18 agosto 2008

Il bavaglio su Internet aspetta solo un grande pretesto

Sono emerse delle rivelazioni stupefacenti in relazione ad alcuni attuali piani governativi che intendono mettere mano al funzionamento di internet per applicare restrizioni e controlli molto più estesi sul web.

Il professor Lawrence Lessig, un autorevole giurista della Stanford University, nel rivolgersi al pubblico che quest’anno presenziava alla conferenza Brainstorm Tech - organizzata da Fortune a Half Moon Bay, in California – ha dichiarato che «sta per accadere una specie di ‘11 settembre di internet’», un evento che catalizzerà una radicale modifica delle norme che regolano la Rete.
Lessig ha anche rivelato di aver appreso nel corso di un pranzo con l’ex “Zar” governativo del controterrorismo, Richard Clarke, che c’è già un 'cyber-equivalente' del Patriot Act, una sorta di ‘Patriot Act per la Rete’, mentre il Dipartimento della Giustizia è in attesa di un evento cyber-terroristico per poterne applicare le norme.

Durante una sessione di un gruppo di discussione...
intitolata “2018: Vita sulla Rete”, Lessig ha dichiarato:

«Sta per accadere una specie di ‘11 settembre di internet’ (“an i-9/11 event” nell’originale, NdT). Il che non significa necessariamente un attacco di al-Qā‘ida, bensì un evento in cui l’instabilità o l’insicurezza di internet diventi manifesta durante un fatto doloso che poi ispira al governo una reazione. Dovete ricordarvi che dopo l’11 settembre il governo ha predisposto il Patriot Act in appena 20 giorni e lo ha fatto approvare».

«Il Patriot Act è bel mattone e ricordo qualcuno che chiedeva a un funzionario del Dipartimento della Giustizia come avessero fatto a scrivere un cosi vasto corpus giuridico in così poco tempo, e ovviamente la risposta fu che esso se ne era stato buono buono dentro i cassetti ministeriali per tutti gli ultimi 20 anni, in attesa di un evento che lo avrebbe fatto tirar fuori di lì.»

«Naturalmente il Patriot Act è pieno di ogni sorta di follia su come i diritti civili vengono protetti, o non protetti in questo caso. Perciò mentre pranzavo assieme a Richard Clarke gli ho chiesto se ci fosse un equivalente, se c’era per caso un ‘Patriot Act per la Rete’ dentro qualche cassetto, in attesa di un qualunque considerevole evento da usare come pretesto per cambiare radicalmente il modo in cui funziona internet. Disse: “Naturalmente sì”».


Lessig è il fondatore del Center for Internet and Society alla Stanford Law School. È membro fondatore di Creative Commons, fa parte del consiglio di amministrazione della Electronic Frontier Foundation nonché del Software Freedom Law Center.
È ancora più noto quale proponente di riduzioni nelle restrizioni legali nei confronti dei diritti d’autore, dei marchi e dello spettro delle frequenze radio, specie nelle applicazioni tecnologiche.

Questi non sono dunque i vaneggiamenti di un qualche smanettone paranoico.

Il Patriot Act, così come il meno conosciuto provvedimento denominato Domestic Security Enhancement Act 2003 (altrimenti noto come Patriot Act II), sono stati universalmente condannati dai difensori dei diritti civili e dai costituzionalisti collocati lungo tutto l’arco delle posizioni politiche. Queste leggi hanno sguarnito i diritti fondamentali e modellato quel che perfino i critici più moderati hanno definito come un “controllo dittatoriale” ceduto al presidente e al governo federale.

Molti credono che la legge fosse una risposta agli attentati dell’11/9, ma la realtà è che il Patriot Act è stato preparato ben prima dell’11/9 e se ne stava in sospeso, pronto per un evento che ne giustificasse l’applicazione.

Nei giorni successivi agli attentati, la legge fu approvata dalla Camera dei Rappresentanti con una maggioranza di 357 a 66. Al Senato fu approvata con 98 voti a favore e un solo voto contrario. Il parlamentare repubblicano texano Ron Paul dichiarò al «Washington Times» che a nessun membro del Congresso fu nemmeno consentito di leggere il provvedimento.
Ora scopriamo che quasi la stessa normativa restrittiva per le libertà è stata già preparata per il cyberspazio.

Un “11 settembre di internet”, così come descritto da Lawrence Lessig, offrirebbe il pretesto perfetto per applicare simili restrizioni in un solo colpo, nonché di offrire la giustificazione per emarginare ed eliminare specifici contenuti e informazioni presenti nel web.

Un tale evento potrebbe presentarsi nella forma di un grande attacco virale, un hacking dei sistemi di sicurezza o dei trasporti ovvero di altri sistemi vitali di una metropoli, o una combinazione di tutte queste cose. Considerando la quantità di domande senza risposta riguardanti l’11/9 e tutti gli indizi sul fatto che fosse un’operazione deviata sotto copertura, non è difficile immaginare un evento simile dispiegarsi nel cyberspazio.

Tuttavia, anche lasciando perdere qualsiasi “11 settembre di internet” o “Patriot Act per la Rete”, c’è già uno sforzo coordinato mirante a circoscrivere il raggio d’azione e l’influenza di internet.

Abbiamo instancabilmente lanciato l’allarme su questo movimento generale teso a restringere, censurare, controllare a alla fine bloccare del tutto internet così come oggi la conosciamo, uccidendo in quel modo le ultime vere vestigia della libertà di parola oggi nel mondo ed eliminando il più grande strumento di comunicazione e informazione mai concepito.
I nostri governi hanno pagine e pagine di norme compilate per mettere le ganasce all’attuale Rete. provvedimenti quali il PRO-IP Act del 2007 /H.R. 4279, inteso a creare uno ‘zar degli IP’ presso il Dipartimento della Giustizia, oppure l’Intellectual Property Enforcement Act of 2007/S. 522, mirante a creare un intera “rete di rafforzamento della proprietà intellettuale”. Non sono che due esempi.

Inoltre, abbiamo già visto in che modo i più grandi siti web privati e i social network si stiano concentrando e convergano per realizzare sistemi onnicomprensivi di identificazione, verifica e accesso che sono stati descritti dal fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, come «l’inizio di un movimento e l’inizio di un’industria.»

Alcune di queste grandi società tecnologiche hanno già unito gli sforzi su progetti quali la Information Card Foundation, che ha proposto la creazione di un sistema di carte d’identità per internet che saranno richieste per entrare in Rete. Naturalmente un tale sistema darebbe a chi lo gestisse la capacità di rintracciare e controllare l’attività degli utenti con molta più efficacia. Questo è solo un esempio.

Non basta. Come abbiamo già raccontato, i più grandi hub dei trasporti, come St. Pancras International, o anche le biblioteche, le grandi imprese, gli ospedali e altre grandi strutture aperte al pubblico che offrono internet wi-fi, stanno mettendo in lista nera i siti web di informazione alternativa rendendoli del tutto inaccessibili ai loro utenti.

Questi precedenti sono semplicemente il primo indicatore di quanto viene pianificato per internet nei prossimi 5-10 anni, con il web ‘tradizionale’ in via di divenire poco più che una vasta banca dati spionistica che cataloga ogni attività delle persone e le bombarda di pubblicità, mentre coloro che si conformano al controllo e alle regole centralizzate saranno liberi di godere del nuovo e velocissimo Internet 2.

Dobbiamo parlar chiaro riguardo a questa spinta irruente che mira ad applicare meccanismi di stretto controllo sul web, e farlo ADESSO prima che sia troppo tardi, prima che la spina dorsale di un internet libero si rompa e il suo corpo diventi in sostanza paralizzato senza rimedio.


Steve Watson

PrisonPlanet , traduzione di Pino Cabras

USA: Il grande esproprio, fase 2



Un grande articolo, un esempio di come si gestiscono soldi e potere. Una sequenza di atti e movimenti per pochi eletti, una casta. Impossibile seguire le gesta narrate, quello che si fa oggi è già stato deciso ieri.

