10 giugno 2008

11 settembre: il partiro dei dubbi avanza

Qualche giornalista comincia ad alzare la testa, Bush sta finendo il suo ultimo tour da presidente e, qualcuno comincia a slacciare le scarpe. Un odore terribile, di un mestiere che nega l'evidenza e mortifica la ragione. Per togliere qualche sassolino ci vuole ancora tempo. Chissà se li vedremo e li leggeremo. Chissà.

La domanda è vecchia, vecchissima. La novità è che, sette anni dopo l’11 settembre 2001, se la pone il Financial Times. L’evento è storico, e varrà la pena di segnarsi la data: 6 giugno 2008. Il più autorevole dei «mainstream media», dei grandi giornali, pone la domanda. Senza un plausibile motivo di attualità per rivangare quel momento .

Per tutti coloro che cercano la verità sull’11 settembre, l’Edificio 7 è il terzo grattacielo che collassò quel giorno. Un edificio di 47 piani, parte del complesso urbanistico World Trade Center, che crollò senza essere colpito da alcun aereo, nota il FT, «a velocità di caduta libera e nel suo perimetro», ossia in perfetta verticale. Il fatto più strano, rievoca il quotidiano finanziario, è che «la BBC riferì il crollo dell’Edificio 7 mezz’ora prima che avvenisse».

La giornalista Jane Standley stava apparendo in diretta, alle ore 4.45 pomeridiane, e annunciò il crollo della terza torre - e dietro di lei, sullo sfondo, si vedeva che la Torre 7 era ancora in piedi. Affondò solo 26 minuti dopo.

Per questo video, ripreso su YouTube, «il sito web della BBC è stato bombardato di domande ed accuse. Richard Porter, capo del notiziario internazionale della BBC, ha dovuto negare che la BBC recitava dal copione di Bush», scrive il Financial Times. Porter s’è giustificato adducendo la confusione di quel giorno. «La CNN aveva appena prima riferito di voci che un terzo edificio era crollato o stava per crollare». I sospetti dei sospettosi sono aggravati dal fatto che «Porter ha ammesso che la BBC non ha conservato le registrazioni originali di quel suo reportage».Non basta. Il Financial Times ricorda che l’Edificio 7 aveva «alcuni inquilini interessanti». La maggior parte dell’edificio era affittato alla Solomon Brothers, la banca. Ma il nono e decimo piano «erano occupati dal secret service». Ai tre piani superiori c’erano uffici della SEC, l’ente di controllo della Borsa (il WTC è a due passi da Wall Street).

Inoltre, «il New York Times riferì che l’edificio ospitava anche un ufficio segreto gestito dalla CIA e dedicato a spiare e reclutare diplomatici stranieri delle Nazioni Unite. La perdita della stazione ‘ha seriamente disorganizzato’ le operazioni d’intelligence», riportò il NYT. «La CIA condivideva un piano con il Dipartimento Difesa e con l’Internal Revenue Service», il servizio tributario federale.

Poi, nel seguente capoverso, il quotidiano di Londra butta lì una frase: «Il crollo dell’edificio ha anche spazzato via l’Ufficio per la Gestione dell’Emergenza del comune di New York al 23 mo piano». Questo centro di gestione delle emergenze è una delle cose più sospette di tutta la vicenda, anche se il FT non lo dice.

Il sindaco Rudolph Giuliani lo fece costruire adducendo il timore di un attacco all’antrace su New York, da parte di... Saddam Hussein. Perciò lo volle resistente agli aggressivi biologici e chimici, oltre che a bombe e a proiettili d’artiglieria. Era un vero e proprio bunker, che occupava tre piani del Building 7 (dal 23 al 25mo), completamente corazzato ed autosufficiente: finestre anti-proiettile, tre generatori d’elettricità con 6 mila galloni di gasolio per farli funzionare, una sua propria scorta d’aria sì da non doverla ricevere dall’esterno, una riserva d’acqua potabile di 11 mila galloni. Il bunker fu completato, guarda la preveggenza, nel giugno del 1999, al costo per il contribuente di 13 milioni di dollari.

