicino a Baghdad, sono in funzione nove linee di autobus interne per trasportare i soldati ed il personale civile nel suo perimetro di 25 kmq;
- negli ospedali militari delle basi all’estero è proibito, alle 100.000 donne che vivono in esse (comprese quelle che ivi lavorano, mogli e congiunte dei soldati), sottoporsi ad operazioni di aborto;
- la base di Camp Lemonier a Gibuti, storico insediamento della Legione Straniera Francese, oggi è occupata da quasi 2.000 soldati statunitensi, a presidio dell’ingresso al Mar Rosso;
- fra i numerosi progetti di nuove basi (loro lo chiamano “riposizionamento”), gli Stati Uniti pensano di mettere sotto il loro diretto controllo un’area pari a quasi un quarto dell’intera superficie del Kuwait, dove organizzare i rifornimenti del contingente impiegato in Iraq e consentire ai burocrati della cosiddetta Zona Verde di Baghdad di “ritemprarsi” (lontano dagli ormai quotidiani tiri di mortaio della resistenza irakena…).

Un tempo, era possibile tracciare la diffusione dell’imperialismo contando il numero di colonie sparse per il mondo.
La versione americana della colonia è la base militare.
byebyeunclesam

31 maggio 2008

Lo Stato di Israele sempre in pericolo?


Lo spirito di sopravvivenza, il più forte che uccide il più debole. Una spirale ancestrale che si ripete da molti anni.
Il popolo ebraico è sempre in pericolo e la sua sopravvivenza è condizionata da quella dello Stato d’Israele. Su questa base, questo Stato può intraprendere qualsiasi cosa, affrancandosi dalle regole morali, sino a quando lo giudichi necessario per la sopravvivenza del popolo ebraico.Quindi, «l’argomento della Shoah» dispensa lo lo Stato d’Israele dal rispettare il diritto internazionale.



Poche persone non convengono con il fatto che tutti i dirigenti ebraici, tutte le organizzazioni ebraiche, tutte le comunità ebraiche, e tutti i singoli ebrei hanno il dovere di assumersi la continuità del popolo ebraico. Ma, in un mondo dove l’esistenza nel lungo periodo dello Stato d’Israele è lontana dall’essere garantita, l’imperativo di esistere dà luogo, inevitabilmente, a domande difficili.

La principale è la seguente: quando la sopravvivenza del polopolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza vale la candela, o anche, questa esistenza è possibile?

L’esistenza fisica, tenderei ad arguire, ha la precedenza. L’esistenza fisica è necessariamente un preambolo, per quanto morale una società aspiri ad essere.

Israele, in quanto Stato ebraico, è minacciato da pericoli manifesti, sia interni che esterni. E’ molto verosimile che il crollo d’Israele o la sua perdita d’identità ebraica, avrebbe come conseguenza lo scalzamento del popolo ebraico nel suo insieme. Anche nell’esistenza stessa di uno Stato ebraico, dei pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza durevole della diaspora nel lungo termine. Quando le necessità per l’esistenza entrano in conflitto con altri valori, conseguentemente, la Realpolitik dovrebbe avere la precedenza.

Dopo la minaccia di un conflitto disastroso con dei protagonisti islamici quale l’ Iran, fino alla necessità di mantenere dei distinguo tra «noi» e gli «altri» in modo da limitare l’assimilazione, questo imperativo dovrebbe servire da guida per i decisionisti politici.

Sfortunatamente, la storia umana rigetta l’affermazione idealista che, uno Stato, una società o il suo popolo, per soppravivere debbano avere un atteggiamento morale. Date le realtà prevedibili del 21° secolo e anche quelle future, sono inevitabili delle scelte corneliane , per le quali le necessità esistenziali contraddicono spesso, altri valori importanti.

Alcuni potrebbero arguire che dare la priorità all’esistenza, potrebbe al fine divenire controproducente per la stessa, in quanto quello che puo’ essere giudicata un azione immorale potrebbe scalzarne il sostegno, tanto interno quanto esterno, essenziale per lo Stato d’Israele. Comunque la logica propria della Realpolitik dà il primato all’esistenza,
relegando agli ultimi posti una qualsiasi considerazione etica.

La triste realtà è, che il popolo ebraico rischia di essere confrontato con delle scelte tragiche, per le quali devono essere sacrificati valori importanti, nell’interesse di quelli ancora più importanti. Decisioni responsabili, in situazioni così difficili, richiedono una presa di conoscenza senza ambiguità riguardo alle questioni morali in causa, soppesando con cura tutti i valori e tutte le assunzioni di responsabilità nel formare un proprio giudizio autonomo. Queste decisioni esigono anche uno sforzo, e per quanto sia possibile, la violazione di valori morali.

Ciononostante, il popolo ebraico confrontato con tali dilemmi, non si deve far ingannare dal politicamente corretto, né da altre mode suscettibili di ostacolarne il pensiero.

Trattandosi della Cina, per esempio, certi sforzi tendenti a rafforzare i legami tra la superpotenza e il popolo ebraico, dovrebbero mettere la sordina alle campagne ben intenzionate tendenti a interferire con la politica interna di Pechino, in modo specifico nel suo modo di gestire la questione del Tibet. Lo stesso discorso vale per la Turchia, dato il ruolo cruciale di pacificatore che esso ha in Medio Oriente: il dibattito sulla questione armena dovrebbe essere lasciato agli storici, di preferenza non ebrei.

Questo non significa necessariamente sostenere la politica cinese, né denigrare quella armena, ma tener presente che il popolo ebraico deve pensare in primo luogo alla sua esistenza, per quanto morali o immorali queste prese di posizioni possano essere.

E’ richiesta una valutazione dei valori a priori, in modo da poter disporre di guide pronte per formare un giudizio nei contesti specifici, o in condizioni di crisi. Più globalmente si tratta di stabilire se, l’imperativo per il popolo ebraico consista nell’esistere, al punto da superare la quasi totalità degli altri valori, oppure se si tratti di un imperativo confuso ad altri di rango similare. Data sia la storia che la situazione attuale del popolo ebraico, sarei propenso a dire che l’imperativo sia il primo e precede tutti gli alti.

Lasciamo da parte tutti i discorsi di natura trascendentale, i comandamenti biblici, e le parole sagge, che sono le une come le altre soggette a interpretazioni diverse. La giustificazione della priorità che deve essere accordata alla necessità dell’ esistenza è quadrupla:

Primo, il popolo ebraico ha un diritto inerente all’esistenza, esattamente come qualsiasi altro popolo o altra civilizzazione.

Secondo, un popolo che è stato regolarmente perseguitato da più di mille anni è moralmente autorizzato, in termini di giustizia distributiva, a essere particolarmente impietoso quando si tratta di prendersi cura della propria esistenza specialmente in materia di diritto morale, che dico, di dovere di uccidere e essere ucciso, se questo è essenziale per garantire la sua esistenza; anche al costo di altri valori e altre persone. Questo argomento è tanto più imparabile, alla luce di tutte le uccisioni senza precedenti di qualche decennio fa, di un terzo del popolo ebreo; un crimine di massa che è stato sostenuto direttamente e indirettamente, o almeno non è stato impedito quando era possibile, da delle larghe frange del mondo civile.

Terzo, in base alla storia dell’ ebraismo e la storia del suo popolo, ci sono delle forti possibilità che noi continueremo a dare all’ umanità dei contributi etici particolarmente necessari. Tuttavia per poterlo fare, abbiamo bisogno di una esistenza stabile.

Quarto, lo Stato d’Israele è il solo paese democratico la cui stessa esistenza è messa in pericolo da personaggi particolarmente ostili, senza che, ancora una volta, il mondo prenda delle contromisure decisive, che si impongono. Questo giustifica, anzi lo implica. Delle misure non solo inutili, ma potenzialmente immorali in altre circostanze.
Il popolo ebraico deve accordare molto più peso a quello che è il proprio imperativo, per garantire la sua sopravvivenza.

