10 giugno 2008

11 settembre: il partiro dei dubbi avanza

Qualche giornalista comincia ad alzare la testa, Bush sta finendo il suo ultimo tour da presidente e, qualcuno comincia a slacciare le scarpe. Un odore terribile, di un mestiere che nega l'evidenza e mortifica la ragione. Per togliere qualche sassolino ci vuole ancora tempo. Chissà se li vedremo e li leggeremo. Chissà.

La domanda è vecchia, vecchissima. La novità è che, sette anni dopo l’11 settembre 2001, se la pone il Financial Times. L’evento è storico, e varrà la pena di segnarsi la data: 6 giugno 2008. Il più autorevole dei «mainstream media», dei grandi giornali, pone la domanda. Senza un plausibile motivo di attualità per rivangare quel momento .

Per tutti coloro che cercano la verità sull’11 settembre, l’Edificio 7 è il terzo grattacielo che collassò quel giorno. Un edificio di 47 piani, parte del complesso urbanistico World Trade Center, che crollò senza essere colpito da alcun aereo, nota il FT, «a velocità di caduta libera e nel suo perimetro», ossia in perfetta verticale. Il fatto più strano, rievoca il quotidiano finanziario, è che «la BBC riferì il crollo dell’Edificio 7 mezz’ora prima che avvenisse».

La giornalista Jane Standley stava apparendo in diretta, alle ore 4.45 pomeridiane, e annunciò il crollo della terza torre - e dietro di lei, sullo sfondo, si vedeva che la Torre 7 era ancora in piedi. Affondò solo 26 minuti dopo.

Per questo video, ripreso su YouTube, «il sito web della BBC è stato bombardato di domande ed accuse. Richard Porter, capo del notiziario internazionale della BBC, ha dovuto negare che la BBC recitava dal copione di Bush», scrive il Financial Times. Porter s’è giustificato adducendo la confusione di quel giorno. «La CNN aveva appena prima riferito di voci che un terzo edificio era crollato o stava per crollare». I sospetti dei sospettosi sono aggravati dal fatto che «Porter ha ammesso che la BBC non ha conservato le registrazioni originali di quel suo reportage».Non basta. Il Financial Times ricorda che l’Edificio 7 aveva «alcuni inquilini interessanti». La maggior parte dell’edificio era affittato alla Solomon Brothers, la banca. Ma il nono e decimo piano «erano occupati dal secret service». Ai tre piani superiori c’erano uffici della SEC, l’ente di controllo della Borsa (il WTC è a due passi da Wall Street).

Inoltre, «il New York Times riferì che l’edificio ospitava anche un ufficio segreto gestito dalla CIA e dedicato a spiare e reclutare diplomatici stranieri delle Nazioni Unite. La perdita della stazione ‘ha seriamente disorganizzato’ le operazioni d’intelligence», riportò il NYT. «La CIA condivideva un piano con il Dipartimento Difesa e con l’Internal Revenue Service», il servizio tributario federale.

Poi, nel seguente capoverso, il quotidiano di Londra butta lì una frase: «Il crollo dell’edificio ha anche spazzato via l’Ufficio per la Gestione dell’Emergenza del comune di New York al 23 mo piano». Questo centro di gestione delle emergenze è una delle cose più sospette di tutta la vicenda, anche se il FT non lo dice.

Il sindaco Rudolph Giuliani lo fece costruire adducendo il timore di un attacco all’antrace su New York, da parte di... Saddam Hussein. Perciò lo volle resistente agli aggressivi biologici e chimici, oltre che a bombe e a proiettili d’artiglieria. Era un vero e proprio bunker, che occupava tre piani del Building 7 (dal 23 al 25mo), completamente corazzato ed autosufficiente: finestre anti-proiettile, tre generatori d’elettricità con 6 mila galloni di gasolio per farli funzionare, una sua propria scorta d’aria sì da non doverla ricevere dall’esterno, una riserva d’acqua potabile di 11 mila galloni. Il bunker fu completato, guarda la preveggenza, nel giugno del 1999, al costo per il contribuente di 13 milioni di dollari.

Un bunker super-sicuro. Tranne un piccolo, trascurabile dettaglio: l’Edificio 7 nascondeva, nei suoi primi cinque piani, una sotto-stazione dell’elettricità di New York, con trasformatori colossali da 13.890 volts e un serbatoio di gasolio per la stazione da 42 mila galloni. Mettere un bunker sopra trasformatori enormi e un mare di carburante, e ritenerlo sicuro dagli attentati terroristici, sembra un pochino strano.

Secondo il movimento per la verità sull’11 settembre, questo bunker servì in realtà come cabina di regia per le pirotecniche esplosioni e demolizioni che configurarono il mega-attentato di quel giorno: i registi, chiunque fossero, potevano sincronizzare le esplosioni da una qualche console e osservare l’effetto dalle finestre corazzate, molto da vicino, senza essere soffocati dalle nubi di polveri e detriti perchè disponevano di aria in circuito chiuso. Per Eric Hufschmid, uno dei primi a sollevare la questione (2), in quel bunker poteva esserci stato anche un radiofaro (un «homing device») che guidò i due aerei che colpirono le due Torri.

Lo si indovina dalle rotte dei due apparecchi: il Volo 11, che colpì la Torre Nord passò direttamente sopra l’Edificio 7, e il volo 175 dirigeva verso l’Edificio 7, ma incontrò la Torre Sud.
Ciò può spiegare come mai, a cose fatte, l’Edificio 7 doveva essere distrutto: per far sparire le prove della regia.


Un'immagine interessante: l'edificio 5 in fiamme (sinistra) non crollerà; l'edificio 7 (destra) crollerà invece poco dopo.

Il Financial Times ricorda i sospetti sollevati dalla frase di Larry Silverstein, il proprietario per 99 anni del WTC: intervistato il pomeriggio, egli disse d’aver consigliato il comandante dei vigili del fuoco di «pull» l’Edificio 7. Più tardi Silverstein spiegò che aveva inteso: porta via i tuoi vigili da lì. I sospettosi dicono che «pull it» è la parola che nel gergo delle demolizioni controllate significa «tiralo giù».

Il giornale britannico ricorda che il National Institute of Standard and Technology (NIST), l’ente governativo che ha preteso di spiegare il collasso delle Torri come conseguenza dell’impatto degli aerei, escludendo ogni mistero, non ha ancora spiegato a modo suo il crollo dell’Edificio 7. «Il NIST sostiene che il ritardo è dovuto alla complessità del modello computerizzato che usa. Inoltre, sono state trovate 80 scatole di documenti riguardanti il WTC7 che devono essere esaminate».

Ma il NIST ha già «un’ipotesi di lavoro», e sarebbe questa: «Il fuoco o macerie infiammate staccatesi dalla Torre Nord hanno danneggiato una colonna critica per il sostegno del tetto di 2 mila metri quadri. I piani sottostanti sono stati incapaci di redistribuire il peso e la struttura è caduta su se stessa. Il fatto che il collasso sia stato causato da un danno interno spiegherebbe l’apparenza di demolizione controllata, con un campo di caduta piccolo».

Il NIST ha promesso di pubblicare i dati il prossimo agosto, dice il Financial Times. Ma naturalmente, «questo ha alimentato il sospetto che i tecnici abbiano difficoltà a tirar fuori un sepistaggio plausibile» per il crollo. Vedrete che quando il rapporto del NIST uscirà, tutti i debunker, a cominciare da Introvigne, si precipiteranno a citarlo come «autorevole» e non solo «plausibile», ma tale da smentire i «complottisti». Sette anni sono passati, e siamo ancora a questo punto.

Saremo alluvionati di dettagli tecnici sulla resistenza dei materiali, la temperatura del fuoco, i modelli computerizzati che mostrano come i pavimenti siano caduti l’uno sull’altro a fisarmonica... Siccome tutto questo ha quasi convinto qualche lettore che ci ha recentemente scritto, ci limitiamo a ricordare quello che, in sette anni, non è stato ancora messo in luce.

