04 luglio 2009

Il guerriero Obama, ma da qui nessuno è mai uscito vittorioso...


La sfida: mostrarsi come un vero "commander in chief"
I panni del guerriero non sono i suoi, ma si sente di dover rispettare un impegno

I Marines lanciati ieri da Obama all´attacco dei Taliban sono ben quattromila, l´unità più numerosa e formidabile schierata dal tardo autunno del 2001.
Da quando bastarono a Bush una spallata, qualche reparto di special forces e bombardamenti a tappeto di dollari sui corruttibili ras delle valli e dei campi di papaveri per far cadere il regime di Kabul come una piramide di carta.
Gli ordini della Casa Bianca sono tassativi - strappare ai Taliban una valle di importanza strategica in Afghanistan - e questa è la prima offensiva militare importante ordinata dal nuovo comandante supremo delle forze armate, Barack Obama, come aveva promesso di fare durante le elezioni, spostando gli stivali americani dalle sabbie della Mesopotamia alle nevi di Kandahar per colpire il nemico dov´è realmente e non dove Bush e Cheney avevano immaginato che fosse. Eppure c´è qualcosa che non persuade del tutto in questo Obama con l´elmetto che va alla guerra, come se realmente non ci avesse messo il cuore, come se neppure lui fosse convinto di quello che fa, ma dovesse semplicemente rispettare un impegno preso con gli elettori e con il mondo.
L´Obama guerriero è una figura incongrua e non perchè lui, come i falchi da salotto e da talk show alla maniera dei neo-con che lo avevano preceduto al potere, non abbia mai indossato un´uniforme sul serio e non abbia mai provato che cosa significhi davvero sparare a un nemico o essere il bersaglio di proiettili. Guardandolo e ascoltandolo, ormai da molti mesi, prima in campagna elettorale e poi dallo Studio Ovale, si capisce come il suo modus operandi, la sua personalità, la sua storia non possano essere quelli di condottieri bellici, di uomini che sono naturalmente dotati, a volte sfortunatamente dotati, della capacità di vedere il mondo in bianco e nero, diviso in «noi e loro». Come quel generale Patton, idolo dei soldati e dei marines in Europa, la cui filosofia di vita si riassumeva nel famoso motto: "Fare la guerra significa ammazzare quei figli di puttana prima che quei figli di puttana ammazzino te".
Il mondo nel quale si muove Obama, come la sua storia biologica di figlio dell´Europa e dell´Africa insieme, è un mondo in grigio, di tonalità sfumate, che non sono gli ingredienti del semplicismo ideologico, mistico o caratteriale indispensabile per condurre grandi e vere guerre nella certezza di stare dalla parte del bene assoluto. Anche questa offensiva nella valle dell‘Helmand, dove i Taliban risorti (in realtà mai scomparsi) si erano riorganizzati per sfruttare un passaggio geografco chiave e per far ripartire alla grande la produzione e il traffico di oppio, pur se «il rumore e la furia» degli sbarchi dei marines dagli elicotteri sono impressionanti, ha qualcosa di molto obamiano, il sapore di una mossa da giocatore di scacchi, non da duellante all´ultimo sangue.
I rapporti dal campo di battaglia già ci avvertono che i Taliban, secondo una collaudatissima tattica guerrigliera che in Afghanistan funziona da millenni contro tutti gli invasori stranieri e dopo il Vietnam è la prefazione del manuale del perfetto guerrigliero davanti a un avversario troppo forte, non hanno affrontato questi battaglioni di marines coperti dal volo di bombardieri, caccia e droni senza pilota, ma si sono ritirati e dissolti in territori che loro conoscono palmo e palmo, meglio di qualsiasi occhio elettronico e dove possono mimetizzarsi come granelli di sabbia in un deserto.
Dunque, a differenza di quanto accadeva 40 anni or sono, quando i padri e i nonni dei marines lanciati oggi in Afghanistan dovevano contendere ai Vietcong e ai Nord Vietnamiti ogni collinetta per poi abbandonarla e vederla rioccupata il giorno dopo, almeno in questa primo «D-Day» obamaniano non correranno torrenti di sangue. E questo, i generali americani, dunque il loro «chief» Obama, dovevano saperlo perfettamente, essendo i Taliban fanatici ma non tanto stupidi da misurarsi a viso aperto da pick up di latta contro brigate del più forte esercito del mondo.
Si tratta, e qui saremmo di nuovo pienamente all´interno della filosofia politica e umana del nuovo presidente, di un gesto assai più dimostrativo che sostanzioso, di una «strana guerra», condotta nella speranza di non dover fare davvero la guerra. Un modo per provare, agli americani che sempre si domandano quali siano anche le qualità strategiche nei loro presidenti ben sapendo che tutti saranno inesorabilmente chiamati a rispondere a una sfida bellica qualunque sia la loro ideologia, e al mondo, che Barack Obama non è un «sissy», una «signorina di buona famiglia» timida e renitente. Che sa anche fare la parte del commander in chief, del generalissimo, purché l´azione non costi troppo in vite - soprattutto in vite americane - e non precluda vie di uscite politiche. Nel suo universo la priorità appartiene sempre alla politica, non alla forza, e lo sbarco roboante di marines con colonna sonora delle pale dei grandi elicotteri Black Hawk nella valle dell´Helmand sembra una mossa politica, diretta soprattutto a quel Pakistan, e a quell´Iran in subbuglio da fine di regime, che tengono da sempre le chiavi della valli afgane. Dove nessuna forza militare straniera, da Alessandro il Macedone a Bush il Texano, è mai riuscita a imporre la propria volontà e il proprio controllo.
by Vittorio Zucconi

