13 giugno 2008

La scappatoia di "Londra"


Il 2 giugno si sono tenute al Senato le udienze sull’impennata dei prezzi del petrolio e il prof. Michael Greenberg dell’Università del Maryland ha riferito agli esponenti della Commissione Commercio del Senato che il 35% dei future di Intermediate Crude del West Texas trattati negli USA sono finiti nel “mercato nero”, quello in cui non ci sono regole di sorta ma è completamente controllato dagli inglesi.

All’inizio della seduta la sen. Maria Cantwell ha detto: “L’America può rimanere sorpresa dall’apprendere che i nostri mercati dei future petroliferi sono stati sostanzialmente deregolamentati dalle decisioni prese a porte chiuse dalla U.S. Commodity Futures Trading Commission (CFTC). Questa ‘scappatoia di Londra’ insieme alla ‘scappatoia del Dubai’ tengono allo scuro importanti fette del mercato dell’energia. E senza una giusta luce, i manipolatori hanno troppo spazio di manovra”.
Riferendosi alla stessa agenzia di controllo governativa statunitense CFTC un altro testimone ha detto “si è inginocchiata di fronte agli inglesi” quando ha permesso che una grossa parte della speculazione sui future del mercato petrolifero USA sia “regolamentata” dalle autorità di Londra e del Dubai, invece che da quella Americane.
Il 25 maggio la sen. Maria Cantwell e 22 colleghi senatori hanno sottoscritto una lettera in cui si chiede al CTFC di chiudere “la scappatoia di Londra”. Il presidente Walter Lukken ha risposto il 29 maggio assicurando di prendere iniziative, in autunno! Ma questo scambio epistolare da solo è bastato a frenare la folle corsa al rialzo dei prezzi, ha spiegato Greenberger, che sono passati dai 135 ai 125 dollari. A conclusione della seduta la sen. Cantwell ha detto “adesso ci saranno tanti firmatari in più e sono convinta che il CFTC prenderà le misure richieste dall’economia e dalla moralità della popolazione americana”. In caso contrario ha detto che il senato interverrà per imporre con la legge al CFTC di agire.

La scappatoia di Londra” dietro l’aumento del petrolio
Quando il petrolio raggiungerà i 200 dollari al barile non sarà colpa dei cinesi che vogliono avere l’automobile ma degli speculatori di Londra, hanno spiegato gli esperti alla Commissione Commercio del Senato USA il 2 giugno. Gli esperti hanno confermato che i prezzi petroliferi sono stati spinti in alto dagli speculatori del mercato off-shore delle materie prime che fa capo a Londra, sotto la supervisione delle autorità britanniche, evidentemente consenzienti. A questo fenomeno è stato dato il nome di “scappatoia di Londra”.
Gli esperti ascoltati hanno spiegato che il 35% dei future sul greggio chiamato “West Texas Intermediate” sono trattati sulla piazza di Atlanta, in Georgia, presso la Intercontinental Exchange (ICE) attraverso una sussidiaria di Londra, la International Petroleum Exchange. Quest’ultima fu fondata nel 1980 da un gruppo di speculatori del settore energetico e delle materie prime e fu poi fusa con la ICE nel 2001. Giuridicamente è un off-shore del mercato di Londra sotto la supervisione della British Financial Services Authority (FSA) ed è pertanto al di fuori della giurisdizione della Commodities Futures Trading Commission (CFTC)!

Il prof. Greenberger ha spiegato che nei mercati off-shore controllati dai britannici, un gruppo di banche e di hedge funds “stanno continuando e replicando il crac dei ‘subprime’, con tutti i loro derivati, sui mercati delle materie prime”. Secondo Greenberger circa il 70% dei future del petrolio trattati negli USA sono pura speculazione e il 30% sono fatti da Goldman Sachs, Morgan Stanley e JP Morgan Chase. Greenberger ha aggiunto molto ironicamente che si capisce come mai chi controlla il prezzo del petrolio “abbia previsto” che passerà dai 130 ai 200 dollari il barile.

Le stesse banche ed hedge funds acquistano inoltre grandi quantità di prodotti petroliferi e li tengono fuori dal mercato mentre spingono il dollaro al ribasso, in maniera da spingere al rialzo i prezzi petrolieri. Queste operazioni di incetta non sono solo speculazione, ma manipolazione dei mercati, un fenomeno che è negato dalla CFTC e dalla SEC. Ma “il maggior proprietario di gasolio da riscaldamento nel Nordest è la Morgan Stanley” ha riferito Greenberger.

La FSA britannica ha inoltre consentito a queste banche ed hedge funds di designarsi come traders “commerciali” piuttosto che “finanziari" — presentandosi cioè come se fossero compagnie aeree o distributori di carburanti che hanno bisogno di acquistare prodotti petroliferi a termine, cioè con futures. Di conseguenza non ci sono limiti alle posizioni speculative che essi finiscono per assumere.
fonte: Movisol

La super speculazione del Petrolio



Al New York Mercantile Exchange vengono scambiati ogni giorno contratti
futures per 850 milioni di barili, 10 volte la produzione giornaliera di
greggio (che ammonta a 85 milioni di barili). «E' una mega bolla, ma non è
detto che scoppierà tanto presto».

