08 marzo 2009

E' necessaria una rivolta per riottenere il controllo popolare della politica economica?

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"Il salvataggio attuale del sistema sta avvenendo con i soldi dei contribuenti ma senza che l'opinione pubblica abbia voce in capitolo. E' perciò necessaria una rivolta per riottenere il controllo popolare della politica economica."

MW: La crisi finanziaria si sta rapidamente trasformando in una crisi politica. Già dei governi, in Islanda e in Lettonia, sono caduti, e il crollo globale sta appena iniziando ad accelerare. Tafferugli e violenza di strada sono esplosi in Grecia, Lettonia e Lituania, e proteste dei lavoratori sono diventate comuni in tutta l'Unione Europea. Con la disoccupazione che salirà alle stelle e l'attività economica che rimarrà stagnante, i paesi vedranno probabilmente una maggiore instabilità sociale. Come si può prendere del malcontento e della rabbia da tempo sedimentati e trasformarli in un movimento politico per un cambiamento strutturale?

JBF: La prima cosa è riconoscere che ci siamo ritrovati improvvisamente in un periodo storico differente. Una delle mie citazioni favorite proviene dal film "Burn!" del 1969, di Gillo Pontecorvo, il cui protagonista, William Walker (impersonato da Marlon Brando) afferma: "molto spesso, tra un periodo storico e un altro,10 anni improvvisamente potrebbero essere sufficienti a rivelare le contraddizioni di un intero secolo". Noi stiamo vivendo in un tale periodo; non solo a causa della Grande Crisi Finanziaria e di ciò che il FMI oggi definisce depressione nelle economie capitaliste avanzate, ma anche a causa della crisi ecologica globale che durante gli ultimi 10 anni è accelerata uscendo dall'ordinario controllo, e a causa del riapparire dell'" imperialismo nudo". Ciò che aveva senso 10 anni fa ora è un non-senso. Nuovi pericoli e nuove possibilità si stanno aprendo. Sta emergendo un genere di lotta completamente differente.

Nella foto: in Islanda, a seguito della crisi finanziaria, dure proteste hanno costretto il governo alle dimissioni.

L'improvvisa caduta dei governi in Islanda e in Lettonia come risultato delle proteste contro il furto finanziario è un fatto notevole, così come lo sono le diffuse rivolte in Grecia e in tutta l'Unione Europea, con milioni di persone nelle strade. Gli scioperi generali in Guadeloupe e Martinique, le Antille francesi, e l'appoggio fornito a questi movimenti dal Nuovo Partito Anticapitalista Francese [NPA, "Nouveau parti anticapitaliste", N.d.t.] sono degli enormi passi avanti. Di fatto gran parte del mondo è in fermento. I latinoamericani sono impegnati in una rivolta a grande scala contro il neoliberismo, guidata dalla rivoluzione bollivariana del Venezuela, e dall'aspirazione a un nuovo socialismo per il ventunesimo secolo (immaginato anche in Bolivia, Ecuador e Cuba). La rivoluzione nepalese ha offerto una nuova speranza in Asia. Lotte sociali di prima grandezza stanno avvenendo nelle economie emergenti come il Brasile, in Messico e l'India. Anche la Cina sta assistendo a un fermento.

L'unico posto al mondo in cui questo fermento storico sembra non avere un effetto significativo è, attualmente, negli Stati Uniti d'America. Ciò può essere spiegato da due ragioni. In primo luogo gli Stati Uniti come centro dell'impero mondiale sono una fortezza di conservatorismo. In secondo luogo l'elezione dell'amministrazione Obama ha confuso le forze progressiste portando all'assurda nozione che i democratici sotto Obama creeranno un nuovo New Deal senza bisogno della pressione proveniente da una rivolta sottostante. Nel frattempo, sotto lo sguardo di Obama e con l'aiuto dei suoi consiglieri scelti, grandi quantità di fondi statali vengono iniettati nel sistema finanziario a beneficio del capitale privato.

Ciò di cui c'è bisogno negli Stati Uniti oggi, sosteniamo in "The Great Financial Crisis", è un rinnovamento del concetto classico di economia politica (con la sua prospettiva di classe), attraverso il quale si giunge a comprendere che l'economia è soggetta al controllo pubblico, e dovrebbe essere strappata al controllo della classe dominante. Il salvataggio attuale del sistema sta avvenendo con i soldi dei contribuenti ma senza che l'opinione pubblica abbia voce in capitolo. E' perciò necessaria una rivolta per riottenere il controllo popolare della politica economica.

È possibile iniziare con la richiesta per un nuovo New Deal, che abbia le radici nella migliore eredità dell'amministrazione Roosevelt negli anni 30, in particolare nella Works Progress Administration. Ma, come sosteniamo io e Robert McChesney nell'articolo “A New New Deal Under Obama?” apparso nell'edizione di febbraio 2009 della Monthly Review , la lotta deve andare rapidamente al di là di ciò verso un'espansione dei diritti dei lavoratori secondo principi socialisti, rompendo con la logica del capitale. Perché ciò accada deve esserci una grande rivolta dal basso almeno delle dimensioni del movimento di sindacalizzazione industriale degli anni 30 che creò una nuova forza politica nel paese, successivamente distrutta nell'era McCarthy. La storia di questa lotta è raccontata nel classico di David Milton "The Politics of U.S. Labor", che sottolinea anche che il nascente movimento dei lavoratori era guidato da sindacalisti radicali e socialisti.

È importante, come ha spiegato István Mészáros nel suo "Beyond Capital", che le forze politiche radicali che nascono in questo momento storico non si facciano distrarre dal tentativo di salvare il sistema esistente, ma siano dirette a trascenderlo. Come ha scritto Mészáros: "Per avere successo nel suo scopo originario, la politica radicale deve portare le sue aspirazioni all'altezza della crisi, nella forma di efficaci poteri decisionali per il corpo sociale stesso, a tutti i livelli e in tutte le aree, economia compresa, da cui emaneranno successivamente richieste politiche e materiali".

Negli Stati Uniti lo scopo primario di qualunque politica radicale dovrebbe essere il taglio della spesa militare, che è il pugno di ferro che sottomette il mondo intero mentre corrompe la classe politica Usa e allontana qualunque surplus dai pressanti bisogni sociali.

L'ovvio punto debole dell'intera struttura politica, ideologica ed economica che è oggi al comando negli Stati Uniti è che il sistema è stato chiaramente incapace di andare incontro ai reali bisogni della gente. Anziché affrontare questi pressanti bisogni durante la crisi, l'enfasi dei padroni dell'economia cade sul salvataggio del capitale privato praticamente a qualunque costo. Tra ottobre 2008 e gennaio 2009 il governo federale ha fornito circa $ 160 miliardi in capitale, infusioni di denaro e di garanzie sul debito alla Bank of America, che aveva a fine gennaio un valore netto pari solo a una piccola frazione di tale cifra. Il resto è sceso giù per lo scarico.

La rapina dei fondi pubblici per salvare il capitale privato avviene oggi su una scala probabilmente mai vista prima. Ciò che dobbiamo sperare è una classe di lavoratori politicizzata e organizzata capace di comprendere e reagire a tale furto, e perciò di scegliere di ristrutturare la società e andare incontro a reali bisogni sociali ed egualitari. Il titolo di un recente articolo di apertura di Newsweek era "We Are All Socialists Now" ["Ora siamo tutti socialisti"]. Come si è capito i redattori di Newsweek si stavano semplicemente riferendo all'aumento della spesa pubblica che sta avvenendo di questi tempi, difficilmente un'indicazione di socialismo. Ma il fatto che ciò venga apertamente detto nei media mainstream mostra che siamo in un momento storico differente in cui le forze politiche radicali hanno la possibilità di farsi avanti.

MW: Mentre l'economia è diventata sempre più dipendente dalla finanziarizzazione per ottenere la crescita, il divario tra ricchi e poveri è diventato sempre più ampio. Come fa notare nel suo libro: "Negli Stati Uniti l'1% di più ricchi nel 2001 possedeva più del doppio dell'80% più povero della popolazione. Se ciò dovesse essere semplicemente misurato in termini di ricchezza finanziaria, l'1% più ricco possedeva quattro volte di più dell'80% più povero" (pag 130). Come sono riusciti gli appartenenti alla classe lavoratrice a mantenere la testa fuori dall'acqua mentre tutta questa ricchezza veniva girata verso i ricchi?

JBF: La risposta è piuttosto ovvia. Se la gente non riesce a mantenere il proprio standard di vita grazie al proprio reddito, prenderà a prestito dando come garanzia il proprio reddito e qualunque ricchezza possieda. Il risultato, se il reddito non sale, o se il valore dei beni che possiedono non aumenta, è che le persone diventeranno sempre più profondamente indebitate nel tentativo di rimanere a galla. Mi preoccupai della crescita del debito delle famiglie della classe lavoratrice già nel 2000 e feci uno studio sulla "Survey of Consumer Finances" che viene pubblicata ogni tre anni dal governo federale con un ritardo di tre anni nei dati. Questa è l'unica grossa fonte del governo federale che abbiamo sul debito delle famiglie diviso per gruppi di reddito, per poter determinare l'entità del debito delle diverse classi.

Ho pubblicato un articolo basato su questa ricerca, intitolato “Working-Class Households and the Burden of Debt” ["Le famiglie della classe lavoratrice e il fardello del debito"], nell'edizione di Monthly Review del maggio 2000. L'ho fatto seguire dopo sei anni da un articolo nella Monthly Review del maggio 2006 su "The Household Debt Bubble" ["La bolla del debito famigliare"] che sarebbe stato incluso in "The Great Financial Crisis". In esso scrissi che " la bolla immobiliare e l'entità dei consumi nell'economia sono collegati a quella che potrebbe essere definita 'la bolla del debito famigliare', che potrebbe facilmente esplodere come risultato di crescenti tassi di interesse e della stagnazione o del declino dei prezzi delle case". Naturalmente ciò è quanto è accaduto, e la ragione per cui questa crisi si è rivelata così dura è stata la distruzione attraverso i decenni delle finanze delle famiglie della classe lavoratrice, sulle cui spalle è avvenuta la finanziarizzazione.

MW: Potrebbe darci una definizione di "debito-defllazione" [“debt-deflation”] e spiegare il suo potenziale pericolo per l'economia? Mentre il credito continua a restringersi e i prezzi delle case affondano, non stiamo forse scendendo in una spirale defllazionaria? Pensa che la politica fiscale invertirà questo andamento o il pacchetto di stimolo è troppo piccolo per impedire che azioni e valori immobiliari continuino a cadere?

JBF: Il termine "debito-deflazione" è associato in particolare con il lavoro di Irving Fisher durante la Grande Depressione. Fisher nel 1933 scrisse un articolo per la rivista Econometrica intitolato "The Debt-Deflation Theory of Great Depressions" ["La teoria del debito-defllazione delle grandi depressioni"]. La deflazione nell'economia generale è una caduta del generale livello dei prezzi, qualcosa che non si vede negli Stati Uniti dalla Grande Depressione, ed è catastrofico nell'economia del capitale di monopolio (e ancora di più sotto il capitale di monopolio finanziario). In primo luogo, la defllazione (o disinflazione, cioè la riduzione dell'inflazione oltre quelli che la Federal Reserve definisce livelli "al di sotto dell'ottimale") significa che i margini di profitto delle aziende vengono ristretti, anche se la struttura di costo della produzione, e la produttività, rimangono le stesse. Sotto queste circostanze si riattiva la competizione nei prezzi, con le grandi aziende che si ritrovano realmente in una battaglia per la vita o la morte. Ciò genera anche pressioni per pesanti licenziamenti e riduzioni salariali, creando ogni genere di circoli viziosi.