Un bunker super-sicuro. Tranne un piccolo, trascurabile dettaglio: l’Edificio 7 nascondeva, nei suoi primi cinque piani, una sotto-stazione dell’elettricità di New York, con trasformatori colossali da 13.890 volts e un serbatoio di gasolio per la stazione da 42 mila galloni. Mettere un bunker sopra trasformatori enormi e un mare di carburante, e ritenerlo sicuro dagli attentati terroristici, sembra un pochino strano.

Secondo il movimento per la verità sull’11 settembre, questo bunker servì in realtà come cabina di regia per le pirotecniche esplosioni e demolizioni che configurarono il mega-attentato di quel giorno: i registi, chiunque fossero, potevano sincronizzare le esplosioni da una qualche console e osservare l’effetto dalle finestre corazzate, molto da vicino, senza essere soffocati dalle nubi di polveri e detriti perchè disponevano di aria in circuito chiuso. Per Eric Hufschmid, uno dei primi a sollevare la questione (2), in quel bunker poteva esserci stato anche un radiofaro (un «homing device») che guidò i due aerei che colpirono le due Torri.

Lo si indovina dalle rotte dei due apparecchi: il Volo 11, che colpì la Torre Nord passò direttamente sopra l’Edificio 7, e il volo 175 dirigeva verso l’Edificio 7, ma incontrò la Torre Sud.
Ciò può spiegare come mai, a cose fatte, l’Edificio 7 doveva essere distrutto: per far sparire le prove della regia.


Un'immagine interessante: l'edificio 5 in fiamme (sinistra) non crollerà; l'edificio 7 (destra) crollerà invece poco dopo.

Il Financial Times ricorda i sospetti sollevati dalla frase di Larry Silverstein, il proprietario per 99 anni del WTC: intervistato il pomeriggio, egli disse d’aver consigliato il comandante dei vigili del fuoco di «pull» l’Edificio 7. Più tardi Silverstein spiegò che aveva inteso: porta via i tuoi vigili da lì. I sospettosi dicono che «pull it» è la parola che nel gergo delle demolizioni controllate significa «tiralo giù».

Il giornale britannico ricorda che il National Institute of Standard and Technology (NIST), l’ente governativo che ha preteso di spiegare il collasso delle Torri come conseguenza dell’impatto degli aerei, escludendo ogni mistero, non ha ancora spiegato a modo suo il crollo dell’Edificio 7. «Il NIST sostiene che il ritardo è dovuto alla complessità del modello computerizzato che usa. Inoltre, sono state trovate 80 scatole di documenti riguardanti il WTC7 che devono essere esaminate».

Ma il NIST ha già «un’ipotesi di lavoro», e sarebbe questa: «Il fuoco o macerie infiammate staccatesi dalla Torre Nord hanno danneggiato una colonna critica per il sostegno del tetto di 2 mila metri quadri. I piani sottostanti sono stati incapaci di redistribuire il peso e la struttura è caduta su se stessa. Il fatto che il collasso sia stato causato da un danno interno spiegherebbe l’apparenza di demolizione controllata, con un campo di caduta piccolo».

Il NIST ha promesso di pubblicare i dati il prossimo agosto, dice il Financial Times. Ma naturalmente, «questo ha alimentato il sospetto che i tecnici abbiano difficoltà a tirar fuori un sepistaggio plausibile» per il crollo. Vedrete che quando il rapporto del NIST uscirà, tutti i debunker, a cominciare da Introvigne, si precipiteranno a citarlo come «autorevole» e non solo «plausibile», ma tale da smentire i «complottisti». Sette anni sono passati, e siamo ancora a questo punto.

Saremo alluvionati di dettagli tecnici sulla resistenza dei materiali, la temperatura del fuoco, i modelli computerizzati che mostrano come i pavimenti siano caduti l’uno sull’altro a fisarmonica... Siccome tutto questo ha quasi convinto qualche lettore che ci ha recentemente scritto, ci limitiamo a ricordare quello che, in sette anni, non è stato ancora messo in luce.

Credere che un grattacielo alto mezzo chilometro, colpito «lateralmente» da un aereo, crolli «verticalmente» dentro il suo perimetro, significa ignorare le più banali leggi della fisica e sfidare la forza di gravità. A sette anni dai fatti, chi ancora ne discute è in malafede. Però può avvenire, diranno i debunker. Forse, una volta. Ma due, anzi tre volte, con l’Edificio 7?

