Vecchie o nuove, di natura etnica, linguistica, religiosa, sessuale o altro, le comunità sono le dimensioni naturali dell’appartenenza. Foss’anche per staccarsene, nessuno può esistere senza. Poiché la ragione pratica s’esercita inevitabilmente in un contesto, l’io è sempre incorporato in una storia ed essa non si riconduce mai a uno statu quo, tanto meno al passato. Beninteso, nessuno è tenuto (né dev’esserlo) ad appartenere a una comunità. Si può entrarvi, si deve poterne uscire ed eventualmente tornarvi. L’esperienza storica mostra che l’appartenenza a una comunità è legittimamente vista come positiva da molti (pone a contatto con coloro nei quali ci si riconosce) e legittimamente vista come negativa da altri. Ai giorni nostri, in un’epoca nella quale lo Stato sociale pare in crisi irreversibile, la dimensione d’appartenenza è anche, in molti casi, un potente fattore d’aiuto reciproco e solidarietà. In un’ottica giacobina, come quella francese, la dimensione d’appartenenza esclude altre dimensioni d’appartenenza (l’ossessione della «doppia lealtà»). In un’ottica non giacobina, compito del politico è articolare insieme più dimensioni d’appartenenza.
L’ascesa delle comunità coincide con l’esaurimento dello Stato-nazione, che nel periodo posteriore alla pace di Westfalia è stato la forma politica privilegiata della modernità. Non è un caso: l’emergere della postmodernità va di pari passo con la paralisi progressiva del modello dello Stato nazionale e la ricomparsa di forme politiche che lo superano (blocchi continentali dal ruolo-chiave nel mondo multipolare) o lo erodono (rivendicazioni localiste, moltiplicazione delle «comunità» e delle «tribù» per l’esplosione delle identità per effetto della secolarizzazione, rinascita dei radicamenti regionali e frontalieri-transnazionali). La modernità ha fatto dimenticare che la storia ha avuto e avrà altre forme politiche rispetto allo Stato-nazione. In un passato non remoto, la grande forma rivale dello Stato-nazione è stato l’Impero, i cui più antichi teorici furono Marsilio da Padova, Dante e Nicolò Cusano. Caratteristica dell’Impero, che non è una nazione più grande delle altre, è articolare le differenze. La sovranità vi è ripartita, le particolarità etniche e culturali, religiose e di costumi vi sono giuridicamente riconosciute, se non sono contrarie alla legge comune. La regola è applicare il principio di sussidiarietà. Oggi vari suoi principi si ritrovano nell’idea federalista, l’unica a conciliare la necessità dell’unità di comando al vertice col rispetto della diversità a ogni livello, a partire dalla base.
Nella tradizione dell’Impero, nazionalità non è sinonimo di cittadinanza. I concetti sono diversi: il popolo politico (demos) non si confonde col popolo etnico (ethnos), ma l’uno non ostacola l’altro. Invece sono indistinguibili nell’ottica giacobina. Si nota oggi che i «repubblicani» appiattiscono la nazionalità sulla cittadinanza, mentre i razzisti appiattiscono la cittadinanza sulla nazionalità. Gli uni e gli altri si congiungono in uno stesso ideale d’indistinzione.
Al vivere insieme di chi abita lo stesso Paese occorre una legge comune, s’è detto. Un punto su cui non si può transigere: è nella natura stessa del multiplo esigere un principio unitario, senza il quale si finisce nella spirale infinita delle rivendicazioni dei «diritti», equivalente alla «tirannia delle minoranze» paventata da Tocqueville. Ma la legge comune deve tener conto delle particolarità, esaminare le rivendicazioni legate a consuetudini, ammettere quelle che non minacciano l’ordine pubblico e prevedere le disposizioni necessarie perché possano esistere. Ma al di là della legge comune non c’è da farsi illusioni: solo un grande progetto può nutrire la volontà di vivere insieme e darsi un destino. L’epoca attuale, che privilegia gli interessi sui valori, sembra ormai lontanissima dai grandi progetti collettivi. Le rivendicazioni sociali sono sempre più parcellizzate e pare trionfare l’individualismo dei comportamenti. Ma, giunta al compimento, ogni tendenza si capovolge bruscamente. Domanda fondamentale: a quale grande progetto potrebbero associarsi le comunità?