Credere che un grattacielo alto mezzo chilometro, colpito «lateralmente» da un aereo, crolli «verticalmente» dentro il suo perimetro, significa ignorare le più banali leggi della fisica e sfidare la forza di gravità. A sette anni dai fatti, chi ancora ne discute è in malafede. Però può avvenire, diranno i debunker. Forse, una volta. Ma due, anzi tre volte, con l’Edificio 7?

Quando a Las Vegas un giocatore, lanciando i dadi, ottiene tre volte 6, il croupier chiama al telefono il gestore del casinò, e due signori molto muscolosi si affiancano al giocatore fortunato dai due lati: evidentemente a Las Vegas non credono alla sorte, quando è ripetitiva.


Questa immagine difatti mostra l'edificio 5 «completely charred» ma in piedi (destra) e l'edificio 7 (sinistra) «pull it»

Ora, noi dobbiamo credere che per ben tre volte due torri colpite di lato sono cadute in verticale, e la terza, Edificio 7, è caduta da sè senza essere nemmeno colpita, per un «danno interno»: e anch’essa in perfetta verticale, come in una demolizione controllata.

Se il caso si ripete così regolarmente, s’impone la domanda: come mai gli ingegneri specialisti spendono tanti soldi e tempo per identificare gli snodi dove piazzare le cariche esplosive, e in calcoli per sincronizzare le esplosioni, onde ottenere la caduta verticale? Ormai dovrebbero essere coscienti della nuova legge fisica: diano una bella botta laterale, anche a casaccio, e il grattacielo cade comunque in verticale. Tutta la fatica degli ingegneri specialisti sta nell’assicurare una perfetta «sincronia» dello scoppio delle varie cariche. I pilastri e le strutture portanti devono essere spezzati nello stesso decimo di secondo, altrimenti il grattacielo cade di lato, abbattendo le costruzioni sottostanti. L’impresa richiede chilometri di cavi, una quantità di inneschi elettronici, sofisticati sotware, una sofisticata consolle elettronica di comando e molte conoscenze tecniche complesse.

Ora, invece, siamo tenuti a credere che un aereo, penetrando nei piani alti delle Towers, ha tranciato contemporaneamente le ben 47 colonne d’acciaio che le reggevano. Colonne a scatolato (parallelepipedi) di spessore variabile; ma alla base le scatole avevano lati spessi 10 centimetri d’acciaio, per poi assottigliarsi via via con l’altezza, dovendo reggere un peso via via minore.

Ora, un aereo è d’alluminio, è vuoto, è leggero (tranne le turbine-motore, che sono massicce): se credete che tagli blocchi d’acciaio, allora provate a tagliare il pane con una lama di carta stagnola. Ma soprattutto, non può averle tranciate «nello stesso istante». Anche questo è contro alle più ovvie leggi della fisica. Sono passati sette anni, e nessun fenomeno del genere s’è mai più ripetuto. Nè mai si è verificato sette anni prima, o dieci, o venti. Fin qui l’elenco delle «impossibilità».


La torre 7 dopo l’ordine di «pull it»: una demolizione controllata a regola d’arte

Adesso - a beneficio dei lettori che si lasciano ancora convincere dalle «spiegazioni tecniche» degli Introvigne ed Altissimo - esponiamo le ipotesi. Si tratta di ipotesi, non di certezze: ma a sette anni di distanza, il quadro nelle menti dei ricercatori della verità sull’11 settembre è abbastanza avanzato, da poterle dichiarare come plausibili.

Gli aerei non hanno fatto crollare nulla: sono stati lanciati contro le Torri solo per la scena televisiva, per asserire plausibilmente un attentato islamista. In realtà, le Torri erano state in precedenza «preparate» con cariche esplosive. Più precisamente: con un composto bellico detto Termite, che quando innescato brucia a quasi 3 mila gradi, abbastanza da fondere l’acciaio. La Termite è usata nelle cariche cave delle armi anticarro per perforarne le corazzature.

Il professor Steven Jones, docente di fisica alla Brigham Young University, è l’autore di questa ipotesi ed ha condotto gli esperimenti relativi. Ha perso la cattedra. Ciò però, ribattono i debunker, implicherebbe settimane di lavoro da parte di decine di tecnici: cosa impossibile senza dar nell’occhio.

I debunker non hanno mai visto le Twin Towers e non dicono - o non sanno - che cosa erano. Erano locali per uffici a noleggio. In ogni momento, qualche azienda faceva trasloco in entrata o in uscita.

Nelle viuzze posteriori, il sottoscritto ha visto regolarmente, ogni volta che tornava a Manhattan, una quantità di autocarri di traslochi che scaricavano colli voluminosi e coperti da teli grigi scrivanie, computer, poltrone, mobili da ufficio o qualunque altro oggetto - su è giù dagli ascensori di servizio (il totale degli ascensori e montacarichi era di 155); un viavai di facchini dei traslochi di tante ditte diverse, che portavano su i mobili per i nuovi inquilini, o portavano giù quelli dei vecchi che lasciavano gli edifici.

Come si ricorderà forse, la polizia di New York - su segnalazione di una cameriera messicana - arrestò cinque giovanottoni visti dalla cameriera festeggiare l’esplosione dlele Torri, fotografandosi a vicenda con alle spalle le Torri in fiamme; questi giovanotti, tutti israeliani appena dimessi dal servizio militare, lavoravano come facchini per un’agenzia di traslochi, al Urban Moving Systems, di proprietà di un israeliano, tuttora ricercato. Niente di più plausibile del sospetto che fossero la bassa forza: alcuni di quelli che avevano trasportato i materiali necessari all’attentato, esplosivo e cavi, in forma di colli voluminosi e coperti da teli. Il fatto che fossero stranieri spiega alquante cose: fra cui il fatto che nessuno parli. Chi sa, è tornato in Israele e tace. Quei cinque, beccati perchè festeggiavano, sono stati «espulsi verso Israele» (sottratti alle indagini) dal procuratore di New York, l’israelo-americano Michael Chertoff, con doppia cittadinanza, oggi ministro della Homeland Security. Se vi aspettate che un giorno parli lui, avrete da aspettare parecchio.

Quanto agli ingegneri, è ben probabile che siano militari espertissimi di esplosivi, abituati ad eseguire operazioni «coperte» e a tener la bocca chiusa. Potevano anche essere israeliani tutti, e tutti uccel di bosco. Nei piani sfitti e in attesa di nuovi pigionanti - aziende per lo più - altri uomini lavoravano a stendere moquettes, ad alzare pareti di cartongesso, ad adeguare gli impianti elettrici: decine di tecnici potevano usare fiamma ossidrica e martelli pneumatici senza che in questo, nessuno della «security» avrebbe visto nulla di strano: era la vita di ogni giorno dentro le Twin Tower, nelle entrate posteriori di servizio, fuori dagli sguardi del pubblico. Quelle strade laterali erano spesso chiuse al passaggio della gente da transenne. Che recavano cartelli del tipo: «Scusateci, stiamo lavorando per voi», «Carichi pendenti», «Men at work». Questo accadeva tutti i giorni.

Si aggiunga che la «security» delle Twin Towers, l’11 settembre, non era quella solita: il capo era nuovo, era stato appena assunto da un giorno. Era John O’Neill, ex alto funzionario del FBI, che s’era dimesso ad agosto gridando ai quattro venti che la nuova amministrazione Bush ostacolava le ricerche su bin Laden e Al Qaeda. O’Neill è morto sotto le macerie, il primo giorno del suo nuovo impiego. La preparazione possibile degli edifici per la demolizione controllata, se è avvenuta, era avvenuta prima che lui entrasse in servizio.

Si aggiunga ancora che «la maggior parte» dei piani erano sfitti, dunque vuoti (le Twin Tower avevano costi proibitivi; per questo Rudolph Giuliani voleva farle abbattere per costruire al loro posto edifici più moderni). Dentro quei piani vuoti, ci poteva lavorare ogni genere di «operai e tecnici», dopo aver chiuso le porte.