Quando a Las Vegas un giocatore, lanciando i dadi, ottiene tre volte 6, il croupier chiama al telefono il gestore del casinò, e due signori molto muscolosi si affiancano al giocatore fortunato dai due lati: evidentemente a Las Vegas non credono alla sorte, quando è ripetitiva.


Questa immagine difatti mostra l'edificio 5 «completely charred» ma in piedi (destra) e l'edificio 7 (sinistra) «pull it»

Ora, noi dobbiamo credere che per ben tre volte due torri colpite di lato sono cadute in verticale, e la terza, Edificio 7, è caduta da sè senza essere nemmeno colpita, per un «danno interno»: e anch’essa in perfetta verticale, come in una demolizione controllata.

Se il caso si ripete così regolarmente, s’impone la domanda: come mai gli ingegneri specialisti spendono tanti soldi e tempo per identificare gli snodi dove piazzare le cariche esplosive, e in calcoli per sincronizzare le esplosioni, onde ottenere la caduta verticale? Ormai dovrebbero essere coscienti della nuova legge fisica: diano una bella botta laterale, anche a casaccio, e il grattacielo cade comunque in verticale. Tutta la fatica degli ingegneri specialisti sta nell’assicurare una perfetta «sincronia» dello scoppio delle varie cariche. I pilastri e le strutture portanti devono essere spezzati nello stesso decimo di secondo, altrimenti il grattacielo cade di lato, abbattendo le costruzioni sottostanti. L’impresa richiede chilometri di cavi, una quantità di inneschi elettronici, sofisticati sotware, una sofisticata consolle elettronica di comando e molte conoscenze tecniche complesse.

Ora, invece, siamo tenuti a credere che un aereo, penetrando nei piani alti delle Towers, ha tranciato contemporaneamente le ben 47 colonne d’acciaio che le reggevano. Colonne a scatolato (parallelepipedi) di spessore variabile; ma alla base le scatole avevano lati spessi 10 centimetri d’acciaio, per poi assottigliarsi via via con l’altezza, dovendo reggere un peso via via minore.

Ora, un aereo è d’alluminio, è vuoto, è leggero (tranne le turbine-motore, che sono massicce): se credete che tagli blocchi d’acciaio, allora provate a tagliare il pane con una lama di carta stagnola. Ma soprattutto, non può averle tranciate «nello stesso istante». Anche questo è contro alle più ovvie leggi della fisica. Sono passati sette anni, e nessun fenomeno del genere s’è mai più ripetuto. Nè mai si è verificato sette anni prima, o dieci, o venti. Fin qui l’elenco delle «impossibilità».


La torre 7 dopo l’ordine di «pull it»: una demolizione controllata a regola d’arte

Adesso - a beneficio dei lettori che si lasciano ancora convincere dalle «spiegazioni tecniche» degli Introvigne ed Altissimo - esponiamo le ipotesi. Si tratta di ipotesi, non di certezze: ma a sette anni di distanza, il quadro nelle menti dei ricercatori della verità sull’11 settembre è abbastanza avanzato, da poterle dichiarare come plausibili.

Gli aerei non hanno fatto crollare nulla: sono stati lanciati contro le Torri solo per la scena televisiva, per asserire plausibilmente un attentato islamista. In realtà, le Torri erano state in precedenza «preparate» con cariche esplosive. Più precisamente: con un composto bellico detto Termite, che quando innescato brucia a quasi 3 mila gradi, abbastanza da fondere l’acciaio. La Termite è usata nelle cariche cave delle armi anticarro per perforarne le corazzature.

Il professor Steven Jones, docente di fisica alla Brigham Young University, è l’autore di questa ipotesi ed ha condotto gli esperimenti relativi. Ha perso la cattedra. Ciò però, ribattono i debunker, implicherebbe settimane di lavoro da parte di decine di tecnici: cosa impossibile senza dar nell’occhio.

I debunker non hanno mai visto le Twin Towers e non dicono - o non sanno - che cosa erano. Erano locali per uffici a noleggio. In ogni momento, qualche azienda faceva trasloco in entrata o in uscita.