È sempre più difficile sostenere che l'impennata del prezzo del
petrolio non è dovuta in gran parte alla speculazione finanziaria,
soprattutto dopo il balzo di 10 dollari il barile registrato nella giornata
di venerdì.
Questi violenti movimenti, che hanno spinto il prezzo del greggio ad un
soffio dai 140 dollari il barile, sono la manifestazione inequivocabile
della bolla finanziaria che si è formata nel mercato delle materie prime e
dei prodotti alimentari. Alcune cifre confermano questa tesi.

Come ha scritto sul «Financial Times» Lord Desai, docente alla London School
of Economics, nello scorso mese di maggio, al New York Mercantile Exchange
sono stati scambiati ogni giorno contratti per circa 850 milioni di barili,
ossia un volume corrispondente a dieci volte la produzione giornaliera di
petrolio (che ammonta a 85 milioni di barili). Questi semplici dati
confermano che ha ragione il finanziere George Soros, il quale, in una
recente audizione davanti al Senato statunitense, ha dichiarato: «Ci sono
tutti i segnali di una bolla, ma non è detto che essa scoppierà tanto
presto».

I segnali di una bolla ci sono in effetti tutti. Il prezzo del petrolio è
più che raddoppiato negli ultimi 12 mesi ed è salito quest'anno dai 90
dollari il barile dello scorso mese di febbraio ai 139 dollari di venerdì
scorso.

Nell'economia reale non è successo nulla che possa giustificare un
incremento superiore al 9%. La domanda cinese ed indiana, additata spesso
come causa principe del rialzo del greggio, non ha subito negli ultimi
cinque mesi alcun balzo. Inoltre, la richiesta di greggio di Cina e di India
non influisce direttamente sulle quotazioni di breve termine del greggio,
poiché avviene fuori dal mercato, con contratti a lungo termine firmati con
i paesi esportatori.

Anche i termini dei problemi produttivi dei paesi esportatori di greggio non
sono cambiati negli ultimi mesi. Anzi, l'aneddotica indica - come ha
sottolineato «Il Sole 24 Ore» - che si moltiplicano le petroliere che vagano
per gli Oceani in cerca di attracchi, cioè di acquirenti, cui vendere a
sconto il loro carico di greggio.

Il problema è che i mercati a termine sui combustibili non obbediscono alle
leggi della domanda e dell'offerta, ma alle aspettative sul prezzo futuro. E
in questo mercato di carta si sono fiondate le istituzioni finanziarie, le
quali negli ultimi anni hanno investito 260 miliardi di dollari. È quindi
evidente che quando la Goldman Sachs, la banca di investimento più attiva in
questo mercato, prevede che entro la fine dell'anno il barile supererà i 200
dollari, non fa una previsione, ma in buona sostanza dice alla concorrenza
di continuare a scommettere sul rialzo del greggio.

Ciò induce a ritenere che la corsa del prezzo del petrolio potrebbe ancora
continuare e quindi decurtare ancor di più il reddito di famiglie ed
imprese. Non sorprende che si moltiplichino le proposte di trattare con gli
arabi, affinché aumentino la produzione; oppure di detassare il prezzo del
petrolio per calmare la rabbia crescente di consumatori, pescatori ed
autotrasportatori. È pure difficilmente spiegabile come non si reagisca a
questa corsa del greggio che sta intaccando la crescita di economie già
sotto stress a causa della crisi dei mutui subprime e che sta favorendo il
ritorno dell'inflazione.

Comunque è incomprensibile che rispetto alle numerose idee in circolazione
nessuna proposta miri ad aggredire la causa prima di questa enorme bolla
finanziaria attorno al prezzo del petrolio. Eppure basterebbe una regola
semplice per far cadere il castello costruito sul greggio dai «maghi della
carta straccia».

La regola è la seguente: coloro che comprano a termine il greggio devono
alla scadenza del contratto comprare il petrolio fisico e non possono più
evitare di farlo pagando una piccola compensazione monetaria, come invece
avviene oggi. In pratica, si tratterebbe di ripristinare le leggi dei
mercati a termine. Nessuno però sembra avere il coraggio di rovinare l'ultimo
giocattolo, che frutta ancora soldi, creato da Wall Street.
Così dopo la bolla delle borse, scoppiata all'inizio del decennio, e quella
del mercato immobiliare americano, esplosa l'anno scorso, ora abbiamo la
«mania» del petrolio. Anche questa bolla è certamente destinata prima o poi
a scoppiare, ma nel frattempo rischia di aggravare pesantemente le
condizioni di un'economia mondiale che già stenta a fare i conti con la
crisi dei mutui subprime.
di Alfonso Tuor

12 giugno 2008

Speculatori al Casinò della globalizzazione


In questo articolo di Republica.it la redazione dopo aver tanto decantato lo sviluppo globale si occupa delle "convergenze parallele" fra soggetti apparentemente diversi. Una buona informazione non deve solo elencare fatti, ma porsi domande, farle e, se possibile ascoltare altre posizioni. D'altronde sono chiacchiere perse.