Ci sono beninteso dei limiti; niente potrebbe giustificare un genocidio. Ma, a parte delle rare eccezioni, o essere uccisi e distrutti , la trasgressione di norme assolute e totalizzanti è preferibile. L’esistenza del popolo ebraico compreso quello dello Stato d’Israele, deve essere considerata la prima priorità.

La sicurezza di Israele è sostenuta in maniera significativa dalle buone relazioni con la Turchia e la Cina. Alcuni argomentano che la Turchia è colpevole di genocidio contro gli Armeni in passato, e che la Cina oggi sta reprimendo i Tibetani e la sua opposizione interna ; che i dirigenti e le organizzazioni ebraiche devono sostenere i due Paesi, o almeno restare neutri nei loro confronti. Come minimo i dirigenti ebraici non devono accodarsi alle organizzazioni umanitarie che condannano la Turchia e la Cina.

Nello stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere invece le durissime misure prese contro dei terroristi che, potenzialmente mettono gli ebrei in pericolo, fosse anche al prezzo di violazioni dei Diritti dell’ Uomo e del Diritto Umanitario Internazionale.

Se la minaccia è sufficientemente grave, il ricorso a armi di distruzione di massa da parte di Israele sarebbe giustificato, dal momento in cui sarebbe manifestamente necessario per assicurare la sopravvivenza di Israele, qualsiasi sia il numero imponente di vittime civili innocenti.

Non c’è dubbio, il dibattito sul sapere cosa sia veramente necessario all’esistenza resta aperto. Il fatto di donare la priorità all’ imperativo di esistere non implica necessariamente che si sostenga dalla A alla Z la politica di Israele.

Infatti è vero il contrario; i dirigenti, le organizzazioni e gli individui della diaspora hanno il dovere di criticare la politica israeliana, che, dal loro punto di vista, mette in pericolo lo Stato ebraico e l’esistenza del suo popolo. Essi hanno il dovere di proporre politiche alternative che ne garantiscano l’esistenza.

Ma in fin dei conti, non c’è nessun modo per aggirare le implicazioni pratiche, impietose e dolorose, di dare la priorità all’ esistenza, in quanto norma morale superiore, per il fatto di essere morali sotto altri aspetti. Quando questo è importante per l’esistenza del popolo ebraico, la violazione dei diritti altrui deve essere accettata, con disappunto certamente, ma con determinazione. Il sostegno o la condanna di altri Paesi e delle loro rispettive politiche devono essere eliminati prima di tutto, alla luce delle probabili conseguenze su questo giudizio per l’esistenza del popolo ebraico.

Riassumendo: gli imperativi per l’esistenza devono essere accordati con la priorità su altre condizioni per quanto importanti possano essere tra le quali i valori progressisti e umani, o ancora il sostegno dei Diritti dell’Uomo e la democratizzazione. Questa conclusione tragica, pertanto finale, non è facile da accettare, ma è essenziale per il futuro del popolo ebraico.

Una volta garantita la nostra esistenza, ciò che include la sicurezza fondamentale per Israele, molto può e deve essere sacrificato sull’altare del tikkun olam ( ebr. “riparazione del mondo” n.d.t.). Ma stante le realtà prevedibili presenti e future, la garanzia dell’esistenza è la priorità delle priorità.

Yehezkel Dror

Presidente fondatore del Jewhis People Policicy Planning Institute, e professore emerito in scienze politiche all’ Università ebraica di Gerusalemme. Vincitore del Premio Israele nel 2005, ha fatto parte della commissione d’inchiesta Winograd, sulla guerra israeliana contro il Libano nell’estate del 2006
Poche persone non convengono con il fatto che tutti i dirigenti ebraici, tutte le organizzazioni ebraiche, tutte le comunità ebraiche, e tutti i singoli ebrei hanno il dovere di assumersi la continuità del popolo ebraico. Ma, in un mondo dove l’esistenza nel lungo periodo dello Stato d’Israele è lontana dall’essere garantita, l’imperativo di esistere dà luogo, inevitabilmente, a domande difficili.

La principale è la seguente: quando la sopravvivenza del polopolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza vale la candela, o anche, questa esistenza è possibile?

L’esistenza fisica, tenderei ad arguire, ha la precedenza. L’esistenza fisica è necessariamente un preambolo, per quanto morale una società aspiri ad essere.

Israele, in quanto Stato ebraico, è minacciato da pericoli manifesti, sia interni che esterni. E’ molto verosimile che il crollo d’Israele o la sua perdita d’identità ebraica, avrebbe come conseguenza lo scalzamento del popolo ebraico nel suo insieme. Anche nell’esistenza stessa di uno Stato ebraico, dei pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza durevole della diaspora nel lungo termine. Quando le necessità per l’esistenza entrano in conflitto con altri valori, conseguentemente, la Realpolitik dovrebbe avere la precedenza.

Dopo la minaccia di un conflitto disastroso con dei protagonisti islamici quale l’ Iran, fino alla necessità di mantenere dei distinguo tra «noi» e gli «altri» in modo da limitare l’assimilazione, questo imperativo dovrebbe servire da guida per i decisionisti politici.

Sfortunatamente, la storia umana rigetta l’affermazione idealista che, uno Stato, una società o il suo popolo, per soppravivere debbano avere un atteggiamento morale. Date le realtà prevedibili del 21° secolo e anche quelle future, sono inevitabili delle scelte corneliane , per le quali le necessità esistenziali contraddicono spesso, altri valori importanti.

Alcuni potrebbero arguire che dare la priorità all’esistenza, potrebbe al fine divenire controproducente per la stessa, in quanto quello che puo’ essere giudicata un azione immorale potrebbe scalzarne il sostegno, tanto interno quanto esterno, essenziale per lo Stato d’Israele. Comunque la logica propria della Realpolitik dà il primato all’esistenza,
relegando agli ultimi posti una qualsiasi considerazione etica.

La triste realtà è, che il popolo ebraico rischia di essere confrontato con delle scelte tragiche, per le quali devono essere sacrificati valori importanti, nell’interesse di quelli ancora più importanti. Decisioni responsabili, in situazioni così difficili, richiedono una presa di conoscenza senza ambiguità riguardo alle questioni morali in causa, soppesando con cura tutti i valori e tutte le assunzioni di responsabilità nel formare un proprio giudizio autonomo. Queste decisioni esigono anche uno sforzo, e per quanto sia possibile, la violazione di valori morali.

Ciononostante, il popolo ebraico confrontato con tali dilemmi, non si deve far ingannare dal politicamente corretto, né da altre mode suscettibili di ostacolarne il pensiero.

Trattandosi della Cina, per esempio, certi sforzi tendenti a rafforzare i legami tra la superpotenza e il popolo ebraico, dovrebbero mettere la sordina alle campagne ben intenzionate tendenti a interferire con la politica interna di Pechino, in modo specifico nel suo modo di gestire la questione del Tibet. Lo stesso discorso vale per la Turchia, dato il ruolo cruciale di pacificatore che esso ha in Medio Oriente: il dibattito sulla questione armena dovrebbe essere lasciato agli storici, di preferenza non ebrei.

Questo non significa necessariamente sostenere la politica cinese, né denigrare quella armena, ma tener presente che il popolo ebraico deve pensare in primo luogo alla sua esistenza, per quanto morali o immorali queste prese di posizioni possano essere.

E’ richiesta una valutazione dei valori a priori, in modo da poter disporre di guide pronte per formare un giudizio nei contesti specifici, o in condizioni di crisi. Più globalmente si tratta di stabilire se, l’imperativo per il popolo ebraico consista nell’esistere, al punto da superare la quasi totalità degli altri valori, oppure se si tratti di un imperativo confuso ad altri di rango similare. Data sia la storia che la situazione attuale del popolo ebraico, sarei propenso a dire che l’imperativo sia il primo e precede tutti gli alti.