Ma la vera paura della defllazione ha a che vedere con la struttura finanziaria enormemente gonfiata e con l'enorme carico di debito dell'economia. Sotto l'inflazione, che solitamente si assume che si sviluppi nelle economie capitaliste avanzate, i debiti vengono ripagati con dollari più piccoli (che valgono cioè di meno col tempo). In una economia defllazionaria, però, il debito deve essere ripagato con dollari più grandi (che valgono di più al passare del tempo). Ciò crea allora una spirale di debito-defllazione che accelera enormemente il crollo finanziario. Come spiega Fisher, "la defllazione causata dal debito reagisce sul debito. Ogni dollaro di debito che rimane non pagato diventa un dollaro più grande, e se il sovra-indebitamento con cui siamo partiti era sufficientemente grande, la liquidazione del debito non può mantenere il passo con la caduta dei prezzi che causa". Per dirla diversamente, citando "The Great Financial Crisis" (p. 116), " i prezzi cadono dal momento che i debitori vendono i loro beni per pagare i loro debiti, e mentre i prezzi cadono i debiti che rimangono devono essere ripagati in dollari che valgono di più di quelli presi in prestito, provocando altri fallimenti e portando a prezzi più bassi, e perciò a una spirale deflazionaria". Per controllare questa tendenza defllazionaria, la Federal Reserve e il Tesoro hanno cercato di rigonfiare l'economia con lo stampare denaro (eufemisticamente chiamato " attenuazione quantitativa"). Ma non sono riusciti nel loro intento e le spinte deflazionarie sono ancora molto forti, portando il presidente Obama ad avvertire, poco dopo la sua elezione, che " oggi rischiamo di cadere in una spirale deflazionaria che potrebbe aumentare ulteriormente il nostro massiccio debito".

Vale anche la pena di menzionare l'effetto che la defllazione ha sugli investimenti. Dal momento che il capitale fronteggia il fatto che tra qualche anno il livello dei prezzi potrebbe essere inferiore a oggi, i profitti aspettati sugli investimenti in nuove capacità produttive (che richiedono anni perché vengano costruite ma devono essere pagate ai prezzi correnti) ne risultano depressi, creando una più profonda stagnazione dell'accumulazione.

Il pacchetto di stimolo introdotto dall'amministrazione Obama è di gran lunga troppo piccolo per far risalire la domanda e rigonfiare l'economia in queste circostanze. Ammonta a meno di 400 miliardi l'anno, 40% dei quali in tagli alle tasse, cosicché l'aumento delle spese governative è minuscolo se paragonato alle dimensioni del buco creato dal drastico crollo dei consumi, degli investimenti e delle spese dei governi statali e locali. Esso risulta anche minuscolo in confronto al totale dei programmi di appoggio del governo federale, rivolti principalmente alle istituzioni finanziarie, che ammontano ora a più di 9700 miliardi di dollari sotto forma di infusioni di contante, di garanzie sul debito, scambi tra buoni del Tesoro e spazzatura finanziaria tossica, eccetera.

MW: Karl Marx sembra avere previsto il disastro finanziario che stiamo fronteggiando. Nel Capitale egli scrisse: "la superficialità dell'economia politica si mostra nel fatto che vede l'espansione e la contrazione del credito come la causa di periodiche alterazioni del ciclo industriale, mentre in realtà è un semplice sintomo di essi". Marx sembra in accordo con la sua teoria che il vero problema è più profondo, una stagnazione economica che costringe il capitale in surplus a cercare investimenti più proficui. Mentre le teorie monetariste di Milton Friedman sono oggi sotto devastante attacco, Keynes e Marx sembrano resistere piuttosto bene. Cosa intende dire Marx quando parla di "politica economica"?

JBF: Marx era un acuto analista delle crisi finanziarie del suo tempo e ne descrisse le loro principali caratteristiche. Però egli vedeva l'espansione finanziaria come un fenomeno tipico del picco di un boom, non come un fenomeno secolare. La finanziarizzazione, intesa come uno spostamento a lungo termine del centro di gravità dell'economia verso la finanza, con la speculazione finanziaria che cresce nei decenni, è una situazione completamente senza precedenti.

Marx e Engels posero grande enfasi sulla crescita delle società/aziende per azioni e sulla comparsa del mercato delle obbligazioni industriali, che iniziarono a comparire verso la fine del diciannovesimo secolo. Fu questa creazione del moderno mercato delle obbligazioni industriali il vero inizio dell'emergere della finanza come aspetto relativamente indipendente dell'economia capitalista di monopolio. Nell'economia vi sono essenzialmente due strutture di prezzo: la prima, nell'economia reale, legata alla produzione di beni e servizi, l'altra, nel regno finanziario, associata con l'assegnazione di un prezzo ai beni (diritti cartacei su una ricchezza). I due sistemi sono legati tra loro ma possono essere dissociati l'uno dall'altro per un periodo di tempo. Keynes scoprì negli anni 30 i pericoli di un'economia che era sempre più governata dall'assegnamento speculativo di un prezzo ai beni finanziari. Marx era un osservatore talmente acuto del capitalismo che già al suo tempo iniziò a vedere le contraddizioni emergenti tra il capitale monetario (o fittizio) e il capitale reale.

Una cosa che Marx sosteneva nel suo contesto era che gli incrementi nella speculazione finanziaria erano risposte alla stagnazione e al declino dell'economia reale, quando il capitale cercava disperatamente una via per mantenere ed espandere il suo surplus. Perciò egli scrisse che la "pletora di capitale monetario" in questi periodi era dovuta alle "difficoltà nell'impiego, tramite una mancanza di sfere d'investimento, cioè a causa di un eccesso nei rami produttivi" e mostrò nientemeno che le barriere immanenti all'espansione capitalista (citato in "The Great Financial Crisis"p. 39).

Marx rimane il fondamento più solido della critica all'economia capitalista sino ai nostri giorni. Ma il vero Keynes (da non confondersi con il Keynesianismo bastardizzato di oggi) è anche importante, dal momento che sottolinea quelli che egli definiva i "notevoli difetti" dell'economia capitalista: la tendenza ad una forte diseguaglianza e ad un'alto tasso di disoccupazione. Egli indicava anche i pericoli di un sistema legato alla finanza speculativa.

MW: La stagnazione dei salari e la diseguaglianza tra i redditi sono un diretto risultato della finanziarizzazione?

JBF: Direi l'opposto. La stagnazione dei salari e la crescente diseguaglianza di redditi e ricchezze sono le componenti della sottostante tendenza alla stagnazione. Entrambe hanno mostrato la tendenza a peggiorare nel tempo, dando come risultato tendenze ad una stagnazione più profonda all'interno dell'economia in generale. I salari reali negli Stati Uniti hanno avuto un picco nel 1971 sotto la presidenza di Richard Nixon, nel 2008 erano già caduti ai livelli del 1967 quando era presidente Lyndon Johnson. Ciò nonostante l'enorme crescita della produttività e l'espansione della ricchezza nei decenni trascorsi. Perciò questo è un segnale della "tendenza alla crescita del surplus" descritta da Baran e Sweezy, o di una tasso crescente del valore di surplus per usare i termini di Marx. Essa è stata accompagnata da una massiccia crescita dei redditi della ricchezza al vertice. Come affermiamo in "The Great Financial Crisis" (p. 130): " dal 1990 al 2002 per ogni dollaro in più guadagnato da coloro che sono il 90% più alto in quanto al reddito, coloro che sono lo 0,01% dei più ricchi (oggi circa 14.000 famiglie) ha guadagnato altri $ 18.000". Per il 2007 la diseguaglianza in reddito e ricchezza negli Stati Uniti aveva raggiunto le proporzioni del 1929, cioè il livello raggiunto appena prima del Crollo del Mercato Azionario nel 1929 che portò alla Grande Depressione.

Penso comunque che lei abbia ragione a dire che la finanziarizzazione ha reso la diseguaglianza di reddito e ricchezza peggiore, e ha contribuito alla stagnazione dei salari. Possiamo vedere il neoliberismo fondamentalmente come l'ideologia del capitale finanziario di monopolio, introdotto originariamente come la risposta della classe dominante alla stagnazione, e poi sempre più legata alla promozione della finanziarizzazione del capitale, essa stessa una risposta strutturale alla stagnazione. Il neoliberismo ha promosso incessantemente la distruzione dei sindacati, ha forzato verso il basso i salari, tagliato spese del welfare, portato alla deregolamentazione e al libero movimento di capitali e allo sviluppo di una nuova architettura finanziaria, eccetera.

Un modo per comprendere ciò è l'enorme bisogno di infusioni di contante per alimentare la superstruttura finanziaria che era vorace nella sua richiesta di nuovo capitale monetario, di cui aveva bisogno per sollevare ulteriori nuove montagne di debito e speculazione finanziaria. Assicurazioni, mercato immobiliare, fondi comuni hanno tutti fornito infusioni alla superstruttura finanziaria, così come ha fatto lo Stato. Tutti i limiti sono stati rimossi. Sotto queste circostanze i lavoratori sono stati incoraggiati ad usare le loro case come salvadanai per finanziare il consumo, le carte di credito sono state date agli adolescenti, i mutui subprime sono stati spacciati a coloro che avevano scarsa capacità di pagamento. Pacchetti pensionistici individuali sono stati spostati verso IRA [Individual Retirement Arrangement] legati al sistema finanziario speculativo. Tutto ciò portava i segni di un sistema che dà assuefazione. In queste circostanze anche l'economia reale, in particolare la produzione di beni e la manifattura, sono state decimate. Nell'introduzione di "The Great Financial Crisis" includiamo un grafico di tutto il periodo a partire dal 1960 che mostra la produzione di beni come percentuale del Pil in un declino lento e a lungo termine, mentre il debito come percentuale del Pil sale alle stelle nello stesso periodo. Tutto ciò significa una massiccia ridistribuzione, dai lavoratori verso il capitale e verso coloro che sono in cima alla piramide finanziaria.

MW: Nel vostro libro "The Great Financial Crisis", criticate le iniezioni di capitale di Paulson verso le banche affermando che, "al massimo acquistano il tempo necessario per liquidare in modo ordinario l'enorme massa di prestiti dubbi, restaurando la solvibilità ma ad un tasso di attività economica molto minore, quello di una seria recessione o di una depressione". Venerdì Timothy Geithner ha detto alla CNBC: "preserveremo il sistema posseduto e gestito dal settore privato". Ciò suggerisce che il segretario al Tesoro potrebbe non liquidare affatto i beni tossici, ma cercare di mantenere l'apparenza che queste banche affogate siano solventi. Che cosa pensa accadrà se Geithner si rifiuta di nazionalizzare le banche?

JBF: Non interpreterei l'affermazione di Geithner in quel modo. Piuttosto stiamo assistendo ad una delle più grande rapine della storia. Ho scritto della questione delle nazionalizzazioni nelle “Notes from the Editors” dell'edizione di marzo della Monthly Review . Tutti i tentativi di salvare il sistema finanziario ad oggi vanno nella direzione della nazionalizzazione. Il governo federale sta fornendo sempre più capitale e sta assumendo sempre più responsabilità finanziaria nelle banche. Però stanno facendo tutto ciò che possono per mantenere le banche in mani private, con il risultato di un tipo di nazionalizzazione de facto con un controllo privato de jure. Se il governo federale sarà alla fine forzato o no verso una completa nazionalizzazione (assumendo cioè il controllo diretto delle banche) è una grossa domanda. Ma anche ciò probabilmente non cambierà la natura di quanto sta accadendo, un classico caso di socializzazione delle perdite delle istituzioni finanziarie lasciando intoccati i massicci guadagni ancora nelle mani di coloro che più hanno approfittato del periodo più estremo di speculazione finanziaria.