Nelle viuzze posteriori, il sottoscritto ha visto regolarmente, ogni volta che tornava a Manhattan, una quantità di autocarri di traslochi che scaricavano colli voluminosi e coperti da teli grigi scrivanie, computer, poltrone, mobili da ufficio o qualunque altro oggetto - su è giù dagli ascensori di servizio (il totale degli ascensori e montacarichi era di 155); un viavai di facchini dei traslochi di tante ditte diverse, che portavano su i mobili per i nuovi inquilini, o portavano giù quelli dei vecchi che lasciavano gli edifici.

Come si ricorderà forse, la polizia di New York - su segnalazione di una cameriera messicana - arrestò cinque giovanottoni visti dalla cameriera festeggiare l’esplosione dlele Torri, fotografandosi a vicenda con alle spalle le Torri in fiamme; questi giovanotti, tutti israeliani appena dimessi dal servizio militare, lavoravano come facchini per un’agenzia di traslochi, al Urban Moving Systems, di proprietà di un israeliano, tuttora ricercato. Niente di più plausibile del sospetto che fossero la bassa forza: alcuni di quelli che avevano trasportato i materiali necessari all’attentato, esplosivo e cavi, in forma di colli voluminosi e coperti da teli. Il fatto che fossero stranieri spiega alquante cose: fra cui il fatto che nessuno parli. Chi sa, è tornato in Israele e tace. Quei cinque, beccati perchè festeggiavano, sono stati «espulsi verso Israele» (sottratti alle indagini) dal procuratore di New York, l’israelo-americano Michael Chertoff, con doppia cittadinanza, oggi ministro della Homeland Security. Se vi aspettate che un giorno parli lui, avrete da aspettare parecchio.

Quanto agli ingegneri, è ben probabile che siano militari espertissimi di esplosivi, abituati ad eseguire operazioni «coperte» e a tener la bocca chiusa. Potevano anche essere israeliani tutti, e tutti uccel di bosco. Nei piani sfitti e in attesa di nuovi pigionanti - aziende per lo più - altri uomini lavoravano a stendere moquettes, ad alzare pareti di cartongesso, ad adeguare gli impianti elettrici: decine di tecnici potevano usare fiamma ossidrica e martelli pneumatici senza che in questo, nessuno della «security» avrebbe visto nulla di strano: era la vita di ogni giorno dentro le Twin Tower, nelle entrate posteriori di servizio, fuori dagli sguardi del pubblico. Quelle strade laterali erano spesso chiuse al passaggio della gente da transenne. Che recavano cartelli del tipo: «Scusateci, stiamo lavorando per voi», «Carichi pendenti», «Men at work». Questo accadeva tutti i giorni.

Si aggiunga che la «security» delle Twin Towers, l’11 settembre, non era quella solita: il capo era nuovo, era stato appena assunto da un giorno. Era John O’Neill, ex alto funzionario del FBI, che s’era dimesso ad agosto gridando ai quattro venti che la nuova amministrazione Bush ostacolava le ricerche su bin Laden e Al Qaeda. O’Neill è morto sotto le macerie, il primo giorno del suo nuovo impiego. La preparazione possibile degli edifici per la demolizione controllata, se è avvenuta, era avvenuta prima che lui entrasse in servizio.

Si aggiunga ancora che «la maggior parte» dei piani erano sfitti, dunque vuoti (le Twin Tower avevano costi proibitivi; per questo Rudolph Giuliani voleva farle abbattere per costruire al loro posto edifici più moderni). Dentro quei piani vuoti, ci poteva lavorare ogni genere di «operai e tecnici», dopo aver chiuso le porte.

E tralascio altri particolari, come l’interruzione programmata di corrente il giorno prima, di cui
i pigionanti furono preavvertiti: molte aziende dovettero fare il back-up dei loro computer, qualcuno se lo ricordò. Uno di quei qualcuno, un esperto di finanza, ha preferito andare a lavorare a Londra. Massimo Mazzucco ha una sua intervista-video.