Un Paese non trova coesione annientando le coesioni particolari. La natura sociale dell’uomo può esser pensata solo a partire dalle comunità che formano il tessuto della società. Solo così, forse, si potrà civilizzare la differenza.
di Alain de Benoist
19 maggio 2009
18 maggio 2009
Nel paese che ha spento la tv "Così salviamo i nostri bambini"

Lo decisero 13 anni fa. Quasi un passa parola, famiglia dopo famiglia, casa dopo casa. E così una sera, in quel borgo alle porte di Parma, improvvisamente tutti spensero la Tv. Centinaia, migliaia di televisori oscurati, muti, quasi partecipi dell'immenso dolore di una comunità.
Un gesto di rabbia, una rivolta civile contro le trasmissioni che mandavano in onda di tutto senza curarsi delle conseguenze. Che a Noceto furono imprevedibili e drammatiche. David, un bambino di 12 anni, dopo avere visto l'esecuzione di una sentenza capitale aveva deciso di imitare la scena per gioco. Morì impiccandosi. Non c'erano parole, nessuna spiegazione che alleviasse il senso di impotenza, solo la rabbia che doveva essere arginata. Come? Prendendo in mano il telecomando per cancellare modelli sbagliati e oscurare immagini troppo crude. Iniziò così la settimana della creatività, che dal '96 cerca di evitare la deriva di una televisione babysitter e che ogni mese di maggio trasforma i 1.200 bambini di Noceto da spettatori a protagonisti.
All'inizio il messaggio era esplicito: "Spegni la tv, accendi la fantasia". "La nostra è una battaglia pesantissima - spiega il parroco don Corrado Mazza - perché non vogliamo demonizzare un mezzo, ma solo evitare che rubi l'infanzia". "Negli anni abbiamo spostato l'accento - continua il sindaco Fabio Fecci - e oggi non invitiamo più direttamente a spegnere la televisione, ma promuoviamo un'alternativa". Corsi di teatro, laboratori di pittura, letture animate, giochi antichi, giornate dedicate allo sport, doposcuola della parrocchia, incontri con i genitori, cineforum, serate di riflessione, percorsi lunghi un anno per distogliere gli sguardi dal teleschermo, una miriade di attività coordinate che non tralasciano nulla, neppure il tragitto da casa a scuola. Qui, infatti, passa il piedibus, vigili urbani che accompagnano i bambini lungo le strade della città.
Nessuno si è sottratto al compito perché - è convinzione diffusa - gli influssi della televisione sui bambini sono chiarissimi: "Più chiacchierano senza dire niente - spiegano le insegnanti Enrica Alinovi e Gabriella Grisenti - più capiamo che sono stati troppo di fronte alla tv". Per questo, osserva il dirigente scolastico Paola Bernazzoli, da anni i bambini partecipano a laboratori in cui fanno gli attori, i costumisti, gli sceneggiatori, i registi, i musicisti... E il risultato viene portato in piazza proprio nella settimana della creatività.
Antonio Caffarra, il pediatra del paese, ha cresciuto insieme alla moglie Daniela, quattro figli senza televisione: "Per anni non l'abbiamo avuta e quando ci è stata regalata l'abbiamo lasciata spenta". Nel paese sono in molti a pensarla come lui, la creatività è diventata una strategia educativa condivisa. È servito tutto questo? I bambini a Noceto guardano la televisione meno che altrove? "E' difficile dirlo - conclude il sindaco Fabio Fecci - ma sicuramente sono meno soli". I più deboli, i più fragili, o semplicemente chi ha entrambi i genitori impegnati tutto il giorno, ha un'alternativa alla televisione come babysitter. "Proviamo a sottrarre il compito di educare alla televisione - conclude il parroco - ma anche se la battaglia continua a essere pesante, non ci arrendiamo, l'infanzia è tutto". Rappresenta il futuro, che non può essere dettato dal palinsesto televisivo.
di STEFANIA PARMEGGIANI
16 maggio 2009
L’acqua di Napoli vietata ai militari USA. E ai napoletani?
Resi noti i risultati di uno studio sanitario commissionato dalla Marina statunitense di Napoli sullo stato di avvelenamento del suolo e dell’acqua in Campania. Ancora una volta le indagini vengono avviate da soggetti esteri mentre le autorità sanitarie italiane continuano a tacere.

Resi noti i risultati di uno studio sanitario commissionato dalla Marina statunitense di Napoli sullo stato di avvelenamento del suolo e dell’acqua in Campania.