La crisi dei sub-prime e la recessione in USA ha un effetto paradossale: gli speculatori finanziari che hanno provocato il collasso del sistema si buttano a comprare infrastrutture pubbliche. Aeroporti, autostrade, ponti e acquedotti dei governi locali, Stati e municipi, che sono disperatamente a corto di fondi e sono ben contenti di fare cassa (1).

Ma più contenti sono gli speculatori, attanagliati dalla crisi del credito, e che non vedono più i profitti favolosi di quando inondavano il mondo di prodotti derivati e di altre creazioni dell’ingegneria finanziaria. Prima si sono buttati sulle materie prime, lucrando sui rincari del petrolio e dei grani (da loro stessi provocati). Ora che anche le materie prime calano, dove investire per profitto?

«Quando non sei sicuro di alcun altro investimento, metti i soldi in una strada a pedaggio», dice John Schmidt, della Mayer Brown LLP di Chicago (indovinate a quale piccolo popolo appartiene la ditta): «Gli introiti sono stabili e prevedibili. Non diventi ricco sfondato, ma hai un flusso di cassa continuo».

Così, le infrastrutture pubbliche, costruite col denaro dei contribuenti, diventano private. E gli introiti di tariffe e pedaggi di tali infrastrutture sono privatizzati anch’essi.

Il caso più paradossale è quello di New York. Dove gli introiti fiscali sono diminuiti drasticamente, perchè sono diminuti i profitti della speculazione di Wall Street, primo contribuente della metropoli. Il governatore, David Paterson, ora spera che Wall Street compri quote di infrastrutture, per non aumentare le tasse, ed ha battezzato l’operazione «partecipazioni pubblico-private». Goldman Sachs è molto interessata, ed ha offerto la sua consulenza (a pagamento). Ci sono, spiega Greg Carey, capo della sezione infrastrutture della Goldman, da 75 a 150 miliardi di dollari pronta cassa da investire in «attivi fisici».

Dall’altra parte, 29 Stati degli USA più il District of Columbia (il distretto della capitale Washington) avranno un deficit fiscale di 49 miliardi di dollari nel 2009. E secondo la American Society of Civil Engineers, le infrastrutture americane hanno bisogno di 1,6 trilioni di dollari in 5 anni per la manutenzione ordinaria e straordinaria (sono state parecchio trascurate negli ultimi anni di boom finanziario).

Già la superbanca spagnola Abertis insieme a Cititgroup hanno offerto 12,8 miliardi di dollari per prendere in affitto per 75 anni il «Pennsylvania Turnpike», il sistema di autostrade (855 chilometri) che unisce i maggiori centri della Pennsylvania. Del resto il Chicago Skyway, un ponte stradale a pedaggio, è stato già ceduto nel 2005 dal municipio per 1,8 miliardi, ed ora il sindaco di Chicago si prepara a cedere in affitto il Midway Airport, il principale aeroporto. Già dal 2006 è finito ai privati (in affitto) l’«Indiana Toll Road», arteria a pedaggio dell’Indiana. Morgan Stanley sta dando la sua consulenza ad Akron, città dell’Ohio, per la cessione a privati del suo sistema di riciclaggio delle acque sporche e per la privatizzazione della lotteria di Stato.

«Le lotterie hanno un flusso di cassa stabile e alte barriere all’entrata (ossia: sono monopoli)», si entusiasma Rob Collins della Morgan sezione infrastrutture, «si auto-finanziano e richiedono spese capitali minime».

L’ultima frase è rivelatrice: le lotterie sono meglio delle strade, per i banchieri d’affari, perchè non ci sono spese di manutenzione. Il che significa che i privati, per strade e ponti, lesineranno i «costi» di mantenimento. Più del settore pubblico. Che dire?

E’ un caso di scuola: le «grandi depressioni» vedono sempre grandi trasferimenti di ricchezza reale, pagata dai più, nelle mani di pochi. E sempre gli stessi.

Infatti, il grande esproprio del capitalismo irresponsabile avviene in due fasi:

• Nel ciclo di boom economico, tutti i trucchi della finanza creativa si riducono ad un fatto molto semplice: retribuire il capitale più del lavoro, anzi a spese del lavoro. La finanza speculativa è un gioco a somma zero; infatti se qualcuno guadagna è perchè qualcun altro sta perdendo. Nella fase di boom, i lavoratori ricevono meno salario di quanto meritano per il loro contributo alla crescita. Ciò avviene limando le paghe, riducendo il personale (ogni volta che un’impresa riduce il personale, le sue azioni salgono, premiate dalla speculazione), oppure delocalizzando i lavori nei Paesi a salari infimi. In questa fase, i lavoratori sottopagati si vedono offrire «credito» per i consumi che non si possono permettere, e così - dopo aver ceduto parte del loro salario al capitale in forma di mancati aumenti - ne cedono un’altra quota pagando gli interessi al capitale speculativo, che li incoraggia a indebitarsi. In questa fase inoltre il capitalismo ideologico sputa sul settore pubblico, «poco efficiente», le cui infrastrutture «rendono poco», sicchè «non interessano agli investitori».

• Nella fase della depressione, d’improvviso il capitale speculativo comincia a interessarsi delle infrastrutture. Strade e ponti a pedaggio rendono poco? Sì, ma meglio di niente; e in più garantiscono flussi di cassa costanti. Inoltre, autostrade e ponti sono già lì. Il privato non ha bisogno di investire per costruirli; anzi, sono già ammortizzate da decenni. Nella fase della depressione, le infrastrutture - il patrimonio dei cittadini accumulato nei decenni - sono inoltre in offerta a prezzi stracciati; i politici di governo le offrono perchè hanno bisogno di denaro.

Ovviamente, cedendo in affitto o in proprietà i beni pubblici (a loro affidati), si privano per il futuro dei canoni, pedaggi e tariffe che tali patrimoni pubblici rendono. Ma che volete farci? Dovrebbero aumentare le imposte, ma ciò li renderebbe impopolari; meglio dunque cedere i gioielli dei cittadini.

Questa si chiama «democrazia di massa», ideologia ausiliaria del capitalismo da saccheggio. Gli economisti - ossia i custodi dell’ideologia - sono lì a gridare che «il mercato» sarà più efficiente della mano pubblica, che il privato «ottimizzerà» i costi delle infrastrutture. Non ci dicono come farà, il cosiddetto privato: lesinando ancor più sulla manutenzione. Facendo pagare pedaggi sempre più esosi su autostrade sempre più piene di buche. E’ così semplice, l’efficienza del capitalismo. Tutti gli economisti in cattedra non fanno altro che questo: occultare la questione della distribuzione della ricchezza (2).

Infatti, chi potrebbe scongiurare il doppio saccheggio, il grande trasferimento di ricchezza dai cittadini-contribuenti ai pochi privati? Solo dei governanti integri, che sentano profondamente la missione per cui sono stati votati, conservare ed aumentare il bene pubblico; politici capaci di porre regole al capitale selvaggio in nome del bene comune. Ma decenni di liberismo ideologico hanno appunto «consumato» questo tipo di personalità, le hanno fatte sparire.

Come ha scritto Cornelius Castoriadis, «il capitalismo ha potuto sopravvivere soltanto perchè ha ereditato una serie di tipi antropologici che non ha creato e non avrebbe potuto creare da sè: giudici incorruttibili, funzionari integri di stampo weberiano, educatori che si consacrano alla loro missione, operai dotati di coscienza professionale e così via. Questi tipi non nascono spontaneamente, ma sono stati creati in epoche storiche precedenti, in cui si faceva riferimento a valori non economici, allora consacrati e incontestabili: l’onestà, il servizio allo Stato, la trasmissione del sapere, lo zelo lavorativo. Oggi, nelle nostre società (economiciste-liberiste), questi valori sono divenuti notoriamente risibili, le uniche cose che contano essendo la quantità del denaro che si è intascato non importa come, e il numero di volte che si è apparsi in TV» (3).