03 luglio 2009

La finanza non è la sola colpevole


La crisi finanziaria scoppiata lo scorso anno nelle Borse di tutto il mondo e che successivamente si è riversata nella cosiddetta economia reale globale non è stata determinata esclusivamente, come si vorrebbe fare credere, dagli eccessi di una finanza troppo vorace per non lasciarsi sfuggire la benché minima occasione di speculare pur non disponendo dei capitali necessari.
Certo, i mercati finanziari sono quello che sono. Un immenso tavolo verde nel quale i più diversi operatori scommettono e puntano anche i capitali che non possiedono su autentici titoli spazzatura che non rappresentano altro che una scommessa su una scommessa e su una scommessa ancora. Nella loro maggioranza tali titoli non sono infatti rappresentativi di una azienda industriale o di una società finanziaria ma rappresentano spesso e volentieri una sorta di polizza di assicurazione sul valore futuro di un’azione o di un indice di titoli o sul valore di una materia prima. Detto questo ci si potrebbe domandare come sia stato possibile che ad un simile meccanismo sia stato permesso non solo di operare ma addirittura di nascere. E la risposta è a dir poco semplice. I mercati finanziari globali sono in mano a banche e società finanziarie che impongono la propria volontà ai governi e agli organismi internazionali. Attraverso il meccanismo della finanza, che di per sé è virtuale, i grandi potentati economico-finanziari riescono ad operare un massiccio trasferimento di ricchezza reale a proprio favore, derubando di fatto i piccoli risparmiatori di tutto il mondo che si sono fidati dei consigli di uno dei tanti esperti o consulenti del settore, o anche di uno dei tanti quotidiani, il più delle volte legati a filo doppio alle società che hanno emesso tali titoli. Una obiezione questa alla quale i vari liberisti d’accatto replicano che questo è il Libero Mercato e che chi va sul mercato e scommette in Borsa deve accettare di correre qualche rischio.
Precisato questo bisogna però pur dire che non bisogna cadere nell’errore di imputare tutti i mali e tutte le colpe alla Finanza, speculatrice per definizione, e assolvere invece il Mercato come organismo sano e da difendere in ogni caso.
L’approccio speculativo della Finanza è in realtà una conseguenza diretta della mentalità “mercatista”, tanto per usare un termine caro al nostro ministro dell’Economia Giulio Tremonti, per indicare gli eccessi di un mercato sempre più autoreferenziale.
Una mentalità che vede nell’economia il primo e unico valore. Una visione meccanicistica che punta su una crescita e su uno sviluppo infiniti che finiscono inevitabilmente per essere devastanti per il tessuto sociale di tutti i Paesi perché pongono ai cittadini traguardi economici e sociali irraggiungibili. Si arriva all’assurdo di un capo del governo, Silvio Berlusconi, che invita gli italiani a consumare per tenere in piedi l’economia nazionale. Una follia sotto tutti i punti di vista perché rivolta ogni legge naturale, non posso spendere quello che non ho, e spinge sempre più in là il momento nel quale nessuno avrà più niente da produrre, spendere o consumare perché il meccanismo sarà imploso su se stesso.
Non siamo di fronte quindi ad una crisi di sistema, siamo invece di fronte alla presa d’atto che il sistema nel quale viviamo è basato sul nulla e che contiene in sé tutte le premesse per travolgerci nella sua imminente caduta.
di Filippo Ghira