Lasciamo da parte tutti i discorsi di natura trascendentale, i comandamenti biblici, e le parole sagge, che sono le une come le altre soggette a interpretazioni diverse. La giustificazione della priorità che deve essere accordata alla necessità dell’ esistenza è quadrupla:

Primo, il popolo ebraico ha un diritto inerente all’esistenza, esattamente come qualsiasi altro popolo o altra civilizzazione.

Secondo, un popolo che è stato regolarmente perseguitato da più di mille anni è moralmente autorizzato, in termini di giustizia distributiva, a essere particolarmente impietoso quando si tratta di prendersi cura della propria esistenza specialmente in materia di diritto morale, che dico, di dovere di uccidere e essere ucciso, se questo è essenziale per garantire la sua esistenza; anche al costo di altri valori e altre persone. Questo argomento è tanto più imparabile, alla luce di tutte le uccisioni senza precedenti di qualche decennio fa, di un terzo del popolo ebreo; un crimine di massa che è stato sostenuto direttamente e indirettamente, o almeno non è stato impedito quando era possibile, da delle larghe frange del mondo civile.

Terzo, in base alla storia dell’ ebraismo e la storia del suo popolo, ci sono delle forti possibilità che noi continueremo a dare all’ umanità dei contributi etici particolarmente necessari. Tuttavia per poterlo fare, abbiamo bisogno di una esistenza stabile.

Quarto, lo Stato d’Israele è il solo paese democratico la cui stessa esistenza è messa in pericolo da personaggi particolarmente ostili, senza che, ancora una volta, il mondo prenda delle contromisure decisive, che si impongono. Questo giustifica, anzi lo implica. Delle misure non solo inutili, ma potenzialmente immorali in altre circostanze.
Il popolo ebraico deve accordare molto più peso a quello che è il proprio imperativo, per garantire la sua sopravvivenza.

Ci sono beninteso dei limiti; niente potrebbe giustificare un genocidio. Ma, a parte delle rare eccezioni, o essere uccisi e distrutti , la trasgressione di norme assolute e totalizzanti è preferibile. L’esistenza del popolo ebraico compreso quello dello Stato d’Israele, deve essere considerata la prima priorità.

La sicurezza di Israele è sostenuta in maniera significativa dalle buone relazioni con la Turchia e la Cina. Alcuni argomentano che la Turchia è colpevole di genocidio contro gli Armeni in passato, e che la Cina oggi sta reprimendo i Tibetani e la sua opposizione interna ; che i dirigenti e le organizzazioni ebraiche devono sostenere i due Paesi, o almeno restare neutri nei loro confronti. Come minimo i dirigenti ebraici non devono accodarsi alle organizzazioni umanitarie che condannano la Turchia e la Cina.

Nello stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere invece le durissime misure prese contro dei terroristi che, potenzialmente mettono gli ebrei in pericolo, fosse anche al prezzo di violazioni dei Diritti dell’ Uomo e del Diritto Umanitario Internazionale.

Se la minaccia è sufficientemente grave, il ricorso a armi di distruzione di massa da parte di Israele sarebbe giustificato, dal momento in cui sarebbe manifestamente necessario per assicurare la sopravvivenza di Israele, qualsiasi sia il numero imponente di vittime civili innocenti.

Non c’è dubbio, il dibattito sul sapere cosa sia veramente necessario all’esistenza resta aperto. Il fatto di donare la priorità all’ imperativo di esistere non implica necessariamente che si sostenga dalla A alla Z la politica di Israele.

Infatti è vero il contrario; i dirigenti, le organizzazioni e gli individui della diaspora hanno il dovere di criticare la politica israeliana, che, dal loro punto di vista, mette in pericolo lo Stato ebraico e l’esistenza del suo popolo. Essi hanno il dovere di proporre politiche alternative che ne garantiscano l’esistenza.

Ma in fin dei conti, non c’è nessun modo per aggirare le implicazioni pratiche, impietose e dolorose, di dare la priorità all’ esistenza, in quanto norma morale superiore, per il fatto di essere morali sotto altri aspetti. Quando questo è importante per l’esistenza del popolo ebraico, la violazione dei diritti altrui deve essere accettata, con disappunto certamente, ma con determinazione. Il sostegno o la condanna di altri Paesi e delle loro rispettive politiche devono essere eliminati prima di tutto, alla luce delle probabili conseguenze su questo giudizio per l’esistenza del popolo ebraico.

Riassumendo: gli imperativi per l’esistenza devono essere accordati con la priorità su altre condizioni per quanto importanti possano essere tra le quali i valori progressisti e umani, o ancora il sostegno dei Diritti dell’Uomo e la democratizzazione. Questa conclusione tragica, pertanto finale, non è facile da accettare, ma è essenziale per il futuro del popolo ebraico.

Una volta garantita la nostra esistenza, ciò che include la sicurezza fondamentale per Israele, molto può e deve essere sacrificato sull’altare del tikkun olam ( ebr. “riparazione del mondo” n.d.t.). Ma stante le realtà prevedibili presenti e future, la garanzia dell’esistenza è la priorità delle priorità.

Yehezkel Dror

Presidente fondatore del Jewhis People Policicy Planning Institute, e professore emerito in scienze politiche all’ Università ebraica di Gerusalemme. Vincitore del Premio Israele nel 2005, ha fatto parte della commissione d’inchiesta Winograd, sulla guerra israeliana contro il Libano nell’estate del 2006

29 maggio 2008

3000 case palestinesi da confiscare e demolire



Vittime e carnefice un sottile gioco fra i buoni e i cattivi. Ma, la scelta non lo decidono i popoli, ma organi potenti che prendono ordini da Dio. Mi sembra un film comico di Jerry Calà.

Attualmente ci sono 3 mila ordini israeliani di demolizione di abitazioni palestinesi in Cisgiordania, che possono essere eseguite in via immediata e senza preavviso»: così l’ultimo rapporto dell’Ufficio ONU per gli Affari Umanitari (1). Il rapporto specifica che le case da demolire sono situate nella cosiddetta «Area C», che comprende il 60% del territorio cisgiordano, e che gli isrealiani mantengono sotto il loro controllo.

Si tratta del territorio governato, si fa per dire, dal pieghevole Abu Mazen, capo di quel che resta di Fatah; ora si vede bene che Hamas ha ragione a non piegarsi a Gaza. Chi si piega paga un prezzo più alto e crudele: gli vengono distrutte le case, in un evidente sforzo di pulizia etnica accelerata.

L’intensificazione delle distruzioni coi bulldozer è segnalata dall’ONU: nei primi tre mesi del 2008 già 124 case sono state demolite, contro le 107 dello stesso periodo del 2007. In seguito a queste demolizioni, 435 palestinesi, fra cui 135 bambini, sono ridotti alla condizione di senzatetto.

Il motivo di tanta fretta feroce è chiaro: Bush, nella sua visita celebrativa in Israele, ha liquidato il processo di pace di Annapolis che non è mai veramente cominciato; e Israele apparentemente si affretta ad annettersi territori prima che entri alla Casa Bianca un nuovo presidente, onde creare il fatto compiuto. Del resto non ha mai avuto la minima intenzione di cedere un metro di terra: nella visione giudaica, è la terra data da Dio a loro soli.

L’intelligenza di tale mossa è posta in questione da William Pfaff: «L’Autorità Palestinese, realisticamente parlando, ha cessato di esistere: non è che un agente del governo israeliano. Ma adesso il problema per Israele è come sopravvivere come uno Stato singolo religiosamente diviso, metà libero e metà non-libero» (2). In che senso?