E tralascio altri particolari, come l’interruzione programmata di corrente il giorno prima, di cui
i pigionanti furono preavvertiti: molte aziende dovettero fare il back-up dei loro computer, qualcuno se lo ricordò. Uno di quei qualcuno, un esperto di finanza, ha preferito andare a lavorare a Londra. Massimo Mazzucco ha una sua intervista-video.

Questa è l’ipotesi. Sette anni dopo, è bene che i lettori comincino a saperla. Ormai, comincia a dire qualcosa anche il Financial Times.
M. Blondet

09 giugno 2008

Le speculazioni protette dall'ONU



Si chiude il vertice Fao 2008 a Roma, e lascia dietro di sé delusione e rabbia, nella consapevolezza che ormai non esiste alcun organismo che sia in grado di far valere il rispetto dei popoli e dei diritti umani senza farsi influenzare dagli interessi economici dei poteri e dei governi forti. La dichiarazione si conclude con un invito generico alla Fao e ad altre organizzazioni internazionali a "monitorare e analizzare la sicurezza alimentare mondiale in tutte le sue dimensioni, e sviluppare strategie per migliorarli". La più grande delusione resta tuttavia l'immobilismo nei confronti dell’allarmante problema della speculazione finanziaria, che vanifica ogni sforzo produttivo o commerciale, per far fronte al rincaro dei prezzi, e punta il dito esclusivamente sui biocarburanti.

Il vertice Fao si conclude lasciando dietro di sé delusione e rabbia, nella consapevolezza che ormai non esiste alcun organismo che sia in grado di far valere il rispetto dei popoli e dei diritti umani senza farsi influenzare dagli interessi economici dei poteri e dei governi forti. Le conclusioni, racchiuse in un semplice documento, riducono le misure di contrasto all’emergenza alimentare a futuri finanziamenti nei confronti dei Paesi più deboli, al controllo della produzione di biocarburanti e alla necessità di una maggiore liberalizzazione dei mercati agricoli. La dichiarazione si conclude con un invito generico alla Fao e ad altre organizzazioni internazionali a "monitorare e analizzare la sicurezza alimentare mondiale in tutte le sue dimensioni, e sviluppare strategie per migliorarli". Per quanto riguarda il rincaro dei prezzi, nessuna concreta iniziativa, tranne la stigmatica enunciazione sulla necessità di "intraprendere iniziative per moderare fluttuazioni anomale dei prezzi dei cereali". Questa, probabilmente, la più grande delusione di un vertice tanto inutile quanto ipocrita, che si rifiuta così di affrontare l’allarmante problema della speculazione finanziaria, che vanifica ogni sforzo produttivo o commerciale, per far fronte al rincaro dei prezzi, e punta il dito esclusivamente sui biocarburanti, demonizzati al punto da ipotizzare un divieto per la loro produzione.

Tuttavia, i punti più controversi restano le proposte di aumentare la libera circolazione dei beni agricoli sul mercato, riducendo le barriere doganali e impedendo le politiche di molti Paesi di limitare le esportazioni di cibo, diminuire le esportazioni di semi, bloccare le frontiere per non far entrare aiuti alimentare che possono distruggere il mercato interno. Tornano inoltre gli Ogm come sistema per risolvere la crisi alimentare, divenuti ormai un’arma chimica contro la differenziazione biologica e uno strumento per l’imposizione del monopolio di determinante entità economiche. Si stima infatti che da questa crisi, le più grandi imprese operanti nel settore agro-alimentare abbiano registrato impennate esponenziali dei loro ricavi: la Cargill ha annunciato un aumento dei profitti in un solo quadrimestre dell'86%, Bunge del 77%, Archer Daniel Midland's del 65%. Allo stesso tempo continuano le spinte per la liberalizzazione dei mercati, proponendo così l’ingresso dei Paesi in via di Sviluppo nell'ambito del General Agreement on Trade in Services (GATS) o di altri negoziati multilaterali o bilaterali, e intensificando le regole in discussione nel Doha Round. Si rischia tuttavia, in tal modo, di intensificare la crisi rendendo i prezzi dei generi alimentari ancora più volatili, aumentando la dipendenza dei paesi in via di sviluppo dalle importazioni e così anche più inarrestabili le crisi alimentari.

Non resta che constatare che, come sempre a prevalere sono gli interessi economici di potenze petrolifere e caste finanziarie sempre più forti, utilizzando l’Onu e la rete di Organismi internazionali per difendere una vera e propria strategia economica in atto. Da una parte si va a contrastare la concorrenza di altri tipi di combustibili, spacciando la crisi alimentare come conseguenza della distrazione delle coltivazione dalle derrate, mentre dall’altra si usa la speculazione finanziaria per esasperare il rincaro delle commodities e legittimare le politiche di liberalizzazione e l’adozione di organismi geneticamente modificati. Un vero e proprio circolo vizioso, in realtà sempre più inarrestabile, in quanto ci troviamo dinanzi alla crisi economica dell’epoca moderna più preoccupante degli ultimi anni, che a confronto quella degli anni ’70 potrebbe sembrare una semplice "congiuntura sfavorevole", in quanto si va ad intrecciare con la crisi dei mercati finanziari, e lo stesso crollo delle istituzioni Statali, a favore delle entità sovranazionali ormai sempre più forti. Le situazioni di emergenza divengono, in tale contesto, solo un mezzo per imporre una sorta di "ristrutturazione economica forzata", al fine di rafforzare il controllo delle risorse idriche e alimentari, nonché dei combustibili.

Infatti, le crisi che colpiscono i vari settori vitali per l’economia tendono a coordinarsi sempre di più, confluendo tra di loro e aggregandosi, perché la crisi alimentare che oggi affrontiamo è una propagazione della crisi finanziaria, che è anche origine di quella petrolifera. Tutte le variabili in gioco - cibo , petrolio e acqua - sono oggetto di un processo della manipolazione simultanea del mercato intenzionale. L’aumento del petrolio e la svalutazione della moneta di riserva ha scatenato la speculazione sulle commodities, e così l’aumento dei prezzi alimentari e la necessità di utilizzare combustibili alternativi; allo stesso tempo il prezzo dell’acqua ha subito ulteriori speculazioni come conseguenza delle politiche globali di privatizzazione delle risorse idriche. Ecco dunque che le lobbies cambiano e si moltiplicano, e non si riducono solo a quelle petrolifere, ma abbracciano anche quelle operanti nelle biotecnologie agro-industriali, i giganti dell’acqua. A favorire il loro consolidamento sta giocando un importante ruolo le stesse Nazioni Unite che stravolgono la realtà degli eventi, parlando della crisi della produzione, quando i dati rivelano che alcuni Paesi hanno addirittura moltiplicato le esportazioni facendo fronte alla stessa produzione di bio-combustibili. Tali contraddizioni e anomalie rivelano ancora di più il grande disastro del disfacimento delle Organizzazioni Internazionali, che crollano insieme agli Stati-Nazione e ai diritti degli Stati sovrani.
Fonte: Etleboro

Rifkin, l'energia fai-da-te


Mentre il governo incassa altri 6 punti di fiducia inizia un nuovo calvario sul Nucleare. Vincerà lo Statista Berlusconi e il generale Scajola o il buonsenso dei vari premi Nobel ed economisti ambientali di turno? Si sa, tanto il governo di nani e ballerine attua tutto per il consenso, gli applausi facili preparati dall'animatore di turno. Noi spettatori coinvolti in questo gioco pronti a fare le vittime.

Le centrali sono una "soluzione di retroguardia" e non risolveranno il problema.
Dopo l'incidente di Krsko il guru dell'economia all'idrogeno spiega perché l'Italia sbaglia.

UNA fatica inutile. Perché se anche rimpiazzassimo nei prossimi anni tutte le centrali nucleari esistenti nel mondo, il risparmio di emissioni sarebbe comunque un'inezia. Un quarto di quel che serve per cominciare a rimettere le briglie a un clima impazzito. Jeremy Rifkin non ha dubbi: quella atomica è una strada sbagliata, di retroguardia. Come curare malattie nuovissime con la penicillina. E non c'è neppure bisogno dei campanelli di allarme tipo Krsko per capirlo.

