11 luglio 2009

Le forze di occupazione in Iraq: ritiro dalle città o ridispiegamento?









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7 luglio 2009


Le definizioni si sono sprecate per il 30 giugno, giorno del ritiro delle forze americane dalle città irachene occupate, sia da parte del comando di occupazione americano sia da parte del governo di occupazione iracheno. Cominciamo dai discorsi del governo. La definizione più diffusa e ripetuta da parte dei politici iracheni è stata quella di "recupero della sovranità nazionale", a cui si è affiancata quella di "giorno storico". Il concetto di 'sovranità’ e di 'assunzione della sovranità’ suona stranamente nel nuovo Iraq. Il governatore Paul Bremer aveva già 'consegnato la sovranità’ a Iyad Allawi, il primo premier del governo di occupazione, il 28 giugno del 2004, fuggendo col favore delle tenebre per timore degli attacchi della resistenza. La celebrazione durò cinque minuti, durante i quali Bremer disse, rivolgendosi ad Allawi, Ajil al-Yawer, e Barham Salih (al-Yawer e Salih furono rispettivamente presidente e vice primo ministro del governo iracheno ad interim (N.d.T.) ): "ormai siete pronti per la sovranità; riteniamo che ciò sia una parte importante del nostro impegno in qualità di custodi temporanei finalizzato a restituirvi la sovranità". Allawi definì quel giorno (notate la somiglianza con il modo di rapportarsi al giorno del ritiro delle truppe americane da poco celebrato) come un "giorno storico". Al-Yawer aggiunse: "Questo è un giorno storico e felice". Bremer rispose ricordando i servizi resi dall’America nei loro confronti: "Senza dubbio la liberazione dell’Iraq è stata una fra le più grandi e nobili imprese".

Da quel giorno l’ossessione dell’assunzione della 'sovranità’ non ha più abbandonato i politici (iracheni) dell’occupazione, forse perché la memoria di chi mente non si estende a tutte le menzogne quotidiane, e l’assunzione della sovranità è una menzogna che necessita di aggiunte e di 'abbellimenti’ ogni giorno. Così, il 'nuovo Iraq’ ha cominciato a riposare sugli allori della sovranità e del 'completamento della sovranità’. Nel novembre del 2008, il 'presidente’ Jalal Talabani disse che "la ratifica dell’accordo sul ritiro delle truppe americane dall’Iraq significa il completamento degli elementi di sovranità e indipendenza del paese". Senonché egli dimenticò ben presto queste parole, perché nel corso di una successiva intervista con il canale di stato Al-Iraqiya disse: "Purtroppo, molti dei nostri fratelli in Iraq non sanno ciò che avviene dietro le quinte; noi non siamo un paese libero e indipendente". Poi Talabani tornò a ricordare i meriti dei suoi padroni nel giorno d’inaugurazione della più grande ambasciata americana del mondo, nella capitale Baghdad, il 5 gennaio 2009. In quell’occasione egli affermò che "l’esistenza di un Iraq democratico, unito e indipendente non sarebbe stata possibile se non fosse stato per la decisione coraggiosa e storica del presidente George W. Bush di liberare l’Iraq". Egli tenne il suo discorso alla presenza del criminale di guerra e vicesegretario di stato americano John Negroponte, il quale a sua volta disse la sua sul concetto di 'sovranità’: "Avete consacrato la vostra vita di combattenti e uomini di stato a un Iraq libero, sovrano e unito". E’ bene ricordare che Negroponte è il padre spirituale degli squadroni della morte in America Latina e in Iraq, dei quali sono state vittime, secondo studi di livello mondiale, centinaia di migliaia di civili.