Seguiamo il ragionamento di Pfaff: «La sistematica colonizzazione israeliana dei territori palestinesi che dura da quarant’anni, e il parimenti sistematico rifiuto alla creazione di uno Stato palestinese indipendente - che non è più una prospettiva seria, come è chiaro dopo la recente visita di Bush - hanno trasformato Israele in uno Stato arabo-ebraico sotto controllo israeliano. Già l’allora primo ministro Ariel Sharon e l’attuale, Ehud Olmert, hanno messo in guardia la loro gente da questo. E’ per questo motivo che Sharon si ritirò da Gaza. Ma senza risolvere niente, perchè l’insediamento di nuove colonie ebraiche è continuato, e continua tutt’ora. Così, Israele si trova oggi ad essere una entità politica unica e mista, con una grossa minoranza palestinese per la quale è legalmente responsabile, e che presto diverrà maggioranza (per ragioni di crescita demografica), vivendo in condizioni di semi-apartheid. La difesa di un simile Stato non può essere definito di interesse strategico per l’Occidente. Difenderlo contro che cosa? Nessun Paese arabo ha interesse ad attaccarlo. La sola minaccia è quella ipotetica dell’Iran con la sua ancor più ipotetica bomba atomica. Ma perchè l’Iran dovrebbe attaccare, visto che Israele si è disfatto da solo come ‘Stato ebraico’? Israele avrà continui e gravi problemi interni di disordine e di controllo, se Hamas ed altri gruppi agiscono come movimenti di resistenza; ma nessun altro Stato estero può farci niente, nè voler farci niente. Il movimento sionista, ostinandosi a mantenere il possesso della Palestina e della popolazione palestinese conquistata nel 1967, ha distrutto lo Stato ebraico che sognava di creare».

Pfaff dimentica però che ad Israele resta ancora un modo per restare «Stato ebraico», razzialmente puro: il ricorso al genocidio, reso possibile dal silenzio complice e servile di USA ed Europa. Può Israele decidersi per il genocidio di una popolazione inerme, sotto gli occhi del mondo? Può.

E che in certi circoli ebraici ci si stia pensando, lo dimostra un articolo delirante scritto da Yezekhiel Dror sulla rivista ebraica americana Forward. Dror non è uno qualunque: professore emerito di scienze politiche all’università ebraica di Gerusalemme, membro della Commissione Winograd che indagò sulle falle dell’offensiva ebraica in Libano nel 2006, presiede il Jewish People Policy Planning Institute, il centro della strategia israeliana a lungo termine. Quando parla di «minacce all’esistenza stessa di Israele», è proprio ai palestinesi che pensa, e alla loro demografia che minaccia la purezza esclusiva dello Stato giudaico. Che cosa dice Dror?

Ecco: «In un mondo in cui l’esistenza stessa dello Stato ebraico è lungi dall’essere assicurata a lungo termine, l’imperativo di esistere dà origine inevitabilmente a difficili domande, di cui la prima è questa: quando la sopravvivenza del popolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza ne vale la pena? L’esistenza fisica, tendo a rispondere, deve venire prima».

«Pericoli manifesti, sia interni che esterni, minacciano l’esistenza stessa di Israele in quanto Stato ebraico. E’ verosimile che la perdita da parte dello Stato di Israele della sua natura (razziale) ebraica avrebbe l’effetto di minare l’esistenza del popolo ebraico nel suo complesso (...) Pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza a lungo termine della diaspora», proclama Dror: l’argomento è evidentemente folle, dal momento che l’ebraismo è ben sopravvissuto per duemila anni in condizione di dispersione e senza lo Stato sionista.

Ma ora il pensiero paranoico giunge all’apice storico: proprio l’esistenza dello Stato ebraico di apartheid mette in pericolo lo Stato ebraico. Persino Dror lo riconosce fra le righe, perchè dice: «Dalla minaccia di un conflitto disastroso con nemici islamici come l’Iran, fino alla necessità di mantenere la distinzione fra ‘noi’ e ‘gli altri’ per limitare l’assimilazione, l’imperativo della esistenza di Israele deve servire di guida ai decisori politici».

Ed ecco dunque le conclusioni del professore: «Un popolo che è stato regolarmente perseguitato da duemila anni è moralmente giustificato, in termini di giustizia distributiva, ad essere particolarmente spietato quando si tratta di aver cura della propria esistenza, specie in materia di diritto morale - che dico, di dovere - di uccidere ed essere ucciso, se ciò è essenziale per garantire la propria esistenza, fosse pure al prezzo di altri valori e di altre persone. Allo stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere le misure durissime prese contro terroristi che, potenzialmente, mettono in pericolo degli ebrei, anche al prezzo di violazioni di diritti dell’uomo e del diritto umanitario internazionale. E se la minaccia è particolarmente grave, il ricorso ad armi di distruzione di massa da parte di Israele è giustificato quando sia necessario ad assicurare la sopravvivenza dello Stato, per quanto grande sia il numero di vittime civili innocenti. Data la situazione attuale del popolo ebraico, l’imperativo di garantire la sua esistenza è un dovere morale imperativo, che supera tutti gli altri» (3).

Così, il giurista Dror ha dato al popolo eletto la scusa morale e persino giuridica per «essere particolarmente spietato», di violare i diritti umani e il diritto internazionale, di sacrificare «altre persone» in qualsiasi quantità, anche enorme, anche con armi di distruzione di massa: basta che Israele si senta «minacciato nella sua stessa esistenza». E ciò, soggettivamente.

Perchè una mente sana, ossia non fanaticamente ebraica, potrebbe obiettare come William Pfaff che lo Stato ebraico non è minacciato che ipoteticamente, come qualunque altro Stato, dall’esterno. E semmai, è minacciato da se stesso: dal suo terrore dell’assimilazione nella comune umanità che lo obbliga a separare «noi» e «gli altri», e nello stesso tempo dalla sua ingorda pretesa di occupare terre altrui con una popolazione non ebraica.

Ma è appunto questo assurdo - la pretesa di mantenere una condizione logicamente ed esistenzialmente impossibile - che Dror sente come «minaccia all’esistenza di Israele», il che è giusto. Ma per Dror e gli ebrei come lui, la minaccia sta nei palestinesi. Non per il fatto che i palestinesi resistano con violenza all’occupazione (non certo quelli di Cisgiordania, sottomessi e controllati, privi persino di quel fantasma di capacità offensiva che sono i razzi Kassam), no; i palestinesi, anche inoffensivi, sono una minaccia all’esistenza di Israele come Stato ebraico per il puro fatto di esistere. E’ quello che i sionisti, da Jabotinski a Ben Gurion a Sharon, hanno sempre pensato; ora, con Dror, lo dicono apertamente.

I palestinesi ci minacciano nella nostra esistenza, perchè esistono. La «soluzione» viene da sè.

M. Blondet

01 giugno 2008

L'imperialismo coloniale americano: le basi militari


Pur in presenza di un debito estero da capogiro, oltre 8.000 miliardi di dollari nel 2007, il bilancio militare degli Stati Uniti ha superato i 625 miliardi durante lo stesso anno e raggiungerà i 640 nel 2008 (in confronto ai 47 della Russia ed ai 43 dell’intera Unione Europea…). Alla fine degli anni settanta, esso ammontava a circa 100 miliardi, era triplicato all’inizio degli anni novanta, nel 2001 era pari a 404 miliardi. Nel 2006 corrispondeva al 3,7% del Pil statunitense ed a poco meno di mille dollari procapite.
Certo, c’è da dire che gli Stati Uniti mantengono 700 e più installazioni militari (il numero non è definibile in modo certo, per motivi di segretezza) in Europa, Africa, Vicino Oriente, Golfo Persico, Asia Centrale, Oceania ed Estremo Oriente, ed in mare una forza aereonavale di 9 portaerei, 75 sommergibili ed uno stuolo di incrociatori, fregate lanciamissili, corvette e naviglio di difesa costiera, scorta ed appoggio.
Secondo il Rapporto Gelman, militari statunitensi sono presenti in 156 Paesi mentre le basi militari sono installate in 63 Stati di quattro continenti. Con quelle del territorio metropolitano e dei loro possedimenti, le basi coprono una superficie totale superiore a 2 milioni di ettari, cosa che fa del Pentagono uno dei più grandi proprietari terrieri del pianeta.
Il numero totale di personale civile e militare statunitense residente in permanenza fuori dal territorio metropolitano è stimato, anche se fluttuante, in 366.000 unità. Di questi, 116.000 sono di stanza in Europa, di cui 75.000 circa in Germania. Secondo le statistiche del Dipartimento della Difesa statunitense, riferite al 31 dicembre 2005, circa 271.000 di queste unità sono di personale militare: 96.000 operano in Paesi Nato, e l’Italia ne ospita più di 11.000. Non meno significativi i contingenti dispiegati in Giappone (35.000) e Corea del Sud (30.000).
L’operazione Iraqi Freedom è condotta da 207.000 effettivi, quella Enduring Freedom in Afghanistan da 20.400: di questi, una percentuale di circa il 10% è stata dislocata a partire dai contingenti statunitensi sparsi nel mondo (in particolare, dalla Germania).
Per la gestione del centro di detenzione di Guantanamo, dulcis in fundo, sono impiegati circa 1.000 soldati.