Stanno facendo discutere i risultati, resi noti una settimana fa, di uno studio sanitario commissionato dalla Marina statunitense di Napoli e realizzato nello corso del 2008. Le analisi messe in atto in 130 abitazioni, sparse su un’area di 395 miglia quadrate nelle province di Napoli e Caserta, hanno rilevato in 40 di esse un rischio definito “inaccettabile” a causa dell’elevata concentrazione (notevolmente superiore ai limiti consentiti) di “componenti organiche volatili”. Tali sostanze chimiche che evaporano a temperatura ambiente, sembrano essere penetrate all’interno delle abitazioni attraverso l’acqua (dei pozzi e degli acquedotti) e possono venire assorbite dall’uomo non solamente ingerendo l’acqua contaminata, ma anche per inalazione e per via cutanea.
Oltre alle componenti organiche volatili individuate in quantità preoccupanti, principale delle quali il tetracloroetene generalmente utilizzato nella produzione di solventi, le analisi hanno evidenziato anche la presenza generalizzata di arsenico che in alcuni casi nell’acqua ha superato di 180 volte i livelli limite. I pericoli per la salute umana, determinati dalla concentrazione dei composti chimici, sono potenzialmente molto elevati e vanno da un banale giramento di testa al danneggiamento dei tessuti epatici, renali e del sistema nervoso centrale, alla compromissione del sistema immunitario, alle malformazioni fetali, al rischio di patologie tumorali.
Le amministrazioni locali e le autorità sanitarie italiane, peraltro mai informate ufficialmente della cosa, non sembrano avere preso molto sul serio la questione e non hanno finora richiesto copia dei dati dell’indagine. Ben più seriamente al contrario sembra avere interpretato i risultati la Marina statunitense, che ha deciso l’avvio di una seconda analisi che terminerà a fine 2009 e andrà ad interessare altre 210 abitazioni occupate da personale statunitense in una vasta area che comprenderà sempre le province di Napoli e Caserta.
Curiosamente la maggior parte delle inchieste concernenti lo stato di avvelenamento del suolo e dell’acqua in Campania continuano ad arrivare dall’estero. Già nel 2004 fu l’autorevole rivista The Lancet Oncology a definire “triangolo della morte” la zona compresa fra i comuni di Acerra, Nola e Marigliano, nell’ambito di un’inchiesta concernente l’altissima incidenza di patologie tumorali presente nel territorio, dopo due inchieste condotte dalla rivista Newsweek che avevano portato alla luce i devastanti effetti delle innumerevoli discariche illegali di rifiuti tossici presenti in loco. Adesso è la volta della Marina statunitense, mentre le autorità sanitarie italiane continuano a tacere.
di Marco Cedolin
Iscriviti a:
Post (Atom)
19 maggio 2009
La civiltà della differenza
Vecchie o nuove, di natura etnica, linguistica, religiosa, sessuale o altro, le comunità sono le dimensioni naturali dell’appartenenza. Foss’anche per staccarsene, nessuno può esistere senza. Poiché la ragione pratica s’esercita inevitabilmente in un contesto, l’io è sempre incorporato in una storia ed essa non si riconduce mai a uno statu quo, tanto meno al passato. Beninteso, nessuno è tenuto (né dev’esserlo) ad appartenere a una comunità. Si può entrarvi, si deve poterne uscire ed eventualmente tornarvi. L’esperienza storica mostra che l’appartenenza a una comunità è legittimamente vista come positiva da molti (pone a contatto con coloro nei quali ci si riconosce) e legittimamente vista come negativa da altri. Ai giorni nostri, in un’epoca nella quale lo Stato sociale pare in crisi irreversibile, la dimensione d’appartenenza è anche, in molti casi, un potente fattore d’aiuto reciproco e solidarietà. In un’ottica giacobina, come quella francese, la dimensione d’appartenenza esclude altre dimensioni d’appartenenza (l’ossessione della «doppia lealtà»). In un’ottica non giacobina, compito del politico è articolare insieme più dimensioni d’appartenenza.