Questa è l’ipotesi. Sette anni dopo, è bene che i lettori comincino a saperla. Ormai, comincia a dire qualcosa anche il Financial Times.
M. Blondet

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10 giugno 2008

11 settembre: il partiro dei dubbi avanza

Qualche giornalista comincia ad alzare la testa, Bush sta finendo il suo ultimo tour da presidente e, qualcuno comincia a slacciare le scarpe. Un odore terribile, di un mestiere che nega l'evidenza e mortifica la ragione. Per togliere qualche sassolino ci vuole ancora tempo. Chissà se li vedremo e li leggeremo. Chissà.

La domanda è vecchia, vecchissima. La novità è che, sette anni dopo l’11 settembre 2001, se la pone il Financial Times. L’evento è storico, e varrà la pena di segnarsi la data: 6 giugno 2008. Il più autorevole dei «mainstream media», dei grandi giornali, pone la domanda. Senza un plausibile motivo di attualità per rivangare quel momento .

Per tutti coloro che cercano la verità sull’11 settembre, l’Edificio 7 è il terzo grattacielo che collassò quel giorno. Un edificio di 47 piani, parte del complesso urbanistico World Trade Center, che crollò senza essere colpito da alcun aereo, nota il FT, «a velocità di caduta libera e nel suo perimetro», ossia in perfetta verticale. Il fatto più strano, rievoca il quotidiano finanziario, è che «la BBC riferì il crollo dell’Edificio 7 mezz’ora prima che avvenisse».

La giornalista Jane Standley stava apparendo in diretta, alle ore 4.45 pomeridiane, e annunciò il crollo della terza torre - e dietro di lei, sullo sfondo, si vedeva che la Torre 7 era ancora in piedi. Affondò solo 26 minuti dopo.

Per questo video, ripreso su YouTube, «il sito web della BBC è stato bombardato di domande ed accuse. Richard Porter, capo del notiziario internazionale della BBC, ha dovuto negare che la BBC recitava dal copione di Bush», scrive il Financial Times. Porter s’è giustificato adducendo la confusione di quel giorno. «La CNN aveva appena prima riferito di voci che un terzo edificio era crollato o stava per crollare». I sospetti dei sospettosi sono aggravati dal fatto che «Porter ha ammesso che la BBC non ha conservato le registrazioni originali di quel suo reportage».Non basta. Il Financial Times ricorda che l’Edificio 7 aveva «alcuni inquilini interessanti». La maggior parte dell’edificio era affittato alla Solomon Brothers, la banca. Ma il nono e decimo piano «erano occupati dal secret service». Ai tre piani superiori c’erano uffici della SEC, l’ente di controllo della Borsa (il WTC è a due passi da Wall Street).

Inoltre, «il New York Times riferì che l’edificio ospitava anche un ufficio segreto gestito dalla CIA e dedicato a spiare e reclutare diplomatici stranieri delle Nazioni Unite. La perdita della stazione ‘ha seriamente disorganizzato’ le operazioni d’intelligence», riportò il NYT. «La CIA condivideva un piano con il Dipartimento Difesa e con l’Internal Revenue Service», il servizio tributario federale.

Poi, nel seguente capoverso, il quotidiano di Londra butta lì una frase: «Il crollo dell’edificio ha anche spazzato via l’Ufficio per la Gestione dell’Emergenza del comune di New York al 23 mo piano». Questo centro di gestione delle emergenze è una delle cose più sospette di tutta la vicenda, anche se il FT non lo dice.

Il sindaco Rudolph Giuliani lo fece costruire adducendo il timore di un attacco all’antrace su New York, da parte di... Saddam Hussein. Perciò lo volle resistente agli aggressivi biologici e chimici, oltre che a bombe e a proiettili d’artiglieria. Era un vero e proprio bunker, che occupava tre piani del Building 7 (dal 23 al 25mo), completamente corazzato ed autosufficiente: finestre anti-proiettile, tre generatori d’elettricità con 6 mila galloni di gasolio per farli funzionare, una sua propria scorta d’aria sì da non doverla ricevere dall’esterno, una riserva d’acqua potabile di 11 mila galloni. Il bunker fu completato, guarda la preveggenza, nel giugno del 1999, al costo per il contribuente di 13 milioni di dollari.