Il primo ministro del secondo governo di occupazione, Ibrahim al-Jaafari, contribuì ad aggiungere nuove dimensioni al concetto di 'sovranità’. Il 1° luglio del 2005, egli disse che "il processo a Saddam Hussein rappresenterà una forma di sovranità irachena". Siccome il partito 'Daawa’ – una formazione politica di ispirazione confessionale – è quello che ha prodotto sia Jaafari che Maliki, non c’è da stupirsi della somiglianza dei loro discorsi sulla sovranità, sebbene i tempi siano cambiati. Ecco infatti Maliki rivolgere un discorso agli iracheni in occasione del ritiro delle truppe americane, durante il quale egli ha affermato: "La sovranità nazionale è una linea rossa che non può essere oltrepassata, in nessun caso". Si tratta di un tipo di vaneggiamento che ci ricorda le dichiarazioni dei leader del suo partito, e di quelli del SIIC (Supremo Consiglio Islamico Iracheno), quando dicevano che si sarebbero sbarazzati dell’occupazione in sei mesi, e che la 'sovranità’ era una linea rossa non oltrepassabile! Maliki ha proseguito il suo discorso dicendo: "Oggi l’Iraq è entrato in una nuova fase, dopo l’applicazione dell’accordo sul ritiro delle forze straniere". Ma lasciamo da parte il leitmotiv dell’ 'ingresso dell’Iraq in una nuova era’ poiché esso si smentisce per il solo fatto di essere ripetuto fino all’eccesso, e volgiamo il nostro sguardo a ciò che c’è di vero nel 'ritiro delle forze straniere’. In realtà esso non è più di un ritiro formale allo scopo di proteggere le forze di occupazione dagli attacchi della resistenza. Le truppe irachene saranno utilizzate come scudi umani per proteggerle e per mantenere invariato il loro potenziale bellico all’interno delle loro basi fortificate. Le truppe americane potranno tornare nelle strade qualora la situazione lo richiedesse, e continueranno inoltre ad essere libere di lanciare attacchi dal cielo e di utilizzare gli aerei senza pilota per compiere incursioni, bombardamenti e operazioni di monitoraggio. Le forze di occupazione continuano ad essere annidate nel cuore di Baghdad, all’interno della più grande ambasciata americana del mondo, all’ingresso della zona verde, lungo tutta l’autostrada che conduce all’aeroporto, e nelle zone di Baghdad Ovest, che sono state riclassificate come 'esterne alla città’. E mentre le truppe presenti nelle città hanno ridefinito i propri nomi per diventare forze di addestramento e di 'consulenza’, l’ultima inchiesta sull’Iraq rivela che il numero dei 'mercenari’, i contractor al soldo del Pentagono, è cresciuto del 23% dall’arrivo di Obama alla Casa Bianca. Secondo i dati americani di questo mese, si tratta di 126.000 contractor militari, ovvero non operanti nel settore dei servizi, né come camionisti o altro. Più del 30% di essi sono americani precedentemente impiegati nelle squadre delle missioni speciali. I rimanenti sono professionisti provenienti dall’America Latina, dal Sudafrica e da altre regioni che sono state sottoposte a esperienze di repressione dei movimenti di liberazione e della democrazia. Ciò significa che al ritiro di un certo numero di soldati dell’esercito americano regolare corrisponderà un aumento, in percentuale anche maggiore, di mercenari che godono di un’immunità superiore a quella dei militari dell’esercito americano, indipendentemente dai crimini che commettono. Questo è uno dei punti essenziali che i politici iracheni fanno finta di non vedere, e che di tanto in tanto si vantano di aver eliminato, come fece Jaafari nel settembre del 2005, quando mentì senza vergogna affermando: "D’ora in avanti la legge irachena sarà applicata a tutti i crimini commessi in Iraq, inclusi quelli commessi dalla forza multinazionale". Ed ecco che siamo ormai alla metà del 2009, e gli assassini circolano ancora liberamente in terra d’Iraq.

Il general maggiore Robert Caslen, comandante delle forze americane nel nord dell’Iraq, ha dichiarato il 26 giugno che le truppe americane avrebbero circondato le città nel tentativo di ripetere la strategia di concentrazione delle forze che era stata applicata in precedenza dall’esercito, sotto il comando del generale David Petraeus. Egli ha anche ricordato che il governo iracheno ha accettato la presenza di forze americane 'non combattenti’ in alcune città. Ciò include il mantenimento di cinque posizioni nella città di Mosul anche dopo il giorno del 'ritiro’.