02 luglio 2009

Incendio all’inceneritore di Piacenza: i media tacciono


nube diossina inceneritore piacenza
L'11 giugno il deposito rifiuti dell'inceneritore di Piacenza ha preso fuoco
“Tenete chiuse le finestre, non muovetevi da casa”, questo l’ordine lanciato da Vittorino Francani dell’Arpa (Agenzia regionale per ambiente e prevenzione), fra i primi ad accorrere sul luogo dell’incendio. Alle 18:40 di giovedì 11 giugno un capannone con una superficie di mezzo chilometro quadrato ha preso fuoco. Era il deposito rifiuti dell’inceneritore di Piacenza.

Al suo interno si trovavano tonnellate di plastica, metallo, carta e legno. Benché questi imballaggi e scarti industriali fossero destinati alla combustione, non erano ancora stati né separati né puliti. Del resto gli effetti di un simile incendio non sono in alcun modo paragonabili a quelli di una combustione all’interno di un inceneritore munito di filtri. (Nemmeno questi però rendono il processo sicuro e pulito, poiché non catturano le polveri sottili che, oltre a creare gravi danni alla salute, restano nell’atmosfera per sempre).

I gas emessi durante l’incendio hanno formato una nube nera che ha continuato ad alzarsi anche dopo lo spegnimento del rogo, avvenuto dopo oltre due ore. La nube, trasportata dal vento, ha viaggiato per chilometri verso nord-est, coprendo così di nero il cielo dell’hinterland di Piacenza.

Quel che ha dato il colore alla nube è stata la diossina, che si sprigiona ogni volta che bruciano plastica o cartone sporco.


vigili fuoco incendio piacenza
E' stato necessario l'intervento dei vigili del fuoco per spegnere le fiamme
Tali gas possono causare problemi immediati (blocchi respiratori, tosse e fastidi agli occhi), ma anche danni ai polmoni protratti nel tempo, spiega Pietro Bottrighi, primario del reparto di pneumologia all’ospedale di Piacenza.

Nonostante questi rischi, nessun paziente si è recato al Pronto soccorso con sintomatologie respiratorie acute, dichiara l’Azienda unità sanitaria locale (Ausl) di Piacenza.

Oltre a rimanere in casa però, i tecnici del dipartimento di Sanità pubblica hanno consigliato di lavare bene la frutta e la verdura proveniente dagli orti della zona. L’Arpa ha proseguito gli accertamenti presso il centro Enìa (società che gestisce impianti ambientali di pubblica utilità), effettuando campionamenti dei terreni e dei vegetali nell’area interessata.

Ha inoltre prelevato i filtri della centralina di monitoraggio ambientale di Gerbido, per effettuare rilievi sull’emissione di diossina e di IPA (idrocarburi policiclici aromatici). Il tutto è stato inviato nella sede di Ravenna per gli esami necessari. “Al momento abbiamo rilevato un aumento dei livelli di monossido di carbonio e degli idrocarburi”, ha dichiarato Sandro Fabbri, direttore di Arpa Piacenza.

La pubblicazione delle quantità di diossine e idrocarburi aromatici presenti nel terreno e nell’atmosfera però, non è ancora avvenuta.

Oltre ai danni ambientali vi sono quelli economici, che comunque risultano “tutto sommato modesti, viste anche le dimensioni dell’incendio”, si legge nel giornale locale Libertà.

E' la diossina a dare il colore alla nube
Grazie all’intervento dei dipendenti di Enìa si tratta ‘solo’ di qualche decina di migliaia di euro: “Abbiamo salvato il trituratore, la macchina che trita i rifiuti e che è molto costosa, poi con gli estintori abbiamo tentato di fermare le fiamme, ma erano troppo forti e ci sono voluti i vigili del fuoco” racconta Anselmo Baistrocchi, responsabile degli impianti Enìa.

I giornali locali (gli unici a parlarne) hanno attribuito l’incendio a un’autocombustione favorita dal calore. Ammesso che questa spiegazione venga confermata, si tratterebbe comunque di un problema grave. L’apparente spontaneità dell’autocombustione, però, non attenua la responsabilità di chi ha trascurato le misure di sicurezza che avrebbero dovuto evitarla.
di Elisabeth Zoja

04 luglio 2009

Il guerriero Obama, ma da qui nessuno è mai uscito vittorioso...