Basta guardare i numeri senza le lenti dell'ideologia. Proprio l'attitudine che, in Italia, scarseggia di più per il guru dell'economia all'idrogeno. Si vedrebbe così che l'uranio, come il petrolio, presto imboccherà la sua parabola discendente: ce ne sarà di meno e costerà di più.

E che il problema dello smaltimento delle scorie è drammaticamente aperto anche negli Stati Uniti dove lo studiano da anni. "Vi immaginate uno scenario tipo Napoli, ma dove i rifiuti fossero radioattivi?" è il suo inquietante memento. Meglio puntare su quella che lui chiama la "terza rivoluzione industriale".


L'incidente all'impianto sloveno arroventa il dibattito italiano, a pochi giorni dall'annuncio del ritorno al nucleare. Cosa ne pensa?

"Ho parlato con persone che hanno conoscenza di prima mano dell'incidente, e mi hanno tranquillizzato. Non ci sono state fughe radioattive e il governo ha gestito bene tutta la vicenda. Ho lavorato con l'amministrazione Jan%u0161a e posso dire che hanno sempre dimostrato una leadership illuminata nel traghettare la Slovenia verso le energie rinnovabili. Non posso dire lo stesso di tutti i paesi europei, ma posso lodare le politiche energetiche di Ljubljana".

Superata questa crisi, in generale possiamo sentirci sicuri?

"Il problema col nucleare è che si tratta di un'energia con basse probabilità di incidente, ma ad alto rischio. Ovvero: non succede quasi mai niente di brutto, ma se qualcosa va storto può essere una catastrofe. Come Chernobyl".

Il governo italiano ha confermato l'inizio della costruzione delle nuove centrali entro il 2013. Coerenza o azzardo?

"Non capisco i termini della discussione in corso in Italia. Amo il vostro paese, lo seguo da anni ma questa volta mi sento davvero perso. I sostenitori dicono: il nucleare è pulito, non produce diossido di carbonio, quindi contribuirà a risolvere il cambiamento climatico. Un ragionamento che non torna se solo si guarda allo scenario globale.

Oggi sono in funzione nel mondo 439 centrali nucleari e producono circa il 5% dell'energia totale. Nei prossimi 20 anni molte di queste centrali andranno rimpiazzate. E nessuno dei top manager del settore energetico crede che lo saranno in una misura maggiore della metà. Ma anche se lo fossero tutte si tratterebbe di un risparmio del 5%. Ora, per avere un qualche impatto nel ridurre il riscaldamento del pianeta, si dovrebbe ridurre del 20% il Co2, un risultato che certo non può venire da qui".

Un finto argomento quindi quello del nucleare "verde"?

"Non in assoluto, ma relativamente alla realtà, sì. Perché il passaggio al nucleare avesse un impatto sull'ambiente bisognerebbe costruire 3 centrali ogni 30 giorni per i prossimi 60 anni. Così facendo fornirebbe il 20% di energia totale, la soglia critica che comincia a fare una differenza. C'è qualcuno sano di mente che pensa che si potrebbe procedere a questo ritmo? La Cina ha ordinato 44 nuove centrali nei prossimi 40 anni per raddoppiare la sua potenza produttiva. Ma si avvia ad essere il principale consumatore di energia...".

Ci sono altri ostacoli lungo questa strada?

"Io ne conto cinque, e adesso vi dico il secondo. Non sappiamo ancora come trasportare e stoccare le scorie. Gli Stati Uniti hanno straordinari scienziati e hanno investito 8 miliardi di dollari in 18 anni per stoccare i residui all'interno delle montagne Yucca dove avrebbero dovuto restare al sicuro per quasi 10 mila anni. Bene, hanno già cominciato a contaminare l'area nonostante i calcoli, i fondi e i super-ingegneri. Davvero l'Italia crede di poter far meglio di noi? L'esperienza di Napoli non autorizza troppo ottimismo. E questa volta i rifiuti sarebbero nucleari, con conseguenze inimmaginabili".

Ecoballe all'uranio, un pensiero da brividi. E il terzo ostacolo?

"Stando agli studi dell'agenzia internazionale per l'energia atomica l'uranio comincerà a scarseggiare dal 2025-2035. Come il petrolio sta per raggiungere il suo peak. I prezzi, quindi, andranno presto su. Ciò si ripercuoterà sui costi per produrre energia togliendo ulteriori argomenti a questo malpensato progetto. Aggiungo il quarto punto. Si potrebbe puntare sul plutonio.

Ma con quello è più facile costruire bombe. La Casa Bianca e molti altri governi fanno un gran parlare dei rischi dell'atomica in mani nemiche. Ma i governi buoni di oggi diventano le canaglie di domani".


Siamo arrivati così all'ultima considerazione. Qual è?

"Che non c'è abbastanza acqua nel mondo per gestire impianti nucleari. Temo che non sia noto a tutti che circa il 40% dell'acqua potabile francese serve a raffreddare i reattori. L'estate di cinque anni fa, quando molti anziani morirono per il caldo, uno dei danni collaterali che passarono sotto silenzio fu che scarseggiò l'acqua per raffreddare gli impianti. Come conseguenza fu ridotta l'erogazione di energia elettrica. E morirono ancora più anziani per mancanza di aria condizionata".

Se questi sono i dati che uso ne fa la politica?

"Posso sostenere un dibattito con qualsiasi statista sulla base di questi numeri e dimostrargli che sono giusti, inoppugnabili. Ma la politica a volte segue altre strade rispetto alla razionalità. E questo discorso, anche in Italia, è inquinato da considerazioni ideologiche".

In che senso? C'è un'energia di destra e una di sinistra?

"Direi modelli energetici élitari e altri democratici. Il nucleare è centralizzato, dall'alto in basso, appartiene al XX secolo, all'epoca del carbone. Servono grossi investimenti iniziali e altrettanti di tipo geopolitico per difenderlo".

E il modello democratico, invece?

"È quello che io chiamo la "terza rivoluzione industriale". Un sistema distribuito, dal basso verso l'alto, in cui ognuno si produce la propria energia rinnovabile e la scambia con gli altri attraverso "reti intelligenti" come oggi produce e condivide l'informazione, tramite internet".


Immagina che sia possibile applicarlo anche in Italia?
"Sta scherzando? Voi siete messi meglio di tutti: avete il sole dappertutto, il vento in molte località, in Toscana c'è anche il geotermico, in Trentino si possono sfruttare le biomasse. Eppure, con tutto questo ben di dio, siete indietro rispetto a Germania, Scandinavia e Spagna per quel che riguarda le rinnovabili".

Ci dica come si affronta questa transizione.

"Bisogna cominciare a costruire abitazioni che abbiano al loro interno le tecnologie per produrre energie rinnovabili, come il fotovoltaico. Non è un'opzione, ma un obbligo comunitario quello di arrivare al 20%: voi da dove avete cominciato? Oggi il settore delle costruzioni è il primo fattore di riscaldamento del pianeta, domani potrebbe diventare parte della soluzione. Poi serviranno batterie a idrogeno per immagazzinare questa energia. E una rete intelligente per distribuirla".

Oltre che motivi etici, sembrano essercene anche di economici molto convincenti. È così?

"In Spagna, che sta procedendo molto rapidamente verso le rinnovabili, alcune nuove compagnie hanno fatto un sacco di soldi proprio realizzando soluzioni "verdi". Il nucleare, invece, è una tecnologia matura e non creerà nessun posto di lavoro. Le energie alternative potrebbero produrne migliaia".

A questo punto solo un pazzo potrebbe scegliere un'altra strada. Eppure non è solo Roma ad aver riconsiderato il nucleare. Perché?