L’ascesa delle comunità coincide con l’esaurimento dello Stato-nazione, che nel periodo posteriore alla pace di Westfalia è stato la forma politica privilegiata della modernità. Non è un caso: l’emergere della postmodernità va di pari passo con la paralisi progressiva del modello dello Stato nazionale e la ricomparsa di forme politiche che lo superano (blocchi continentali dal ruolo-chiave nel mondo multipolare) o lo erodono (rivendicazioni localiste, moltiplicazione delle «comunità» e delle «tribù» per l’esplosione delle identità per effetto della secolarizzazione, rinascita dei radicamenti regionali e frontalieri-transnazionali). La modernità ha fatto dimenticare che la storia ha avuto e avrà altre forme politiche rispetto allo Stato-nazione. In un passato non remoto, la grande forma rivale dello Stato-nazione è stato l’Impero, i cui più antichi teorici furono Marsilio da Padova, Dante e Nicolò Cusano. Caratteristica dell’Impero, che non è una nazione più grande delle altre, è articolare le differenze. La sovranità vi è ripartita, le particolarità etniche e culturali, religiose e di costumi vi sono giuridicamente riconosciute, se non sono contrarie alla legge comune. La regola è applicare il principio di sussidiarietà. Oggi vari suoi principi si ritrovano nell’idea federalista, l’unica a conciliare la necessità dell’unità di comando al vertice col rispetto della diversità a ogni livello, a partire dalla base.
Nella tradizione dell’Impero, nazionalità non è sinonimo di cittadinanza. I concetti sono diversi: il popolo politico (demos) non si confonde col popolo etnico (ethnos), ma l’uno non ostacola l’altro. Invece sono indistinguibili nell’ottica giacobina. Si nota oggi che i «repubblicani» appiattiscono la nazionalità sulla cittadinanza, mentre i razzisti appiattiscono la cittadinanza sulla nazionalità. Gli uni e gli altri si congiungono in uno stesso ideale d’indistinzione.
Al vivere insieme di chi abita lo stesso Paese occorre una legge comune, s’è detto. Un punto su cui non si può transigere: è nella natura stessa del multiplo esigere un principio unitario, senza il quale si finisce nella spirale infinita delle rivendicazioni dei «diritti», equivalente alla «tirannia delle minoranze» paventata da Tocqueville. Ma la legge comune deve tener conto delle particolarità, esaminare le rivendicazioni legate a consuetudini, ammettere quelle che non minacciano l’ordine pubblico e prevedere le disposizioni necessarie perché possano esistere. Ma al di là della legge comune non c’è da farsi illusioni: solo un grande progetto può nutrire la volontà di vivere insieme e darsi un destino. L’epoca attuale, che privilegia gli interessi sui valori, sembra ormai lontanissima dai grandi progetti collettivi. Le rivendicazioni sociali sono sempre più parcellizzate e pare trionfare l’individualismo dei comportamenti. Ma, giunta al compimento, ogni tendenza si capovolge bruscamente. Domanda fondamentale: a quale grande progetto potrebbero associarsi le comunità?
Un Paese non trova coesione annientando le coesioni particolari. La natura sociale dell’uomo può esser pensata solo a partire dalle comunità che formano il tessuto della società. Solo così, forse, si potrà civilizzare la differenza.
di Alain de Benoist
L’ascesa delle comunità coincide con l’esaurimento dello Stato-nazione, che nel periodo posteriore alla pace di Westfalia è stato la forma politica privilegiata della modernità. Non è un caso: l’emergere della postmodernità va di pari passo con la paralisi progressiva del modello dello Stato nazionale e la ricomparsa di forme politiche che lo superano (blocchi continentali dal ruolo-chiave nel mondo multipolare) o lo erodono (rivendicazioni localiste, moltiplicazione delle «comunità» e delle «tribù» per l’esplosione delle identità per effetto della secolarizzazione, rinascita dei radicamenti regionali e frontalieri-transnazionali). La modernità ha fatto dimenticare che la storia ha avuto e avrà altre forme politiche rispetto allo Stato-nazione. In un passato non remoto, la grande forma rivale dello Stato-nazione è stato l’Impero, i cui più antichi teorici furono Marsilio da Padova, Dante e Nicolò Cusano. Caratteristica dell’Impero, che non è una nazione più grande delle altre, è articolare le differenze. La sovranità vi è ripartita, le particolarità etniche e culturali, religiose e di costumi vi sono giuridicamente riconosciute, se non sono contrarie alla legge comune. La regola è applicare il principio di sussidiarietà. Oggi vari suoi principi si ritrovano nell’idea federalista, l’unica a conciliare la necessità dell’unità di comando al vertice col rispetto della diversità a ogni livello, a partire dalla base.