Per avere un'idea di ciò che sta accadendo si deve capire che il governo federale, come ho già indicato, in questa crisi si è impegnato sin ora a dare 9700 miliardi di dollari in programmi di appoggio principalmente rivolti alle istituzioni finanziarie. La Federal Reserve (insieme col Tesoro) si è convertita in quella che è definita una “bad bank”. Ha dato i certificati del Tesoro in cambio di spazzatura finanziaria tossica come le Collateralized Debt Obligations. Come risultato la Federal Reserve è diventata l'ultima spiaggia bancaria per la spazzatura tossica mentre la percentuale di emissioni del Tesoro nel bilancio della Fed è calata dal 90% a circa il 20% nel corso della crisi, con la restante percentuale composta ormai da spazzatura finanziaria tossica.

Ovviamente una piena e diretta nazionalizzazione sarebbe molto più razionale di ciò. Però ci si deve ricordare del sistema di potere, economico e politico, con cui abbiamo a che fare oggi. Il classico caso di una piena nazionalizzazione bancaria è quello del capitalismo corporativista italiano degli anni 20 e 30, dovuto al regime fascista. Senza suggerire che siamo diretti in questa direzione, dovrebbe essere ormai chiaro da ciò che la nazionalizzazione stessa delle banche non è una panacea.

Il fatto che Geithner, la scelta di Obama per il posto di segretario al Tesoro, stia supervisionando l'enorme rapina in corso, probabilmente superiore a qualunque altro furto nella storia, mentre i comuni contribuenti pagano il conto, dovrebbe certamente portarci a fare domande sulla natura "progressista" della nuova amministrazione.

MW: L'ex presidente della Fed Alan Greenspan ha respinto ogni critica alle sue politiche monetarie affermando che nessuno avrebbe potuto vedere la mastodontica bolla del credito svilupparsi nel mercato immobiliare. Nel vostro libro, però, fate la seguente osservazione:" è stata la realtà della stagnazione economica iniziata negli anni 70...che ha portato all'emergere del nuovo genere di 'paradossale Keynesianismo finanziario' del nuovo regime capitalista finanziarizzato in cui la domanda economica era stimolata principalmente 'grazie a bolle nei beni'". L'affermazione suggerisce che la Fed sapeva esattamente cosa stava facendo mentre tagliava i tassi e creava una frenesia speculativa. Le bolle alimentate dal debito sono un modo per spostare la ricchezza da una classe all'altra evitando la stagnazione dell'economia sottostante. Questo problema può essere risolto tramite la regolamentazione e una migliore supervisione o è qualcosa di intrinseco al capitalismo stesso?

JBF: Greenspan sta ovviamente cercando un modo disperato di salvare la sua reputazione e di rimuovere qualunque sensazione che egli sia colpevole. Sono d'accordo nel dire che la Fed, sino un certo punto, sapeva cosa stava facendo, e promuoveva deliberatamente una bolla immobiliare, quella che Stephanie Pomboy ha definito “The Great Bubble Transfer” in seguito all'esplosione della bolla tecnologica della New Economy nel 2000. L'idea che nessuno abbia visto i pericoli è ovviamente falsa. Mi ricorda l'affermazione fatta da Paul Krugman per salvarsi la faccia nel suo libro "The Return of Depression Economics and the Crisis of 2008", cioè che mentre alcune persone pensavano che i problemi finanziari ed economici degli anni 30 potessero ripetersi, queste non erano "persone appropriate". Secondo Krugman, le "persone appropriate" come lui (cioè quelli che esprimono il consenso di coloro che sono al potere) sapevano che queste cose non potevano succedere, ma si sbagliavano. È vero, come dice Greenspan, che nessuno avrebbe potuto prevedere esattamente cosa sarebbe successo. E certamente vi erano molti paraocchi al vertice. Ma vi erano un sacco di avvertimenti e preoccupazioni. Per esempio scrissi un articolo (“The Great Fear”) per l'edizione dell'aprile 2005 di Monthly Review che faceva riferimento ai "crescenti tassi di interesse che minacciano un'esplosione della bolla immobliare che sostiene i consumi americani", come uno dei "pericoli chiave di una economia in stagnazione". Altri attenti osservatori dell'economia dicevano la stessa cosa.

Il Federal Reserve Board, infatti, in questi anni dibatteva al suo interno se adottare la politica di far esplodere le bolle nei beni prima che finissero ulteriormente fuori controllo. Ma Greenspan e Bernanke erano entrambi contro una operazione così pericolosa, affermando che ciò avrebbe potuto far crollare tutta l'instabile struttura finanziaria. Dal momento che non sapevano cosa fare con le bolle, semplicemente si sono seduti con le mani in mano e hanno cercato di alzare la voce col mercato. La visione dominante era che la Federal Reserve potesse bloccare una valanga finanziaria mettendo una roccia nel punto giusto nel momento in cui ci fosse stato segno di problemi. Perciò Bernanke andò avanti, chiuse gli occhi e pregò, alzando i tassi di interesse per restringere l'inflazione (un'azione richiesta dall'elite finanziaria), e il resto è storia.

In tutti i momenti sono stati quelli al comando delle istituzioni finanziarie a condurre il gioco, e la Fed ha assecondato i loro desideri. Lo stesso Greenspan non è uno stupido. Egli scrisse nel Challenge Magazine di Marzo-Aprile 1988 dei pericoli associati con le bolle immobiliari. Ma da presidente del Federal Reserve Board ha peresguito la finanziarizzazione fino in fondo, dal momento che per il sistema non vi erano altre opzioni. Non c'è bisogno di dire che tale finanziarizzazione era associata alle crescenti diseguaglianze in ricchezza e reddito all'interno del paese. Lo stesso debito è uno strumento di potere e coloro che stanno sul fondo vengono incatenati da esso, mentre quelli al vertice lo usano come leva per creare patrimoni. Il valore netto totale dei 400 americani più ricchi per Forbes (una crescente percentuale dei quali grazie alla finanza) è crescituo da 91.8 miliardi di dollari del 1982 ai 1200 miliardi di dollari del 2006, mentre gran parte delle persone trovavano sempre più difficile far quadrare i conti. Niente di tutto ciò è successo per caso. E' tutto intriseco del capitale monopolistico finanziario.

di John Bellamy Foster
è editore del Monthly Review e professore di sociologia presso la University of Oregon. E' coautore con Fred Magdoff di "The Great Financial Crisis: Causes and Consequences", recentemente pubblicato dalla Monthly Review Press.

07 marzo 2009

Vita da parlamentare. Privilegi extra

Pensione in anticipo, l'auto blu, l'indennità che migliora la vita: radiografia del Palazzo.
Dove tutto costa meno ed è più facile

Sarà un anno orribile questo, l'ha garantito ieri Giulio Tremonti. La fila dei disoccupati agli angoli delle fabbriche misura oramai esattamente la distanza che separa la moltitudine, di ogni ceto, razza, lingua e religione, dagli eletti. Segno dei tempi è il ragù politico, il piatto di pasta servito alla buvette dei senatori il cui costo - collassato a un euro e cinquanta centesimi per deliberata e generosa scelta del gestore del catering - è stato fatto subito risalire dal presidente del Senato a un euro e ottanta, più in linea e rispettoso dei sentimenti dell'opinione pubblica.

C'è una parola, una sola, che pone alcuni lavori fuori dal comune, li innalza e li tonifica: il privilegio. L'extra che cambia il corso della busta paga, consola la vita anche quando è sul punto di finire. E produce quel miracolo che appunto si definisce privilegio, frutto del diritto che cambia natura.

Tutto ha un prezzo. Il silenzio, per esempio. Stare zitti è una fatica e ha il giusto costo. E morire, oltre al dolore inconsolabile, comporta una serie infinita di pratiche e di cerimonie che vanno obbligatoriamente fatturate. L'Iva, la maledetta Iva.

Il premio alla carriera. Una questione a parte, senza volere entrare nel merito del tema che qui lambisce la terra e il cielo, è il pacchetto dei premi fine vita. Apriamo parentesi. Prima della morte, ma forse più dolorosa di essa, c'è la fine della carriera politica, la fine dei sogni e della gloria. Il politico che lascia ottiene un vitalizio. Lo dice la parola stessa: il vitalizio non è la pensione e quindi lo si può raccogliere, a certe condizioni, anche da giovani. E' qualcosa di diverso e, stando all'etimo, sicuramente di vitale.

Antonio Martusciello a soli 46 anni ha lasciato Montecitorio. Per quattordici anni di fila ha servito le Istituzioni e Forza Italia. Se riscatta quattro anni di contributi può godere di un vitalizio formidabile: 7.958 euro (lordi) mensili. E il 49enne Alfonso Pecoraro Scanio, 16 anni trascorsi a Montecitorio, con un minimo riscatto raggiunge il traguardo degli 8.836 euro (lordi) in tasca, senza temere i nuovi ricalcoli pensionistici, il famigerato scalone, espressione che indica ancora lavoro e ancora per tanti anni per i sessantenni.

Oltre al vitalizio, conquistato calcando la scena, a fine carriera si aggiunge un affidamento in danaro a titolo di "solidarietà" o di "reinserimento sociale". L'assegno è pari all'80 per cento dell'indennità per il numero degli anni in cui ha frequentato il Potere. Ti hanno cacciato dal Parlamento e ora? L'anziano Armando Cossutta ha ottenuto 345.600 euro, per esempio. Il più giovane Clemente Mastella 307.328 euro. Proprio Mastella, causa licenziamento, ha raccolto il dovuto: vitalizio (9600 euro lordi mensili) e assegno di solidarietà. Ma il reinserimento sociale non è riuscito, Clemente ha vagato meno di un anno e sta per tornare nel punto esatto da dove era partito.

L'indennità funeraria. Trombato e premiato perciò. L'indennità, e qui entriamo in una speciale categoria, accompagna la vita del vivo e permette di dare sollievo ai familiari qualora il de cuius abbia davvero deciso di smettere e per sempre. In Veneto si chiamava indennità funeraria. In Sicilia, forse per non dare nell'occhio, la tipologia si è classificata più proletariamente come "sussidio di lutto". Così, il deputato palermitano Giovanni Ardizzone non ha fatto mistero di aver avuto una qualche perplessità anche di natura scaramantica allorché, nel corso del suo mandato di questore dell'Assemblea siciliana, si è trovato a firmare un paio di provvedimenti che erogavano "sussidi di lutto". E ha scoperto, dopo aver chiesto delucidazioni, che nella ricca e antica collezione di decreti del consiglio di presidenza dell'Ars c'è un atto che concede una somma fino a 5 mila euro per le spese relative a funerali di deputati in carica o cessati dal mandato. Soldi ovviamente destinati alle famiglie del caro onorevole estinto. Se l'è cavata magnificamente Ardizzone: "Cosa dire? Noi parlamentari siamo previdenti: pensiamo al nostro futuro. Anche dopo la morte".

Nel 2007 per i "sussidi di lutto" in Sicilia sono stati spesi 36.151 euro. In Veneto non si sa, ma il presidente del consiglio regionale, il leghista Marino Finozzi, interrogato sul triste tema del trapasso, ebbe come un sobbalzo e sinceramente rispose: "Io penso che un contributo pubblico alle spese di funerale per una persona che ha speso 10, 15 o più anni della vita per servire le istituzioni e i cittadini non sia un grande scandalo".

Tocchiamo ferro e badiamo al presente. È un'ora grave, la recessione economica sta travolgendo consuetudini quasi secolari: il Quirinale ha detto addio a 37 corazzieri (da 260 passeranno a 223) le senatrici hanno visto abolito il loro assegno per il parrucchiere, un bonus mensile di 150 euro. "Sono ancora piccole cose", hanno scritto i senatori questori. Piccole ma che danno il segno di un'era nuova, e dei sacrifici che attendono davvero tutti.