"Credo che abbia molto a che fare con un gap generazionale. E ve lo dice uno che ha 63 anni. I vecchi politici, cresciuti con la sindrome del controllo, si sentono più a loro agio in un mondo in cui anche l'energia è somministrata da un'entità superiore".

di RICCARDO STAGLIANÒ

10 giugno 2008

11 settembre: il partiro dei dubbi avanza

Qualche giornalista comincia ad alzare la testa, Bush sta finendo il suo ultimo tour da presidente e, qualcuno comincia a slacciare le scarpe. Un odore terribile, di un mestiere che nega l'evidenza e mortifica la ragione. Per togliere qualche sassolino ci vuole ancora tempo. Chissà se li vedremo e li leggeremo. Chissà.

La domanda è vecchia, vecchissima. La novità è che, sette anni dopo l’11 settembre 2001, se la pone il Financial Times. L’evento è storico, e varrà la pena di segnarsi la data: 6 giugno 2008. Il più autorevole dei «mainstream media», dei grandi giornali, pone la domanda. Senza un plausibile motivo di attualità per rivangare quel momento .

Per tutti coloro che cercano la verità sull’11 settembre, l’Edificio 7 è il terzo grattacielo che collassò quel giorno. Un edificio di 47 piani, parte del complesso urbanistico World Trade Center, che crollò senza essere colpito da alcun aereo, nota il FT, «a velocità di caduta libera e nel suo perimetro», ossia in perfetta verticale. Il fatto più strano, rievoca il quotidiano finanziario, è che «la BBC riferì il crollo dell’Edificio 7 mezz’ora prima che avvenisse».

La giornalista Jane Standley stava apparendo in diretta, alle ore 4.45 pomeridiane, e annunciò il crollo della terza torre - e dietro di lei, sullo sfondo, si vedeva che la Torre 7 era ancora in piedi. Affondò solo 26 minuti dopo.

Per questo video, ripreso su YouTube, «il sito web della BBC è stato bombardato di domande ed accuse. Richard Porter, capo del notiziario internazionale della BBC, ha dovuto negare che la BBC recitava dal copione di Bush», scrive il Financial Times. Porter s’è giustificato adducendo la confusione di quel giorno. «La CNN aveva appena prima riferito di voci che un terzo edificio era crollato o stava per crollare». I sospetti dei sospettosi sono aggravati dal fatto che «Porter ha ammesso che la BBC non ha conservato le registrazioni originali di quel suo reportage».Non basta. Il Financial Times ricorda che l’Edificio 7 aveva «alcuni inquilini interessanti». La maggior parte dell’edificio era affittato alla Solomon Brothers, la banca. Ma il nono e decimo piano «erano occupati dal secret service». Ai tre piani superiori c’erano uffici della SEC, l’ente di controllo della Borsa (il WTC è a due passi da Wall Street).

Inoltre, «il New York Times riferì che l’edificio ospitava anche un ufficio segreto gestito dalla CIA e dedicato a spiare e reclutare diplomatici stranieri delle Nazioni Unite. La perdita della stazione ‘ha seriamente disorganizzato’ le operazioni d’intelligence», riportò il NYT. «La CIA condivideva un piano con il Dipartimento Difesa e con l’Internal Revenue Service», il servizio tributario federale.

Poi, nel seguente capoverso, il quotidiano di Londra butta lì una frase: «Il crollo dell’edificio ha anche spazzato via l’Ufficio per la Gestione dell’Emergenza del comune di New York al 23 mo piano». Questo centro di gestione delle emergenze è una delle cose più sospette di tutta la vicenda, anche se il FT non lo dice.

Il sindaco Rudolph Giuliani lo fece costruire adducendo il timore di un attacco all’antrace su New York, da parte di... Saddam Hussein. Perciò lo volle resistente agli aggressivi biologici e chimici, oltre che a bombe e a proiettili d’artiglieria. Era un vero e proprio bunker, che occupava tre piani del Building 7 (dal 23 al 25mo), completamente corazzato ed autosufficiente: finestre anti-proiettile, tre generatori d’elettricità con 6 mila galloni di gasolio per farli funzionare, una sua propria scorta d’aria sì da non doverla ricevere dall’esterno, una riserva d’acqua potabile di 11 mila galloni. Il bunker fu completato, guarda la preveggenza, nel giugno del 1999, al costo per il contribuente di 13 milioni di dollari.

Un bunker super-sicuro. Tranne un piccolo, trascurabile dettaglio: l’Edificio 7 nascondeva, nei suoi primi cinque piani, una sotto-stazione dell’elettricità di New York, con trasformatori colossali da 13.890 volts e un serbatoio di gasolio per la stazione da 42 mila galloni. Mettere un bunker sopra trasformatori enormi e un mare di carburante, e ritenerlo sicuro dagli attentati terroristici, sembra un pochino strano.

Secondo il movimento per la verità sull’11 settembre, questo bunker servì in realtà come cabina di regia per le pirotecniche esplosioni e demolizioni che configurarono il mega-attentato di quel giorno: i registi, chiunque fossero, potevano sincronizzare le esplosioni da una qualche console e osservare l’effetto dalle finestre corazzate, molto da vicino, senza essere soffocati dalle nubi di polveri e detriti perchè disponevano di aria in circuito chiuso. Per Eric Hufschmid, uno dei primi a sollevare la questione (2), in quel bunker poteva esserci stato anche un radiofaro (un «homing device») che guidò i due aerei che colpirono le due Torri.

Lo si indovina dalle rotte dei due apparecchi: il Volo 11, che colpì la Torre Nord passò direttamente sopra l’Edificio 7, e il volo 175 dirigeva verso l’Edificio 7, ma incontrò la Torre Sud.
Ciò può spiegare come mai, a cose fatte, l’Edificio 7 doveva essere distrutto: per far sparire le prove della regia.


Un'immagine interessante: l'edificio 5 in fiamme (sinistra) non crollerà; l'edificio 7 (destra) crollerà invece poco dopo.

Il Financial Times ricorda i sospetti sollevati dalla frase di Larry Silverstein, il proprietario per 99 anni del WTC: intervistato il pomeriggio, egli disse d’aver consigliato il comandante dei vigili del fuoco di «pull» l’Edificio 7. Più tardi Silverstein spiegò che aveva inteso: porta via i tuoi vigili da lì. I sospettosi dicono che «pull it» è la parola che nel gergo delle demolizioni controllate significa «tiralo giù».

Il giornale britannico ricorda che il National Institute of Standard and Technology (NIST), l’ente governativo che ha preteso di spiegare il collasso delle Torri come conseguenza dell’impatto degli aerei, escludendo ogni mistero, non ha ancora spiegato a modo suo il crollo dell’Edificio 7. «Il NIST sostiene che il ritardo è dovuto alla complessità del modello computerizzato che usa. Inoltre, sono state trovate 80 scatole di documenti riguardanti il WTC7 che devono essere esaminate».

Ma il NIST ha già «un’ipotesi di lavoro», e sarebbe questa: «Il fuoco o macerie infiammate staccatesi dalla Torre Nord hanno danneggiato una colonna critica per il sostegno del tetto di 2 mila metri quadri. I piani sottostanti sono stati incapaci di redistribuire il peso e la struttura è caduta su se stessa. Il fatto che il collasso sia stato causato da un danno interno spiegherebbe l’apparenza di demolizione controllata, con un campo di caduta piccolo».

Il NIST ha promesso di pubblicare i dati il prossimo agosto, dice il Financial Times. Ma naturalmente, «questo ha alimentato il sospetto che i tecnici abbiano difficoltà a tirar fuori un sepistaggio plausibile» per il crollo. Vedrete che quando il rapporto del NIST uscirà, tutti i debunker, a cominciare da Introvigne, si precipiteranno a citarlo come «autorevole» e non solo «plausibile», ma tale da smentire i «complottisti». Sette anni sono passati, e siamo ancora a questo punto.

Saremo alluvionati di dettagli tecnici sulla resistenza dei materiali, la temperatura del fuoco, i modelli computerizzati che mostrano come i pavimenti siano caduti l’uno sull’altro a fisarmonica... Siccome tutto questo ha quasi convinto qualche lettore che ci ha recentemente scritto, ci limitiamo a ricordare quello che, in sette anni, non è stato ancora messo in luce.