Ecco il peggiore dei grandi saccheggi: la dissipazione - in nome del consumismo con pagamento rateale - del patrimonio impalpabile ma decisivo, quello dell’onestà pubblica, della solidarietà civica, del senso di missione per la propria nazione, della responsabilità civica verso le generazioni passate e future. Valori costruiti da altre epoche, organiche e tradizionali: ossia da tutta una civiltà dove il profitto economico non era l’istanza suprema, epoche che il gergo della democrazia cumula e demonizza sotto un unico termine: più o meno, come «fascismo».

I governanti che eleggiamo sono ormai i maggiordomi del capitale, al suo servizio esclusivo. Se almeno i capitalisti pagassero i loro enormi stipendi; no, anche quelli li paghiamo noi.

Perchè non sfuggirà che quel che accade oggi in USA, la cessione di patrimoni pubblici, in Italia è già avvenuto da tempo. Dai tempi dello yacht Britannia, in cui Draghi salì per vendere la roba nostra a lorsignori. Con la benedizione di Ciampi e degli altri Venerati Maestri: e ciò mentre i sindacati più potenti e costosi del pianeta badavano a tenere bassi i salari italiani. Tutta gente che resta al potere per servire loro, ma che continuiamo a pagare noi. E tanto, troppo.

M. Blondet



1) Jonathan Stempel, «Wall Street to privatize US infrastructures», GlobalResearch, 1 agosto 2008.
2) Bernard Maris, «Anti-manuale di Economia», Tropea Editore, 2005, pagina 15. Da cui traggo la seguente citazione, che illustra come il mercato, per esistere, debba creare artificialmente la scarsità e i bisogni: «Si deve capire bene che la scarsità non è assolutamente un dato naturale che si possa misurare per mezzo di indicatori oggettivi (...). La scarsità designa una forma di organizzazione specifica istituita dal ‘mercato’. Essa fa dipendere, in misura sconosciuta alle altre società, l’esistenza di ciascuno dalla sua sola capacità di procurarsene i mezzi senza poter contare sull’aiuto di altri. Qui appare con evidenza il fatto che la «libertà» e l’indipendenza dagli altri, che separa con tanta forza gli esseri umani nella società mercantile, assume la forma della solitudine e dell’eslusione». Michel Aglietta e André Orléan, «La monnaie entre violence et confidence», Parigi 2002.

3) Cornelius Castoriadis, «Gli incroci del labirinto», Firenze, 1998. Citato da Bernard Maris nell’Anti-manuale di economia (vedi sopra).

ECOLOGIA UMANA

Arrivederci all’Olocene

La crudele competizione in corso tra i mercati dell’energia e del cibo, amplificata dalla speculazione internazionale in beni e terre agricole, è solo un modesto presagio del caos che potrebbe presto crescere esponenzialmente dalla convergenza tra consumo delle risorse, ostinata disuguaglianza e cambiamento climatico

Il nostro mondo, il nostro vecchio mondo, quello che abbiamo abitato per 12 mila anni, è giunto al termine, anche se nessun giornale nordamericano o europeo ha già provveduto a pubblicare l’epitaffio scientifico.

Lo scorso febbraio, mentre le gru sollevavano i rivestimenti protettivi fino al 141esimo piano del grattacielo Burj Dubai (che presto sarà alto il doppio dell’Empire State Building), la Commissione Stratigrafica della Geological Society di Londra stava aggiungendo la storia più alta e più nuova alla colonna geologica.

La Geological Society di Londra è la più antica associazione di scienziati della Terra, fondata nel 1807, e la sua Commissione giudica con un collegio di massimi esponenti in merito all’aggiudicazione della datazione geologica. Gli stratigrafi fanno a fette la storia della Terra, preservata in strati sedimentari, dividendola in gerarchie di eoni, ere, periodi ed epoche identificati dalle “spighe d’oro” delle estinzioni di massa, degli eventi relativi alle evoluzioni di specie biologiche e dei cambiamenti improvvisi della chimica atmosferica.

In geologia, come in biologia o in storia, la periodizzazione è un’arte complessa e controversa, e la battaglia più amara della scienza britannica del 19esimo secolo –ancora conosciuta come la “Grande Controversia Devoniana” – fu combattuta su interpretazioni divergenti circa le familiari Graywackes del Galles e l’inglese Old Red Sandstone [1]. Nonostante l’idea di “Antropocene” – un’epoca della terra definita dalla nascita della società urbana-industriale come forza geologica – sia stata a lungo dibattuta, gli stratigrafi si sono rifiutati di riconoscere prove fondamentali per stabilire il suo avvento. Alla domanda “Stiamo vivendo adesso nell’Antropocene? ”, i ventuno membri della Commissione hanno risposto all’unanimità “sì”. Oltre all’aumento dell’effetto serra, gli stratigrafi menzionano la trasformazione del paesaggio umano che “ora supera in ordine di grandezza la naturale produzione sedimentaria [annua] “, la pericolosa acidificazione degli oceani e l’inarrestabile distruzione del biota.

Questa nuova era, spiegano, è definita sia dai trend del riscaldamento del pianeta (che trova un precedente forse nella catastrofe conosciuta come il Massimo Termale Paleocene Eocene, 56 milioni di anni fa) e dalla previsione di instabilità radicale dei futuri habitat.
2. Decarbonizzazione Spontanea?

La coronazione dell’Antropocene fatta dalla Commissione coincide con crescenti controversie scientifiche sul 4th Assessment Report [2] rilasciato lo scorso anno dalla Commissione Intergovernativa sui Cambiamenti Climatici (IPCC).

I parametri attuali sono stati adottati dall’IPCC nel 2000 per modellare le future emissioni complessive basandosi su diverse “trame” riguardanti la crescita della popolazione e lo sviluppo tecnologico ed economico. Alcuni degli scenari principali della Commissione sono ben noti ai policymakers e agli attivisti ambientalisti, ma pochi al di fuori della comunità dei ricercatori ne hanno realmente letto o compreso i dettagli, in particolare la fiducia che l’IPCC ripone nel fatto che una maggiore efficienza energetica sarà una conseguenza “automatica” dello sviluppo economico futuro. In effetti tutti gli scenari, anche le varianti del “business secondo i canali tradizionali”, assumono che almeno il 60 per cento delle future riduzioni di carbonio avranno luogo a prescindere dalle misure contenitive dell’effetto serra. (L’ International Energy Agency ha recentemente stimato che costerebbe 45 miliardi di dollari dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2050.) Gli accordi tipo Kyoto e i mercati del carbonio sono disegnati – quasi in analogia con la teoria Keynesiana del pump-priming [3]– per colmare le deficienze tra la decarbonizzazione spontanea e i target di emissioni che ciascun parametro richiede. Nello stesso modo, ci sono state poche prove negli ultimi anni dell’automatico progresso nell’efficienza energetica, che rappresenta una condicio sine qua non dei parametri dell’IPCC. Nel frattempo, si prevede che il consumo complessivo dei combustibili fossili aumenterà del 55% nel corso della prossima generazione, con le esportazioni internazionali di petrolio che raddoppieranno di volume.

Il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, che ha compiuto in proprio degli studi sugli obiettivi dell’energia sostenibile, mette in guardia dal fatto che sarà necessaria “una riduzione del 50% delle emissioni di gas serra in tutto il mondo entro il 2050 contro i livelli del 1990” per mantenere l’umanità fuori dalla zona del riscaldamento incontrollato (normalmente definito come maggiore dell’aumento di due gradi centigradi in questo secolo). Nonostante il rincaro dell’energia stia portando all’estinzione dei SUV e stia attirando più capitali nell’orbita delle energie rinnovabili, esso sta altresì aprendo il vaso di Pandora della più cruda produzione di petrolio dalle terre canadesi ricche di catrame e del petrolio pesante venezuelano. Come ha ammonito uno scienziato inglese, l’ultima cosa che dovremmo desiderare (sotto il falso slogan dell’”indipendenza energetica”) è la nuova frontiera della produzione di idrocarburi che sollecita “l’abilità umana nell’accelerare il riscaldamento globale” e rallenta la transizione verso “cicli energetici senza carbonio o chiusi al carbonio”.