Per motivi biografici e ideologici è quasi impossibile che il finanziere George Soros e il presidente della Russia la pensino allo stesso modo. Eppure Medvedev denuncia il «ruolo dell’America che spinge l’economia globale verso la più grave crisi dal 1929». E Soros in un’audizione al Senato Usa denuncia "i segnali di una nuova bolla speculativa".

La convergenza è notevole. Tutti e due hanno in mente la stessa cosa: l’inquietante enigma del caro-petrolio, che venerdì ha sfiorato i 140 dollari il barile e sembra deciso a realizzare la sospetta "profezia" della banca Goldman Sachs (200 dollari a barile). Si fa presto a dare la colpa ai soliti noti, Cina e India. Certo le superpotenze asiatiche, con centinaia di milioni di nuovi consumatori che accedono al benessere, sono la causa di fondo di un trend di rialzo secolare di tutte le materie prime. Inoltre le due locomotive cinese e indiana trainano lo sviluppo di molti altri nuovi protagonisti della globalizzazione, dalla Russia al Brasile. Ciascuno di questi diventa un consumatore delle stesse risorse naturali che vende all’estero: è sintomatica l’uscita dall’Opec dell’Indonesia, un ex-esportatore di greggio che oggi deve comprarlo sui mercati mondiali. Ma su questi cambiamenti storici si è innestata una marea di flussi finanziari che sono diventati a loro volta "il" problema. Quando in sole 48 ore di scambi al New York Mercantile Exchange (Nymex) i futures schizzano al rialzo del 13%, com’è successo tra giovedì e venerdì scorso, non c’è aumento dei consumi cinesi e indiani che tenga. Lo sviluppo economico asiatico, che comporta fra l’altro il boom della motorizzazione privata in paesi dove vivono 3,5 miliardi di persone, può spiegare l’aumento del 35% all’anno del petrolio negli ultimi cinque anni. Ma negli ultimi dodici mesi questo rincaro ha cominciato a puntare verso il cielo, raddoppiando di colpo. E il singolo aumento dei futures nella sola giornata di venerdì non si era mai verificato in quelle proporzioni da 25 anni. Ruchir Sharma, capo del dipartimento dei mercati emergenti alla Morgan Stanley, osserva che "flussi di capitali che si sono riversati sugli hedge fund che speculano sul petrolio, in soli tre mesi hanno superato tutto i1 2007, già un anno record". Qui la domanda e l’offerta della materia prima reale, il petrolio, non c’entrano più. Se non come un pretesto: uno scenario di fondo che viene utilizzato per orchestrarvi sopra una nuova ondata di scommesse finanziarie. Al Nymex ormai i contratti di futures sul petrolio movimentano un miliardo di barili al giorno, tutti virtuali; mentre la produzione del greggio vero è di soli 85 milioni di barili al giorno. La quantità di carta finanziaria che viene scambiata è immensamente superiore ai consumi mondiali di idrocarburi. E’ la ragione per cui in molti condividono l’analisi dì Soros: il casinò dove si puntano le giocate sui futures del petrolio è il luogo dove si è creata la nuova bolla speculativa. Le caratteristiche ci sono tutte. La curva di incremento esponenziale dei prezzi è identica a quella disegnata dal Nasdaq al culmine dell’euforia sulla New Economy nel 1999, prima di crollare nel marzo 2000. A quell’epoca le Borse erano dominate dai colossi di Internet proprio come oggi sono dominate dalle compagnie petrolifere, nuove campionesse della capitalizzazione. Ai tempi della bolla-Nasdaq si erano distinte alcune banche come Merrill Lynch e Credit Suisse First Boston, i cui analisti suggerivano "comprare comprare" alla clientela anche quando le quotazioni avevano ormai superato la stratosfera. Oggi al centro della febbre dei futures petroliferi c’è la Goldman Sachs, il cui analista Arjun Murti ha lanciato la celebre previsione sul greggio a 200 dollari il barile. Una profezia che sì autoavvera perché, guarda caso, è proprio Goldman Sachs il più importante operatore sui futures del petrolio. In passato altre manipolazioni clamorose dei mercati delle materie prime - i fratelli Hunt sull’argento negli anni 70, Raul Gardini sulla soya a Chicago nell’89 - furono smascherate e neutralizzate dall’intervento delle autorità. Ma questa volta I’impazzimento dei futures petroliferi avviene nel laissez faire. Nessuno interviene a controllare che dietro le transazioni virtuali sui futures possano essere onorati gli scambi di merce reale. Non si applicano neppure quelle regole sul pagamento di margini di garanzia, che sono sempre servite a "tassare" la speculazione pura per distinguerla dalle normali operazioni di copertura del rischio. La denuncia di Soros sulla bolla speculativa davanti al Senato di Washington non ha avuto conseguenze. E’ inevitabile un sospetto: chi dovrebbe intervenire è paralizzato dai conflitti d’interesse. Il primo imputato è il segretario americano al Tesoro, Henry Paulson, che prima di assumere l’incarico nell’Amministrazione Bush ha passato tutta la sua carriera professionale alla Goldman Sachs fino a diventarne presidente e amministratore delegato. Forse è ingeneroso ricordare che, quand’anche Paulson passasse i prossimi cent’anni al governo (per fortuna non accadrà), i suoi stipendi cumulati non raggiungerebbero il valore delle stock options che ha incassato alla Goldman Sachs. Al di là degli aspetti personali Paulson è stato il regista del salvataggio delle banche d’affari di Wall Street (vedi Bear Stearns) che stavano per affondare sotto il peso della crisi dei mutui subprime. Con che coraggio potrebbe punzecchiare la nuova bolla dei futures petroliferi, su cui le gloriose istituzioni di Wall Street stanno tentando di rifarsi i bilanci? Dietro di lui, gli interessi personali della famiglia Bush e del vicepresidente Dìck Cheney nell’industria petrolifera non incoraggiano a smontare la macchina speculativa che ha moltiplicato le quotazioni azionarie di tutto il settore. Tanto più che dietro Wall Street, tutto il mondo del risparmio americano si è accodato: i fondi pensione hanno investito 40 miliardi di dollari nella speculazione sulle materie prime, ansiosi anche loro di recuperare almeno una parte delle perdite subite sui subprime. E in questa nuova febbre speculativa un ruolo-chiave spetta al banchiere centrale Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve. Dopo aver dimostrato ai big di Wall Street che per quanto sbaglino non falliranno mai - a salvarli ci penserà lui coi soldi del contribuente americano - Bernanke abbassando i tassi d’interesse ai minimi storici ha continuato la politica del denaro facile che è il carburante primario di tutte le bolle. Il calo dei tassi a sua volta indebolisce il dollaro; costringe i paesi dell’Opec a cercare compensazioni nei rialzi del greggio (quotato in dollari); e incoraggia la finanza a puntare sulle materie prime come beni-rifugio contro l’inflazione mondiale. Un perfetto circolo vizioso. Che in qualsiasi momento può invertirsi e generare una contro-spirale altrettanto rovinosa, con effetti di panico sui mercati finanziari, la liquidità del credito, i risparmi delle famiglie. Si capisce perché per una volta Medvedev e Soros vanno d’accordo. L’epicentro di questa crisi è l’America, è la sua finanza impazzita che genera un altro contagio globale. Cina e India in questo caso sono solo lo scenario di fondo: è vero che l’aumento dei consumi petroliferi cinesi sale così velocemente da superare la riduzione dei consumi americani; ma per ora gli Stati Uniti continuano ad assorbire quasi il 25% del greggio mondiale contro il 9% della Cina.