Le statistiche ufficiali, per quanto accurate, mancano di menzionare alcuni importanti insediamenti: ad esempio, il Base Structure Report del 2003 non nominava l’immensa base di Camp Bondsteel in Kosovo, e diversi altri insediamenti in Afghanistan, Iraq, Israele, Kuwait, Qatar e Kirghizistan,ed Uzbekistan. Nemmeno citava importanti infrastrutture militari e spionistiche presenti nel Regno Unito, a lungo convenientemente classificate come basi dell’aviazione britannica.
Usando onestà, probabilmente si arriverebbero a contare non meno di 1.000 installazioni militari statunitensi in Paesi stranieri, ma nessuno – allo stato attuale neanche lo stesso Pentagono – è in grado di determinare questa cifra con certezza.

Alcune curiosità, per finire:
- alla base di Camp Anaconda, vicino a Baghdad, sono in funzione nove linee di autobus interne per trasportare i soldati ed il personale civile nel suo perimetro di 25 kmq;
- negli ospedali militari delle basi all’estero è proibito, alle 100.000 donne che vivono in esse (comprese quelle che ivi lavorano, mogli e congiunte dei soldati), sottoporsi ad operazioni di aborto;
- la base di Camp Lemonier a Gibuti, storico insediamento della Legione Straniera Francese, oggi è occupata da quasi 2.000 soldati statunitensi, a presidio dell’ingresso al Mar Rosso;
- fra i numerosi progetti di nuove basi (loro lo chiamano “riposizionamento”), gli Stati Uniti pensano di mettere sotto il loro diretto controllo un’area pari a quasi un quarto dell’intera superficie del Kuwait, dove organizzare i rifornimenti del contingente impiegato in Iraq e consentire ai burocrati della cosiddetta Zona Verde di Baghdad di “ritemprarsi” (lontano dagli ormai quotidiani tiri di mortaio della resistenza irakena…).

Un tempo, era possibile tracciare la diffusione dell’imperialismo contando il numero di colonie sparse per il mondo.
La versione americana della colonia è la base militare.
byebyeunclesam

31 maggio 2008

Lo Stato di Israele sempre in pericolo?


Lo spirito di sopravvivenza, il più forte che uccide il più debole. Una spirale ancestrale che si ripete da molti anni.
Il popolo ebraico è sempre in pericolo e la sua sopravvivenza è condizionata da quella dello Stato d’Israele. Su questa base, questo Stato può intraprendere qualsiasi cosa, affrancandosi dalle regole morali, sino a quando lo giudichi necessario per la sopravvivenza del popolo ebraico.Quindi, «l’argomento della Shoah» dispensa lo lo Stato d’Israele dal rispettare il diritto internazionale.



Poche persone non convengono con il fatto che tutti i dirigenti ebraici, tutte le organizzazioni ebraiche, tutte le comunità ebraiche, e tutti i singoli ebrei hanno il dovere di assumersi la continuità del popolo ebraico. Ma, in un mondo dove l’esistenza nel lungo periodo dello Stato d’Israele è lontana dall’essere garantita, l’imperativo di esistere dà luogo, inevitabilmente, a domande difficili.

La principale è la seguente: quando la sopravvivenza del polopolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza vale la candela, o anche, questa esistenza è possibile?

L’esistenza fisica, tenderei ad arguire, ha la precedenza. L’esistenza fisica è necessariamente un preambolo, per quanto morale una società aspiri ad essere.

Israele, in quanto Stato ebraico, è minacciato da pericoli manifesti, sia interni che esterni. E’ molto verosimile che il crollo d’Israele o la sua perdita d’identità ebraica, avrebbe come conseguenza lo scalzamento del popolo ebraico nel suo insieme. Anche nell’esistenza stessa di uno Stato ebraico, dei pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza durevole della diaspora nel lungo termine. Quando le necessità per l’esistenza entrano in conflitto con altri valori, conseguentemente, la Realpolitik dovrebbe avere la precedenza.

Dopo la minaccia di un conflitto disastroso con dei protagonisti islamici quale l’ Iran, fino alla necessità di mantenere dei distinguo tra «noi» e gli «altri» in modo da limitare l’assimilazione, questo imperativo dovrebbe servire da guida per i decisionisti politici.

Sfortunatamente, la storia umana rigetta l’affermazione idealista che, uno Stato, una società o il suo popolo, per soppravivere debbano avere un atteggiamento morale. Date le realtà prevedibili del 21° secolo e anche quelle future, sono inevitabili delle scelte corneliane , per le quali le necessità esistenziali contraddicono spesso, altri valori importanti.

Alcuni potrebbero arguire che dare la priorità all’esistenza, potrebbe al fine divenire controproducente per la stessa, in quanto quello che puo’ essere giudicata un azione immorale potrebbe scalzarne il sostegno, tanto interno quanto esterno, essenziale per lo Stato d’Israele. Comunque la logica propria della Realpolitik dà il primato all’esistenza,
relegando agli ultimi posti una qualsiasi considerazione etica.

La triste realtà è, che il popolo ebraico rischia di essere confrontato con delle scelte tragiche, per le quali devono essere sacrificati valori importanti, nell’interesse di quelli ancora più importanti. Decisioni responsabili, in situazioni così difficili, richiedono una presa di conoscenza senza ambiguità riguardo alle questioni morali in causa, soppesando con cura tutti i valori e tutte le assunzioni di responsabilità nel formare un proprio giudizio autonomo. Queste decisioni esigono anche uno sforzo, e per quanto sia possibile, la violazione di valori morali.

Ciononostante, il popolo ebraico confrontato con tali dilemmi, non si deve far ingannare dal politicamente corretto, né da altre mode suscettibili di ostacolarne il pensiero.

Trattandosi della Cina, per esempio, certi sforzi tendenti a rafforzare i legami tra la superpotenza e il popolo ebraico, dovrebbero mettere la sordina alle campagne ben intenzionate tendenti a interferire con la politica interna di Pechino, in modo specifico nel suo modo di gestire la questione del Tibet. Lo stesso discorso vale per la Turchia, dato il ruolo cruciale di pacificatore che esso ha in Medio Oriente: il dibattito sulla questione armena dovrebbe essere lasciato agli storici, di preferenza non ebrei.

Questo non significa necessariamente sostenere la politica cinese, né denigrare quella armena, ma tener presente che il popolo ebraico deve pensare in primo luogo alla sua esistenza, per quanto morali o immorali queste prese di posizioni possano essere.

E’ richiesta una valutazione dei valori a priori, in modo da poter disporre di guide pronte per formare un giudizio nei contesti specifici, o in condizioni di crisi. Più globalmente si tratta di stabilire se, l’imperativo per il popolo ebraico consista nell’esistere, al punto da superare la quasi totalità degli altri valori, oppure se si tratti di un imperativo confuso ad altri di rango similare. Data sia la storia che la situazione attuale del popolo ebraico, sarei propenso a dire che l’imperativo sia il primo e precede tutti gli alti.