3. Il Boom della Fine del Mondo

Che fiducia dovremmo riporre nella capacità dei mercati di riallocare gli investimenti dalle vecchie alle nuove energie o, per esempio, dalle spese per le armi ad un’agricoltura sostenibile? Siamo vittime di pubblicità incessanti (soprattutto nella TV di stato) che ci mostrano come compagnie enormi quali Chevron, Pfizer Inc. ed Archer Daniels Midland stiano lavorando duro per salvare il pianeta reinvestendo i loro profitti in ricerche ed esplorazioni che assicurino combustibili con poco carbonio, nuovi vaccini e colture più resistenti alla sete.
Inoltre ci sono preoccupanti segnali del fatto che le compagnie di energia e di servizi stiano violando le loro promesse circa l’impegno pubblico per lo sviluppo di tecnologie cattura-carbonio ed energie alternative. Il “progetto dimostrativo” dell’amministrazione Bush, FutureGen, è stato cancellato quest’anno dopo che l’industria del carbone si è rifiutata di pagare la sua quota di “partnership” di questo programma pubblico-privato; allo stesso modo, diverse iniziative private americane di estrazione del carbone sono recentemente state cancellate. Anche se non siamo proprio sulla sommità del picco di Hubbert— proprio quel picco del petrolio —indipendentemente dall’esplosione finale della bolla del caro-petrolio, quello di cui probabilmente ci stiamo rendendo testimoni è il più grande trasferimento di ricchezza della storia moderna. Un eminente oracolo di Wall Street, il McKinsey Global Institute, ha previsto che se i prezzi al barile del petrolio grezzo rimangono sopra i 100 dollari al barile – al momento rasentano i 140 – i sei paesi membri del Concilio di Cooperazione del Golfo da soli “collezioneranno un bonus di almeno 9 miliardi di dollari entro il 2020”. Come negli anni ’70, l’Arabia Saudita e i suoi vicini del Golfo, il cui prodotto interno lordo è almeno duplicato negli ultimi tre anni, stanno sguazzando nella liquidità: 2,4 miliardi in banche e fondi d’investimento, secondo una recente stima dell’ Economist. Indipendentemente dall’andamento dei prezzi, l’International Energy Agency prevede che “quantitativi sempre maggiori di petrolio proverranno da sempre meno paesi, soprattutto dai membri centro est dell’OPEC [Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio]." Oggi potrebbero avvicinarsi al miliardo e mezzo, una cifra considerevolmente maggiore al valore complessivo del commercio mondiale di prodotti per l’agricoltura. La maggior parte delle città-stato del Golfo stanno costruendo grattacieli abbaglianti –e, tra di essi, Dubai è la star indiscussa.
Questo super-pompato boom del Golfo, che il celebre architetto Rem Koolhaas dice stia “dando una nuova configurazione al mondo”, ha portato gli sviluppatori di Dubai a proclamare l’avvento di uno “stile di vita ai massimi livelli”, rappresentato da hotel a sette stelle, isole private e yacht J-class. Non sorprende, allora, che gli Emirati Arabi e i loro vicini abbiano il più alto risparmio energetico pro capite del pianeta. Intanto, i legittimi proprietari della ricchezza petrolifera araba, le masse accatastate negli angusti sobborghi di Baghdad, del Cairo, di Amman e di Khartoum, ne ottengono come magra conseguenza la nascita di impieghi nel campo del petrolio e di madrasse sovvenzionate dall’Arabia. Mentre gli ospiti si godono stanze da 5 mila dollari a notte in Burj Al-Arab, il famoso hotel di Dubai a forma di nave, la classe operaia del Cairo si batte per le strade per il prezzo troppo alto del pane.

4. Possono I Mercati Affrancare le Masse?

Gli ottimisti delle emissioni, naturalmente, guarderanno con il sorriso a questi sentimenti pessimistici ed evocheranno l’imminente miracolo del commercio del carbonio. Ciò che essi non tengono in considerazione è la possibilità reale che un esteso mercato di compensazione del carbonio possa emergere, come già pronosticato, producendo tuttavia solo un minimo miglioramento nel bilancio complessivo del carbonio, visto che non ci sono meccanismi per far dare atto a riduzioni nette reali dell’uso dei combustibili fossili.

Nelle discussioni popolari sui sistemi di scambio che ruotano attorno al diritto (delle industrie) alle emissioni inquinanti, è cosa normale confondere le ciminiere per alberi. Ad esempio, la ricca enclave del petrolio di Abu Dhabi (come Dubai, partner degli Emirati) si vanta di aver piantato più di 130 milioni di alberi – ciascuno dei quali adempie al suo dovere assorbendo anidride carbonica dall’atmosfera.
Come ha sottolineato il Programma di Sviluppo della Nazioni Unite nel suo rendiconto dell’anno scorso, il riscaldamento globale è la principale delle minacce per i poveri e i non nati, le “due facce della società con poca o nessuna voce politica”. Un’azione globale coordinata in loro favore presuppone quindi o un’attribuzione di potere rivoluzionaria (uno scenario non considerato dall’IPCC) o la trasmutazione dell’interesse verso se stesse delle nazioni e delle classi ricche in un’illuminata “solidarietà” senza precedenti nella storia. La maggior parte del terzo mondo, comunque, preferirebbe forse che il Primo Mondo riconoscesse la confusione ambientale a cui ha dato vita e si prendesse le responsabilità necessarie per sistemarla.
In uno studio serio recentemente pubblicato su Proceedings of the [US] National Academy of Science, un gruppo di ricerca ha tentato di calcolare i costi ambientali della globalizzazione economica dal 1961 esprimendoli in deforestazione, cambiamento climatico, pesca in eccesso, buco dell’ozono, conversione delle mangrovie ed espansione dell’agricoltura.

I radicali del Sud faranno giustamente notare che esiste un altro debito. Per trent’anni, le città dei paesi in via di sviluppo sono cresciute ad una velocità rapidissima, senza un equivalente investimento pubblico in servizi infrastrutturali, alloggi o sanità pubblica. In gran parte ciò rappresenta il risultato dei debiti esteri contratti dai dittatori, dei pagamenti pretesi dal Fondo Monetario Internazionale e dei settori pubblici portati alla rovina dagli accordi di “modificazione strutturale” della Banca Mondiale.
Uno degli analisti pionieri dell’economia del riscaldamento globale, il professore William R. Cline del Petersen Institute, ha recentemente pubblicato uno studio condotto paese per paese sui probabili effetti del cambiamento climatico sull’agricoltura nelle ultime decadi di questo secolo. Anche nelle simulazioni più ottimistiche, il sistema agricolo del Pakistan (per il quale di prevede una diminuzione del 20 per cento dell’attuale produzione agricola) e l’India nord orientale (riduzione del 30 percento) saranno facilmente distrutti, insieme a gran parte del Medio Oriente, del Maghreb, della cintura di Sahel, della parte più meridionale dell’Africa, dei Carabi e del Messico. Ventinove paesi in via di sviluppo perderanno il 20 percento o più della loro produzione agricola a causa del riscaldamento del pianeta, mentre l’agricoltura nel già prosperoso nord subirà potenzialmente, in media, una spinta dell’8 percento.

Alla luce di questi studi, la crudele competizione in corso tra i mercati dell’energia e del cibo, amplificata dalla speculazione internazionale in beni e terre agricole, è solo un modesto presagio del caos che potrebbe presto crescere esponenzialmente dalla convergenza tra consumo delle risorse, ostinata disuguaglianza e cambiamento climatico. Attualmente sta lavorando ad un libro sulle città, la povertà e il cambiamento globale.

Mike Davis è l’autore di In Praise of Barbarians: Essays against Empire (Haymarket Books, 2008) e di Buda's Wagon: A Brief History of the Car Bomb (Verso, 2007). Attualmente sta lavorando ad un libro sulle città, la povertà e il cambiamento globale.