Le conseguenze di questa iperinflazione petrolifera sull’economia reale rischiano di diventare sempre più drammatiche nei prossimi mesi. La Cina e l’India, costrette ad abbandonare i "prezzi politici" dei carburanti, non soltanto si espongono al malcontento dei consumatori e alle tensioni sociali, ma possono rallentare la loro crescita che è per il resto del mondo l’unica speranza di salvezza dalla recessione. In Europa l’ultima locomotiva - a mezzo servizio – che ci resta, e cioè la Germania, dovrà sacrificare una parte dei suoi consumi per far fronte al rialzo del 66% della benzina alla pompa. Questo significherà anche minor domanda di moda o mobili o elettrodomestici made in Italy sui nostri principali mercati di sbocco.


C’è almeno un effetto collaterale positivo, che può derivare dalla bolla finanziaria sul petrolio? I mercati, a modo loro, svolgono una funzione di supplenza. L’economista americano Kenneth Rogoff, ex direttore generale dei Fondo monetario internazionale, lo ha spiegato in questi termini sul Sole24 Ore: chi sospinge esageratamente al rialzo nel breve termine i prezzi del petrolio, "sta facendo molto di più per la difesa dell’ambiente di quanto non facciano i politici occidentali che cercano di prolungare l’epoca del consumismo occidentale eco-insostenibile". Il gioco d’azzardo della speculazione, in quanto scommette in anticipo su trend di lungo periodo che esauriranno le risorse energetiche, dovrebbe servire ad accelerare le nostre reazioni. Finora però questa funzione è stata scarsamente efficace. L’Unione europea si è fermata a Kyoto: come se la sua adesione a quel trattato fosse un certificato di buona condotta sufficiente, in attesa che altri si adeguino. Ma l’Agenzia internazionale dell’energia calcola che il costo delle emissioni carboniche alla "Borsa di Kyoto" dovrebbe quadruplicare, per costringerci davvero a cambiare modello di sviluppo. Intanto l’inverno prossimo basteranno uno o due gradi di freddo in più, e saremo tutti di nuovo alla mercè del signor Medvedev, alias Putin.