La sfida: mostrarsi come un vero "commander in chief"
I panni del guerriero non sono i suoi, ma si sente di dover rispettare un impegno

I Marines lanciati ieri da Obama all´attacco dei Taliban sono ben quattromila, l´unità più numerosa e formidabile schierata dal tardo autunno del 2001.
Da quando bastarono a Bush una spallata, qualche reparto di special forces e bombardamenti a tappeto di dollari sui corruttibili ras delle valli e dei campi di papaveri per far cadere il regime di Kabul come una piramide di carta.
Gli ordini della Casa Bianca sono tassativi - strappare ai Taliban una valle di importanza strategica in Afghanistan - e questa è la prima offensiva militare importante ordinata dal nuovo comandante supremo delle forze armate, Barack Obama, come aveva promesso di fare durante le elezioni, spostando gli stivali americani dalle sabbie della Mesopotamia alle nevi di Kandahar per colpire il nemico dov´è realmente e non dove Bush e Cheney avevano immaginato che fosse. Eppure c´è qualcosa che non persuade del tutto in questo Obama con l´elmetto che va alla guerra, come se realmente non ci avesse messo il cuore, come se neppure lui fosse convinto di quello che fa, ma dovesse semplicemente rispettare un impegno preso con gli elettori e con il mondo.
L´Obama guerriero è una figura incongrua e non perchè lui, come i falchi da salotto e da talk show alla maniera dei neo-con che lo avevano preceduto al potere, non abbia mai indossato un´uniforme sul serio e non abbia mai provato che cosa significhi davvero sparare a un nemico o essere il bersaglio di proiettili. Guardandolo e ascoltandolo, ormai da molti mesi, prima in campagna elettorale e poi dallo Studio Ovale, si capisce come il suo modus operandi, la sua personalità, la sua storia non possano essere quelli di condottieri bellici, di uomini che sono naturalmente dotati, a volte sfortunatamente dotati, della capacità di vedere il mondo in bianco e nero, diviso in «noi e loro». Come quel generale Patton, idolo dei soldati e dei marines in Europa, la cui filosofia di vita si riassumeva nel famoso motto: "Fare la guerra significa ammazzare quei figli di puttana prima che quei figli di puttana ammazzino te".
Il mondo nel quale si muove Obama, come la sua storia biologica di figlio dell´Europa e dell´Africa insieme, è un mondo in grigio, di tonalità sfumate, che non sono gli ingredienti del semplicismo ideologico, mistico o caratteriale indispensabile per condurre grandi e vere guerre nella certezza di stare dalla parte del bene assoluto. Anche questa offensiva nella valle dell‘Helmand, dove i Taliban risorti (in realtà mai scomparsi) si erano riorganizzati per sfruttare un passaggio geografco chiave e per far ripartire alla grande la produzione e il traffico di oppio, pur se «il rumore e la furia» degli sbarchi dei marines dagli elicotteri sono impressionanti, ha qualcosa di molto obamiano, il sapore di una mossa da giocatore di scacchi, non da duellante all´ultimo sangue.
I rapporti dal campo di battaglia già ci avvertono che i Taliban, secondo una collaudatissima tattica guerrigliera che in Afghanistan funziona da millenni contro tutti gli invasori stranieri e dopo il Vietnam è la prefazione del manuale del perfetto guerrigliero davanti a un avversario troppo forte, non hanno affrontato questi battaglioni di marines coperti dal volo di bombardieri, caccia e droni senza pilota, ma si sono ritirati e dissolti in territori che loro conoscono palmo e palmo, meglio di qualsiasi occhio elettronico e dove possono mimetizzarsi come granelli di sabbia in un deserto.
Dunque, a differenza di quanto accadeva 40 anni or sono, quando i padri e i nonni dei marines lanciati oggi in Afghanistan dovevano contendere ai Vietcong e ai Nord Vietnamiti ogni collinetta per poi abbandonarla e vederla rioccupata il giorno dopo, almeno in questa primo «D-Day» obamaniano non correranno torrenti di sangue. E questo, i generali americani, dunque il loro «chief» Obama, dovevano saperlo perfettamente, essendo i Taliban fanatici ma non tanto stupidi da misurarsi a viso aperto da pick up di latta contro brigate del più forte esercito del mondo.
Si tratta, e qui saremmo di nuovo pienamente all´interno della filosofia politica e umana del nuovo presidente, di un gesto assai più dimostrativo che sostanzioso, di una «strana guerra», condotta nella speranza di non dover fare davvero la guerra. Un modo per provare, agli americani che sempre si domandano quali siano anche le qualità strategiche nei loro presidenti ben sapendo che tutti saranno inesorabilmente chiamati a rispondere a una sfida bellica qualunque sia la loro ideologia, e al mondo, che Barack Obama non è un «sissy», una «signorina di buona famiglia» timida e renitente. Che sa anche fare la parte del commander in chief, del generalissimo, purché l´azione non costi troppo in vite - soprattutto in vite americane - e non precluda vie di uscite politiche. Nel suo universo la priorità appartiene sempre alla politica, non alla forza, e lo sbarco roboante di marines con colonna sonora delle pale dei grandi elicotteri Black Hawk nella valle dell´Helmand sembra una mossa politica, diretta soprattutto a quel Pakistan, e a quell´Iran in subbuglio da fine di regime, che tengono da sempre le chiavi della valli afgane. Dove nessuna forza militare straniera, da Alessandro il Macedone a Bush il Texano, è mai riuscita a imporre la propria volontà e il proprio controllo.
by Vittorio Zucconi