Il governo iracheno, che si vanta della propria sovranità, è riuscito a trasformare questa sovranità, così come altri nobili concetti legati alla dignità e alla giustizia, in un concetto vuoto e privo di qualsiasi significato. Non so se le immagini del milione di vittime civili irachene, uccise a seguito dell’invasione e dell’occupazione dell’Iraq, sono sfilate davanti agli occhi di Maliki mentre leggeva il suo discorso sul rapporto paritario dell’Iraq con l’America, gettando la colpa dei mali del paese sulle spalle "dei terroristi, dei takfiriti (gruppi islamici estremisti che accusano di apostasia altri musulmani (N.d.T.) ), dei membri del regime baathista e delle bande criminali". Come se egli non avesse mai avuto notizia delle centinaia di rapporti pubblicati dalle organizzazioni umanitarie e per la difesa dei diritti umani, incluso l’ufficio delle Nazioni Unite in Iraq (UNAMI) che opera in collaborazione con il suo governo, i quali documentano le violazioni, i trattamenti umilianti, gli omicidi, e ogni altra forma di crimini commessi dalle forze di occupazione, da sole o in collaborazione con le sue forze di sicurezza e con le milizie del suo governo.

Proteggere le forze di occupazione e tacere sui loro crimini è di per sé un crimine imperdonabile. Il cittadino iracheno continuerà ad essere vittima di questi crimini e di queste violazioni fino a quando le forze di occupazione rimarranno sulla nostra terra godendo dell’immunità rispetto alle nostre leggi. Le cose non cambiano molto se queste forze di occupazione si trovano all’interno o al di fuori delle città.

Haifa Zangana è una scrittrice irachena; è stata prigioniera nelle carceri del regime di Saddam Hussein; attualmente risiede in Gran Bretagna; scrive abitualmente sul quotidiano al-Quds al-Arabi e collabora con giornali come il Guardian e al-Ahram Weekly

10 luglio 2009

G8, il circo è iniziato


Finalmente è arrivato il circo del G8. Mi dispiace per la gente d’Abruzzo, ma il resto d’Italia e del mondo doveva pur divertirsi un pochino, no?


La cosa urta molto il Guardian, che negli ultimi tempi ha tirato fuori pruderies vittoriane dimenticandosi, per esempio, di quando fu proprio il Regno Unito a dare inizio alle danze nel 1963, con l’allora ministro della guerra John Profumo e lo scandalo che porta il suo nome.


Altri paesi non la pensano così: prendiamo la Germania, che nella persona del cancelliere Angela Merkel ha dichiarato di volersi accollare la ricostruzione della chiesa quattrocentesca di Onna; il paesino devastato dal sisma era già stato provato, durante la seconda guerra mondiale, da un eccidio compiuto dalle truppe della Wehrmacht nei primi giorni del giugno 1944, e la Germania intenderebbe così espiare le sue antiche colpe nei confronti del piccolo borgo. Questa smania tutta biblica di lavar via il sangue che padri malaccorti avrebbero fatto ricadere sui figli io personalmente non la capisco: ma prima di tutto non sono tedesca, e poi soprattutto non mi è toccato subire nessun lavaggio del cervello — o forse sì, c’hanno provato, ma per certi tipi di sporco io sono e resto irriducibile come Pig Pen.


Fortuna che sappiamo nuovamente di poter contare sulla certezza della vicinanza, che dico?, dell’amicizia degli Stati Uniti: adesso sì che possiamo stare veramente tranquilli.