18 agosto 2008

Il bavaglio su Internet aspetta solo un grande pretesto

Sono emerse delle rivelazioni stupefacenti in relazione ad alcuni attuali piani governativi che intendono mettere mano al funzionamento di internet per applicare restrizioni e controlli molto più estesi sul web.

Il professor Lawrence Lessig, un autorevole giurista della Stanford University, nel rivolgersi al pubblico che quest’anno presenziava alla conferenza Brainstorm Tech - organizzata da Fortune a Half Moon Bay, in California – ha dichiarato che «sta per accadere una specie di ‘11 settembre di internet’», un evento che catalizzerà una radicale modifica delle norme che regolano la Rete.
Lessig ha anche rivelato di aver appreso nel corso di un pranzo con l’ex “Zar” governativo del controterrorismo, Richard Clarke, che c’è già un 'cyber-equivalente' del Patriot Act, una sorta di ‘Patriot Act per la Rete’, mentre il Dipartimento della Giustizia è in attesa di un evento cyber-terroristico per poterne applicare le norme.

Durante una sessione di un gruppo di discussione...
intitolata “2018: Vita sulla Rete”, Lessig ha dichiarato:

«Sta per accadere una specie di ‘11 settembre di internet’ (“an i-9/11 event” nell’originale, NdT). Il che non significa necessariamente un attacco di al-Qā‘ida, bensì un evento in cui l’instabilità o l’insicurezza di internet diventi manifesta durante un fatto doloso che poi ispira al governo una reazione. Dovete ricordarvi che dopo l’11 settembre il governo ha predisposto il Patriot Act in appena 20 giorni e lo ha fatto approvare».

«Il Patriot Act è bel mattone e ricordo qualcuno che chiedeva a un funzionario del Dipartimento della Giustizia come avessero fatto a scrivere un cosi vasto corpus giuridico in così poco tempo, e ovviamente la risposta fu che esso se ne era stato buono buono dentro i cassetti ministeriali per tutti gli ultimi 20 anni, in attesa di un evento che lo avrebbe fatto tirar fuori di lì.»

«Naturalmente il Patriot Act è pieno di ogni sorta di follia su come i diritti civili vengono protetti, o non protetti in questo caso. Perciò mentre pranzavo assieme a Richard Clarke gli ho chiesto se ci fosse un equivalente, se c’era per caso un ‘Patriot Act per la Rete’ dentro qualche cassetto, in attesa di un qualunque considerevole evento da usare come pretesto per cambiare radicalmente il modo in cui funziona internet. Disse: “Naturalmente sì”».


Lessig è il fondatore del Center for Internet and Society alla Stanford Law School. È membro fondatore di Creative Commons, fa parte del consiglio di amministrazione della Electronic Frontier Foundation nonché del Software Freedom Law Center.
È ancora più noto quale proponente di riduzioni nelle restrizioni legali nei confronti dei diritti d’autore, dei marchi e dello spettro delle frequenze radio, specie nelle applicazioni tecnologiche.

Questi non sono dunque i vaneggiamenti di un qualche smanettone paranoico.

Il Patriot Act, così come il meno conosciuto provvedimento denominato Domestic Security Enhancement Act 2003 (altrimenti noto come Patriot Act II), sono stati universalmente condannati dai difensori dei diritti civili e dai costituzionalisti collocati lungo tutto l’arco delle posizioni politiche. Queste leggi hanno sguarnito i diritti fondamentali e modellato quel che perfino i critici più moderati hanno definito come un “controllo dittatoriale” ceduto al presidente e al governo federale.

Molti credono che la legge fosse una risposta agli attentati dell’11/9, ma la realtà è che il Patriot Act è stato preparato ben prima dell’11/9 e se ne stava in sospeso, pronto per un evento che ne giustificasse l’applicazione.

Nei giorni successivi agli attentati, la legge fu approvata dalla Camera dei Rappresentanti con una maggioranza di 357 a 66. Al Senato fu approvata con 98 voti a favore e un solo voto contrario. Il parlamentare repubblicano texano Ron Paul dichiarò al «Washington Times» che a nessun membro del Congresso fu nemmeno consentito di leggere il provvedimento.
Ora scopriamo che quasi la stessa normativa restrittiva per le libertà è stata già preparata per il cyberspazio.

Un “11 settembre di internet”, così come descritto da Lawrence Lessig, offrirebbe il pretesto perfetto per applicare simili restrizioni in un solo colpo, nonché di offrire la giustificazione per emarginare ed eliminare specifici contenuti e informazioni presenti nel web.

Un tale evento potrebbe presentarsi nella forma di un grande attacco virale, un hacking dei sistemi di sicurezza o dei trasporti ovvero di altri sistemi vitali di una metropoli, o una combinazione di tutte queste cose. Considerando la quantità di domande senza risposta riguardanti l’11/9 e tutti gli indizi sul fatto che fosse un’operazione deviata sotto copertura, non è difficile immaginare un evento simile dispiegarsi nel cyberspazio.

Tuttavia, anche lasciando perdere qualsiasi “11 settembre di internet” o “Patriot Act per la Rete”, c’è già uno sforzo coordinato mirante a circoscrivere il raggio d’azione e l’influenza di internet.

Abbiamo instancabilmente lanciato l’allarme su questo movimento generale teso a restringere, censurare, controllare a alla fine bloccare del tutto internet così come oggi la conosciamo, uccidendo in quel modo le ultime vere vestigia della libertà di parola oggi nel mondo ed eliminando il più grande strumento di comunicazione e informazione mai concepito.
I nostri governi hanno pagine e pagine di norme compilate per mettere le ganasce all’attuale Rete. provvedimenti quali il PRO-IP Act del 2007 /H.R. 4279, inteso a creare uno ‘zar degli IP’ presso il Dipartimento della Giustizia, oppure l’Intellectual Property Enforcement Act of 2007/S. 522, mirante a creare un intera “rete di rafforzamento della proprietà intellettuale”. Non sono che due esempi.

Inoltre, abbiamo già visto in che modo i più grandi siti web privati e i social network si stiano concentrando e convergano per realizzare sistemi onnicomprensivi di identificazione, verifica e accesso che sono stati descritti dal fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, come «l’inizio di un movimento e l’inizio di un’industria.»

Alcune di queste grandi società tecnologiche hanno già unito gli sforzi su progetti quali la Information Card Foundation, che ha proposto la creazione di un sistema di carte d’identità per internet che saranno richieste per entrare in Rete. Naturalmente un tale sistema darebbe a chi lo gestisse la capacità di rintracciare e controllare l’attività degli utenti con molta più efficacia. Questo è solo un esempio.

Non basta. Come abbiamo già raccontato, i più grandi hub dei trasporti, come St. Pancras International, o anche le biblioteche, le grandi imprese, gli ospedali e altre grandi strutture aperte al pubblico che offrono internet wi-fi, stanno mettendo in lista nera i siti web di informazione alternativa rendendoli del tutto inaccessibili ai loro utenti.

Questi precedenti sono semplicemente il primo indicatore di quanto viene pianificato per internet nei prossimi 5-10 anni, con il web ‘tradizionale’ in via di divenire poco più che una vasta banca dati spionistica che cataloga ogni attività delle persone e le bombarda di pubblicità, mentre coloro che si conformano al controllo e alle regole centralizzate saranno liberi di godere del nuovo e velocissimo Internet 2.

Dobbiamo parlar chiaro riguardo a questa spinta irruente che mira ad applicare meccanismi di stretto controllo sul web, e farlo ADESSO prima che sia troppo tardi, prima che la spina dorsale di un internet libero si rompa e il suo corpo diventi in sostanza paralizzato senza rimedio.


Steve Watson

PrisonPlanet , traduzione di Pino Cabras

USA: Il grande esproprio, fase 2



Un grande articolo, un esempio di come si gestiscono soldi e potere. Una sequenza di atti e movimenti per pochi eletti, una casta. Impossibile seguire le gesta narrate, quello che si fa oggi è già stato deciso ieri.