La corsia preferenziale. Le piccole cose si fanno poi grandi col crescere delle responsabilità. Conoscete un privilegio più tondo ed esibito di una guida contromano? Il comune di Palermo ha deliberato che i politici, di ogni risma e colore, debbano essere agevolati nel loro movimento. Viaggeranno in corsia preferenziale, ridurranno a una legittima concessione contromano l'attesa di far presto e bene. Ogni cosa al suo posto e ogni responsabilità al livello che merita. Il 22 agosto scorso una circolare di palazzo Chigi ha riclassificato le urgenze e le potestà mutando nel profondo le condizioni del passaggio aereo di Stato. Romano Prodi aveva incautamente ristretto il numero dei beneficiati obbligando persino fior fiore di ministri a giustificare la propria richiesta di volare alto e bene. Silvio Berlusconi ha ricondotto la spesa nei suoi limiti fisiologici: qualche milione di euro in più si spenderà, e però vuoi mettere la resa? Efficienza e velocità per tutti. Quindi tutti imbarcati: premier e consiglieri, ministri e viceministri, persino sottosegretari. Quando e come chiedono, facendo attenzione solo alle coincidenze.

Il costo del silenzio. Bisogna capirsi - e una volta per tutte - dove finisce il privilegio e dove inizia il dovere. L'obbligo per esempio di tenere la bocca cucita. Quando i capi dei servizi segreti Emilio Del Mese, Niccolò Pollari e Mario Mori hanno lasciato il comando, l'Espresso - curioso - fece due conti sulla liquidazione straordinaria che avrebbero ricevuto: la fissò in un milione e ottocentomila euro. Tra le tante voci che avrebbero prodotto una pensione da favola (circa 31 mila euro lordi al mese) per una carriera quarantennale davvero straordinaria bisognò tener conto anche del tributo a una vita pericolosa e soprattutto silenziosa. Allo stipendio si aggiunge infatti, per chi opera nei servizi, un'indennità particolare di funzione che, tra gli addetti, viene definita "indennità di silenzio" e quasi raddoppia l'emolumento base. Voce che poi, alla fine della carriera, viene conteggiata per la quiescenza. Silenzio d'oro, compenso perpetuo. Ma è un trattamento riservato unicamente ai capi. I sottoposti, al momento della pensione, non si portano dietro quella ricca indennità.

Questi tempi moderni hanno anche impresso un'autentica accelerazione allo scambio di idee e di proposte. Con internet tutto si è fatto non solo più semplice ma straordinariamente veloce. E sia il Senato che la Camera consegnano a ciascun eletto, ad ogni inizio di legislatura, hardware e software necessari. Il parlamentare riceve il suo computer (che a fine mandato conserverà) in modo che ovunque si trovi, ovunque, sia nella condizione di lavorare. Qualche mese fa la signora Anna, disperata, (tre figli minorenni e senza lavoro) ha scritto una mail a tutti i parlamentari e ha invocato aiuto. Anna non esisteva e la sua disperazione era finta. Era un modo per testare l'apparato tecnologico in dotazione. Dal momento dell'invio al momento della lettura della mail sono trascorse in media due settimane. Il 42 per cento dei senatori aveva però e purtroppo la casella di posta piena. Alla signora Anna hanno alla fine risposto in 26 che, su 994 destinatari, rappresenta il 2,7 per cento. Non male.

Auto blu e super autista. A ciascuno il suo e ad alcuni autisti, per esempio, una retribuzione maiuscola, calcolata sul giusto: il rischio, la velocità, la fatica di guidare anche di notte. Di pochi giorni fa la notizia che la Camera dei deputati ha riconosciuto, dopo una annosa vertenza, il secondo livello retributivo ai suoi autisti. Porterà a 10.164 euro la retribuzione mensile lorda (dopo 35 anni di lavoro) a chi conduce l'auto blu. Più di quattromila euro netti al mese. Tre autisti dell'Atac ci vogliono per farne uno della Camera. Ma il Parlamento è un mondo a parte, non fa testo. Un bravo barbiere, se riesce a imboccare il portone di Montecitorio, supera in progressione e di molto lo stipendio di un magistrato d'appello (fermo a 98mila euro l'anno), e un operaio specializzato (tubista, elettricista) se ha la ventura di lavorare alla Camera è sicuramente nella condizione di raggiungere e superare lo stipendio di un professore universitario, persino di un cattedratico barone. Alla Camera ogni cosa ha costi elevatissimi, e persino le spese minute diventano mostruose: l'anno scorso 650 mila euro sono volati via proprio per la minutaglia, le spese vagabonde. Ma lì anche gli appendiabiti e chissà quale altro accessorio dei guardaroba (giacché le guardarobiere sono pagate a parte) sono valsi nell'ultimo bilancio un accantonamento monstre: 205 mila euro. Disse Goffredo Bettini, al momento di metter piede a Montecitorio: "Mio padre mi ha lasciato ricco. Sono diventato assai meno ricco quando per anni, come segretario del Pci di Roma non ho preso lo stipendio. Tuttavia il mio partito mi ha restituito i privilegi eleggendomi prima alla Regione e poi in Parlamento". Privilegiato, esatto. Tra le cento carezze parlamentari anche una voce destinata alla lingua, a parlar bene e a farsi intendere meglio. Per la formazione linguistica ai deputati investiti nel 2008 900mila euro. In Parlamento si parla, nevvero?

di Antonello Caporale

UK: buonuscita generosa

Per tanto, troppo tempo, le banche inglesi sono state gestite da avventurieri che, complici la mancanza di controlli pubblici degni di questo nome e un’assurda fede nella sostenibilità di un sistema affidabile quanto una bicicletta in equilibrio su una corda a 50 metri da terra, sono quasi riusciti a mandare un intero Paese a gambe all’aria. Risultato? Il Governo britannico, nell’ambito del piano di salvataggio delle banche del valore di 37 miliardi di sterline, ha acquisito il controllo di Northern Rock, Bradford&Bingley e di Royal Bank of Scotland. Detiene inoltre il 58% di Hbos e il 30% di Lloyds Tsb, ovvero il 43,4% del Lloyds Banking Group, gruppo nato il 13 gennaio scorso dall’acquisizione di HBOS da parte della concorrente Lloyds TSB.

L’operazione, annunciata già a settembre dello scorso anno, si è svolta sotto la regia del Governo britannico, che ha dribblato qualsiasi obiezione antitrust invocando l’interesse nazionale: il collasso di un gigante come HBOS (20% dei conti correnti inglesi) avrebbe infatti avuto conseguenze devastanti sul Paese. La HSBO è stata una banca gestita in un modo talmente demenziale che il suo modello organizzativo potrebbe essere studiato nelle università come la “summa” di tutte le pratiche viziose nel mercato del credito: rilevante esposizione sull’immobiliare, prestiti rischiosi a costruttori edili, a fondi di private equity traballanti e, ciliegina sulla torta, assunzione di rischi importanti nel mercato azionario. Quest’ultimo elemento, rischio di perdite capitali a parte, ha finito per danneggiare gravemente la capacità della banca di valutare accuratamente il rischio di credito dei suoi clienti, “drogata” come era dalle irrazionali quanto irresponsabili attese di lauti e “certi” guadagni sul mercato azionario.

L’altro ieri HSBO ha pubblicato i suoi risultati per il 2008, da cui emerge il terrificante numero di 10,8 miliardi di sterline di perdite; perdite, è bene ricordarlo, registrate prima che la recessione cominciasse a colpire la capacità di ripagare i debiti di clienti privati ed imprese debitrici. Il 2009, è chiaro, sarà anche peggiore, mentre la debolezza della soluzione Lloyds TSB sta emergendo in tutta la sua drammaticità: il nuovo azionista, che già al momento dell’acquisizione aveva una stazza molto minore della banca acquistata (8% del mercato contro oltre il 20% di HSBO), semplicemente non ha le spalle robuste abbastanza per coprire il bagno di sangue atteso per quest’anno. Per avere un’idea della gravità del problema è sufficiente sapere che il gruppo nel suo complesso detiene un quarto dei conti bancari e poco meno di un terzo dei mutui in Gran Bretagna. Per questa ragione Lloyds TSB sta discutendo con il Governo britannico un piano di garanzia pubblica su ben 250 miliardi di sterline dell’attivo (si fa per dire) della banca.

Il governo sta inoltre studiando un simile schema di garanzia sulle attività di Royal Bank of Scotland, che dovrebbe coprire i 325 miliardi di sterline di attività “tossiche” sui suoi libri: secondo la BBC, l’assicurazione pubblica dovrebbe costare alla banca circa 6,5 miliardi di sterline di commissioni e prevedere una rilevante franchigia; infatti i primi 19,5 miliardi di sterline di perdite resteranno comunque sul conto economico della banca. Anche Royal Bank of Scotland ha pubblicato qualche giorno fa i suoi risultati economici: 24,1 miliardi di sterline di perdite, di cui 16,2 causati da rettifiche sul valore di attività “non performanti” effettuate anche sulle controllate estere ABN AMRO e Charter One; le perdite “vere”, attribuibili alla sola banca inglese, sono circa 7,9 miliardi. I numeri di Royal Bank of Scotland sono un record negativo in grado di surclassare Vodafone, che nel 2006 e nel 2002 presentò conti economici da brivido (rispettivamente -14,9 e -13,5 miliardi di sterline); in questo podio della vergogna, il quarto posto spetta a HBOS, con i suoi –10,8 miliardi del 2008.

Insomma, il comportamento irresponsabile dei direttori delle grandi banche inglesi non solo hanno finito per distruggere valore, ma è riuscito a produrre una situazione paradossale che sovverte qualsiasi ortodossia liberista: banche che presentano bilanci con rossi grandi quanto una manovra di governo, il governo costretto a scendere in campo mettendo sul piatto soldi contanti (33 miliardi di sterline pompate nella sola Royal Bank of Scotland in due tranche) e/o per garantire attività bancarie per centinaia di milioni di sterline (le sole fideiussioni prestate per Royal Bank of Scotland e HBOS valgono 600 miliardi di sterline).

Ci si aspetterebbe che i direttori delle banche nazionalizzate, ovviamente tutti silurati, mostrassero un atteggiamento dimesso e contrito. Gli esempi che seguono mostrano invece che la loro arroganza non è stata intaccata nemmeno dal manifesto disastro globale prodotto dalla loro disinvolta assunzione di rischi colossali. Ad esempio, Sir Fred Goodwin, ex CEO di Royal Bank of Scotland, quando è stato cortesemente accompagnato all’uscita, aveva in tasca un accordo che gli ha riconosciuto una somma di 16 milioni di sterline, fruibile nella forma di un vitalizio di 650.000 sterline all’anno. Stephen Hester, il nuovo capo della banca ha dichiarato che il trattamento del suo predecessore è stato regolato da un contratto di anche il Governo era parte.

Una bella tegola in testa per l’esecutivo di Gordon Brown, che, come nota correttamente il ministro ombra delle finanze conservatore, “o sapeva e non ha reagito, oppure non sapeva e non è stato in grado di porre le domande giuste; comunque si guardi alla faccenda, questa pensione oscena è inaccettabile e il governo deve renderne conto”. Di fronte all’ennesima dimostrazione di insipienza, Gordon Brown ha tuonato: “Il comportamento di Royal Bank of Scotland mi fa arrabbiare e fa arrabbiare il paese: faremo pulizia nelle banche, in modo che non niente di simile accada in futuro”. Di fronte all’insistenza di Goodwin, che apertamente rifiuta di mollare l’osso, assistiamo anche all’imbarazzante boutade di Brown, che minaccia il banchiere di fargli revocare il titolo di baronetto…

Del resto, Goodwin non è il solo: sembra infatti che anche Peter Cummings, uno dei boss della HBOS, noto per concludere affari con una semplice stretta di mano e responsabile degli investimenti immobiliari che hanno affondato la banca, ha lasciato il suo impiego con una buonuscita di 600.000 sterline più un accordo pensionistico del valore attuale di 5,9 milioni di sterline. Tutto questo per dire che il governo inglese non riesce a tenere sotto controllo il demonio che si nasconde dietro le banche d’affari nemmeno una volta divenutone il padrone.
di Mario Braconi

08 marzo 2009

E' necessaria una rivolta per riottenere il controllo popolare della politica economica?