Lasciamo da parte tutti i discorsi di natura trascendentale, i comandamenti biblici, e le parole sagge, che sono le une come le altre soggette a interpretazioni diverse. La giustificazione della priorità che deve essere accordata alla necessità dell’ esistenza è quadrupla:

Primo, il popolo ebraico ha un diritto inerente all’esistenza, esattamente come qualsiasi altro popolo o altra civilizzazione.

Secondo, un popolo che è stato regolarmente perseguitato da più di mille anni è moralmente autorizzato, in termini di giustizia distributiva, a essere particolarmente impietoso quando si tratta di prendersi cura della propria esistenza specialmente in materia di diritto morale, che dico, di dovere di uccidere e essere ucciso, se questo è essenziale per garantire la sua esistenza; anche al costo di altri valori e altre persone. Questo argomento è tanto più imparabile, alla luce di tutte le uccisioni senza precedenti di qualche decennio fa, di un terzo del popolo ebreo; un crimine di massa che è stato sostenuto direttamente e indirettamente, o almeno non è stato impedito quando era possibile, da delle larghe frange del mondo civile.

Terzo, in base alla storia dell’ ebraismo e la storia del suo popolo, ci sono delle forti possibilità che noi continueremo a dare all’ umanità dei contributi etici particolarmente necessari. Tuttavia per poterlo fare, abbiamo bisogno di una esistenza stabile.

Quarto, lo Stato d’Israele è il solo paese democratico la cui stessa esistenza è messa in pericolo da personaggi particolarmente ostili, senza che, ancora una volta, il mondo prenda delle contromisure decisive, che si impongono. Questo giustifica, anzi lo implica. Delle misure non solo inutili, ma potenzialmente immorali in altre circostanze.
Il popolo ebraico deve accordare molto più peso a quello che è il proprio imperativo, per garantire la sua sopravvivenza.

Ci sono beninteso dei limiti; niente potrebbe giustificare un genocidio. Ma, a parte delle rare eccezioni, o essere uccisi e distrutti , la trasgressione di norme assolute e totalizzanti è preferibile. L’esistenza del popolo ebraico compreso quello dello Stato d’Israele, deve essere considerata la prima priorità.

La sicurezza di Israele è sostenuta in maniera significativa dalle buone relazioni con la Turchia e la Cina. Alcuni argomentano che la Turchia è colpevole di genocidio contro gli Armeni in passato, e che la Cina oggi sta reprimendo i Tibetani e la sua opposizione interna ; che i dirigenti e le organizzazioni ebraiche devono sostenere i due Paesi, o almeno restare neutri nei loro confronti. Come minimo i dirigenti ebraici non devono accodarsi alle organizzazioni umanitarie che condannano la Turchia e la Cina.

Nello stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere invece le durissime misure prese contro dei terroristi che, potenzialmente mettono gli ebrei in pericolo, fosse anche al prezzo di violazioni dei Diritti dell’ Uomo e del Diritto Umanitario Internazionale.

Se la minaccia è sufficientemente grave, il ricorso a armi di distruzione di massa da parte di Israele sarebbe giustificato, dal momento in cui sarebbe manifestamente necessario per assicurare la sopravvivenza di Israele, qualsiasi sia il numero imponente di vittime civili innocenti.

Non c’è dubbio, il dibattito sul sapere cosa sia veramente necessario all’esistenza resta aperto. Il fatto di donare la priorità all’ imperativo di esistere non implica necessariamente che si sostenga dalla A alla Z la politica di Israele.

Infatti è vero il contrario; i dirigenti, le organizzazioni e gli individui della diaspora hanno il dovere di criticare la politica israeliana, che, dal loro punto di vista, mette in pericolo lo Stato ebraico e l’esistenza del suo popolo. Essi hanno il dovere di proporre politiche alternative che ne garantiscano l’esistenza.

Ma in fin dei conti, non c’è nessun modo per aggirare le implicazioni pratiche, impietose e dolorose, di dare la priorità all’ esistenza, in quanto norma morale superiore, per il fatto di essere morali sotto altri aspetti. Quando questo è importante per l’esistenza del popolo ebraico, la violazione dei diritti altrui deve essere accettata, con disappunto certamente, ma con determinazione. Il sostegno o la condanna di altri Paesi e delle loro rispettive politiche devono essere eliminati prima di tutto, alla luce delle probabili conseguenze su questo giudizio per l’esistenza del popolo ebraico.

Riassumendo: gli imperativi per l’esistenza devono essere accordati con la priorità su altre condizioni per quanto importanti possano essere tra le quali i valori progressisti e umani, o ancora il sostegno dei Diritti dell’Uomo e la democratizzazione. Questa conclusione tragica, pertanto finale, non è facile da accettare, ma è essenziale per il futuro del popolo ebraico.

Una volta garantita la nostra esistenza, ciò che include la sicurezza fondamentale per Israele, molto può e deve essere sacrificato sull’altare del tikkun olam ( ebr. “riparazione del mondo” n.d.t.). Ma stante le realtà prevedibili presenti e future, la garanzia dell’esistenza è la priorità delle priorità.

Yehezkel Dror

Presidente fondatore del Jewhis People Policicy Planning Institute, e professore emerito in scienze politiche all’ Università ebraica di Gerusalemme. Vincitore del Premio Israele nel 2005, ha fatto parte della commissione d’inchiesta Winograd, sulla guerra israeliana contro il Libano nell’estate del 2006
Poche persone non convengono con il fatto che tutti i dirigenti ebraici, tutte le organizzazioni ebraiche, tutte le comunità ebraiche, e tutti i singoli ebrei hanno il dovere di assumersi la continuità del popolo ebraico. Ma, in un mondo dove l’esistenza nel lungo periodo dello Stato d’Israele è lontana dall’essere garantita, l’imperativo di esistere dà luogo, inevitabilmente, a domande difficili.

La principale è la seguente: quando la sopravvivenza del polopolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza vale la candela, o anche, questa esistenza è possibile?

L’esistenza fisica, tenderei ad arguire, ha la precedenza. L’esistenza fisica è necessariamente un preambolo, per quanto morale una società aspiri ad essere.

Israele, in quanto Stato ebraico, è minacciato da pericoli manifesti, sia interni che esterni. E’ molto verosimile che il crollo d’Israele o la sua perdita d’identità ebraica, avrebbe come conseguenza lo scalzamento del popolo ebraico nel suo insieme. Anche nell’esistenza stessa di uno Stato ebraico, dei pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza durevole della diaspora nel lungo termine. Quando le necessità per l’esistenza entrano in conflitto con altri valori, conseguentemente, la Realpolitik dovrebbe avere la precedenza.

Dopo la minaccia di un conflitto disastroso con dei protagonisti islamici quale l’ Iran, fino alla necessità di mantenere dei distinguo tra «noi» e gli «altri» in modo da limitare l’assimilazione, questo imperativo dovrebbe servire da guida per i decisionisti politici.

Sfortunatamente, la storia umana rigetta l’affermazione idealista che, uno Stato, una società o il suo popolo, per soppravivere debbano avere un atteggiamento morale. Date le realtà prevedibili del 21° secolo e anche quelle future, sono inevitabili delle scelte corneliane , per le quali le necessità esistenziali contraddicono spesso, altri valori importanti.

Alcuni potrebbero arguire che dare la priorità all’esistenza, potrebbe al fine divenire controproducente per la stessa, in quanto quello che puo’ essere giudicata un azione immorale potrebbe scalzarne il sostegno, tanto interno quanto esterno, essenziale per lo Stato d’Israele. Comunque la logica propria della Realpolitik dà il primato all’esistenza,
relegando agli ultimi posti una qualsiasi considerazione etica.

La triste realtà è, che il popolo ebraico rischia di essere confrontato con delle scelte tragiche, per le quali devono essere sacrificati valori importanti, nell’interesse di quelli ancora più importanti. Decisioni responsabili, in situazioni così difficili, richiedono una presa di conoscenza senza ambiguità riguardo alle questioni morali in causa, soppesando con cura tutti i valori e tutte le assunzioni di responsabilità nel formare un proprio giudizio autonomo. Queste decisioni esigono anche uno sforzo, e per quanto sia possibile, la violazione di valori morali.