Credere che un grattacielo alto mezzo chilometro, colpito «lateralmente» da un aereo, crolli «verticalmente» dentro il suo perimetro, significa ignorare le più banali leggi della fisica e sfidare la forza di gravità. A sette anni dai fatti, chi ancora ne discute è in malafede. Però può avvenire, diranno i debunker. Forse, una volta. Ma due, anzi tre volte, con l’Edificio 7?

Quando a Las Vegas un giocatore, lanciando i dadi, ottiene tre volte 6, il croupier chiama al telefono il gestore del casinò, e due signori molto muscolosi si affiancano al giocatore fortunato dai due lati: evidentemente a Las Vegas non credono alla sorte, quando è ripetitiva.


Questa immagine difatti mostra l'edificio 5 «completely charred» ma in piedi (destra) e l'edificio 7 (sinistra) «pull it»

Ora, noi dobbiamo credere che per ben tre volte due torri colpite di lato sono cadute in verticale, e la terza, Edificio 7, è caduta da sè senza essere nemmeno colpita, per un «danno interno»: e anch’essa in perfetta verticale, come in una demolizione controllata.

Se il caso si ripete così regolarmente, s’impone la domanda: come mai gli ingegneri specialisti spendono tanti soldi e tempo per identificare gli snodi dove piazzare le cariche esplosive, e in calcoli per sincronizzare le esplosioni, onde ottenere la caduta verticale? Ormai dovrebbero essere coscienti della nuova legge fisica: diano una bella botta laterale, anche a casaccio, e il grattacielo cade comunque in verticale. Tutta la fatica degli ingegneri specialisti sta nell’assicurare una perfetta «sincronia» dello scoppio delle varie cariche. I pilastri e le strutture portanti devono essere spezzati nello stesso decimo di secondo, altrimenti il grattacielo cade di lato, abbattendo le costruzioni sottostanti. L’impresa richiede chilometri di cavi, una quantità di inneschi elettronici, sofisticati sotware, una sofisticata consolle elettronica di comando e molte conoscenze tecniche complesse.

Ora, invece, siamo tenuti a credere che un aereo, penetrando nei piani alti delle Towers, ha tranciato contemporaneamente le ben 47 colonne d’acciaio che le reggevano. Colonne a scatolato (parallelepipedi) di spessore variabile; ma alla base le scatole avevano lati spessi 10 centimetri d’acciaio, per poi assottigliarsi via via con l’altezza, dovendo reggere un peso via via minore.

Ora, un aereo è d’alluminio, è vuoto, è leggero (tranne le turbine-motore, che sono massicce): se credete che tagli blocchi d’acciaio, allora provate a tagliare il pane con una lama di carta stagnola. Ma soprattutto, non può averle tranciate «nello stesso istante». Anche questo è contro alle più ovvie leggi della fisica. Sono passati sette anni, e nessun fenomeno del genere s’è mai più ripetuto. Nè mai si è verificato sette anni prima, o dieci, o venti. Fin qui l’elenco delle «impossibilità».


La torre 7 dopo l’ordine di «pull it»: una demolizione controllata a regola d’arte

Adesso - a beneficio dei lettori che si lasciano ancora convincere dalle «spiegazioni tecniche» degli Introvigne ed Altissimo - esponiamo le ipotesi. Si tratta di ipotesi, non di certezze: ma a sette anni di distanza, il quadro nelle menti dei ricercatori della verità sull’11 settembre è abbastanza avanzato, da poterle dichiarare come plausibili.

Gli aerei non hanno fatto crollare nulla: sono stati lanciati contro le Torri solo per la scena televisiva, per asserire plausibilmente un attentato islamista. In realtà, le Torri erano state in precedenza «preparate» con cariche esplosive. Più precisamente: con un composto bellico detto Termite, che quando innescato brucia a quasi 3 mila gradi, abbastanza da fondere l’acciaio. La Termite è usata nelle cariche cave delle armi anticarro per perforarne le corazzature.

Il professor Steven Jones, docente di fisica alla Brigham Young University, è l’autore di questa ipotesi ed ha condotto gli esperimenti relativi. Ha perso la cattedra. Ciò però, ribattono i debunker, implicherebbe settimane di lavoro da parte di decine di tecnici: cosa impossibile senza dar nell’occhio.

I debunker non hanno mai visto le Twin Towers e non dicono - o non sanno - che cosa erano. Erano locali per uffici a noleggio. In ogni momento, qualche azienda faceva trasloco in entrata o in uscita.

Nelle viuzze posteriori, il sottoscritto ha visto regolarmente, ogni volta che tornava a Manhattan, una quantità di autocarri di traslochi che scaricavano colli voluminosi e coperti da teli grigi scrivanie, computer, poltrone, mobili da ufficio o qualunque altro oggetto - su è giù dagli ascensori di servizio (il totale degli ascensori e montacarichi era di 155); un viavai di facchini dei traslochi di tante ditte diverse, che portavano su i mobili per i nuovi inquilini, o portavano giù quelli dei vecchi che lasciavano gli edifici.

Come si ricorderà forse, la polizia di New York - su segnalazione di una cameriera messicana - arrestò cinque giovanottoni visti dalla cameriera festeggiare l’esplosione dlele Torri, fotografandosi a vicenda con alle spalle le Torri in fiamme; questi giovanotti, tutti israeliani appena dimessi dal servizio militare, lavoravano come facchini per un’agenzia di traslochi, al Urban Moving Systems, di proprietà di un israeliano, tuttora ricercato. Niente di più plausibile del sospetto che fossero la bassa forza: alcuni di quelli che avevano trasportato i materiali necessari all’attentato, esplosivo e cavi, in forma di colli voluminosi e coperti da teli. Il fatto che fossero stranieri spiega alquante cose: fra cui il fatto che nessuno parli. Chi sa, è tornato in Israele e tace. Quei cinque, beccati perchè festeggiavano, sono stati «espulsi verso Israele» (sottratti alle indagini) dal procuratore di New York, l’israelo-americano Michael Chertoff, con doppia cittadinanza, oggi ministro della Homeland Security. Se vi aspettate che un giorno parli lui, avrete da aspettare parecchio.

Quanto agli ingegneri, è ben probabile che siano militari espertissimi di esplosivi, abituati ad eseguire operazioni «coperte» e a tener la bocca chiusa. Potevano anche essere israeliani tutti, e tutti uccel di bosco. Nei piani sfitti e in attesa di nuovi pigionanti - aziende per lo più - altri uomini lavoravano a stendere moquettes, ad alzare pareti di cartongesso, ad adeguare gli impianti elettrici: decine di tecnici potevano usare fiamma ossidrica e martelli pneumatici senza che in questo, nessuno della «security» avrebbe visto nulla di strano: era la vita di ogni giorno dentro le Twin Tower, nelle entrate posteriori di servizio, fuori dagli sguardi del pubblico. Quelle strade laterali erano spesso chiuse al passaggio della gente da transenne. Che recavano cartelli del tipo: «Scusateci, stiamo lavorando per voi», «Carichi pendenti», «Men at work». Questo accadeva tutti i giorni.

Si aggiunga che la «security» delle Twin Towers, l’11 settembre, non era quella solita: il capo era nuovo, era stato appena assunto da un giorno. Era John O’Neill, ex alto funzionario del FBI, che s’era dimesso ad agosto gridando ai quattro venti che la nuova amministrazione Bush ostacolava le ricerche su bin Laden e Al Qaeda. O’Neill è morto sotto le macerie, il primo giorno del suo nuovo impiego. La preparazione possibile degli edifici per la demolizione controllata, se è avvenuta, era avvenuta prima che lui entrasse in servizio.

Si aggiunga ancora che «la maggior parte» dei piani erano sfitti, dunque vuoti (le Twin Tower avevano costi proibitivi; per questo Rudolph Giuliani voleva farle abbattere per costruire al loro posto edifici più moderni). Dentro quei piani vuoti, ci poteva lavorare ogni genere di «operai e tecnici», dopo aver chiuso le porte.