Un bunker super-sicuro. Tranne un piccolo, trascurabile dettaglio: l’Edificio 7 nascondeva, nei suoi primi cinque piani, una sotto-stazione dell’elettricità di New York, con trasformatori colossali da 13.890 volts e un serbatoio di gasolio per la stazione da 42 mila galloni. Mettere un bunker sopra trasformatori enormi e un mare di carburante, e ritenerlo sicuro dagli attentati terroristici, sembra un pochino strano.

Secondo il movimento per la verità sull’11 settembre, questo bunker servì in realtà come cabina di regia per le pirotecniche esplosioni e demolizioni che configurarono il mega-attentato di quel giorno: i registi, chiunque fossero, potevano sincronizzare le esplosioni da una qualche console e osservare l’effetto dalle finestre corazzate, molto da vicino, senza essere soffocati dalle nubi di polveri e detriti perchè disponevano di aria in circuito chiuso. Per Eric Hufschmid, uno dei primi a sollevare la questione (2), in quel bunker poteva esserci stato anche un radiofaro (un «homing device») che guidò i due aerei che colpirono le due Torri.

Lo si indovina dalle rotte dei due apparecchi: il Volo 11, che colpì la Torre Nord passò direttamente sopra l’Edificio 7, e il volo 175 dirigeva verso l’Edificio 7, ma incontrò la Torre Sud.
Ciò può spiegare come mai, a cose fatte, l’Edificio 7 doveva essere distrutto: per far sparire le prove della regia.


Un'immagine interessante: l'edificio 5 in fiamme (sinistra) non crollerà; l'edificio 7 (destra) crollerà invece poco dopo.

Il Financial Times ricorda i sospetti sollevati dalla frase di Larry Silverstein, il proprietario per 99 anni del WTC: intervistato il pomeriggio, egli disse d’aver consigliato il comandante dei vigili del fuoco di «pull» l’Edificio 7. Più tardi Silverstein spiegò che aveva inteso: porta via i tuoi vigili da lì. I sospettosi dicono che «pull it» è la parola che nel gergo delle demolizioni controllate significa «tiralo giù».

Il giornale britannico ricorda che il National Institute of Standard and Technology (NIST), l’ente governativo che ha preteso di spiegare il collasso delle Torri come conseguenza dell’impatto degli aerei, escludendo ogni mistero, non ha ancora spiegato a modo suo il crollo dell’Edificio 7. «Il NIST sostiene che il ritardo è dovuto alla complessità del modello computerizzato che usa. Inoltre, sono state trovate 80 scatole di documenti riguardanti il WTC7 che devono essere esaminate».

Ma il NIST ha già «un’ipotesi di lavoro», e sarebbe questa: «Il fuoco o macerie infiammate staccatesi dalla Torre Nord hanno danneggiato una colonna critica per il sostegno del tetto di 2 mila metri quadri. I piani sottostanti sono stati incapaci di redistribuire il peso e la struttura è caduta su se stessa. Il fatto che il collasso sia stato causato da un danno interno spiegherebbe l’apparenza di demolizione controllata, con un campo di caduta piccolo».

Il NIST ha promesso di pubblicare i dati il prossimo agosto, dice il Financial Times. Ma naturalmente, «questo ha alimentato il sospetto che i tecnici abbiano difficoltà a tirar fuori un sepistaggio plausibile» per il crollo. Vedrete che quando il rapporto del NIST uscirà, tutti i debunker, a cominciare da Introvigne, si precipiteranno a citarlo come «autorevole» e non solo «plausibile», ma tale da smentire i «complottisti». Sette anni sono passati, e siamo ancora a questo punto.

Saremo alluvionati di dettagli tecnici sulla resistenza dei materiali, la temperatura del fuoco, i modelli computerizzati che mostrano come i pavimenti siano caduti l’uno sull’altro a fisarmonica... Siccome tutto questo ha quasi convinto qualche lettore che ci ha recentemente scritto, ci limitiamo a ricordare quello che, in sette anni, non è stato ancora messo in luce.

Credere che un grattacielo alto mezzo chilometro, colpito «lateralmente» da un aereo, crolli «verticalmente» dentro il suo perimetro, significa ignorare le più banali leggi della fisica e sfidare la forza di gravità. A sette anni dai fatti, chi ancora ne discute è in malafede. Però può avvenire, diranno i debunker. Forse, una volta. Ma due, anzi tre volte, con l’Edificio 7?