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"Il salvataggio attuale del sistema sta avvenendo con i soldi dei contribuenti ma senza che l'opinione pubblica abbia voce in capitolo. E' perciò necessaria una rivolta per riottenere il controllo popolare della politica economica."

MW: La crisi finanziaria si sta rapidamente trasformando in una crisi politica. Già dei governi, in Islanda e in Lettonia, sono caduti, e il crollo globale sta appena iniziando ad accelerare. Tafferugli e violenza di strada sono esplosi in Grecia, Lettonia e Lituania, e proteste dei lavoratori sono diventate comuni in tutta l'Unione Europea. Con la disoccupazione che salirà alle stelle e l'attività economica che rimarrà stagnante, i paesi vedranno probabilmente una maggiore instabilità sociale. Come si può prendere del malcontento e della rabbia da tempo sedimentati e trasformarli in un movimento politico per un cambiamento strutturale?

JBF: La prima cosa è riconoscere che ci siamo ritrovati improvvisamente in un periodo storico differente. Una delle mie citazioni favorite proviene dal film "Burn!" del 1969, di Gillo Pontecorvo, il cui protagonista, William Walker (impersonato da Marlon Brando) afferma: "molto spesso, tra un periodo storico e un altro,10 anni improvvisamente potrebbero essere sufficienti a rivelare le contraddizioni di un intero secolo". Noi stiamo vivendo in un tale periodo; non solo a causa della Grande Crisi Finanziaria e di ciò che il FMI oggi definisce depressione nelle economie capitaliste avanzate, ma anche a causa della crisi ecologica globale che durante gli ultimi 10 anni è accelerata uscendo dall'ordinario controllo, e a causa del riapparire dell'" imperialismo nudo". Ciò che aveva senso 10 anni fa ora è un non-senso. Nuovi pericoli e nuove possibilità si stanno aprendo. Sta emergendo un genere di lotta completamente differente.

Nella foto: in Islanda, a seguito della crisi finanziaria, dure proteste hanno costretto il governo alle dimissioni.

L'improvvisa caduta dei governi in Islanda e in Lettonia come risultato delle proteste contro il furto finanziario è un fatto notevole, così come lo sono le diffuse rivolte in Grecia e in tutta l'Unione Europea, con milioni di persone nelle strade. Gli scioperi generali in Guadeloupe e Martinique, le Antille francesi, e l'appoggio fornito a questi movimenti dal Nuovo Partito Anticapitalista Francese [NPA, "Nouveau parti anticapitaliste", N.d.t.] sono degli enormi passi avanti. Di fatto gran parte del mondo è in fermento. I latinoamericani sono impegnati in una rivolta a grande scala contro il neoliberismo, guidata dalla rivoluzione bollivariana del Venezuela, e dall'aspirazione a un nuovo socialismo per il ventunesimo secolo (immaginato anche in Bolivia, Ecuador e Cuba). La rivoluzione nepalese ha offerto una nuova speranza in Asia. Lotte sociali di prima grandezza stanno avvenendo nelle economie emergenti come il Brasile, in Messico e l'India. Anche la Cina sta assistendo a un fermento.

L'unico posto al mondo in cui questo fermento storico sembra non avere un effetto significativo è, attualmente, negli Stati Uniti d'America. Ciò può essere spiegato da due ragioni. In primo luogo gli Stati Uniti come centro dell'impero mondiale sono una fortezza di conservatorismo. In secondo luogo l'elezione dell'amministrazione Obama ha confuso le forze progressiste portando all'assurda nozione che i democratici sotto Obama creeranno un nuovo New Deal senza bisogno della pressione proveniente da una rivolta sottostante. Nel frattempo, sotto lo sguardo di Obama e con l'aiuto dei suoi consiglieri scelti, grandi quantità di fondi statali vengono iniettati nel sistema finanziario a beneficio del capitale privato.

Ciò di cui c'è bisogno negli Stati Uniti oggi, sosteniamo in "The Great Financial Crisis", è un rinnovamento del concetto classico di economia politica (con la sua prospettiva di classe), attraverso il quale si giunge a comprendere che l'economia è soggetta al controllo pubblico, e dovrebbe essere strappata al controllo della classe dominante. Il salvataggio attuale del sistema sta avvenendo con i soldi dei contribuenti ma senza che l'opinione pubblica abbia voce in capitolo. E' perciò necessaria una rivolta per riottenere il controllo popolare della politica economica.

È possibile iniziare con la richiesta per un nuovo New Deal, che abbia le radici nella migliore eredità dell'amministrazione Roosevelt negli anni 30, in particolare nella Works Progress Administration. Ma, come sosteniamo io e Robert McChesney nell'articolo “A New New Deal Under Obama?” apparso nell'edizione di febbraio 2009 della Monthly Review , la lotta deve andare rapidamente al di là di ciò verso un'espansione dei diritti dei lavoratori secondo principi socialisti, rompendo con la logica del capitale. Perché ciò accada deve esserci una grande rivolta dal basso almeno delle dimensioni del movimento di sindacalizzazione industriale degli anni 30 che creò una nuova forza politica nel paese, successivamente distrutta nell'era McCarthy. La storia di questa lotta è raccontata nel classico di David Milton "The Politics of U.S. Labor", che sottolinea anche che il nascente movimento dei lavoratori era guidato da sindacalisti radicali e socialisti.

È importante, come ha spiegato István Mészáros nel suo "Beyond Capital", che le forze politiche radicali che nascono in questo momento storico non si facciano distrarre dal tentativo di salvare il sistema esistente, ma siano dirette a trascenderlo. Come ha scritto Mészáros: "Per avere successo nel suo scopo originario, la politica radicale deve portare le sue aspirazioni all'altezza della crisi, nella forma di efficaci poteri decisionali per il corpo sociale stesso, a tutti i livelli e in tutte le aree, economia compresa, da cui emaneranno successivamente richieste politiche e materiali".

Negli Stati Uniti lo scopo primario di qualunque politica radicale dovrebbe essere il taglio della spesa militare, che è il pugno di ferro che sottomette il mondo intero mentre corrompe la classe politica Usa e allontana qualunque surplus dai pressanti bisogni sociali.

L'ovvio punto debole dell'intera struttura politica, ideologica ed economica che è oggi al comando negli Stati Uniti è che il sistema è stato chiaramente incapace di andare incontro ai reali bisogni della gente. Anziché affrontare questi pressanti bisogni durante la crisi, l'enfasi dei padroni dell'economia cade sul salvataggio del capitale privato praticamente a qualunque costo. Tra ottobre 2008 e gennaio 2009 il governo federale ha fornito circa $ 160 miliardi in capitale, infusioni di denaro e di garanzie sul debito alla Bank of America, che aveva a fine gennaio un valore netto pari solo a una piccola frazione di tale cifra. Il resto è sceso giù per lo scarico.

La rapina dei fondi pubblici per salvare il capitale privato avviene oggi su una scala probabilmente mai vista prima. Ciò che dobbiamo sperare è una classe di lavoratori politicizzata e organizzata capace di comprendere e reagire a tale furto, e perciò di scegliere di ristrutturare la società e andare incontro a reali bisogni sociali ed egualitari. Il titolo di un recente articolo di apertura di Newsweek era "We Are All Socialists Now" ["Ora siamo tutti socialisti"]. Come si è capito i redattori di Newsweek si stavano semplicemente riferendo all'aumento della spesa pubblica che sta avvenendo di questi tempi, difficilmente un'indicazione di socialismo. Ma il fatto che ciò venga apertamente detto nei media mainstream mostra che siamo in un momento storico differente in cui le forze politiche radicali hanno la possibilità di farsi avanti.

MW: Mentre l'economia è diventata sempre più dipendente dalla finanziarizzazione per ottenere la crescita, il divario tra ricchi e poveri è diventato sempre più ampio. Come fa notare nel suo libro: "Negli Stati Uniti l'1% di più ricchi nel 2001 possedeva più del doppio dell'80% più povero della popolazione. Se ciò dovesse essere semplicemente misurato in termini di ricchezza finanziaria, l'1% più ricco possedeva quattro volte di più dell'80% più povero" (pag 130). Come sono riusciti gli appartenenti alla classe lavoratrice a mantenere la testa fuori dall'acqua mentre tutta questa ricchezza veniva girata verso i ricchi?

JBF: La risposta è piuttosto ovvia. Se la gente non riesce a mantenere il proprio standard di vita grazie al proprio reddito, prenderà a prestito dando come garanzia il proprio reddito e qualunque ricchezza possieda. Il risultato, se il reddito non sale, o se il valore dei beni che possiedono non aumenta, è che le persone diventeranno sempre più profondamente indebitate nel tentativo di rimanere a galla. Mi preoccupai della crescita del debito delle famiglie della classe lavoratrice già nel 2000 e feci uno studio sulla "Survey of Consumer Finances" che viene pubblicata ogni tre anni dal governo federale con un ritardo di tre anni nei dati. Questa è l'unica grossa fonte del governo federale che abbiamo sul debito delle famiglie diviso per gruppi di reddito, per poter determinare l'entità del debito delle diverse classi.

Ho pubblicato un articolo basato su questa ricerca, intitolato “Working-Class Households and the Burden of Debt” ["Le famiglie della classe lavoratrice e il fardello del debito"], nell'edizione di Monthly Review del maggio 2000. L'ho fatto seguire dopo sei anni da un articolo nella Monthly Review del maggio 2006 su "The Household Debt Bubble" ["La bolla del debito famigliare"] che sarebbe stato incluso in "The Great Financial Crisis". In esso scrissi che " la bolla immobiliare e l'entità dei consumi nell'economia sono collegati a quella che potrebbe essere definita 'la bolla del debito famigliare', che potrebbe facilmente esplodere come risultato di crescenti tassi di interesse e della stagnazione o del declino dei prezzi delle case". Naturalmente ciò è quanto è accaduto, e la ragione per cui questa crisi si è rivelata così dura è stata la distruzione attraverso i decenni delle finanze delle famiglie della classe lavoratrice, sulle cui spalle è avvenuta la finanziarizzazione.

MW: Potrebbe darci una definizione di "debito-defllazione" [“debt-deflation”] e spiegare il suo potenziale pericolo per l'economia? Mentre il credito continua a restringersi e i prezzi delle case affondano, non stiamo forse scendendo in una spirale defllazionaria? Pensa che la politica fiscale invertirà questo andamento o il pacchetto di stimolo è troppo piccolo per impedire che azioni e valori immobiliari continuino a cadere?

JBF: Il termine "debito-deflazione" è associato in particolare con il lavoro di Irving Fisher durante la Grande Depressione. Fisher nel 1933 scrisse un articolo per la rivista Econometrica intitolato "The Debt-Deflation Theory of Great Depressions" ["La teoria del debito-defllazione delle grandi depressioni"]. La deflazione nell'economia generale è una caduta del generale livello dei prezzi, qualcosa che non si vede negli Stati Uniti dalla Grande Depressione, ed è catastrofico nell'economia del capitale di monopolio (e ancora di più sotto il capitale di monopolio finanziario). In primo luogo, la defllazione (o disinflazione, cioè la riduzione dell'inflazione oltre quelli che la Federal Reserve definisce livelli "al di sotto dell'ottimale") significa che i margini di profitto delle aziende vengono ristretti, anche se la struttura di costo della produzione, e la produttività, rimangono le stesse. Sotto queste circostanze si riattiva la competizione nei prezzi, con le grandi aziende che si ritrovano realmente in una battaglia per la vita o la morte. Ciò genera anche pressioni per pesanti licenziamenti e riduzioni salariali, creando ogni genere di circoli viziosi.