13 giugno 2008

La scappatoia di "Londra"


Il 2 giugno si sono tenute al Senato le udienze sull’impennata dei prezzi del petrolio e il prof. Michael Greenberg dell’Università del Maryland ha riferito agli esponenti della Commissione Commercio del Senato che il 35% dei future di Intermediate Crude del West Texas trattati negli USA sono finiti nel “mercato nero”, quello in cui non ci sono regole di sorta ma è completamente controllato dagli inglesi.

All’inizio della seduta la sen. Maria Cantwell ha detto: “L’America può rimanere sorpresa dall’apprendere che i nostri mercati dei future petroliferi sono stati sostanzialmente deregolamentati dalle decisioni prese a porte chiuse dalla U.S. Commodity Futures Trading Commission (CFTC). Questa ‘scappatoia di Londra’ insieme alla ‘scappatoia del Dubai’ tengono allo scuro importanti fette del mercato dell’energia. E senza una giusta luce, i manipolatori hanno troppo spazio di manovra”.
Riferendosi alla stessa agenzia di controllo governativa statunitense CFTC un altro testimone ha detto “si è inginocchiata di fronte agli inglesi” quando ha permesso che una grossa parte della speculazione sui future del mercato petrolifero USA sia “regolamentata” dalle autorità di Londra e del Dubai, invece che da quella Americane.
Il 25 maggio la sen. Maria Cantwell e 22 colleghi senatori hanno sottoscritto una lettera in cui si chiede al CTFC di chiudere “la scappatoia di Londra”. Il presidente Walter Lukken ha risposto il 29 maggio assicurando di prendere iniziative, in autunno! Ma questo scambio epistolare da solo è bastato a frenare la folle corsa al rialzo dei prezzi, ha spiegato Greenberger, che sono passati dai 135 ai 125 dollari. A conclusione della seduta la sen. Cantwell ha detto “adesso ci saranno tanti firmatari in più e sono convinta che il CFTC prenderà le misure richieste dall’economia e dalla moralità della popolazione americana”. In caso contrario ha detto che il senato interverrà per imporre con la legge al CFTC di agire.

La scappatoia di Londra” dietro l’aumento del petrolio
Quando il petrolio raggiungerà i 200 dollari al barile non sarà colpa dei cinesi che vogliono avere l’automobile ma degli speculatori di Londra, hanno spiegato gli esperti alla Commissione Commercio del Senato USA il 2 giugno. Gli esperti hanno confermato che i prezzi petroliferi sono stati spinti in alto dagli speculatori del mercato off-shore delle materie prime che fa capo a Londra, sotto la supervisione delle autorità britanniche, evidentemente consenzienti. A questo fenomeno è stato dato il nome di “scappatoia di Londra”.
Gli esperti ascoltati hanno spiegato che il 35% dei future sul greggio chiamato “West Texas Intermediate” sono trattati sulla piazza di Atlanta, in Georgia, presso la Intercontinental Exchange (ICE) attraverso una sussidiaria di Londra, la International Petroleum Exchange. Quest’ultima fu fondata nel 1980 da un gruppo di speculatori del settore energetico e delle materie prime e fu poi fusa con la ICE nel 2001. Giuridicamente è un off-shore del mercato di Londra sotto la supervisione della British Financial Services Authority (FSA) ed è pertanto al di fuori della giurisdizione della Commodities Futures Trading Commission (CFTC)!

Il prof. Greenberger ha spiegato che nei mercati off-shore controllati dai britannici, un gruppo di banche e di hedge funds “stanno continuando e replicando il crac dei ‘subprime’, con tutti i loro derivati, sui mercati delle materie prime”. Secondo Greenberger circa il 70% dei future del petrolio trattati negli USA sono pura speculazione e il 30% sono fatti da Goldman Sachs, Morgan Stanley e JP Morgan Chase. Greenberger ha aggiunto molto ironicamente che si capisce come mai chi controlla il prezzo del petrolio “abbia previsto” che passerà dai 130 ai 200 dollari il barile.

Le stesse banche ed hedge funds acquistano inoltre grandi quantità di prodotti petroliferi e li tengono fuori dal mercato mentre spingono il dollaro al ribasso, in maniera da spingere al rialzo i prezzi petrolieri. Queste operazioni di incetta non sono solo speculazione, ma manipolazione dei mercati, un fenomeno che è negato dalla CFTC e dalla SEC. Ma “il maggior proprietario di gasolio da riscaldamento nel Nordest è la Morgan Stanley” ha riferito Greenberger.

La FSA britannica ha inoltre consentito a queste banche ed hedge funds di designarsi come traders “commerciali” piuttosto che “finanziari" — presentandosi cioè come se fossero compagnie aeree o distributori di carburanti che hanno bisogno di acquistare prodotti petroliferi a termine, cioè con futures. Di conseguenza non ci sono limiti alle posizioni speculative che essi finiscono per assumere.
fonte: Movisol

La super speculazione del Petrolio



Al New York Mercantile Exchange vengono scambiati ogni giorno contratti
futures per 850 milioni di barili, 10 volte la produzione giornaliera di
greggio (che ammonta a 85 milioni di barili). «E' una mega bolla, ma non è
detto che scoppierà tanto presto».