Quando a Las Vegas un giocatore, lanciando i dadi, ottiene tre volte 6, il croupier chiama al telefono il gestore del casinò, e due signori molto muscolosi si affiancano al giocatore fortunato dai due lati: evidentemente a Las Vegas non credono alla sorte, quando è ripetitiva.


Questa immagine difatti mostra l'edificio 5 «completely charred» ma in piedi (destra) e l'edificio 7 (sinistra) «pull it»

Ora, noi dobbiamo credere che per ben tre volte due torri colpite di lato sono cadute in verticale, e la terza, Edificio 7, è caduta da sè senza essere nemmeno colpita, per un «danno interno»: e anch’essa in perfetta verticale, come in una demolizione controllata.

Se il caso si ripete così regolarmente, s’impone la domanda: come mai gli ingegneri specialisti spendono tanti soldi e tempo per identificare gli snodi dove piazzare le cariche esplosive, e in calcoli per sincronizzare le esplosioni, onde ottenere la caduta verticale? Ormai dovrebbero essere coscienti della nuova legge fisica: diano una bella botta laterale, anche a casaccio, e il grattacielo cade comunque in verticale. Tutta la fatica degli ingegneri specialisti sta nell’assicurare una perfetta «sincronia» dello scoppio delle varie cariche. I pilastri e le strutture portanti devono essere spezzati nello stesso decimo di secondo, altrimenti il grattacielo cade di lato, abbattendo le costruzioni sottostanti. L’impresa richiede chilometri di cavi, una quantità di inneschi elettronici, sofisticati sotware, una sofisticata consolle elettronica di comando e molte conoscenze tecniche complesse.

Ora, invece, siamo tenuti a credere che un aereo, penetrando nei piani alti delle Towers, ha tranciato contemporaneamente le ben 47 colonne d’acciaio che le reggevano. Colonne a scatolato (parallelepipedi) di spessore variabile; ma alla base le scatole avevano lati spessi 10 centimetri d’acciaio, per poi assottigliarsi via via con l’altezza, dovendo reggere un peso via via minore.

Ora, un aereo è d’alluminio, è vuoto, è leggero (tranne le turbine-motore, che sono massicce): se credete che tagli blocchi d’acciaio, allora provate a tagliare il pane con una lama di carta stagnola. Ma soprattutto, non può averle tranciate «nello stesso istante». Anche questo è contro alle più ovvie leggi della fisica. Sono passati sette anni, e nessun fenomeno del genere s’è mai più ripetuto. Nè mai si è verificato sette anni prima, o dieci, o venti. Fin qui l’elenco delle «impossibilità».


La torre 7 dopo l’ordine di «pull it»: una demolizione controllata a regola d’arte

Adesso - a beneficio dei lettori che si lasciano ancora convincere dalle «spiegazioni tecniche» degli Introvigne ed Altissimo - esponiamo le ipotesi. Si tratta di ipotesi, non di certezze: ma a sette anni di distanza, il quadro nelle menti dei ricercatori della verità sull’11 settembre è abbastanza avanzato, da poterle dichiarare come plausibili.

Gli aerei non hanno fatto crollare nulla: sono stati lanciati contro le Torri solo per la scena televisiva, per asserire plausibilmente un attentato islamista. In realtà, le Torri erano state in precedenza «preparate» con cariche esplosive. Più precisamente: con un composto bellico detto Termite, che quando innescato brucia a quasi 3 mila gradi, abbastanza da fondere l’acciaio. La Termite è usata nelle cariche cave delle armi anticarro per perforarne le corazzature.

Il professor Steven Jones, docente di fisica alla Brigham Young University, è l’autore di questa ipotesi ed ha condotto gli esperimenti relativi. Ha perso la cattedra. Ciò però, ribattono i debunker, implicherebbe settimane di lavoro da parte di decine di tecnici: cosa impossibile senza dar nell’occhio.

I debunker non hanno mai visto le Twin Towers e non dicono - o non sanno - che cosa erano. Erano locali per uffici a noleggio. In ogni momento, qualche azienda faceva trasloco in entrata o in uscita.