Ma la vera paura della defllazione ha a che vedere con la struttura finanziaria enormemente gonfiata e con l'enorme carico di debito dell'economia. Sotto l'inflazione, che solitamente si assume che si sviluppi nelle economie capitaliste avanzate, i debiti vengono ripagati con dollari più piccoli (che valgono cioè di meno col tempo). In una economia defllazionaria, però, il debito deve essere ripagato con dollari più grandi (che valgono di più al passare del tempo). Ciò crea allora una spirale di debito-defllazione che accelera enormemente il crollo finanziario. Come spiega Fisher, "la defllazione causata dal debito reagisce sul debito. Ogni dollaro di debito che rimane non pagato diventa un dollaro più grande, e se il sovra-indebitamento con cui siamo partiti era sufficientemente grande, la liquidazione del debito non può mantenere il passo con la caduta dei prezzi che causa". Per dirla diversamente, citando "The Great Financial Crisis" (p. 116), " i prezzi cadono dal momento che i debitori vendono i loro beni per pagare i loro debiti, e mentre i prezzi cadono i debiti che rimangono devono essere ripagati in dollari che valgono di più di quelli presi in prestito, provocando altri fallimenti e portando a prezzi più bassi, e perciò a una spirale deflazionaria". Per controllare questa tendenza defllazionaria, la Federal Reserve e il Tesoro hanno cercato di rigonfiare l'economia con lo stampare denaro (eufemisticamente chiamato " attenuazione quantitativa"). Ma non sono riusciti nel loro intento e le spinte deflazionarie sono ancora molto forti, portando il presidente Obama ad avvertire, poco dopo la sua elezione, che " oggi rischiamo di cadere in una spirale deflazionaria che potrebbe aumentare ulteriormente il nostro massiccio debito".

Vale anche la pena di menzionare l'effetto che la defllazione ha sugli investimenti. Dal momento che il capitale fronteggia il fatto che tra qualche anno il livello dei prezzi potrebbe essere inferiore a oggi, i profitti aspettati sugli investimenti in nuove capacità produttive (che richiedono anni perché vengano costruite ma devono essere pagate ai prezzi correnti) ne risultano depressi, creando una più profonda stagnazione dell'accumulazione.

Il pacchetto di stimolo introdotto dall'amministrazione Obama è di gran lunga troppo piccolo per far risalire la domanda e rigonfiare l'economia in queste circostanze. Ammonta a meno di 400 miliardi l'anno, 40% dei quali in tagli alle tasse, cosicché l'aumento delle spese governative è minuscolo se paragonato alle dimensioni del buco creato dal drastico crollo dei consumi, degli investimenti e delle spese dei governi statali e locali. Esso risulta anche minuscolo in confronto al totale dei programmi di appoggio del governo federale, rivolti principalmente alle istituzioni finanziarie, che ammontano ora a più di 9700 miliardi di dollari sotto forma di infusioni di contante, di garanzie sul debito, scambi tra buoni del Tesoro e spazzatura finanziaria tossica, eccetera.

MW: Karl Marx sembra avere previsto il disastro finanziario che stiamo fronteggiando. Nel Capitale egli scrisse: "la superficialità dell'economia politica si mostra nel fatto che vede l'espansione e la contrazione del credito come la causa di periodiche alterazioni del ciclo industriale, mentre in realtà è un semplice sintomo di essi". Marx sembra in accordo con la sua teoria che il vero problema è più profondo, una stagnazione economica che costringe il capitale in surplus a cercare investimenti più proficui. Mentre le teorie monetariste di Milton Friedman sono oggi sotto devastante attacco, Keynes e Marx sembrano resistere piuttosto bene. Cosa intende dire Marx quando parla di "politica economica"?

JBF: Marx era un acuto analista delle crisi finanziarie del suo tempo e ne descrisse le loro principali caratteristiche. Però egli vedeva l'espansione finanziaria come un fenomeno tipico del picco di un boom, non come un fenomeno secolare. La finanziarizzazione, intesa come uno spostamento a lungo termine del centro di gravità dell'economia verso la finanza, con la speculazione finanziaria che cresce nei decenni, è una situazione completamente senza precedenti.

Marx e Engels posero grande enfasi sulla crescita delle società/aziende per azioni e sulla comparsa del mercato delle obbligazioni industriali, che iniziarono a comparire verso la fine del diciannovesimo secolo. Fu questa creazione del moderno mercato delle obbligazioni industriali il vero inizio dell'emergere della finanza come aspetto relativamente indipendente dell'economia capitalista di monopolio. Nell'economia vi sono essenzialmente due strutture di prezzo: la prima, nell'economia reale, legata alla produzione di beni e servizi, l'altra, nel regno finanziario, associata con l'assegnazione di un prezzo ai beni (diritti cartacei su una ricchezza). I due sistemi sono legati tra loro ma possono essere dissociati l'uno dall'altro per un periodo di tempo. Keynes scoprì negli anni 30 i pericoli di un'economia che era sempre più governata dall'assegnamento speculativo di un prezzo ai beni finanziari. Marx era un osservatore talmente acuto del capitalismo che già al suo tempo iniziò a vedere le contraddizioni emergenti tra il capitale monetario (o fittizio) e il capitale reale.

Una cosa che Marx sosteneva nel suo contesto era che gli incrementi nella speculazione finanziaria erano risposte alla stagnazione e al declino dell'economia reale, quando il capitale cercava disperatamente una via per mantenere ed espandere il suo surplus. Perciò egli scrisse che la "pletora di capitale monetario" in questi periodi era dovuta alle "difficoltà nell'impiego, tramite una mancanza di sfere d'investimento, cioè a causa di un eccesso nei rami produttivi" e mostrò nientemeno che le barriere immanenti all'espansione capitalista (citato in "The Great Financial Crisis"p. 39).

Marx rimane il fondamento più solido della critica all'economia capitalista sino ai nostri giorni. Ma il vero Keynes (da non confondersi con il Keynesianismo bastardizzato di oggi) è anche importante, dal momento che sottolinea quelli che egli definiva i "notevoli difetti" dell'economia capitalista: la tendenza ad una forte diseguaglianza e ad un'alto tasso di disoccupazione. Egli indicava anche i pericoli di un sistema legato alla finanza speculativa.

MW: La stagnazione dei salari e la diseguaglianza tra i redditi sono un diretto risultato della finanziarizzazione?

JBF: Direi l'opposto. La stagnazione dei salari e la crescente diseguaglianza di redditi e ricchezze sono le componenti della sottostante tendenza alla stagnazione. Entrambe hanno mostrato la tendenza a peggiorare nel tempo, dando come risultato tendenze ad una stagnazione più profonda all'interno dell'economia in generale. I salari reali negli Stati Uniti hanno avuto un picco nel 1971 sotto la presidenza di Richard Nixon, nel 2008 erano già caduti ai livelli del 1967 quando era presidente Lyndon Johnson. Ciò nonostante l'enorme crescita della produttività e l'espansione della ricchezza nei decenni trascorsi. Perciò questo è un segnale della "tendenza alla crescita del surplus" descritta da Baran e Sweezy, o di una tasso crescente del valore di surplus per usare i termini di Marx. Essa è stata accompagnata da una massiccia crescita dei redditi della ricchezza al vertice. Come affermiamo in "The Great Financial Crisis" (p. 130): " dal 1990 al 2002 per ogni dollaro in più guadagnato da coloro che sono il 90% più alto in quanto al reddito, coloro che sono lo 0,01% dei più ricchi (oggi circa 14.000 famiglie) ha guadagnato altri $ 18.000". Per il 2007 la diseguaglianza in reddito e ricchezza negli Stati Uniti aveva raggiunto le proporzioni del 1929, cioè il livello raggiunto appena prima del Crollo del Mercato Azionario nel 1929 che portò alla Grande Depressione.

Penso comunque che lei abbia ragione a dire che la finanziarizzazione ha reso la diseguaglianza di reddito e ricchezza peggiore, e ha contribuito alla stagnazione dei salari. Possiamo vedere il neoliberismo fondamentalmente come l'ideologia del capitale finanziario di monopolio, introdotto originariamente come la risposta della classe dominante alla stagnazione, e poi sempre più legata alla promozione della finanziarizzazione del capitale, essa stessa una risposta strutturale alla stagnazione. Il neoliberismo ha promosso incessantemente la distruzione dei sindacati, ha forzato verso il basso i salari, tagliato spese del welfare, portato alla deregolamentazione e al libero movimento di capitali e allo sviluppo di una nuova architettura finanziaria, eccetera.

Un modo per comprendere ciò è l'enorme bisogno di infusioni di contante per alimentare la superstruttura finanziaria che era vorace nella sua richiesta di nuovo capitale monetario, di cui aveva bisogno per sollevare ulteriori nuove montagne di debito e speculazione finanziaria. Assicurazioni, mercato immobiliare, fondi comuni hanno tutti fornito infusioni alla superstruttura finanziaria, così come ha fatto lo Stato. Tutti i limiti sono stati rimossi. Sotto queste circostanze i lavoratori sono stati incoraggiati ad usare le loro case come salvadanai per finanziare il consumo, le carte di credito sono state date agli adolescenti, i mutui subprime sono stati spacciati a coloro che avevano scarsa capacità di pagamento. Pacchetti pensionistici individuali sono stati spostati verso IRA [Individual Retirement Arrangement] legati al sistema finanziario speculativo. Tutto ciò portava i segni di un sistema che dà assuefazione. In queste circostanze anche l'economia reale, in particolare la produzione di beni e la manifattura, sono state decimate. Nell'introduzione di "The Great Financial Crisis" includiamo un grafico di tutto il periodo a partire dal 1960 che mostra la produzione di beni come percentuale del Pil in un declino lento e a lungo termine, mentre il debito come percentuale del Pil sale alle stelle nello stesso periodo. Tutto ciò significa una massiccia ridistribuzione, dai lavoratori verso il capitale e verso coloro che sono in cima alla piramide finanziaria.

MW: Nel vostro libro "The Great Financial Crisis", criticate le iniezioni di capitale di Paulson verso le banche affermando che, "al massimo acquistano il tempo necessario per liquidare in modo ordinario l'enorme massa di prestiti dubbi, restaurando la solvibilità ma ad un tasso di attività economica molto minore, quello di una seria recessione o di una depressione". Venerdì Timothy Geithner ha detto alla CNBC: "preserveremo il sistema posseduto e gestito dal settore privato". Ciò suggerisce che il segretario al Tesoro potrebbe non liquidare affatto i beni tossici, ma cercare di mantenere l'apparenza che queste banche affogate siano solventi. Che cosa pensa accadrà se Geithner si rifiuta di nazionalizzare le banche?

JBF: Non interpreterei l'affermazione di Geithner in quel modo. Piuttosto stiamo assistendo ad una delle più grande rapine della storia. Ho scritto della questione delle nazionalizzazioni nelle “Notes from the Editors” dell'edizione di marzo della Monthly Review . Tutti i tentativi di salvare il sistema finanziario ad oggi vanno nella direzione della nazionalizzazione. Il governo federale sta fornendo sempre più capitale e sta assumendo sempre più responsabilità finanziaria nelle banche. Però stanno facendo tutto ciò che possono per mantenere le banche in mani private, con il risultato di un tipo di nazionalizzazione de facto con un controllo privato de jure. Se il governo federale sarà alla fine forzato o no verso una completa nazionalizzazione (assumendo cioè il controllo diretto delle banche) è una grossa domanda. Ma anche ciò probabilmente non cambierà la natura di quanto sta accadendo, un classico caso di socializzazione delle perdite delle istituzioni finanziarie lasciando intoccati i massicci guadagni ancora nelle mani di coloro che più hanno approfittato del periodo più estremo di speculazione finanziaria.