È sempre più difficile sostenere che l'impennata del prezzo del
petrolio non è dovuta in gran parte alla speculazione finanziaria,
soprattutto dopo il balzo di 10 dollari il barile registrato nella giornata
di venerdì.
Questi violenti movimenti, che hanno spinto il prezzo del greggio ad un
soffio dai 140 dollari il barile, sono la manifestazione inequivocabile
della bolla finanziaria che si è formata nel mercato delle materie prime e
dei prodotti alimentari. Alcune cifre confermano questa tesi.

Come ha scritto sul «Financial Times» Lord Desai, docente alla London School
of Economics, nello scorso mese di maggio, al New York Mercantile Exchange
sono stati scambiati ogni giorno contratti per circa 850 milioni di barili,
ossia un volume corrispondente a dieci volte la produzione giornaliera di
petrolio (che ammonta a 85 milioni di barili). Questi semplici dati
confermano che ha ragione il finanziere George Soros, il quale, in una
recente audizione davanti al Senato statunitense, ha dichiarato: «Ci sono
tutti i segnali di una bolla, ma non è detto che essa scoppierà tanto
presto».

I segnali di una bolla ci sono in effetti tutti. Il prezzo del petrolio è
più che raddoppiato negli ultimi 12 mesi ed è salito quest'anno dai 90
dollari il barile dello scorso mese di febbraio ai 139 dollari di venerdì
scorso.

Nell'economia reale non è successo nulla che possa giustificare un
incremento superiore al 9%. La domanda cinese ed indiana, additata spesso
come causa principe del rialzo del greggio, non ha subito negli ultimi
cinque mesi alcun balzo. Inoltre, la richiesta di greggio di Cina e di India
non influisce direttamente sulle quotazioni di breve termine del greggio,
poiché avviene fuori dal mercato, con contratti a lungo termine firmati con
i paesi esportatori.

Anche i termini dei problemi produttivi dei paesi esportatori di greggio non
sono cambiati negli ultimi mesi. Anzi, l'aneddotica indica - come ha
sottolineato «Il Sole 24 Ore» - che si moltiplicano le petroliere che vagano
per gli Oceani in cerca di attracchi, cioè di acquirenti, cui vendere a
sconto il loro carico di greggio.

Il problema è che i mercati a termine sui combustibili non obbediscono alle
leggi della domanda e dell'offerta, ma alle aspettative sul prezzo futuro. E
in questo mercato di carta si sono fiondate le istituzioni finanziarie, le
quali negli ultimi anni hanno investito 260 miliardi di dollari. È quindi
evidente che quando la Goldman Sachs, la banca di investimento più attiva in
questo mercato, prevede che entro la fine dell'anno il barile supererà i 200
dollari, non fa una previsione, ma in buona sostanza dice alla concorrenza
di continuare a scommettere sul rialzo del greggio.

Ciò induce a ritenere che la corsa del prezzo del petrolio potrebbe ancora
continuare e quindi decurtare ancor di più il reddito di famiglie ed
imprese. Non sorprende che si moltiplichino le proposte di trattare con gli
arabi, affinché aumentino la produzione; oppure di detassare il prezzo del
petrolio per calmare la rabbia crescente di consumatori, pescatori ed
autotrasportatori. È pure difficilmente spiegabile come non si reagisca a
questa corsa del greggio che sta intaccando la crescita di economie già
sotto stress a causa della crisi dei mutui subprime e che sta favorendo il
ritorno dell'inflazione.

Comunque è incomprensibile che rispetto alle numerose idee in circolazione
nessuna proposta miri ad aggredire la causa prima di questa enorme bolla
finanziaria attorno al prezzo del petrolio. Eppure basterebbe una regola
semplice per far cadere il castello costruito sul greggio dai «maghi della
carta straccia».

La regola è la seguente: coloro che comprano a termine il greggio devono
alla scadenza del contratto comprare il petrolio fisico e non possono più
evitare di farlo pagando una piccola compensazione monetaria, come invece
avviene oggi. In pratica, si tratterebbe di ripristinare le leggi dei
mercati a termine. Nessuno però sembra avere il coraggio di rovinare l'ultimo
giocattolo, che frutta ancora soldi, creato da Wall Street.
Così dopo la bolla delle borse, scoppiata all'inizio del decennio, e quella
del mercato immobiliare americano, esplosa l'anno scorso, ora abbiamo la
«mania» del petrolio. Anche questa bolla è certamente destinata prima o poi
a scoppiare, ma nel frattempo rischia di aggravare pesantemente le
condizioni di un'economia mondiale che già stenta a fare i conti con la
crisi dei mutui subprime.
di Alfonso Tuor

12 giugno 2008

Speculatori al Casinò della globalizzazione


In questo articolo di Republica.it la redazione dopo aver tanto decantato lo sviluppo globale si occupa delle "convergenze parallele" fra soggetti apparentemente diversi. Una buona informazione non deve solo elencare fatti, ma porsi domande, farle e, se possibile ascoltare altre posizioni. D'altronde sono chiacchiere perse.