Nella tradizione dell’Impero, nazionalità non è sinonimo di cittadinanza. I concetti sono diversi: il popolo politico (demos) non si confonde col popolo etnico (ethnos), ma l’uno non ostacola l’altro. Invece sono indistinguibili nell’ottica giacobina. Si nota oggi che i «repubblicani» appiattiscono la nazionalità sulla cittadinanza, mentre i razzisti appiattiscono la cittadinanza sulla nazionalità. Gli uni e gli altri si congiungono in uno stesso ideale d’indistinzione.
Al vivere insieme di chi abita lo stesso Paese occorre una legge comune, s’è detto. Un punto su cui non si può transigere: è nella natura stessa del multiplo esigere un principio unitario, senza il quale si finisce nella spirale infinita delle rivendicazioni dei «diritti», equivalente alla «tirannia delle minoranze» paventata da Tocqueville. Ma la legge comune deve tener conto delle particolarità, esaminare le rivendicazioni legate a consuetudini, ammettere quelle che non minacciano l’ordine pubblico e prevedere le disposizioni necessarie perché possano esistere. Ma al di là della legge comune non c’è da farsi illusioni: solo un grande progetto può nutrire la volontà di vivere insieme e darsi un destino. L’epoca attuale, che privilegia gli interessi sui valori, sembra ormai lontanissima dai grandi progetti collettivi. Le rivendicazioni sociali sono sempre più parcellizzate e pare trionfare l’individualismo dei comportamenti. Ma, giunta al compimento, ogni tendenza si capovolge bruscamente. Domanda fondamentale: a quale grande progetto potrebbero associarsi le comunità?
Un Paese non trova coesione annientando le coesioni particolari. La natura sociale dell’uomo può esser pensata solo a partire dalle comunità che formano il tessuto della società. Solo così, forse, si potrà civilizzare la differenza.
di Alain de Benoist
18 maggio 2009
Nel paese che ha spento la tv "Così salviamo i nostri bambini"

Lo decisero 13 anni fa. Quasi un passa parola, famiglia dopo famiglia, casa dopo casa. E così una sera, in quel borgo alle porte di Parma, improvvisamente tutti spensero la Tv. Centinaia, migliaia di televisori oscurati, muti, quasi partecipi dell'immenso dolore di una comunità.
Un gesto di rabbia, una rivolta civile contro le trasmissioni che mandavano in onda di tutto senza curarsi delle conseguenze. Che a Noceto furono imprevedibili e drammatiche. David, un bambino di 12 anni, dopo avere visto l'esecuzione di una sentenza capitale aveva deciso di imitare la scena per gioco. Morì impiccandosi. Non c'erano parole, nessuna spiegazione che alleviasse il senso di impotenza, solo la rabbia che doveva essere arginata. Come? Prendendo in mano il telecomando per cancellare modelli sbagliati e oscurare immagini troppo crude. Iniziò così la settimana della creatività, che dal '96 cerca di evitare la deriva di una televisione babysitter e che ogni mese di maggio trasforma i 1.200 bambini di Noceto da spettatori a protagonisti.
All'inizio il messaggio era esplicito: "Spegni la tv, accendi la fantasia". "La nostra è una battaglia pesantissima - spiega il parroco don Corrado Mazza - perché non vogliamo demonizzare un mezzo, ma solo evitare che rubi l'infanzia". "Negli anni abbiamo spostato l'accento - continua il sindaco Fabio Fecci - e oggi non invitiamo più direttamente a spegnere la televisione, ma promuoviamo un'alternativa". Corsi di teatro, laboratori di pittura, letture animate, giochi antichi, giornate dedicate allo sport, doposcuola della parrocchia, incontri con i genitori, cineforum, serate di riflessione, percorsi lunghi un anno per distogliere gli sguardi dal teleschermo, una miriade di attività coordinate che non tralasciano nulla, neppure il tragitto da casa a scuola. Qui, infatti, passa il piedibus, vigili urbani che accompagnano i bambini lungo le strade della città.
Nessuno si è sottratto al compito perché - è convinzione diffusa - gli influssi della televisione sui bambini sono chiarissimi: "Più chiacchierano senza dire niente - spiegano le insegnanti Enrica Alinovi e Gabriella Grisenti - più capiamo che sono stati troppo di fronte alla tv". Per questo, osserva il dirigente scolastico Paola Bernazzoli, da anni i bambini partecipano a laboratori in cui fanno gli attori, i costumisti, gli sceneggiatori, i registi, i musicisti... E il risultato viene portato in piazza proprio nella settimana della creatività.