Anzi, potremmo. Perché, incredibilmente, ci sono pure guastafeste come Lucio Caracciolo che, papale papale, ti spiattellano sul muso una verità nuda e soprattutto crudissima: «questa formula di incontro fra i “Grandi” del mondo ha finito di disvelare la sua vacuità. Ossia l’incapacità di incidere concretamente sugli affari del mondo». Ma com’è possibile?!? — si chiederanno sgomenti il colto e l’inclita, avvezzi al Tg4 e alle veline. Non è mica difficile: basta considerare che il G8 (è sempre Caracciolo che parla, sul n. 27 de “l’Espresso” ora in edicola) altro non è che «un’eterogenea e autoreferenziale compagnia, che include Stati di potenza - economica, geopolitica e culturale - assai variabile, oltre che di diverso orientamento istituzionale (dalla non democrazia russa alle più radicate liberaldemocrazie occidentali)», e che «i suoi membri (Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti, Canada e Giappone) rappresentano appena più del 50 per cento del prodotto interno lordo mondiale, ma solo il 13 per cento della popolazione. E certo il peso degli Stati Uniti o della Russia sugli affari globali non è paragonabile a quello del Canada o dell’Italia». In soldoni, non possiamo attenderci dal G8 né ricette miracolose né programmi fattibili né «decisioni vincolanti per nessuno. Al massimo, dichiarazioni di principio, indicazioni generali. Dalle regole dell’economia mondiale all’Africa, dall’ambiente alla sicurezza alimentare, i Grandi non mancheranno di produrre comunicati e documenti sufficientemente generici da non impegnare troppo nessuno, e soprattutto da non comportare verifiche troppo stringenti del loro grado di concretezza, quindi di attuazione. Questa è la regola che tutti gli sherpa addetti alla definizione dei documenti, all’opera da mesi sotto la guida italiana, sanno di dover rispettare». Continua impietosamente Caracciolo: «Al fondo, il G8 testimonia della difficoltà di avvicinare la cosiddetta governance globale, termine volutamente generico che starebbe a indicare la gestione concordata degli affari del mondo. Ora, essendo questa ipotesi impossibile nel contesto geopolitico attuale - come lungo tutta la storia dell’umanità - dovremo probabilmente accontentarci, nel migliore dei casi, di affermazioni di buona volontà. O di regole che comunque non potranno essere applicate, in assenza di autorità abilitate a farlo. Il fossato fra problemi mondiali e istituzioni abilitate a risolverlo è stridente. Nel campo economico, e non solo, si profila l’ombra del G2: un condominio sinoamericano, che rifletta la simbiosi fra Cina, produttrice di prima e ultima istanza, e America, superconsumatrice. Il fatto che Pechino sia il massimo creditore degli Stati Uniti, e allo stesso tempo abbia vitale bisogno del mercato americano per collocarvi le sue merci, ha creato un duopolio di fatto che forse un giorno troverà sanzione geopolitica».


Contenti? Cosa credevate, che in seno al G8 si definissero veramente i destini del mondo? Eh no, cari. Il G8 è la cortina di fumo planetaria, è il vapore stupefacente che la Sibilla respira nascondendosene al volgo, è l’escamotage di un qualunque Sik-Sik per celare i suoi poveri trucchi: ciò che è grandioso è il fanatico convincimento di tutti i contestatori, pronti a scatenarsi all’assalto di un qualsiasi Palazzo d’Inverno laddove si manifesti concretamente e visibilmente, dimenticandosi della vecchia lezione di Benjamin Disraeli — «Come vedete, mio caro Coningsby, il mondo è governato da personaggi molto diversi da quelli che si immaginano quando non si è dietro le quinte del teatro»