La crisi dei sub-prime e la recessione in USA ha un effetto paradossale: gli speculatori finanziari che hanno provocato il collasso del sistema si buttano a comprare infrastrutture pubbliche. Aeroporti, autostrade, ponti e acquedotti dei governi locali, Stati e municipi, che sono disperatamente a corto di fondi e sono ben contenti di fare cassa (1).

Ma più contenti sono gli speculatori, attanagliati dalla crisi del credito, e che non vedono più i profitti favolosi di quando inondavano il mondo di prodotti derivati e di altre creazioni dell’ingegneria finanziaria. Prima si sono buttati sulle materie prime, lucrando sui rincari del petrolio e dei grani (da loro stessi provocati). Ora che anche le materie prime calano, dove investire per profitto?

«Quando non sei sicuro di alcun altro investimento, metti i soldi in una strada a pedaggio», dice John Schmidt, della Mayer Brown LLP di Chicago (indovinate a quale piccolo popolo appartiene la ditta): «Gli introiti sono stabili e prevedibili. Non diventi ricco sfondato, ma hai un flusso di cassa continuo».

Così, le infrastrutture pubbliche, costruite col denaro dei contribuenti, diventano private. E gli introiti di tariffe e pedaggi di tali infrastrutture sono privatizzati anch’essi.

Il caso più paradossale è quello di New York. Dove gli introiti fiscali sono diminuiti drasticamente, perchè sono diminuti i profitti della speculazione di Wall Street, primo contribuente della metropoli. Il governatore, David Paterson, ora spera che Wall Street compri quote di infrastrutture, per non aumentare le tasse, ed ha battezzato l’operazione «partecipazioni pubblico-private». Goldman Sachs è molto interessata, ed ha offerto la sua consulenza (a pagamento). Ci sono, spiega Greg Carey, capo della sezione infrastrutture della Goldman, da 75 a 150 miliardi di dollari pronta cassa da investire in «attivi fisici».

Dall’altra parte, 29 Stati degli USA più il District of Columbia (il distretto della capitale Washington) avranno un deficit fiscale di 49 miliardi di dollari nel 2009. E secondo la American Society of Civil Engineers, le infrastrutture americane hanno bisogno di 1,6 trilioni di dollari in 5 anni per la manutenzione ordinaria e straordinaria (sono state parecchio trascurate negli ultimi anni di boom finanziario).

Già la superbanca spagnola Abertis insieme a Cititgroup hanno offerto 12,8 miliardi di dollari per prendere in affitto per 75 anni il «Pennsylvania Turnpike», il sistema di autostrade (855 chilometri) che unisce i maggiori centri della Pennsylvania. Del resto il Chicago Skyway, un ponte stradale a pedaggio, è stato già ceduto nel 2005 dal municipio per 1,8 miliardi, ed ora il sindaco di Chicago si prepara a cedere in affitto il Midway Airport, il principale aeroporto. Già dal 2006 è finito ai privati (in affitto) l’«Indiana Toll Road», arteria a pedaggio dell’Indiana. Morgan Stanley sta dando la sua consulenza ad Akron, città dell’Ohio, per la cessione a privati del suo sistema di riciclaggio delle acque sporche e per la privatizzazione della lotteria di Stato.

«Le lotterie hanno un flusso di cassa stabile e alte barriere all’entrata (ossia: sono monopoli)», si entusiasma Rob Collins della Morgan sezione infrastrutture, «si auto-finanziano e richiedono spese capitali minime».

L’ultima frase è rivelatrice: le lotterie sono meglio delle strade, per i banchieri d’affari, perchè non ci sono spese di manutenzione. Il che significa che i privati, per strade e ponti, lesineranno i «costi» di mantenimento. Più del settore pubblico. Che dire?

E’ un caso di scuola: le «grandi depressioni» vedono sempre grandi trasferimenti di ricchezza reale, pagata dai più, nelle mani di pochi. E sempre gli stessi.

Infatti, il grande esproprio del capitalismo irresponsabile avviene in due fasi:

• Nel ciclo di boom economico, tutti i trucchi della finanza creativa si riducono ad un fatto molto semplice: retribuire il capitale più del lavoro, anzi a spese del lavoro. La finanza speculativa è un gioco a somma zero; infatti se qualcuno guadagna è perchè qualcun altro sta perdendo. Nella fase di boom, i lavoratori ricevono meno salario di quanto meritano per il loro contributo alla crescita. Ciò avviene limando le paghe, riducendo il personale (ogni volta che un’impresa riduce il personale, le sue azioni salgono, premiate dalla speculazione), oppure delocalizzando i lavori nei Paesi a salari infimi. In questa fase, i lavoratori sottopagati si vedono offrire «credito» per i consumi che non si possono permettere, e così - dopo aver ceduto parte del loro salario al capitale in forma di mancati aumenti - ne cedono un’altra quota pagando gli interessi al capitale speculativo, che li incoraggia a indebitarsi. In questa fase inoltre il capitalismo ideologico sputa sul settore pubblico, «poco efficiente», le cui infrastrutture «rendono poco», sicchè «non interessano agli investitori».

• Nella fase della depressione, d’improvviso il capitale speculativo comincia a interessarsi delle infrastrutture. Strade e ponti a pedaggio rendono poco? Sì, ma meglio di niente; e in più garantiscono flussi di cassa costanti. Inoltre, autostrade e ponti sono già lì. Il privato non ha bisogno di investire per costruirli; anzi, sono già ammortizzate da decenni. Nella fase della depressione, le infrastrutture - il patrimonio dei cittadini accumulato nei decenni - sono inoltre in offerta a prezzi stracciati; i politici di governo le offrono perchè hanno bisogno di denaro.

Ovviamente, cedendo in affitto o in proprietà i beni pubblici (a loro affidati), si privano per il futuro dei canoni, pedaggi e tariffe che tali patrimoni pubblici rendono. Ma che volete farci? Dovrebbero aumentare le imposte, ma ciò li renderebbe impopolari; meglio dunque cedere i gioielli dei cittadini.

Questa si chiama «democrazia di massa», ideologia ausiliaria del capitalismo da saccheggio. Gli economisti - ossia i custodi dell’ideologia - sono lì a gridare che «il mercato» sarà più efficiente della mano pubblica, che il privato «ottimizzerà» i costi delle infrastrutture. Non ci dicono come farà, il cosiddetto privato: lesinando ancor più sulla manutenzione. Facendo pagare pedaggi sempre più esosi su autostrade sempre più piene di buche. E’ così semplice, l’efficienza del capitalismo. Tutti gli economisti in cattedra non fanno altro che questo: occultare la questione della distribuzione della ricchezza (2).

Infatti, chi potrebbe scongiurare il doppio saccheggio, il grande trasferimento di ricchezza dai cittadini-contribuenti ai pochi privati? Solo dei governanti integri, che sentano profondamente la missione per cui sono stati votati, conservare ed aumentare il bene pubblico; politici capaci di porre regole al capitale selvaggio in nome del bene comune. Ma decenni di liberismo ideologico hanno appunto «consumato» questo tipo di personalità, le hanno fatte sparire.

Come ha scritto Cornelius Castoriadis, «il capitalismo ha potuto sopravvivere soltanto perchè ha ereditato una serie di tipi antropologici che non ha creato e non avrebbe potuto creare da sè: giudici incorruttibili, funzionari integri di stampo weberiano, educatori che si consacrano alla loro missione, operai dotati di coscienza professionale e così via. Questi tipi non nascono spontaneamente, ma sono stati creati in epoche storiche precedenti, in cui si faceva riferimento a valori non economici, allora consacrati e incontestabili: l’onestà, il servizio allo Stato, la trasmissione del sapere, lo zelo lavorativo. Oggi, nelle nostre società (economiciste-liberiste), questi valori sono divenuti notoriamente risibili, le uniche cose che contano essendo la quantità del denaro che si è intascato non importa come, e il numero di volte che si è apparsi in TV» (3).