Per avere un'idea di ciò che sta accadendo si deve capire che il governo federale, come ho già indicato, in questa crisi si è impegnato sin ora a dare 9700 miliardi di dollari in programmi di appoggio principalmente rivolti alle istituzioni finanziarie. La Federal Reserve (insieme col Tesoro) si è convertita in quella che è definita una “bad bank”. Ha dato i certificati del Tesoro in cambio di spazzatura finanziaria tossica come le Collateralized Debt Obligations. Come risultato la Federal Reserve è diventata l'ultima spiaggia bancaria per la spazzatura tossica mentre la percentuale di emissioni del Tesoro nel bilancio della Fed è calata dal 90% a circa il 20% nel corso della crisi, con la restante percentuale composta ormai da spazzatura finanziaria tossica.

Ovviamente una piena e diretta nazionalizzazione sarebbe molto più razionale di ciò. Però ci si deve ricordare del sistema di potere, economico e politico, con cui abbiamo a che fare oggi. Il classico caso di una piena nazionalizzazione bancaria è quello del capitalismo corporativista italiano degli anni 20 e 30, dovuto al regime fascista. Senza suggerire che siamo diretti in questa direzione, dovrebbe essere ormai chiaro da ciò che la nazionalizzazione stessa delle banche non è una panacea.

Il fatto che Geithner, la scelta di Obama per il posto di segretario al Tesoro, stia supervisionando l'enorme rapina in corso, probabilmente superiore a qualunque altro furto nella storia, mentre i comuni contribuenti pagano il conto, dovrebbe certamente portarci a fare domande sulla natura "progressista" della nuova amministrazione.

MW: L'ex presidente della Fed Alan Greenspan ha respinto ogni critica alle sue politiche monetarie affermando che nessuno avrebbe potuto vedere la mastodontica bolla del credito svilupparsi nel mercato immobiliare. Nel vostro libro, però, fate la seguente osservazione:" è stata la realtà della stagnazione economica iniziata negli anni 70...che ha portato all'emergere del nuovo genere di 'paradossale Keynesianismo finanziario' del nuovo regime capitalista finanziarizzato in cui la domanda economica era stimolata principalmente 'grazie a bolle nei beni'". L'affermazione suggerisce che la Fed sapeva esattamente cosa stava facendo mentre tagliava i tassi e creava una frenesia speculativa. Le bolle alimentate dal debito sono un modo per spostare la ricchezza da una classe all'altra evitando la stagnazione dell'economia sottostante. Questo problema può essere risolto tramite la regolamentazione e una migliore supervisione o è qualcosa di intrinseco al capitalismo stesso?

JBF: Greenspan sta ovviamente cercando un modo disperato di salvare la sua reputazione e di rimuovere qualunque sensazione che egli sia colpevole. Sono d'accordo nel dire che la Fed, sino un certo punto, sapeva cosa stava facendo, e promuoveva deliberatamente una bolla immobiliare, quella che Stephanie Pomboy ha definito “The Great Bubble Transfer” in seguito all'esplosione della bolla tecnologica della New Economy nel 2000. L'idea che nessuno abbia visto i pericoli è ovviamente falsa. Mi ricorda l'affermazione fatta da Paul Krugman per salvarsi la faccia nel suo libro "The Return of Depression Economics and the Crisis of 2008", cioè che mentre alcune persone pensavano che i problemi finanziari ed economici degli anni 30 potessero ripetersi, queste non erano "persone appropriate". Secondo Krugman, le "persone appropriate" come lui (cioè quelli che esprimono il consenso di coloro che sono al potere) sapevano che queste cose non potevano succedere, ma si sbagliavano. È vero, come dice Greenspan, che nessuno avrebbe potuto prevedere esattamente cosa sarebbe successo. E certamente vi erano molti paraocchi al vertice. Ma vi erano un sacco di avvertimenti e preoccupazioni. Per esempio scrissi un articolo (“The Great Fear”) per l'edizione dell'aprile 2005 di Monthly Review che faceva riferimento ai "crescenti tassi di interesse che minacciano un'esplosione della bolla immobliare che sostiene i consumi americani", come uno dei "pericoli chiave di una economia in stagnazione". Altri attenti osservatori dell'economia dicevano la stessa cosa.

Il Federal Reserve Board, infatti, in questi anni dibatteva al suo interno se adottare la politica di far esplodere le bolle nei beni prima che finissero ulteriormente fuori controllo. Ma Greenspan e Bernanke erano entrambi contro una operazione così pericolosa, affermando che ciò avrebbe potuto far crollare tutta l'instabile struttura finanziaria. Dal momento che non sapevano cosa fare con le bolle, semplicemente si sono seduti con le mani in mano e hanno cercato di alzare la voce col mercato. La visione dominante era che la Federal Reserve potesse bloccare una valanga finanziaria mettendo una roccia nel punto giusto nel momento in cui ci fosse stato segno di problemi. Perciò Bernanke andò avanti, chiuse gli occhi e pregò, alzando i tassi di interesse per restringere l'inflazione (un'azione richiesta dall'elite finanziaria), e il resto è storia.

In tutti i momenti sono stati quelli al comando delle istituzioni finanziarie a condurre il gioco, e la Fed ha assecondato i loro desideri. Lo stesso Greenspan non è uno stupido. Egli scrisse nel Challenge Magazine di Marzo-Aprile 1988 dei pericoli associati con le bolle immobiliari. Ma da presidente del Federal Reserve Board ha peresguito la finanziarizzazione fino in fondo, dal momento che per il sistema non vi erano altre opzioni. Non c'è bisogno di dire che tale finanziarizzazione era associata alle crescenti diseguaglianze in ricchezza e reddito all'interno del paese. Lo stesso debito è uno strumento di potere e coloro che stanno sul fondo vengono incatenati da esso, mentre quelli al vertice lo usano come leva per creare patrimoni. Il valore netto totale dei 400 americani più ricchi per Forbes (una crescente percentuale dei quali grazie alla finanza) è crescituo da 91.8 miliardi di dollari del 1982 ai 1200 miliardi di dollari del 2006, mentre gran parte delle persone trovavano sempre più difficile far quadrare i conti. Niente di tutto ciò è successo per caso. E' tutto intriseco del capitale monopolistico finanziario.

di John Bellamy Foster
è editore del Monthly Review e professore di sociologia presso la University of Oregon. E' coautore con Fred Magdoff di "The Great Financial Crisis: Causes and Consequences", recentemente pubblicato dalla Monthly Review Press.

07 marzo 2009

Vita da parlamentare. Privilegi extra

Pensione in anticipo, l'auto blu, l'indennità che migliora la vita: radiografia del Palazzo.
Dove tutto costa meno ed è più facile

Sarà un anno orribile questo, l'ha garantito ieri Giulio Tremonti. La fila dei disoccupati agli angoli delle fabbriche misura oramai esattamente la distanza che separa la moltitudine, di ogni ceto, razza, lingua e religione, dagli eletti. Segno dei tempi è il ragù politico, il piatto di pasta servito alla buvette dei senatori il cui costo - collassato a un euro e cinquanta centesimi per deliberata e generosa scelta del gestore del catering - è stato fatto subito risalire dal presidente del Senato a un euro e ottanta, più in linea e rispettoso dei sentimenti dell'opinione pubblica.

C'è una parola, una sola, che pone alcuni lavori fuori dal comune, li innalza e li tonifica: il privilegio. L'extra che cambia il corso della busta paga, consola la vita anche quando è sul punto di finire. E produce quel miracolo che appunto si definisce privilegio, frutto del diritto che cambia natura.

Tutto ha un prezzo. Il silenzio, per esempio. Stare zitti è una fatica e ha il giusto costo. E morire, oltre al dolore inconsolabile, comporta una serie infinita di pratiche e di cerimonie che vanno obbligatoriamente fatturate. L'Iva, la maledetta Iva.

Il premio alla carriera. Una questione a parte, senza volere entrare nel merito del tema che qui lambisce la terra e il cielo, è il pacchetto dei premi fine vita. Apriamo parentesi. Prima della morte, ma forse più dolorosa di essa, c'è la fine della carriera politica, la fine dei sogni e della gloria. Il politico che lascia ottiene un vitalizio. Lo dice la parola stessa: il vitalizio non è la pensione e quindi lo si può raccogliere, a certe condizioni, anche da giovani. E' qualcosa di diverso e, stando all'etimo, sicuramente di vitale.

Antonio Martusciello a soli 46 anni ha lasciato Montecitorio. Per quattordici anni di fila ha servito le Istituzioni e Forza Italia. Se riscatta quattro anni di contributi può godere di un vitalizio formidabile: 7.958 euro (lordi) mensili. E il 49enne Alfonso Pecoraro Scanio, 16 anni trascorsi a Montecitorio, con un minimo riscatto raggiunge il traguardo degli 8.836 euro (lordi) in tasca, senza temere i nuovi ricalcoli pensionistici, il famigerato scalone, espressione che indica ancora lavoro e ancora per tanti anni per i sessantenni.

Oltre al vitalizio, conquistato calcando la scena, a fine carriera si aggiunge un affidamento in danaro a titolo di "solidarietà" o di "reinserimento sociale". L'assegno è pari all'80 per cento dell'indennità per il numero degli anni in cui ha frequentato il Potere. Ti hanno cacciato dal Parlamento e ora? L'anziano Armando Cossutta ha ottenuto 345.600 euro, per esempio. Il più giovane Clemente Mastella 307.328 euro. Proprio Mastella, causa licenziamento, ha raccolto il dovuto: vitalizio (9600 euro lordi mensili) e assegno di solidarietà. Ma il reinserimento sociale non è riuscito, Clemente ha vagato meno di un anno e sta per tornare nel punto esatto da dove era partito.

L'indennità funeraria. Trombato e premiato perciò. L'indennità, e qui entriamo in una speciale categoria, accompagna la vita del vivo e permette di dare sollievo ai familiari qualora il de cuius abbia davvero deciso di smettere e per sempre. In Veneto si chiamava indennità funeraria. In Sicilia, forse per non dare nell'occhio, la tipologia si è classificata più proletariamente come "sussidio di lutto". Così, il deputato palermitano Giovanni Ardizzone non ha fatto mistero di aver avuto una qualche perplessità anche di natura scaramantica allorché, nel corso del suo mandato di questore dell'Assemblea siciliana, si è trovato a firmare un paio di provvedimenti che erogavano "sussidi di lutto". E ha scoperto, dopo aver chiesto delucidazioni, che nella ricca e antica collezione di decreti del consiglio di presidenza dell'Ars c'è un atto che concede una somma fino a 5 mila euro per le spese relative a funerali di deputati in carica o cessati dal mandato. Soldi ovviamente destinati alle famiglie del caro onorevole estinto. Se l'è cavata magnificamente Ardizzone: "Cosa dire? Noi parlamentari siamo previdenti: pensiamo al nostro futuro. Anche dopo la morte".

Nel 2007 per i "sussidi di lutto" in Sicilia sono stati spesi 36.151 euro. In Veneto non si sa, ma il presidente del consiglio regionale, il leghista Marino Finozzi, interrogato sul triste tema del trapasso, ebbe come un sobbalzo e sinceramente rispose: "Io penso che un contributo pubblico alle spese di funerale per una persona che ha speso 10, 15 o più anni della vita per servire le istituzioni e i cittadini non sia un grande scandalo".

Tocchiamo ferro e badiamo al presente. È un'ora grave, la recessione economica sta travolgendo consuetudini quasi secolari: il Quirinale ha detto addio a 37 corazzieri (da 260 passeranno a 223) le senatrici hanno visto abolito il loro assegno per il parrucchiere, un bonus mensile di 150 euro. "Sono ancora piccole cose", hanno scritto i senatori questori. Piccole ma che danno il segno di un'era nuova, e dei sacrifici che attendono davvero tutti.