Nelle viuzze posteriori, il sottoscritto ha visto regolarmente, ogni volta che tornava a Manhattan, una quantità di autocarri di traslochi che scaricavano colli voluminosi e coperti da teli grigi scrivanie, computer, poltrone, mobili da ufficio o qualunque altro oggetto - su è giù dagli ascensori di servizio (il totale degli ascensori e montacarichi era di 155); un viavai di facchini dei traslochi di tante ditte diverse, che portavano su i mobili per i nuovi inquilini, o portavano giù quelli dei vecchi che lasciavano gli edifici.

Come si ricorderà forse, la polizia di New York - su segnalazione di una cameriera messicana - arrestò cinque giovanottoni visti dalla cameriera festeggiare l’esplosione dlele Torri, fotografandosi a vicenda con alle spalle le Torri in fiamme; questi giovanotti, tutti israeliani appena dimessi dal servizio militare, lavoravano come facchini per un’agenzia di traslochi, al Urban Moving Systems, di proprietà di un israeliano, tuttora ricercato. Niente di più plausibile del sospetto che fossero la bassa forza: alcuni di quelli che avevano trasportato i materiali necessari all’attentato, esplosivo e cavi, in forma di colli voluminosi e coperti da teli. Il fatto che fossero stranieri spiega alquante cose: fra cui il fatto che nessuno parli. Chi sa, è tornato in Israele e tace. Quei cinque, beccati perchè festeggiavano, sono stati «espulsi verso Israele» (sottratti alle indagini) dal procuratore di New York, l’israelo-americano Michael Chertoff, con doppia cittadinanza, oggi ministro della Homeland Security. Se vi aspettate che un giorno parli lui, avrete da aspettare parecchio.

Quanto agli ingegneri, è ben probabile che siano militari espertissimi di esplosivi, abituati ad eseguire operazioni «coperte» e a tener la bocca chiusa. Potevano anche essere israeliani tutti, e tutti uccel di bosco. Nei piani sfitti e in attesa di nuovi pigionanti - aziende per lo più - altri uomini lavoravano a stendere moquettes, ad alzare pareti di cartongesso, ad adeguare gli impianti elettrici: decine di tecnici potevano usare fiamma ossidrica e martelli pneumatici senza che in questo, nessuno della «security» avrebbe visto nulla di strano: era la vita di ogni giorno dentro le Twin Tower, nelle entrate posteriori di servizio, fuori dagli sguardi del pubblico. Quelle strade laterali erano spesso chiuse al passaggio della gente da transenne. Che recavano cartelli del tipo: «Scusateci, stiamo lavorando per voi», «Carichi pendenti», «Men at work». Questo accadeva tutti i giorni.

Si aggiunga che la «security» delle Twin Towers, l’11 settembre, non era quella solita: il capo era nuovo, era stato appena assunto da un giorno. Era John O’Neill, ex alto funzionario del FBI, che s’era dimesso ad agosto gridando ai quattro venti che la nuova amministrazione Bush ostacolava le ricerche su bin Laden e Al Qaeda. O’Neill è morto sotto le macerie, il primo giorno del suo nuovo impiego. La preparazione possibile degli edifici per la demolizione controllata, se è avvenuta, era avvenuta prima che lui entrasse in servizio.

Si aggiunga ancora che «la maggior parte» dei piani erano sfitti, dunque vuoti (le Twin Tower avevano costi proibitivi; per questo Rudolph Giuliani voleva farle abbattere per costruire al loro posto edifici più moderni). Dentro quei piani vuoti, ci poteva lavorare ogni genere di «operai e tecnici», dopo aver chiuso le porte.

E tralascio altri particolari, come l’interruzione programmata di corrente il giorno prima, di cui
i pigionanti furono preavvertiti: molte aziende dovettero fare il back-up dei loro computer, qualcuno se lo ricordò. Uno di quei qualcuno, un esperto di finanza, ha preferito andare a lavorare a Londra. Massimo Mazzucco ha una sua intervista-video.

Questa è l’ipotesi. Sette anni dopo, è bene che i lettori comincino a saperla. Ormai, comincia a dire qualcosa anche il Financial Times.
M. Blondet

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