Ciononostante, il popolo ebraico confrontato con tali dilemmi, non si deve far ingannare dal politicamente corretto, né da altre mode suscettibili di ostacolarne il pensiero.

Trattandosi della Cina, per esempio, certi sforzi tendenti a rafforzare i legami tra la superpotenza e il popolo ebraico, dovrebbero mettere la sordina alle campagne ben intenzionate tendenti a interferire con la politica interna di Pechino, in modo specifico nel suo modo di gestire la questione del Tibet. Lo stesso discorso vale per la Turchia, dato il ruolo cruciale di pacificatore che esso ha in Medio Oriente: il dibattito sulla questione armena dovrebbe essere lasciato agli storici, di preferenza non ebrei.

Questo non significa necessariamente sostenere la politica cinese, né denigrare quella armena, ma tener presente che il popolo ebraico deve pensare in primo luogo alla sua esistenza, per quanto morali o immorali queste prese di posizioni possano essere.

E’ richiesta una valutazione dei valori a priori, in modo da poter disporre di guide pronte per formare un giudizio nei contesti specifici, o in condizioni di crisi. Più globalmente si tratta di stabilire se, l’imperativo per il popolo ebraico consista nell’esistere, al punto da superare la quasi totalità degli altri valori, oppure se si tratti di un imperativo confuso ad altri di rango similare. Data sia la storia che la situazione attuale del popolo ebraico, sarei propenso a dire che l’imperativo sia il primo e precede tutti gli alti.

Lasciamo da parte tutti i discorsi di natura trascendentale, i comandamenti biblici, e le parole sagge, che sono le une come le altre soggette a interpretazioni diverse. La giustificazione della priorità che deve essere accordata alla necessità dell’ esistenza è quadrupla:

Primo, il popolo ebraico ha un diritto inerente all’esistenza, esattamente come qualsiasi altro popolo o altra civilizzazione.

Secondo, un popolo che è stato regolarmente perseguitato da più di mille anni è moralmente autorizzato, in termini di giustizia distributiva, a essere particolarmente impietoso quando si tratta di prendersi cura della propria esistenza specialmente in materia di diritto morale, che dico, di dovere di uccidere e essere ucciso, se questo è essenziale per garantire la sua esistenza; anche al costo di altri valori e altre persone. Questo argomento è tanto più imparabile, alla luce di tutte le uccisioni senza precedenti di qualche decennio fa, di un terzo del popolo ebreo; un crimine di massa che è stato sostenuto direttamente e indirettamente, o almeno non è stato impedito quando era possibile, da delle larghe frange del mondo civile.

Terzo, in base alla storia dell’ ebraismo e la storia del suo popolo, ci sono delle forti possibilità che noi continueremo a dare all’ umanità dei contributi etici particolarmente necessari. Tuttavia per poterlo fare, abbiamo bisogno di una esistenza stabile.

Quarto, lo Stato d’Israele è il solo paese democratico la cui stessa esistenza è messa in pericolo da personaggi particolarmente ostili, senza che, ancora una volta, il mondo prenda delle contromisure decisive, che si impongono. Questo giustifica, anzi lo implica. Delle misure non solo inutili, ma potenzialmente immorali in altre circostanze.
Il popolo ebraico deve accordare molto più peso a quello che è il proprio imperativo, per garantire la sua sopravvivenza.

Ci sono beninteso dei limiti; niente potrebbe giustificare un genocidio. Ma, a parte delle rare eccezioni, o essere uccisi e distrutti , la trasgressione di norme assolute e totalizzanti è preferibile. L’esistenza del popolo ebraico compreso quello dello Stato d’Israele, deve essere considerata la prima priorità.

La sicurezza di Israele è sostenuta in maniera significativa dalle buone relazioni con la Turchia e la Cina. Alcuni argomentano che la Turchia è colpevole di genocidio contro gli Armeni in passato, e che la Cina oggi sta reprimendo i Tibetani e la sua opposizione interna ; che i dirigenti e le organizzazioni ebraiche devono sostenere i due Paesi, o almeno restare neutri nei loro confronti. Come minimo i dirigenti ebraici non devono accodarsi alle organizzazioni umanitarie che condannano la Turchia e la Cina.

Nello stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere invece le durissime misure prese contro dei terroristi che, potenzialmente mettono gli ebrei in pericolo, fosse anche al prezzo di violazioni dei Diritti dell’ Uomo e del Diritto Umanitario Internazionale.

Se la minaccia è sufficientemente grave, il ricorso a armi di distruzione di massa da parte di Israele sarebbe giustificato, dal momento in cui sarebbe manifestamente necessario per assicurare la sopravvivenza di Israele, qualsiasi sia il numero imponente di vittime civili innocenti.

Non c’è dubbio, il dibattito sul sapere cosa sia veramente necessario all’esistenza resta aperto. Il fatto di donare la priorità all’ imperativo di esistere non implica necessariamente che si sostenga dalla A alla Z la politica di Israele.

Infatti è vero il contrario; i dirigenti, le organizzazioni e gli individui della diaspora hanno il dovere di criticare la politica israeliana, che, dal loro punto di vista, mette in pericolo lo Stato ebraico e l’esistenza del suo popolo. Essi hanno il dovere di proporre politiche alternative che ne garantiscano l’esistenza.

Ma in fin dei conti, non c’è nessun modo per aggirare le implicazioni pratiche, impietose e dolorose, di dare la priorità all’ esistenza, in quanto norma morale superiore, per il fatto di essere morali sotto altri aspetti. Quando questo è importante per l’esistenza del popolo ebraico, la violazione dei diritti altrui deve essere accettata, con disappunto certamente, ma con determinazione. Il sostegno o la condanna di altri Paesi e delle loro rispettive politiche devono essere eliminati prima di tutto, alla luce delle probabili conseguenze su questo giudizio per l’esistenza del popolo ebraico.

Riassumendo: gli imperativi per l’esistenza devono essere accordati con la priorità su altre condizioni per quanto importanti possano essere tra le quali i valori progressisti e umani, o ancora il sostegno dei Diritti dell’Uomo e la democratizzazione. Questa conclusione tragica, pertanto finale, non è facile da accettare, ma è essenziale per il futuro del popolo ebraico.

Una volta garantita la nostra esistenza, ciò che include la sicurezza fondamentale per Israele, molto può e deve essere sacrificato sull’altare del tikkun olam ( ebr. “riparazione del mondo” n.d.t.). Ma stante le realtà prevedibili presenti e future, la garanzia dell’esistenza è la priorità delle priorità.

Yehezkel Dror

Presidente fondatore del Jewhis People Policicy Planning Institute, e professore emerito in scienze politiche all’ Università ebraica di Gerusalemme. Vincitore del Premio Israele nel 2005, ha fatto parte della commissione d’inchiesta Winograd, sulla guerra israeliana contro il Libano nell’estate del 2006

29 maggio 2008

3000 case palestinesi da confiscare e demolire



Vittime e carnefice un sottile gioco fra i buoni e i cattivi. Ma, la scelta non lo decidono i popoli, ma organi potenti che prendono ordini da Dio. Mi sembra un film comico di Jerry Calà.

Attualmente ci sono 3 mila ordini israeliani di demolizione di abitazioni palestinesi in Cisgiordania, che possono essere eseguite in via immediata e senza preavviso»: così l’ultimo rapporto dell’Ufficio ONU per gli Affari Umanitari (1). Il rapporto specifica che le case da demolire sono situate nella cosiddetta «Area C», che comprende il 60% del territorio cisgiordano, e che gli isrealiani mantengono sotto il loro controllo.

Si tratta del territorio governato, si fa per dire, dal pieghevole Abu Mazen, capo di quel che resta di Fatah; ora si vede bene che Hamas ha ragione a non piegarsi a Gaza. Chi si piega paga un prezzo più alto e crudele: gli vengono distrutte le case, in un evidente sforzo di pulizia etnica accelerata.