Ecco il peggiore dei grandi saccheggi: la dissipazione - in nome del consumismo con pagamento rateale - del patrimonio impalpabile ma decisivo, quello dell’onestà pubblica, della solidarietà civica, del senso di missione per la propria nazione, della responsabilità civica verso le generazioni passate e future. Valori costruiti da altre epoche, organiche e tradizionali: ossia da tutta una civiltà dove il profitto economico non era l’istanza suprema, epoche che il gergo della democrazia cumula e demonizza sotto un unico termine: più o meno, come «fascismo».

I governanti che eleggiamo sono ormai i maggiordomi del capitale, al suo servizio esclusivo. Se almeno i capitalisti pagassero i loro enormi stipendi; no, anche quelli li paghiamo noi.

Perchè non sfuggirà che quel che accade oggi in USA, la cessione di patrimoni pubblici, in Italia è già avvenuto da tempo. Dai tempi dello yacht Britannia, in cui Draghi salì per vendere la roba nostra a lorsignori. Con la benedizione di Ciampi e degli altri Venerati Maestri: e ciò mentre i sindacati più potenti e costosi del pianeta badavano a tenere bassi i salari italiani. Tutta gente che resta al potere per servire loro, ma che continuiamo a pagare noi. E tanto, troppo.

M. Blondet



1) Jonathan Stempel, «Wall Street to privatize US infrastructures», GlobalResearch, 1 agosto 2008.
2) Bernard Maris, «Anti-manuale di Economia», Tropea Editore, 2005, pagina 15. Da cui traggo la seguente citazione, che illustra come il mercato, per esistere, debba creare artificialmente la scarsità e i bisogni: «Si deve capire bene che la scarsità non è assolutamente un dato naturale che si possa misurare per mezzo di indicatori oggettivi (...). La scarsità designa una forma di organizzazione specifica istituita dal ‘mercato’. Essa fa dipendere, in misura sconosciuta alle altre società, l’esistenza di ciascuno dalla sua sola capacità di procurarsene i mezzi senza poter contare sull’aiuto di altri. Qui appare con evidenza il fatto che la «libertà» e l’indipendenza dagli altri, che separa con tanta forza gli esseri umani nella società mercantile, assume la forma della solitudine e dell’eslusione». Michel Aglietta e André Orléan, «La monnaie entre violence et confidence», Parigi 2002.

3) Cornelius Castoriadis, «Gli incroci del labirinto», Firenze, 1998. Citato da Bernard Maris nell’Anti-manuale di economia (vedi sopra).

ECOLOGIA UMANA

Arrivederci all’Olocene

La crudele competizione in corso tra i mercati dell’energia e del cibo, amplificata dalla speculazione internazionale in beni e terre agricole, è solo un modesto presagio del caos che potrebbe presto crescere esponenzialmente dalla convergenza tra consumo delle risorse, ostinata disuguaglianza e cambiamento climatico

Il nostro mondo, il nostro vecchio mondo, quello che abbiamo abitato per 12 mila anni, è giunto al termine, anche se nessun giornale nordamericano o europeo ha già provveduto a pubblicare l’epitaffio scientifico.

Lo scorso febbraio, mentre le gru sollevavano i rivestimenti protettivi fino al 141esimo piano del grattacielo Burj Dubai (che presto sarà alto il doppio dell’Empire State Building), la Commissione Stratigrafica della Geological Society di Londra stava aggiungendo la storia più alta e più nuova alla colonna geologica.

La Geological Society di Londra è la più antica associazione di scienziati della Terra, fondata nel 1807, e la sua Commissione giudica con un collegio di massimi esponenti in merito all’aggiudicazione della datazione geologica. Gli stratigrafi fanno a fette la storia della Terra, preservata in strati sedimentari, dividendola in gerarchie di eoni, ere, periodi ed epoche identificati dalle “spighe d’oro” delle estinzioni di massa, degli eventi relativi alle evoluzioni di specie biologiche e dei cambiamenti improvvisi della chimica atmosferica.

In geologia, come in biologia o in storia, la periodizzazione è un’arte complessa e controversa, e la battaglia più amara della scienza britannica del 19esimo secolo –ancora conosciuta come la “Grande Controversia Devoniana” – fu combattuta su interpretazioni divergenti circa le familiari Graywackes del Galles e l’inglese Old Red Sandstone [1]. Nonostante l’idea di “Antropocene” – un’epoca della terra definita dalla nascita della società urbana-industriale come forza geologica – sia stata a lungo dibattuta, gli stratigrafi si sono rifiutati di riconoscere prove fondamentali per stabilire il suo avvento. Alla domanda “Stiamo vivendo adesso nell’Antropocene? ”, i ventuno membri della Commissione hanno risposto all’unanimità “sì”. Oltre all’aumento dell’effetto serra, gli stratigrafi menzionano la trasformazione del paesaggio umano che “ora supera in ordine di grandezza la naturale produzione sedimentaria [annua] “, la pericolosa acidificazione degli oceani e l’inarrestabile distruzione del biota.

Questa nuova era, spiegano, è definita sia dai trend del riscaldamento del pianeta (che trova un precedente forse nella catastrofe conosciuta come il Massimo Termale Paleocene Eocene, 56 milioni di anni fa) e dalla previsione di instabilità radicale dei futuri habitat.
2. Decarbonizzazione Spontanea?

La coronazione dell’Antropocene fatta dalla Commissione coincide con crescenti controversie scientifiche sul 4th Assessment Report [2] rilasciato lo scorso anno dalla Commissione Intergovernativa sui Cambiamenti Climatici (IPCC).

I parametri attuali sono stati adottati dall’IPCC nel 2000 per modellare le future emissioni complessive basandosi su diverse “trame” riguardanti la crescita della popolazione e lo sviluppo tecnologico ed economico. Alcuni degli scenari principali della Commissione sono ben noti ai policymakers e agli attivisti ambientalisti, ma pochi al di fuori della comunità dei ricercatori ne hanno realmente letto o compreso i dettagli, in particolare la fiducia che l’IPCC ripone nel fatto che una maggiore efficienza energetica sarà una conseguenza “automatica” dello sviluppo economico futuro. In effetti tutti gli scenari, anche le varianti del “business secondo i canali tradizionali”, assumono che almeno il 60 per cento delle future riduzioni di carbonio avranno luogo a prescindere dalle misure contenitive dell’effetto serra. (L’ International Energy Agency ha recentemente stimato che costerebbe 45 miliardi di dollari dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2050.) Gli accordi tipo Kyoto e i mercati del carbonio sono disegnati – quasi in analogia con la teoria Keynesiana del pump-priming [3]– per colmare le deficienze tra la decarbonizzazione spontanea e i target di emissioni che ciascun parametro richiede. Nello stesso modo, ci sono state poche prove negli ultimi anni dell’automatico progresso nell’efficienza energetica, che rappresenta una condicio sine qua non dei parametri dell’IPCC. Nel frattempo, si prevede che il consumo complessivo dei combustibili fossili aumenterà del 55% nel corso della prossima generazione, con le esportazioni internazionali di petrolio che raddoppieranno di volume.

Il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, che ha compiuto in proprio degli studi sugli obiettivi dell’energia sostenibile, mette in guardia dal fatto che sarà necessaria “una riduzione del 50% delle emissioni di gas serra in tutto il mondo entro il 2050 contro i livelli del 1990” per mantenere l’umanità fuori dalla zona del riscaldamento incontrollato (normalmente definito come maggiore dell’aumento di due gradi centigradi in questo secolo). Nonostante il rincaro dell’energia stia portando all’estinzione dei SUV e stia attirando più capitali nell’orbita delle energie rinnovabili, esso sta altresì aprendo il vaso di Pandora della più cruda produzione di petrolio dalle terre canadesi ricche di catrame e del petrolio pesante venezuelano. Come ha ammonito uno scienziato inglese, l’ultima cosa che dovremmo desiderare (sotto il falso slogan dell’”indipendenza energetica”) è la nuova frontiera della produzione di idrocarburi che sollecita “l’abilità umana nell’accelerare il riscaldamento globale” e rallenta la transizione verso “cicli energetici senza carbonio o chiusi al carbonio”.