Per motivi biografici e ideologici è quasi impossibile che il finanziere George Soros e il presidente della Russia la pensino allo stesso modo. Eppure Medvedev denuncia il «ruolo dell’America che spinge l’economia globale verso la più grave crisi dal 1929». E Soros in un’audizione al Senato Usa denuncia "i segnali di una nuova bolla speculativa".

La convergenza è notevole. Tutti e due hanno in mente la stessa cosa: l’inquietante enigma del caro-petrolio, che venerdì ha sfiorato i 140 dollari il barile e sembra deciso a realizzare la sospetta "profezia" della banca Goldman Sachs (200 dollari a barile). Si fa presto a dare la colpa ai soliti noti, Cina e India. Certo le superpotenze asiatiche, con centinaia di milioni di nuovi consumatori che accedono al benessere, sono la causa di fondo di un trend di rialzo secolare di tutte le materie prime. Inoltre le due locomotive cinese e indiana trainano lo sviluppo di molti altri nuovi protagonisti della globalizzazione, dalla Russia al Brasile. Ciascuno di questi diventa un consumatore delle stesse risorse naturali che vende all’estero: è sintomatica l’uscita dall’Opec dell’Indonesia, un ex-esportatore di greggio che oggi deve comprarlo sui mercati mondiali. Ma su questi cambiamenti storici si è innestata una marea di flussi finanziari che sono diventati a loro volta "il" problema. Quando in sole 48 ore di scambi al New York Mercantile Exchange (Nymex) i futures schizzano al rialzo del 13%, com’è successo tra giovedì e venerdì scorso, non c’è aumento dei consumi cinesi e indiani che tenga. Lo sviluppo economico asiatico, che comporta fra l’altro il boom della motorizzazione privata in paesi dove vivono 3,5 miliardi di persone, può spiegare l’aumento del 35% all’anno del petrolio negli ultimi cinque anni. Ma negli ultimi dodici mesi questo rincaro ha cominciato a puntare verso il cielo, raddoppiando di colpo. E il singolo aumento dei futures nella sola giornata di venerdì non si era mai verificato in quelle proporzioni da 25 anni. Ruchir Sharma, capo del dipartimento dei mercati emergenti alla Morgan Stanley, osserva che "flussi di capitali che si sono riversati sugli hedge fund che speculano sul petrolio, in soli tre mesi hanno superato tutto i1 2007, già un anno record". Qui la domanda e l’offerta della materia prima reale, il petrolio, non c’entrano più. Se non come un pretesto: uno scenario di fondo che viene utilizzato per orchestrarvi sopra una nuova ondata di scommesse finanziarie. Al Nymex ormai i contratti di futures sul petrolio movimentano un miliardo di barili al giorno, tutti virtuali; mentre la produzione del greggio vero è di soli 85 milioni di barili al giorno. La quantità di carta finanziaria che viene scambiata è immensamente superiore ai consumi mondiali di idrocarburi. E’ la ragione per cui in molti condividono l’analisi dì Soros: il casinò dove si puntano le giocate sui futures del petrolio è il luogo dove si è creata la nuova bolla speculativa. Le caratteristiche ci sono tutte. La curva di incremento esponenziale dei prezzi è identica a quella disegnata dal Nasdaq al culmine dell’euforia sulla New Economy nel 1999, prima di crollare nel marzo 2000. A quell’epoca le Borse erano dominate dai colossi di Internet proprio come oggi sono dominate dalle compagnie petrolifere, nuove campionesse della capitalizzazione. Ai tempi della bolla-Nasdaq si erano distinte alcune banche come Merrill Lynch e Credit Suisse First Boston, i cui analisti suggerivano "comprare comprare" alla clientela anche quando le quotazioni avevano ormai superato la stratosfera. Oggi al centro della febbre dei futures petroliferi c’è la Goldman Sachs, il cui analista Arjun Murti ha lanciato la celebre previsione sul greggio a 200 dollari il barile. Una profezia che sì autoavvera perché, guarda caso, è proprio Goldman Sachs il più importante operatore sui futures del petrolio. In passato altre manipolazioni clamorose dei mercati delle materie prime - i fratelli Hunt sull’argento negli anni 70, Raul Gardini sulla soya a Chicago nell’89 - furono smascherate e neutralizzate dall’intervento delle autorità. Ma questa volta I’impazzimento dei futures petroliferi avviene nel laissez faire. Nessuno interviene a controllare che dietro le transazioni virtuali sui futures possano essere onorati gli scambi di merce reale. Non si applicano neppure quelle regole sul pagamento di margini di garanzia, che sono sempre servite a "tassare" la speculazione pura per distinguerla dalle normali operazioni di copertura del rischio. La denuncia di Soros sulla bolla speculativa davanti al Senato di Washington non ha avuto conseguenze. E’ inevitabile un sospetto: chi dovrebbe intervenire è paralizzato dai conflitti d’interesse. Il primo imputato è il segretario americano al Tesoro, Henry Paulson, che prima di assumere l’incarico nell’Amministrazione Bush ha passato tutta la sua carriera professionale alla Goldman Sachs fino a diventarne presidente e amministratore delegato. Forse è ingeneroso ricordare che, quand’anche Paulson passasse i prossimi cent’anni al governo (per fortuna non accadrà), i suoi stipendi cumulati non raggiungerebbero il valore delle stock options che ha incassato alla Goldman Sachs. Al di là degli aspetti personali Paulson è stato il regista del salvataggio delle banche d’affari di Wall Street (vedi Bear Stearns) che stavano per affondare sotto il peso della crisi dei mutui subprime. Con che coraggio potrebbe punzecchiare la nuova bolla dei futures petroliferi, su cui le gloriose istituzioni di Wall Street stanno tentando di rifarsi i bilanci? Dietro di lui, gli interessi personali della famiglia Bush e del vicepresidente Dìck Cheney nell’industria petrolifera non incoraggiano a smontare la macchina speculativa che ha moltiplicato le quotazioni azionarie di tutto il settore. Tanto più che dietro Wall Street, tutto il mondo del risparmio americano si è accodato: i fondi pensione hanno investito 40 miliardi di dollari nella speculazione sulle materie prime, ansiosi anche loro di recuperare almeno una parte delle perdite subite sui subprime. E in questa nuova febbre speculativa un ruolo-chiave spetta al banchiere centrale Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve. Dopo aver dimostrato ai big di Wall Street che per quanto sbaglino non falliranno mai - a salvarli ci penserà lui coi soldi del contribuente americano - Bernanke abbassando i tassi d’interesse ai minimi storici ha continuato la politica del denaro facile che è il carburante primario di tutte le bolle. Il calo dei tassi a sua volta indebolisce il dollaro; costringe i paesi dell’Opec a cercare compensazioni nei rialzi del greggio (quotato in dollari); e incoraggia la finanza a puntare sulle materie prime come beni-rifugio contro l’inflazione mondiale. Un perfetto circolo vizioso. Che in qualsiasi momento può invertirsi e generare una contro-spirale altrettanto rovinosa, con effetti di panico sui mercati finanziari, la liquidità del credito, i risparmi delle famiglie. Si capisce perché per una volta Medvedev e Soros vanno d’accordo. L’epicentro di questa crisi è l’America, è la sua finanza impazzita che genera un altro contagio globale. Cina e India in questo caso sono solo lo scenario di fondo: è vero che l’aumento dei consumi petroliferi cinesi sale così velocemente da superare la riduzione dei consumi americani; ma per ora gli Stati Uniti continuano ad assorbire quasi il 25% del greggio mondiale contro il 9% della Cina.