L’intensificazione delle distruzioni coi bulldozer è segnalata dall’ONU: nei primi tre mesi del 2008 già 124 case sono state demolite, contro le 107 dello stesso periodo del 2007. In seguito a queste demolizioni, 435 palestinesi, fra cui 135 bambini, sono ridotti alla condizione di senzatetto.

Il motivo di tanta fretta feroce è chiaro: Bush, nella sua visita celebrativa in Israele, ha liquidato il processo di pace di Annapolis che non è mai veramente cominciato; e Israele apparentemente si affretta ad annettersi territori prima che entri alla Casa Bianca un nuovo presidente, onde creare il fatto compiuto. Del resto non ha mai avuto la minima intenzione di cedere un metro di terra: nella visione giudaica, è la terra data da Dio a loro soli.

L’intelligenza di tale mossa è posta in questione da William Pfaff: «L’Autorità Palestinese, realisticamente parlando, ha cessato di esistere: non è che un agente del governo israeliano. Ma adesso il problema per Israele è come sopravvivere come uno Stato singolo religiosamente diviso, metà libero e metà non-libero» (2). In che senso?

Seguiamo il ragionamento di Pfaff: «La sistematica colonizzazione israeliana dei territori palestinesi che dura da quarant’anni, e il parimenti sistematico rifiuto alla creazione di uno Stato palestinese indipendente - che non è più una prospettiva seria, come è chiaro dopo la recente visita di Bush - hanno trasformato Israele in uno Stato arabo-ebraico sotto controllo israeliano. Già l’allora primo ministro Ariel Sharon e l’attuale, Ehud Olmert, hanno messo in guardia la loro gente da questo. E’ per questo motivo che Sharon si ritirò da Gaza. Ma senza risolvere niente, perchè l’insediamento di nuove colonie ebraiche è continuato, e continua tutt’ora. Così, Israele si trova oggi ad essere una entità politica unica e mista, con una grossa minoranza palestinese per la quale è legalmente responsabile, e che presto diverrà maggioranza (per ragioni di crescita demografica), vivendo in condizioni di semi-apartheid. La difesa di un simile Stato non può essere definito di interesse strategico per l’Occidente. Difenderlo contro che cosa? Nessun Paese arabo ha interesse ad attaccarlo. La sola minaccia è quella ipotetica dell’Iran con la sua ancor più ipotetica bomba atomica. Ma perchè l’Iran dovrebbe attaccare, visto che Israele si è disfatto da solo come ‘Stato ebraico’? Israele avrà continui e gravi problemi interni di disordine e di controllo, se Hamas ed altri gruppi agiscono come movimenti di resistenza; ma nessun altro Stato estero può farci niente, nè voler farci niente. Il movimento sionista, ostinandosi a mantenere il possesso della Palestina e della popolazione palestinese conquistata nel 1967, ha distrutto lo Stato ebraico che sognava di creare».

Pfaff dimentica però che ad Israele resta ancora un modo per restare «Stato ebraico», razzialmente puro: il ricorso al genocidio, reso possibile dal silenzio complice e servile di USA ed Europa. Può Israele decidersi per il genocidio di una popolazione inerme, sotto gli occhi del mondo? Può.

E che in certi circoli ebraici ci si stia pensando, lo dimostra un articolo delirante scritto da Yezekhiel Dror sulla rivista ebraica americana Forward. Dror non è uno qualunque: professore emerito di scienze politiche all’università ebraica di Gerusalemme, membro della Commissione Winograd che indagò sulle falle dell’offensiva ebraica in Libano nel 2006, presiede il Jewish People Policy Planning Institute, il centro della strategia israeliana a lungo termine. Quando parla di «minacce all’esistenza stessa di Israele», è proprio ai palestinesi che pensa, e alla loro demografia che minaccia la purezza esclusiva dello Stato giudaico. Che cosa dice Dror?

Ecco: «In un mondo in cui l’esistenza stessa dello Stato ebraico è lungi dall’essere assicurata a lungo termine, l’imperativo di esistere dà origine inevitabilmente a difficili domande, di cui la prima è questa: quando la sopravvivenza del popolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza ne vale la pena? L’esistenza fisica, tendo a rispondere, deve venire prima».

«Pericoli manifesti, sia interni che esterni, minacciano l’esistenza stessa di Israele in quanto Stato ebraico. E’ verosimile che la perdita da parte dello Stato di Israele della sua natura (razziale) ebraica avrebbe l’effetto di minare l’esistenza del popolo ebraico nel suo complesso (...) Pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza a lungo termine della diaspora», proclama Dror: l’argomento è evidentemente folle, dal momento che l’ebraismo è ben sopravvissuto per duemila anni in condizione di dispersione e senza lo Stato sionista.

Ma ora il pensiero paranoico giunge all’apice storico: proprio l’esistenza dello Stato ebraico di apartheid mette in pericolo lo Stato ebraico. Persino Dror lo riconosce fra le righe, perchè dice: «Dalla minaccia di un conflitto disastroso con nemici islamici come l’Iran, fino alla necessità di mantenere la distinzione fra ‘noi’ e ‘gli altri’ per limitare l’assimilazione, l’imperativo della esistenza di Israele deve servire di guida ai decisori politici».

Ed ecco dunque le conclusioni del professore: «Un popolo che è stato regolarmente perseguitato da duemila anni è moralmente giustificato, in termini di giustizia distributiva, ad essere particolarmente spietato quando si tratta di aver cura della propria esistenza, specie in materia di diritto morale - che dico, di dovere - di uccidere ed essere ucciso, se ciò è essenziale per garantire la propria esistenza, fosse pure al prezzo di altri valori e di altre persone. Allo stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere le misure durissime prese contro terroristi che, potenzialmente, mettono in pericolo degli ebrei, anche al prezzo di violazioni di diritti dell’uomo e del diritto umanitario internazionale. E se la minaccia è particolarmente grave, il ricorso ad armi di distruzione di massa da parte di Israele è giustificato quando sia necessario ad assicurare la sopravvivenza dello Stato, per quanto grande sia il numero di vittime civili innocenti. Data la situazione attuale del popolo ebraico, l’imperativo di garantire la sua esistenza è un dovere morale imperativo, che supera tutti gli altri» (3).

Così, il giurista Dror ha dato al popolo eletto la scusa morale e persino giuridica per «essere particolarmente spietato», di violare i diritti umani e il diritto internazionale, di sacrificare «altre persone» in qualsiasi quantità, anche enorme, anche con armi di distruzione di massa: basta che Israele si senta «minacciato nella sua stessa esistenza». E ciò, soggettivamente.

Perchè una mente sana, ossia non fanaticamente ebraica, potrebbe obiettare come William Pfaff che lo Stato ebraico non è minacciato che ipoteticamente, come qualunque altro Stato, dall’esterno. E semmai, è minacciato da se stesso: dal suo terrore dell’assimilazione nella comune umanità che lo obbliga a separare «noi» e «gli altri», e nello stesso tempo dalla sua ingorda pretesa di occupare terre altrui con una popolazione non ebraica.

Ma è appunto questo assurdo - la pretesa di mantenere una condizione logicamente ed esistenzialmente impossibile - che Dror sente come «minaccia all’esistenza di Israele», il che è giusto. Ma per Dror e gli ebrei come lui, la minaccia sta nei palestinesi. Non per il fatto che i palestinesi resistano con violenza all’occupazione (non certo quelli di Cisgiordania, sottomessi e controllati, privi persino di quel fantasma di capacità offensiva che sono i razzi Kassam), no; i palestinesi, anche inoffensivi, sono una minaccia all’esistenza di Israele come Stato ebraico per il puro fatto di esistere. E’ quello che i sionisti, da Jabotinski a Ben Gurion a Sharon, hanno sempre pensato; ora, con Dror, lo dicono apertamente.

I palestinesi ci minacciano nella nostra esistenza, perchè esistono. La «soluzione» viene da sè.

M. Blondet