La corsia preferenziale. Le piccole cose si fanno poi grandi col crescere delle responsabilità. Conoscete un privilegio più tondo ed esibito di una guida contromano? Il comune di Palermo ha deliberato che i politici, di ogni risma e colore, debbano essere agevolati nel loro movimento. Viaggeranno in corsia preferenziale, ridurranno a una legittima concessione contromano l'attesa di far presto e bene. Ogni cosa al suo posto e ogni responsabilità al livello che merita. Il 22 agosto scorso una circolare di palazzo Chigi ha riclassificato le urgenze e le potestà mutando nel profondo le condizioni del passaggio aereo di Stato. Romano Prodi aveva incautamente ristretto il numero dei beneficiati obbligando persino fior fiore di ministri a giustificare la propria richiesta di volare alto e bene. Silvio Berlusconi ha ricondotto la spesa nei suoi limiti fisiologici: qualche milione di euro in più si spenderà, e però vuoi mettere la resa? Efficienza e velocità per tutti. Quindi tutti imbarcati: premier e consiglieri, ministri e viceministri, persino sottosegretari. Quando e come chiedono, facendo attenzione solo alle coincidenze.

Il costo del silenzio. Bisogna capirsi - e una volta per tutte - dove finisce il privilegio e dove inizia il dovere. L'obbligo per esempio di tenere la bocca cucita. Quando i capi dei servizi segreti Emilio Del Mese, Niccolò Pollari e Mario Mori hanno lasciato il comando, l'Espresso - curioso - fece due conti sulla liquidazione straordinaria che avrebbero ricevuto: la fissò in un milione e ottocentomila euro. Tra le tante voci che avrebbero prodotto una pensione da favola (circa 31 mila euro lordi al mese) per una carriera quarantennale davvero straordinaria bisognò tener conto anche del tributo a una vita pericolosa e soprattutto silenziosa. Allo stipendio si aggiunge infatti, per chi opera nei servizi, un'indennità particolare di funzione che, tra gli addetti, viene definita "indennità di silenzio" e quasi raddoppia l'emolumento base. Voce che poi, alla fine della carriera, viene conteggiata per la quiescenza. Silenzio d'oro, compenso perpetuo. Ma è un trattamento riservato unicamente ai capi. I sottoposti, al momento della pensione, non si portano dietro quella ricca indennità.

Questi tempi moderni hanno anche impresso un'autentica accelerazione allo scambio di idee e di proposte. Con internet tutto si è fatto non solo più semplice ma straordinariamente veloce. E sia il Senato che la Camera consegnano a ciascun eletto, ad ogni inizio di legislatura, hardware e software necessari. Il parlamentare riceve il suo computer (che a fine mandato conserverà) in modo che ovunque si trovi, ovunque, sia nella condizione di lavorare. Qualche mese fa la signora Anna, disperata, (tre figli minorenni e senza lavoro) ha scritto una mail a tutti i parlamentari e ha invocato aiuto. Anna non esisteva e la sua disperazione era finta. Era un modo per testare l'apparato tecnologico in dotazione. Dal momento dell'invio al momento della lettura della mail sono trascorse in media due settimane. Il 42 per cento dei senatori aveva però e purtroppo la casella di posta piena. Alla signora Anna hanno alla fine risposto in 26 che, su 994 destinatari, rappresenta il 2,7 per cento. Non male.

Auto blu e super autista. A ciascuno il suo e ad alcuni autisti, per esempio, una retribuzione maiuscola, calcolata sul giusto: il rischio, la velocità, la fatica di guidare anche di notte. Di pochi giorni fa la notizia che la Camera dei deputati ha riconosciuto, dopo una annosa vertenza, il secondo livello retributivo ai suoi autisti. Porterà a 10.164 euro la retribuzione mensile lorda (dopo 35 anni di lavoro) a chi conduce l'auto blu. Più di quattromila euro netti al mese. Tre autisti dell'Atac ci vogliono per farne uno della Camera. Ma il Parlamento è un mondo a parte, non fa testo. Un bravo barbiere, se riesce a imboccare il portone di Montecitorio, supera in progressione e di molto lo stipendio di un magistrato d'appello (fermo a 98mila euro l'anno), e un operaio specializzato (tubista, elettricista) se ha la ventura di lavorare alla Camera è sicuramente nella condizione di raggiungere e superare lo stipendio di un professore universitario, persino di un cattedratico barone. Alla Camera ogni cosa ha costi elevatissimi, e persino le spese minute diventano mostruose: l'anno scorso 650 mila euro sono volati via proprio per la minutaglia, le spese vagabonde. Ma lì anche gli appendiabiti e chissà quale altro accessorio dei guardaroba (giacché le guardarobiere sono pagate a parte) sono valsi nell'ultimo bilancio un accantonamento monstre: 205 mila euro. Disse Goffredo Bettini, al momento di metter piede a Montecitorio: "Mio padre mi ha lasciato ricco. Sono diventato assai meno ricco quando per anni, come segretario del Pci di Roma non ho preso lo stipendio. Tuttavia il mio partito mi ha restituito i privilegi eleggendomi prima alla Regione e poi in Parlamento". Privilegiato, esatto. Tra le cento carezze parlamentari anche una voce destinata alla lingua, a parlar bene e a farsi intendere meglio. Per la formazione linguistica ai deputati investiti nel 2008 900mila euro. In Parlamento si parla, nevvero?

di Antonello Caporale

UK: buonuscita generosa

Per tanto, troppo tempo, le banche inglesi sono state gestite da avventurieri che, complici la mancanza di controlli pubblici degni di questo nome e un’assurda fede nella sostenibilità di un sistema affidabile quanto una bicicletta in equilibrio su una corda a 50 metri da terra, sono quasi riusciti a mandare un intero Paese a gambe all’aria. Risultato? Il Governo britannico, nell’ambito del piano di salvataggio delle banche del valore di 37 miliardi di sterline, ha acquisito il controllo di Northern Rock, Bradford&Bingley e di Royal Bank of Scotland. Detiene inoltre il 58% di Hbos e il 30% di Lloyds Tsb, ovvero il 43,4% del Lloyds Banking Group, gruppo nato il 13 gennaio scorso dall’acquisizione di HBOS da parte della concorrente Lloyds TSB.

L’operazione, annunciata già a settembre dello scorso anno, si è svolta sotto la regia del Governo britannico, che ha dribblato qualsiasi obiezione antitrust invocando l’interesse nazionale: il collasso di un gigante come HBOS (20% dei conti correnti inglesi) avrebbe infatti avuto conseguenze devastanti sul Paese. La HSBO è stata una banca gestita in un modo talmente demenziale che il suo modello organizzativo potrebbe essere studiato nelle università come la “summa” di tutte le pratiche viziose nel mercato del credito: rilevante esposizione sull’immobiliare, prestiti rischiosi a costruttori edili, a fondi di private equity traballanti e, ciliegina sulla torta, assunzione di rischi importanti nel mercato azionario. Quest’ultimo elemento, rischio di perdite capitali a parte, ha finito per danneggiare gravemente la capacità della banca di valutare accuratamente il rischio di credito dei suoi clienti, “drogata” come era dalle irrazionali quanto irresponsabili attese di lauti e “certi” guadagni sul mercato azionario.

L’altro ieri HSBO ha pubblicato i suoi risultati per il 2008, da cui emerge il terrificante numero di 10,8 miliardi di sterline di perdite; perdite, è bene ricordarlo, registrate prima che la recessione cominciasse a colpire la capacità di ripagare i debiti di clienti privati ed imprese debitrici. Il 2009, è chiaro, sarà anche peggiore, mentre la debolezza della soluzione Lloyds TSB sta emergendo in tutta la sua drammaticità: il nuovo azionista, che già al momento dell’acquisizione aveva una stazza molto minore della banca acquistata (8% del mercato contro oltre il 20% di HSBO), semplicemente non ha le spalle robuste abbastanza per coprire il bagno di sangue atteso per quest’anno. Per avere un’idea della gravità del problema è sufficiente sapere che il gruppo nel suo complesso detiene un quarto dei conti bancari e poco meno di un terzo dei mutui in Gran Bretagna. Per questa ragione Lloyds TSB sta discutendo con il Governo britannico un piano di garanzia pubblica su ben 250 miliardi di sterline dell’attivo (si fa per dire) della banca.

Il governo sta inoltre studiando un simile schema di garanzia sulle attività di Royal Bank of Scotland, che dovrebbe coprire i 325 miliardi di sterline di attività “tossiche” sui suoi libri: secondo la BBC, l’assicurazione pubblica dovrebbe costare alla banca circa 6,5 miliardi di sterline di commissioni e prevedere una rilevante franchigia; infatti i primi 19,5 miliardi di sterline di perdite resteranno comunque sul conto economico della banca. Anche Royal Bank of Scotland ha pubblicato qualche giorno fa i suoi risultati economici: 24,1 miliardi di sterline di perdite, di cui 16,2 causati da rettifiche sul valore di attività “non performanti” effettuate anche sulle controllate estere ABN AMRO e Charter One; le perdite “vere”, attribuibili alla sola banca inglese, sono circa 7,9 miliardi. I numeri di Royal Bank of Scotland sono un record negativo in grado di surclassare Vodafone, che nel 2006 e nel 2002 presentò conti economici da brivido (rispettivamente -14,9 e -13,5 miliardi di sterline); in questo podio della vergogna, il quarto posto spetta a HBOS, con i suoi –10,8 miliardi del 2008.

Insomma, il comportamento irresponsabile dei direttori delle grandi banche inglesi non solo hanno finito per distruggere valore, ma è riuscito a produrre una situazione paradossale che sovverte qualsiasi ortodossia liberista: banche che presentano bilanci con rossi grandi quanto una manovra di governo, il governo costretto a scendere in campo mettendo sul piatto soldi contanti (33 miliardi di sterline pompate nella sola Royal Bank of Scotland in due tranche) e/o per garantire attività bancarie per centinaia di milioni di sterline (le sole fideiussioni prestate per Royal Bank of Scotland e HBOS valgono 600 miliardi di sterline).

Ci si aspetterebbe che i direttori delle banche nazionalizzate, ovviamente tutti silurati, mostrassero un atteggiamento dimesso e contrito. Gli esempi che seguono mostrano invece che la loro arroganza non è stata intaccata nemmeno dal manifesto disastro globale prodotto dalla loro disinvolta assunzione di rischi colossali. Ad esempio, Sir Fred Goodwin, ex CEO di Royal Bank of Scotland, quando è stato cortesemente accompagnato all’uscita, aveva in tasca un accordo che gli ha riconosciuto una somma di 16 milioni di sterline, fruibile nella forma di un vitalizio di 650.000 sterline all’anno. Stephen Hester, il nuovo capo della banca ha dichiarato che il trattamento del suo predecessore è stato regolato da un contratto di anche il Governo era parte.

Una bella tegola in testa per l’esecutivo di Gordon Brown, che, come nota correttamente il ministro ombra delle finanze conservatore, “o sapeva e non ha reagito, oppure non sapeva e non è stato in grado di porre le domande giuste; comunque si guardi alla faccenda, questa pensione oscena è inaccettabile e il governo deve renderne conto”. Di fronte all’ennesima dimostrazione di insipienza, Gordon Brown ha tuonato: “Il comportamento di Royal Bank of Scotland mi fa arrabbiare e fa arrabbiare il paese: faremo pulizia nelle banche, in modo che non niente di simile accada in futuro”. Di fronte all’insistenza di Goodwin, che apertamente rifiuta di mollare l’osso, assistiamo anche all’imbarazzante boutade di Brown, che minaccia il banchiere di fargli revocare il titolo di baronetto…

Del resto, Goodwin non è il solo: sembra infatti che anche Peter Cummings, uno dei boss della HBOS, noto per concludere affari con una semplice stretta di mano e responsabile degli investimenti immobiliari che hanno affondato la banca, ha lasciato il suo impiego con una buonuscita di 600.000 sterline più un accordo pensionistico del valore attuale di 5,9 milioni di sterline. Tutto questo per dire che il governo inglese non riesce a tenere sotto controllo il demonio che si nasconde dietro le banche d’affari nemmeno una volta divenutone il padrone.
di Mario Braconi