03 luglio 2009

La finanza non è la sola colpevole


La crisi finanziaria scoppiata lo scorso anno nelle Borse di tutto il mondo e che successivamente si è riversata nella cosiddetta economia reale globale non è stata determinata esclusivamente, come si vorrebbe fare credere, dagli eccessi di una finanza troppo vorace per non lasciarsi sfuggire la benché minima occasione di speculare pur non disponendo dei capitali necessari.
Certo, i mercati finanziari sono quello che sono. Un immenso tavolo verde nel quale i più diversi operatori scommettono e puntano anche i capitali che non possiedono su autentici titoli spazzatura che non rappresentano altro che una scommessa su una scommessa e su una scommessa ancora. Nella loro maggioranza tali titoli non sono infatti rappresentativi di una azienda industriale o di una società finanziaria ma rappresentano spesso e volentieri una sorta di polizza di assicurazione sul valore futuro di un’azione o di un indice di titoli o sul valore di una materia prima. Detto questo ci si potrebbe domandare come sia stato possibile che ad un simile meccanismo sia stato permesso non solo di operare ma addirittura di nascere. E la risposta è a dir poco semplice. I mercati finanziari globali sono in mano a banche e società finanziarie che impongono la propria volontà ai governi e agli organismi internazionali. Attraverso il meccanismo della finanza, che di per sé è virtuale, i grandi potentati economico-finanziari riescono ad operare un massiccio trasferimento di ricchezza reale a proprio favore, derubando di fatto i piccoli risparmiatori di tutto il mondo che si sono fidati dei consigli di uno dei tanti esperti o consulenti del settore, o anche di uno dei tanti quotidiani, il più delle volte legati a filo doppio alle società che hanno emesso tali titoli. Una obiezione questa alla quale i vari liberisti d’accatto replicano che questo è il Libero Mercato e che chi va sul mercato e scommette in Borsa deve accettare di correre qualche rischio.
Precisato questo bisogna però pur dire che non bisogna cadere nell’errore di imputare tutti i mali e tutte le colpe alla Finanza, speculatrice per definizione, e assolvere invece il Mercato come organismo sano e da difendere in ogni caso.
L’approccio speculativo della Finanza è in realtà una conseguenza diretta della mentalità “mercatista”, tanto per usare un termine caro al nostro ministro dell’Economia Giulio Tremonti, per indicare gli eccessi di un mercato sempre più autoreferenziale.
Una mentalità che vede nell’economia il primo e unico valore. Una visione meccanicistica che punta su una crescita e su uno sviluppo infiniti che finiscono inevitabilmente per essere devastanti per il tessuto sociale di tutti i Paesi perché pongono ai cittadini traguardi economici e sociali irraggiungibili. Si arriva all’assurdo di un capo del governo, Silvio Berlusconi, che invita gli italiani a consumare per tenere in piedi l’economia nazionale. Una follia sotto tutti i punti di vista perché rivolta ogni legge naturale, non posso spendere quello che non ho, e spinge sempre più in là il momento nel quale nessuno avrà più niente da produrre, spendere o consumare perché il meccanismo sarà imploso su se stesso.
Non siamo di fronte quindi ad una crisi di sistema, siamo invece di fronte alla presa d’atto che il sistema nel quale viviamo è basato sul nulla e che contiene in sé tutte le premesse per travolgerci nella sua imminente caduta.
di Filippo Ghira