di Alessandra Colla

09 luglio 2009

Il G8 e la vera alternativa

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Non vogliamo neanche sapere quanti quattrini pubblici saranno buttati per coprire le spese del G8, ennesima inutile parata di governi che non governano nulla salvo queste messinscene. Sono riunioni che servono solo a illudere l'opinione pubblica che stabilire le sorti del pianeta siano i politici, eletti dal popolo, chi più chi meno, con la truffa "democratica". E a noi, a dirla tutta, non interessa neanche granchè degli sprechi in quanto tali, quanto dell'inganno per il quale è vietato dire che tutti i piani e gli annunci di questi summit restano regolarmente lettera morta, perchè il vero potere ce l'hanno banche centrali, Fmi, Wto, multinazionali e tutta la fairy band della speculazione internazionale. Sennonchè quel campione del vittimismo "chiagne e fotte", il premier Silvio Berlusconi, ha scelto la martoriata Aquila, ancora fumante di macerie e disperazione, per far sfoggio di buoni sentimenti e criminalizzare a priori la protesta dei cosiddetti no-global che puntuale accompagna ogni G8.
Cosiddetti, certo: perchè la marea "alternativa", la costellazione di Porto Alegre, tutti quei movimenti e gruppi che aspirano ad una globalizzazione "diversa" ("un altro mondo è possibile", è il loro slogan) non sono affatto no-global. Non sono contrari alla globalizzazione in sè. Si accontenterebbero che fosse un'altra, liberata dal neoliberismo, dalle disuguaglianze economiche e dallo sviluppo insostenibile, che per loro potrebbe benissimo diventare sostenibile se corretto e riformato secondo superate ricette di sinistra (in pratica la redistribuzione di risorse dal Nord al Sud, perpetuando così l'invasione economica e culturale dell'Occidente in Africa, Asia e America Latina).
Per noi è in sè e per sè un delitto contro l'umanità l'omologazione di ogni angolo della Terra al nostro modello di produzione e consumo, ai nostri stili di vita e al nostro immaginario sociale. Punto e a capo. Ed è da questo misconoscimento di fondo che deriva il fallimento conclamato della galassia no-global, che usurpa tale etichetta spacciandosi per ciò che non è. Noi non ci uniamo alla solita marcetta claudicante di finti avversari del mostro globale. La maggior parte dei quali, intendiamoci, quando scandisce le parole d'ordine contro la congrega dei privilegiati è in perfetta buona fede. Ma sbaglia clamorosamente bersaglio. E lo sbaglia perchè è priva di un'analisi aggiornata e perspicace, aderente ad una realtà che non si lascia spiegare nei termini del classico terzomondismo.
In parole semplici, non è ai presidenti e primi ministri delle otto grandi potenze mondiali che si deve chiedere il conto della fame che attanaglia intere popolazioni, della miserie delle bidonvilles africane, delle discariche di rifiuti occidentali disseminate nei paesi del Sud del globo. I responsabili siamo noi, consumatori di questo modo di vivere da infelici maiali, che quando produciamo all'impazzata per tenere in piedi il baraccone industriale e quando diamo credito (la famosa "fiducia") al sistema finanziario, ci macchiamo, noi per primi, della colpa di distruggere mezzo mondo. E coloro che vorrebbero che il nostro presunto benessere materiale fosse esteso al mondo tutto, intero, senza eccezioni, cioè i diversamente global (chiamiamoli così, è più esatto), non fanno altro che sorreggere dall'altra parte la macchina livellatrice dello sviluppo. E spiace sentire che anche Ratzinger, questo papa per altri versi apprezzabile, si accodi alla schiera "riformista" sostenendo che bisogna "convertire il modello di sviluppo globale, rendendolo capace di promuovere uno sviluppo umano integrale".
L'alternativa reale c'è. E' il localismo, puro e schietto. E' riportare la misura dell'esistenza dei popoli al più piccolo grado di prossimità con le comunità che si auto-riconoscono come tali. Una misura variabile, libera, che si differenzia di volta in volta a seconda della consapevolezza di ciascun gruppo di uomini di vedersi accomunati da un destino collettivo. Perciò declinabile in forme differenti: tribali dove ancora esiste il senso di tribù, o nazionali, o bioregionali, o politico-civiche. Il come andrebbe lasciato alla storia e alla decisione di ogni specifico contesto, senza preclusioni ideologiche, nostalgismi premoderni o aspirazioni che non tengano in debito conto gli ultimi cento o duecento anni di cambiamenti, per quanto devastanti essi siano stati.
Per l'Italia, il pensiero di chi scrive va alla scrostazione della posticcia maschera di "Stato nazionale" uscita dal Risorgimento e alla riemersione delle feconde peculiarità comunali, o regionali, o isolane, o addirittura valligiane, caso per caso, in base a tradizioni, dialetti, senso di appartenenza ma anche, elemento decisivo, la presenza di un interesse territoriale comune qui e ora, in questo frangente storico. Il tutto modulabile secondo la necessità di far fronte all'oggi, su su fino ad una Grande Europa che faccia da cappello protettivo. Detto con un esempio: il mio Veneto, terra di antichi costumi municipali ben amministrati dalla liberalità del Leone di Venezia, una piccola patria all'interno di un'Italia confederata, neo-rinascimentale (senza più l'eterna conflittualità del Quattro-Cinquecento, si capisce), a sua volta inserita in un'Unione Europea dei popoli, indipendente dall'alleanza-capestro con gli Stati Uniti e svincolata dalla dittatura dell'euro. Un sogno, è chiaro. Ma la vita non è vita, senza sogni.


di Alessio Mannino

11 luglio 2009

Le forze di occupazione in Iraq: ritiro dalle città o ridispiegamento?