Antonio Caffarra, il pediatra del paese, ha cresciuto insieme alla moglie Daniela, quattro figli senza televisione: "Per anni non l'abbiamo avuta e quando ci è stata regalata l'abbiamo lasciata spenta". Nel paese sono in molti a pensarla come lui, la creatività è diventata una strategia educativa condivisa. È servito tutto questo? I bambini a Noceto guardano la televisione meno che altrove? "E' difficile dirlo - conclude il sindaco Fabio Fecci - ma sicuramente sono meno soli". I più deboli, i più fragili, o semplicemente chi ha entrambi i genitori impegnati tutto il giorno, ha un'alternativa alla televisione come babysitter. "Proviamo a sottrarre il compito di educare alla televisione - conclude il parroco - ma anche se la battaglia continua a essere pesante, non ci arrendiamo, l'infanzia è tutto". Rappresenta il futuro, che non può essere dettato dal palinsesto televisivo.
di STEFANIA PARMEGGIANI
16 maggio 2009
L’acqua di Napoli vietata ai militari USA. E ai napoletani?
Resi noti i risultati di uno studio sanitario commissionato dalla Marina statunitense di Napoli sullo stato di avvelenamento del suolo e dell’acqua in Campania. Ancora una volta le indagini vengono avviate da soggetti esteri mentre le autorità sanitarie italiane continuano a tacere.

Resi noti i risultati di uno studio sanitario commissionato dalla Marina statunitense di Napoli sullo stato di avvelenamento del suolo e dell’acqua in Campania.
Stanno facendo discutere i risultati, resi noti una settimana fa, di uno studio sanitario commissionato dalla Marina statunitense di Napoli e realizzato nello corso del 2008. Le analisi messe in atto in 130 abitazioni, sparse su un’area di 395 miglia quadrate nelle province di Napoli e Caserta, hanno rilevato in 40 di esse un rischio definito “inaccettabile” a causa dell’elevata concentrazione (notevolmente superiore ai limiti consentiti) di “componenti organiche volatili”. Tali sostanze chimiche che evaporano a temperatura ambiente, sembrano essere penetrate all’interno delle abitazioni attraverso l’acqua (dei pozzi e degli acquedotti) e possono venire assorbite dall’uomo non solamente ingerendo l’acqua contaminata, ma anche per inalazione e per via cutanea.
Oltre alle componenti organiche volatili individuate in quantità preoccupanti, principale delle quali il tetracloroetene generalmente utilizzato nella produzione di solventi, le analisi hanno evidenziato anche la presenza generalizzata di arsenico che in alcuni casi nell’acqua ha superato di 180 volte i livelli limite. I pericoli per la salute umana, determinati dalla concentrazione dei composti chimici, sono potenzialmente molto elevati e vanno da un banale giramento di testa al danneggiamento dei tessuti epatici, renali e del sistema nervoso centrale, alla compromissione del sistema immunitario, alle malformazioni fetali, al rischio di patologie tumorali.
Le amministrazioni locali e le autorità sanitarie italiane, peraltro mai informate ufficialmente della cosa, non sembrano avere preso molto sul serio la questione e non hanno finora richiesto copia dei dati dell’indagine. Ben più seriamente al contrario sembra avere interpretato i risultati la Marina statunitense, che ha deciso l’avvio di una seconda analisi che terminerà a fine 2009 e andrà ad interessare altre 210 abitazioni occupate da personale statunitense in una vasta area che comprenderà sempre le province di Napoli e Caserta.
Curiosamente la maggior parte delle inchieste concernenti lo stato di avvelenamento del suolo e dell’acqua in Campania continuano ad arrivare dall’estero. Già nel 2004 fu l’autorevole rivista The Lancet Oncology a definire “triangolo della morte” la zona compresa fra i comuni di Acerra, Nola e Marigliano, nell’ambito di un’inchiesta concernente l’altissima incidenza di patologie tumorali presente nel territorio, dopo due inchieste condotte dalla rivista Newsweek che avevano portato alla luce i devastanti effetti delle innumerevoli discariche illegali di rifiuti tossici presenti in loco. Adesso è la volta della Marina statunitense, mentre le autorità sanitarie italiane continuano a tacere.
di Marco Cedolin
Iscriviti a:
Post (Atom)