02 luglio 2009

Incendio all’inceneritore di Piacenza: i media tacciono


nube diossina inceneritore piacenza
L'11 giugno il deposito rifiuti dell'inceneritore di Piacenza ha preso fuoco
“Tenete chiuse le finestre, non muovetevi da casa”, questo l’ordine lanciato da Vittorino Francani dell’Arpa (Agenzia regionale per ambiente e prevenzione), fra i primi ad accorrere sul luogo dell’incendio. Alle 18:40 di giovedì 11 giugno un capannone con una superficie di mezzo chilometro quadrato ha preso fuoco. Era il deposito rifiuti dell’inceneritore di Piacenza.

Al suo interno si trovavano tonnellate di plastica, metallo, carta e legno. Benché questi imballaggi e scarti industriali fossero destinati alla combustione, non erano ancora stati né separati né puliti. Del resto gli effetti di un simile incendio non sono in alcun modo paragonabili a quelli di una combustione all’interno di un inceneritore munito di filtri. (Nemmeno questi però rendono il processo sicuro e pulito, poiché non catturano le polveri sottili che, oltre a creare gravi danni alla salute, restano nell’atmosfera per sempre).

I gas emessi durante l’incendio hanno formato una nube nera che ha continuato ad alzarsi anche dopo lo spegnimento del rogo, avvenuto dopo oltre due ore. La nube, trasportata dal vento, ha viaggiato per chilometri verso nord-est, coprendo così di nero il cielo dell’hinterland di Piacenza.

Quel che ha dato il colore alla nube è stata la diossina, che si sprigiona ogni volta che bruciano plastica o cartone sporco.


vigili fuoco incendio piacenza
E' stato necessario l'intervento dei vigili del fuoco per spegnere le fiamme
Tali gas possono causare problemi immediati (blocchi respiratori, tosse e fastidi agli occhi), ma anche danni ai polmoni protratti nel tempo, spiega Pietro Bottrighi, primario del reparto di pneumologia all’ospedale di Piacenza.

Nonostante questi rischi, nessun paziente si è recato al Pronto soccorso con sintomatologie respiratorie acute, dichiara l’Azienda unità sanitaria locale (Ausl) di Piacenza.

Oltre a rimanere in casa però, i tecnici del dipartimento di Sanità pubblica hanno consigliato di lavare bene la frutta e la verdura proveniente dagli orti della zona. L’Arpa ha proseguito gli accertamenti presso il centro Enìa (società che gestisce impianti ambientali di pubblica utilità), effettuando campionamenti dei terreni e dei vegetali nell’area interessata.

Ha inoltre prelevato i filtri della centralina di monitoraggio ambientale di Gerbido, per effettuare rilievi sull’emissione di diossina e di IPA (idrocarburi policiclici aromatici). Il tutto è stato inviato nella sede di Ravenna per gli esami necessari. “Al momento abbiamo rilevato un aumento dei livelli di monossido di carbonio e degli idrocarburi”, ha dichiarato Sandro Fabbri, direttore di Arpa Piacenza.

La pubblicazione delle quantità di diossine e idrocarburi aromatici presenti nel terreno e nell’atmosfera però, non è ancora avvenuta.

Oltre ai danni ambientali vi sono quelli economici, che comunque risultano “tutto sommato modesti, viste anche le dimensioni dell’incendio”, si legge nel giornale locale Libertà.

E' la diossina a dare il colore alla nube
Grazie all’intervento dei dipendenti di Enìa si tratta ‘solo’ di qualche decina di migliaia di euro: “Abbiamo salvato il trituratore, la macchina che trita i rifiuti e che è molto costosa, poi con gli estintori abbiamo tentato di fermare le fiamme, ma erano troppo forti e ci sono voluti i vigili del fuoco” racconta Anselmo Baistrocchi, responsabile degli impianti Enìa.

I giornali locali (gli unici a parlarne) hanno attribuito l’incendio a un’autocombustione favorita dal calore. Ammesso che questa spiegazione venga confermata, si tratterebbe comunque di un problema grave. L’apparente spontaneità dell’autocombustione, però, non attenua la responsabilità di chi ha trascurato le misure di sicurezza che avrebbero dovuto evitarla.
di Elisabeth Zoja