E tralascio altri particolari, come l’interruzione programmata di corrente il giorno prima, di cui
i pigionanti furono preavvertiti: molte aziende dovettero fare il back-up dei loro computer, qualcuno se lo ricordò. Uno di quei qualcuno, un esperto di finanza, ha preferito andare a lavorare a Londra. Massimo Mazzucco ha una sua intervista-video.

Questa è l’ipotesi. Sette anni dopo, è bene che i lettori comincino a saperla. Ormai, comincia a dire qualcosa anche il Financial Times.
M. Blondet

09 giugno 2008

Le speculazioni protette dall'ONU



Si chiude il vertice Fao 2008 a Roma, e lascia dietro di sé delusione e rabbia, nella consapevolezza che ormai non esiste alcun organismo che sia in grado di far valere il rispetto dei popoli e dei diritti umani senza farsi influenzare dagli interessi economici dei poteri e dei governi forti. La dichiarazione si conclude con un invito generico alla Fao e ad altre organizzazioni internazionali a "monitorare e analizzare la sicurezza alimentare mondiale in tutte le sue dimensioni, e sviluppare strategie per migliorarli". La più grande delusione resta tuttavia l'immobilismo nei confronti dell’allarmante problema della speculazione finanziaria, che vanifica ogni sforzo produttivo o commerciale, per far fronte al rincaro dei prezzi, e punta il dito esclusivamente sui biocarburanti.

Il vertice Fao si conclude lasciando dietro di sé delusione e rabbia, nella consapevolezza che ormai non esiste alcun organismo che sia in grado di far valere il rispetto dei popoli e dei diritti umani senza farsi influenzare dagli interessi economici dei poteri e dei governi forti. Le conclusioni, racchiuse in un semplice documento, riducono le misure di contrasto all’emergenza alimentare a futuri finanziamenti nei confronti dei Paesi più deboli, al controllo della produzione di biocarburanti e alla necessità di una maggiore liberalizzazione dei mercati agricoli. La dichiarazione si conclude con un invito generico alla Fao e ad altre organizzazioni internazionali a "monitorare e analizzare la sicurezza alimentare mondiale in tutte le sue dimensioni, e sviluppare strategie per migliorarli". Per quanto riguarda il rincaro dei prezzi, nessuna concreta iniziativa, tranne la stigmatica enunciazione sulla necessità di "intraprendere iniziative per moderare fluttuazioni anomale dei prezzi dei cereali". Questa, probabilmente, la più grande delusione di un vertice tanto inutile quanto ipocrita, che si rifiuta così di affrontare l’allarmante problema della speculazione finanziaria, che vanifica ogni sforzo produttivo o commerciale, per far fronte al rincaro dei prezzi, e punta il dito esclusivamente sui biocarburanti, demonizzati al punto da ipotizzare un divieto per la loro produzione.

Tuttavia, i punti più controversi restano le proposte di aumentare la libera circolazione dei beni agricoli sul mercato, riducendo le barriere doganali e impedendo le politiche di molti Paesi di limitare le esportazioni di cibo, diminuire le esportazioni di semi, bloccare le frontiere per non far entrare aiuti alimentare che possono distruggere il mercato interno. Tornano inoltre gli Ogm come sistema per risolvere la crisi alimentare, divenuti ormai un’arma chimica contro la differenziazione biologica e uno strumento per l’imposizione del monopolio di determinante entità economiche. Si stima infatti che da questa crisi, le più grandi imprese operanti nel settore agro-alimentare abbiano registrato impennate esponenziali dei loro ricavi: la Cargill ha annunciato un aumento dei profitti in un solo quadrimestre dell'86%, Bunge del 77%, Archer Daniel Midland's del 65%. Allo stesso tempo continuano le spinte per la liberalizzazione dei mercati, proponendo così l’ingresso dei Paesi in via di Sviluppo nell'ambito del General Agreement on Trade in Services (GATS) o di altri negoziati multilaterali o bilaterali, e intensificando le regole in discussione nel Doha Round. Si rischia tuttavia, in tal modo, di intensificare la crisi rendendo i prezzi dei generi alimentari ancora più volatili, aumentando la dipendenza dei paesi in via di sviluppo dalle importazioni e così anche più inarrestabili le crisi alimentari.

Non resta che constatare che, come sempre a prevalere sono gli interessi economici di potenze petrolifere e caste finanziarie sempre più forti, utilizzando l’Onu e la rete di Organismi internazionali per difendere una vera e propria strategia economica in atto. Da una parte si va a contrastare la concorrenza di altri tipi di combustibili, spacciando la crisi alimentare come conseguenza della distrazione delle coltivazione dalle derrate, mentre dall’altra si usa la speculazione finanziaria per esasperare il rincaro delle commodities e legittimare le politiche di liberalizzazione e l’adozione di organismi geneticamente modificati. Un vero e proprio circolo vizioso, in realtà sempre più inarrestabile, in quanto ci troviamo dinanzi alla crisi economica dell’epoca moderna più preoccupante degli ultimi anni, che a confronto quella degli anni ’70 potrebbe sembrare una semplice "congiuntura sfavorevole", in quanto si va ad intrecciare con la crisi dei mercati finanziari, e lo stesso crollo delle istituzioni Statali, a favore delle entità sovranazionali ormai sempre più forti. Le situazioni di emergenza divengono, in tale contesto, solo un mezzo per imporre una sorta di "ristrutturazione economica forzata", al fine di rafforzare il controllo delle risorse idriche e alimentari, nonché dei combustibili.

Infatti, le crisi che colpiscono i vari settori vitali per l’economia tendono a coordinarsi sempre di più, confluendo tra di loro e aggregandosi, perché la crisi alimentare che oggi affrontiamo è una propagazione della crisi finanziaria, che è anche origine di quella petrolifera. Tutte le variabili in gioco - cibo , petrolio e acqua - sono oggetto di un processo della manipolazione simultanea del mercato intenzionale. L’aumento del petrolio e la svalutazione della moneta di riserva ha scatenato la speculazione sulle commodities, e così l’aumento dei prezzi alimentari e la necessità di utilizzare combustibili alternativi; allo stesso tempo il prezzo dell’acqua ha subito ulteriori speculazioni come conseguenza delle politiche globali di privatizzazione delle risorse idriche. Ecco dunque che le lobbies cambiano e si moltiplicano, e non si riducono solo a quelle petrolifere, ma abbracciano anche quelle operanti nelle biotecnologie agro-industriali, i giganti dell’acqua. A favorire il loro consolidamento sta giocando un importante ruolo le stesse Nazioni Unite che stravolgono la realtà degli eventi, parlando della crisi della produzione, quando i dati rivelano che alcuni Paesi hanno addirittura moltiplicato le esportazioni facendo fronte alla stessa produzione di bio-combustibili. Tali contraddizioni e anomalie rivelano ancora di più il grande disastro del disfacimento delle Organizzazioni Internazionali, che crollano insieme agli Stati-Nazione e ai diritti degli Stati sovrani.
Fonte: Etleboro

Rifkin, l'energia fai-da-te


Mentre il governo incassa altri 6 punti di fiducia inizia un nuovo calvario sul Nucleare. Vincerà lo Statista Berlusconi e il generale Scajola o il buonsenso dei vari premi Nobel ed economisti ambientali di turno? Si sa, tanto il governo di nani e ballerine attua tutto per il consenso, gli applausi facili preparati dall'animatore di turno. Noi spettatori coinvolti in questo gioco pronti a fare le vittime.

Le centrali sono una "soluzione di retroguardia" e non risolveranno il problema.
Dopo l'incidente di Krsko il guru dell'economia all'idrogeno spiega perché l'Italia sbaglia.

UNA fatica inutile. Perché se anche rimpiazzassimo nei prossimi anni tutte le centrali nucleari esistenti nel mondo, il risparmio di emissioni sarebbe comunque un'inezia. Un quarto di quel che serve per cominciare a rimettere le briglie a un clima impazzito. Jeremy Rifkin non ha dubbi: quella atomica è una strada sbagliata, di retroguardia. Come curare malattie nuovissime con la penicillina. E non c'è neppure bisogno dei campanelli di allarme tipo Krsko per capirlo.