3. Il Boom della Fine del Mondo

Che fiducia dovremmo riporre nella capacità dei mercati di riallocare gli investimenti dalle vecchie alle nuove energie o, per esempio, dalle spese per le armi ad un’agricoltura sostenibile? Siamo vittime di pubblicità incessanti (soprattutto nella TV di stato) che ci mostrano come compagnie enormi quali Chevron, Pfizer Inc. ed Archer Daniels Midland stiano lavorando duro per salvare il pianeta reinvestendo i loro profitti in ricerche ed esplorazioni che assicurino combustibili con poco carbonio, nuovi vaccini e colture più resistenti alla sete.
Inoltre ci sono preoccupanti segnali del fatto che le compagnie di energia e di servizi stiano violando le loro promesse circa l’impegno pubblico per lo sviluppo di tecnologie cattura-carbonio ed energie alternative. Il “progetto dimostrativo” dell’amministrazione Bush, FutureGen, è stato cancellato quest’anno dopo che l’industria del carbone si è rifiutata di pagare la sua quota di “partnership” di questo programma pubblico-privato; allo stesso modo, diverse iniziative private americane di estrazione del carbone sono recentemente state cancellate. Anche se non siamo proprio sulla sommità del picco di Hubbert— proprio quel picco del petrolio —indipendentemente dall’esplosione finale della bolla del caro-petrolio, quello di cui probabilmente ci stiamo rendendo testimoni è il più grande trasferimento di ricchezza della storia moderna. Un eminente oracolo di Wall Street, il McKinsey Global Institute, ha previsto che se i prezzi al barile del petrolio grezzo rimangono sopra i 100 dollari al barile – al momento rasentano i 140 – i sei paesi membri del Concilio di Cooperazione del Golfo da soli “collezioneranno un bonus di almeno 9 miliardi di dollari entro il 2020”. Come negli anni ’70, l’Arabia Saudita e i suoi vicini del Golfo, il cui prodotto interno lordo è almeno duplicato negli ultimi tre anni, stanno sguazzando nella liquidità: 2,4 miliardi in banche e fondi d’investimento, secondo una recente stima dell’ Economist. Indipendentemente dall’andamento dei prezzi, l’International Energy Agency prevede che “quantitativi sempre maggiori di petrolio proverranno da sempre meno paesi, soprattutto dai membri centro est dell’OPEC [Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio]." Oggi potrebbero avvicinarsi al miliardo e mezzo, una cifra considerevolmente maggiore al valore complessivo del commercio mondiale di prodotti per l’agricoltura. La maggior parte delle città-stato del Golfo stanno costruendo grattacieli abbaglianti –e, tra di essi, Dubai è la star indiscussa.
Questo super-pompato boom del Golfo, che il celebre architetto Rem Koolhaas dice stia “dando una nuova configurazione al mondo”, ha portato gli sviluppatori di Dubai a proclamare l’avvento di uno “stile di vita ai massimi livelli”, rappresentato da hotel a sette stelle, isole private e yacht J-class. Non sorprende, allora, che gli Emirati Arabi e i loro vicini abbiano il più alto risparmio energetico pro capite del pianeta. Intanto, i legittimi proprietari della ricchezza petrolifera araba, le masse accatastate negli angusti sobborghi di Baghdad, del Cairo, di Amman e di Khartoum, ne ottengono come magra conseguenza la nascita di impieghi nel campo del petrolio e di madrasse sovvenzionate dall’Arabia. Mentre gli ospiti si godono stanze da 5 mila dollari a notte in Burj Al-Arab, il famoso hotel di Dubai a forma di nave, la classe operaia del Cairo si batte per le strade per il prezzo troppo alto del pane.

4. Possono I Mercati Affrancare le Masse?

Gli ottimisti delle emissioni, naturalmente, guarderanno con il sorriso a questi sentimenti pessimistici ed evocheranno l’imminente miracolo del commercio del carbonio. Ciò che essi non tengono in considerazione è la possibilità reale che un esteso mercato di compensazione del carbonio possa emergere, come già pronosticato, producendo tuttavia solo un minimo miglioramento nel bilancio complessivo del carbonio, visto che non ci sono meccanismi per far dare atto a riduzioni nette reali dell’uso dei combustibili fossili.

Nelle discussioni popolari sui sistemi di scambio che ruotano attorno al diritto (delle industrie) alle emissioni inquinanti, è cosa normale confondere le ciminiere per alberi. Ad esempio, la ricca enclave del petrolio di Abu Dhabi (come Dubai, partner degli Emirati) si vanta di aver piantato più di 130 milioni di alberi – ciascuno dei quali adempie al suo dovere assorbendo anidride carbonica dall’atmosfera.
Come ha sottolineato il Programma di Sviluppo della Nazioni Unite nel suo rendiconto dell’anno scorso, il riscaldamento globale è la principale delle minacce per i poveri e i non nati, le “due facce della società con poca o nessuna voce politica”. Un’azione globale coordinata in loro favore presuppone quindi o un’attribuzione di potere rivoluzionaria (uno scenario non considerato dall’IPCC) o la trasmutazione dell’interesse verso se stesse delle nazioni e delle classi ricche in un’illuminata “solidarietà” senza precedenti nella storia. La maggior parte del terzo mondo, comunque, preferirebbe forse che il Primo Mondo riconoscesse la confusione ambientale a cui ha dato vita e si prendesse le responsabilità necessarie per sistemarla.
In uno studio serio recentemente pubblicato su Proceedings of the [US] National Academy of Science, un gruppo di ricerca ha tentato di calcolare i costi ambientali della globalizzazione economica dal 1961 esprimendoli in deforestazione, cambiamento climatico, pesca in eccesso, buco dell’ozono, conversione delle mangrovie ed espansione dell’agricoltura.

I radicali del Sud faranno giustamente notare che esiste un altro debito. Per trent’anni, le città dei paesi in via di sviluppo sono cresciute ad una velocità rapidissima, senza un equivalente investimento pubblico in servizi infrastrutturali, alloggi o sanità pubblica. In gran parte ciò rappresenta il risultato dei debiti esteri contratti dai dittatori, dei pagamenti pretesi dal Fondo Monetario Internazionale e dei settori pubblici portati alla rovina dagli accordi di “modificazione strutturale” della Banca Mondiale.
Uno degli analisti pionieri dell’economia del riscaldamento globale, il professore William R. Cline del Petersen Institute, ha recentemente pubblicato uno studio condotto paese per paese sui probabili effetti del cambiamento climatico sull’agricoltura nelle ultime decadi di questo secolo. Anche nelle simulazioni più ottimistiche, il sistema agricolo del Pakistan (per il quale di prevede una diminuzione del 20 per cento dell’attuale produzione agricola) e l’India nord orientale (riduzione del 30 percento) saranno facilmente distrutti, insieme a gran parte del Medio Oriente, del Maghreb, della cintura di Sahel, della parte più meridionale dell’Africa, dei Carabi e del Messico. Ventinove paesi in via di sviluppo perderanno il 20 percento o più della loro produzione agricola a causa del riscaldamento del pianeta, mentre l’agricoltura nel già prosperoso nord subirà potenzialmente, in media, una spinta dell’8 percento.

Alla luce di questi studi, la crudele competizione in corso tra i mercati dell’energia e del cibo, amplificata dalla speculazione internazionale in beni e terre agricole, è solo un modesto presagio del caos che potrebbe presto crescere esponenzialmente dalla convergenza tra consumo delle risorse, ostinata disuguaglianza e cambiamento climatico. Attualmente sta lavorando ad un libro sulle città, la povertà e il cambiamento globale.

Mike Davis è l’autore di In Praise of Barbarians: Essays against Empire (Haymarket Books, 2008) e di Buda's Wagon: A Brief History of the Car Bomb (Verso, 2007). Attualmente sta lavorando ad un libro sulle città, la povertà e il cambiamento globale.