Le conseguenze di questa iperinflazione petrolifera sull’economia reale rischiano di diventare sempre più drammatiche nei prossimi mesi. La Cina e l’India, costrette ad abbandonare i "prezzi politici" dei carburanti, non soltanto si espongono al malcontento dei consumatori e alle tensioni sociali, ma possono rallentare la loro crescita che è per il resto del mondo l’unica speranza di salvezza dalla recessione. In Europa l’ultima locomotiva - a mezzo servizio – che ci resta, e cioè la Germania, dovrà sacrificare una parte dei suoi consumi per far fronte al rialzo del 66% della benzina alla pompa. Questo significherà anche minor domanda di moda o mobili o elettrodomestici made in Italy sui nostri principali mercati di sbocco.


C’è almeno un effetto collaterale positivo, che può derivare dalla bolla finanziaria sul petrolio? I mercati, a modo loro, svolgono una funzione di supplenza. L’economista americano Kenneth Rogoff, ex direttore generale dei Fondo monetario internazionale, lo ha spiegato in questi termini sul Sole24 Ore: chi sospinge esageratamente al rialzo nel breve termine i prezzi del petrolio, "sta facendo molto di più per la difesa dell’ambiente di quanto non facciano i politici occidentali che cercano di prolungare l’epoca del consumismo occidentale eco-insostenibile". Il gioco d’azzardo della speculazione, in quanto scommette in anticipo su trend di lungo periodo che esauriranno le risorse energetiche, dovrebbe servire ad accelerare le nostre reazioni. Finora però questa funzione è stata scarsamente efficace. L’Unione europea si è fermata a Kyoto: come se la sua adesione a quel trattato fosse un certificato di buona condotta sufficiente, in attesa che altri si adeguino. Ma l’Agenzia internazionale dell’energia calcola che il costo delle emissioni carboniche alla "Borsa di Kyoto" dovrebbe quadruplicare, per costringerci davvero a cambiare modello di sviluppo. Intanto l’inverno prossimo basteranno uno o due gradi di freddo in più, e saremo tutti di nuovo alla mercè del signor Medvedev, alias Putin.