Basta guardare i numeri senza le lenti dell'ideologia. Proprio l'attitudine che, in Italia, scarseggia di più per il guru dell'economia all'idrogeno. Si vedrebbe così che l'uranio, come il petrolio, presto imboccherà la sua parabola discendente: ce ne sarà di meno e costerà di più.

E che il problema dello smaltimento delle scorie è drammaticamente aperto anche negli Stati Uniti dove lo studiano da anni. "Vi immaginate uno scenario tipo Napoli, ma dove i rifiuti fossero radioattivi?" è il suo inquietante memento. Meglio puntare su quella che lui chiama la "terza rivoluzione industriale".


L'incidente all'impianto sloveno arroventa il dibattito italiano, a pochi giorni dall'annuncio del ritorno al nucleare. Cosa ne pensa?

"Ho parlato con persone che hanno conoscenza di prima mano dell'incidente, e mi hanno tranquillizzato. Non ci sono state fughe radioattive e il governo ha gestito bene tutta la vicenda. Ho lavorato con l'amministrazione Jan%u0161a e posso dire che hanno sempre dimostrato una leadership illuminata nel traghettare la Slovenia verso le energie rinnovabili. Non posso dire lo stesso di tutti i paesi europei, ma posso lodare le politiche energetiche di Ljubljana".

Superata questa crisi, in generale possiamo sentirci sicuri?

"Il problema col nucleare è che si tratta di un'energia con basse probabilità di incidente, ma ad alto rischio. Ovvero: non succede quasi mai niente di brutto, ma se qualcosa va storto può essere una catastrofe. Come Chernobyl".

Il governo italiano ha confermato l'inizio della costruzione delle nuove centrali entro il 2013. Coerenza o azzardo?

"Non capisco i termini della discussione in corso in Italia. Amo il vostro paese, lo seguo da anni ma questa volta mi sento davvero perso. I sostenitori dicono: il nucleare è pulito, non produce diossido di carbonio, quindi contribuirà a risolvere il cambiamento climatico. Un ragionamento che non torna se solo si guarda allo scenario globale.

Oggi sono in funzione nel mondo 439 centrali nucleari e producono circa il 5% dell'energia totale. Nei prossimi 20 anni molte di queste centrali andranno rimpiazzate. E nessuno dei top manager del settore energetico crede che lo saranno in una misura maggiore della metà. Ma anche se lo fossero tutte si tratterebbe di un risparmio del 5%. Ora, per avere un qualche impatto nel ridurre il riscaldamento del pianeta, si dovrebbe ridurre del 20% il Co2, un risultato che certo non può venire da qui".

Un finto argomento quindi quello del nucleare "verde"?

"Non in assoluto, ma relativamente alla realtà, sì. Perché il passaggio al nucleare avesse un impatto sull'ambiente bisognerebbe costruire 3 centrali ogni 30 giorni per i prossimi 60 anni. Così facendo fornirebbe il 20% di energia totale, la soglia critica che comincia a fare una differenza. C'è qualcuno sano di mente che pensa che si potrebbe procedere a questo ritmo? La Cina ha ordinato 44 nuove centrali nei prossimi 40 anni per raddoppiare la sua potenza produttiva. Ma si avvia ad essere il principale consumatore di energia...".

Ci sono altri ostacoli lungo questa strada?

"Io ne conto cinque, e adesso vi dico il secondo. Non sappiamo ancora come trasportare e stoccare le scorie. Gli Stati Uniti hanno straordinari scienziati e hanno investito 8 miliardi di dollari in 18 anni per stoccare i residui all'interno delle montagne Yucca dove avrebbero dovuto restare al sicuro per quasi 10 mila anni. Bene, hanno già cominciato a contaminare l'area nonostante i calcoli, i fondi e i super-ingegneri. Davvero l'Italia crede di poter far meglio di noi? L'esperienza di Napoli non autorizza troppo ottimismo. E questa volta i rifiuti sarebbero nucleari, con conseguenze inimmaginabili".

Ecoballe all'uranio, un pensiero da brividi. E il terzo ostacolo?

"Stando agli studi dell'agenzia internazionale per l'energia atomica l'uranio comincerà a scarseggiare dal 2025-2035. Come il petrolio sta per raggiungere il suo peak. I prezzi, quindi, andranno presto su. Ciò si ripercuoterà sui costi per produrre energia togliendo ulteriori argomenti a questo malpensato progetto. Aggiungo il quarto punto. Si potrebbe puntare sul plutonio.

Ma con quello è più facile costruire bombe. La Casa Bianca e molti altri governi fanno un gran parlare dei rischi dell'atomica in mani nemiche. Ma i governi buoni di oggi diventano le canaglie di domani".


Siamo arrivati così all'ultima considerazione. Qual è?

"Che non c'è abbastanza acqua nel mondo per gestire impianti nucleari. Temo che non sia noto a tutti che circa il 40% dell'acqua potabile francese serve a raffreddare i reattori. L'estate di cinque anni fa, quando molti anziani morirono per il caldo, uno dei danni collaterali che passarono sotto silenzio fu che scarseggiò l'acqua per raffreddare gli impianti. Come conseguenza fu ridotta l'erogazione di energia elettrica. E morirono ancora più anziani per mancanza di aria condizionata".

Se questi sono i dati che uso ne fa la politica?

"Posso sostenere un dibattito con qualsiasi statista sulla base di questi numeri e dimostrargli che sono giusti, inoppugnabili. Ma la politica a volte segue altre strade rispetto alla razionalità. E questo discorso, anche in Italia, è inquinato da considerazioni ideologiche".

In che senso? C'è un'energia di destra e una di sinistra?

"Direi modelli energetici élitari e altri democratici. Il nucleare è centralizzato, dall'alto in basso, appartiene al XX secolo, all'epoca del carbone. Servono grossi investimenti iniziali e altrettanti di tipo geopolitico per difenderlo".

E il modello democratico, invece?

"È quello che io chiamo la "terza rivoluzione industriale". Un sistema distribuito, dal basso verso l'alto, in cui ognuno si produce la propria energia rinnovabile e la scambia con gli altri attraverso "reti intelligenti" come oggi produce e condivide l'informazione, tramite internet".


Immagina che sia possibile applicarlo anche in Italia?
"Sta scherzando? Voi siete messi meglio di tutti: avete il sole dappertutto, il vento in molte località, in Toscana c'è anche il geotermico, in Trentino si possono sfruttare le biomasse. Eppure, con tutto questo ben di dio, siete indietro rispetto a Germania, Scandinavia e Spagna per quel che riguarda le rinnovabili".

Ci dica come si affronta questa transizione.

"Bisogna cominciare a costruire abitazioni che abbiano al loro interno le tecnologie per produrre energie rinnovabili, come il fotovoltaico. Non è un'opzione, ma un obbligo comunitario quello di arrivare al 20%: voi da dove avete cominciato? Oggi il settore delle costruzioni è il primo fattore di riscaldamento del pianeta, domani potrebbe diventare parte della soluzione. Poi serviranno batterie a idrogeno per immagazzinare questa energia. E una rete intelligente per distribuirla".

Oltre che motivi etici, sembrano essercene anche di economici molto convincenti. È così?

"In Spagna, che sta procedendo molto rapidamente verso le rinnovabili, alcune nuove compagnie hanno fatto un sacco di soldi proprio realizzando soluzioni "verdi". Il nucleare, invece, è una tecnologia matura e non creerà nessun posto di lavoro. Le energie alternative potrebbero produrne migliaia".

A questo punto solo un pazzo potrebbe scegliere un'altra strada. Eppure non è solo Roma ad aver riconsiderato il nucleare. Perché?

"Credo che abbia molto a che fare con un gap generazionale. E ve lo dice uno che ha 63 anni. I vecchi politici, cresciuti con la sindrome del controllo, si sentono più a loro agio in un mondo in cui anche l'energia è somministrata da un'entità superiore".

di RICCARDO STAGLIANÒ