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7 luglio 2009


Le definizioni si sono sprecate per il 30 giugno, giorno del ritiro delle forze americane dalle città irachene occupate, sia da parte del comando di occupazione americano sia da parte del governo di occupazione iracheno. Cominciamo dai discorsi del governo. La definizione più diffusa e ripetuta da parte dei politici iracheni è stata quella di "recupero della sovranità nazionale", a cui si è affiancata quella di "giorno storico". Il concetto di 'sovranità’ e di 'assunzione della sovranità’ suona stranamente nel nuovo Iraq. Il governatore Paul Bremer aveva già 'consegnato la sovranità’ a Iyad Allawi, il primo premier del governo di occupazione, il 28 giugno del 2004, fuggendo col favore delle tenebre per timore degli attacchi della resistenza. La celebrazione durò cinque minuti, durante i quali Bremer disse, rivolgendosi ad Allawi, Ajil al-Yawer, e Barham Salih (al-Yawer e Salih furono rispettivamente presidente e vice primo ministro del governo iracheno ad interim (N.d.T.) ): "ormai siete pronti per la sovranità; riteniamo che ciò sia una parte importante del nostro impegno in qualità di custodi temporanei finalizzato a restituirvi la sovranità". Allawi definì quel giorno (notate la somiglianza con il modo di rapportarsi al giorno del ritiro delle truppe americane da poco celebrato) come un "giorno storico". Al-Yawer aggiunse: "Questo è un giorno storico e felice". Bremer rispose ricordando i servizi resi dall’America nei loro confronti: "Senza dubbio la liberazione dell’Iraq è stata una fra le più grandi e nobili imprese".

Da quel giorno l’ossessione dell’assunzione della 'sovranità’ non ha più abbandonato i politici (iracheni) dell’occupazione, forse perché la memoria di chi mente non si estende a tutte le menzogne quotidiane, e l’assunzione della sovranità è una menzogna che necessita di aggiunte e di 'abbellimenti’ ogni giorno. Così, il 'nuovo Iraq’ ha cominciato a riposare sugli allori della sovranità e del 'completamento della sovranità’. Nel novembre del 2008, il 'presidente’ Jalal Talabani disse che "la ratifica dell’accordo sul ritiro delle truppe americane dall’Iraq significa il completamento degli elementi di sovranità e indipendenza del paese". Senonché egli dimenticò ben presto queste parole, perché nel corso di una successiva intervista con il canale di stato Al-Iraqiya disse: "Purtroppo, molti dei nostri fratelli in Iraq non sanno ciò che avviene dietro le quinte; noi non siamo un paese libero e indipendente". Poi Talabani tornò a ricordare i meriti dei suoi padroni nel giorno d’inaugurazione della più grande ambasciata americana del mondo, nella capitale Baghdad, il 5 gennaio 2009. In quell’occasione egli affermò che "l’esistenza di un Iraq democratico, unito e indipendente non sarebbe stata possibile se non fosse stato per la decisione coraggiosa e storica del presidente George W. Bush di liberare l’Iraq". Egli tenne il suo discorso alla presenza del criminale di guerra e vicesegretario di stato americano John Negroponte, il quale a sua volta disse la sua sul concetto di 'sovranità’: "Avete consacrato la vostra vita di combattenti e uomini di stato a un Iraq libero, sovrano e unito". E’ bene ricordare che Negroponte è il padre spirituale degli squadroni della morte in America Latina e in Iraq, dei quali sono state vittime, secondo studi di livello mondiale, centinaia di migliaia di civili.

Il primo ministro del secondo governo di occupazione, Ibrahim al-Jaafari, contribuì ad aggiungere nuove dimensioni al concetto di 'sovranità’. Il 1° luglio del 2005, egli disse che "il processo a Saddam Hussein rappresenterà una forma di sovranità irachena". Siccome il partito 'Daawa’ – una formazione politica di ispirazione confessionale – è quello che ha prodotto sia Jaafari che Maliki, non c’è da stupirsi della somiglianza dei loro discorsi sulla sovranità, sebbene i tempi siano cambiati. Ecco infatti Maliki rivolgere un discorso agli iracheni in occasione del ritiro delle truppe americane, durante il quale egli ha affermato: "La sovranità nazionale è una linea rossa che non può essere oltrepassata, in nessun caso". Si tratta di un tipo di vaneggiamento che ci ricorda le dichiarazioni dei leader del suo partito, e di quelli del SIIC (Supremo Consiglio Islamico Iracheno), quando dicevano che si sarebbero sbarazzati dell’occupazione in sei mesi, e che la 'sovranità’ era una linea rossa non oltrepassabile! Maliki ha proseguito il suo discorso dicendo: "Oggi l’Iraq è entrato in una nuova fase, dopo l’applicazione dell’accordo sul ritiro delle forze straniere". Ma lasciamo da parte il leitmotiv dell’ 'ingresso dell’Iraq in una nuova era’ poiché esso si smentisce per il solo fatto di essere ripetuto fino all’eccesso, e volgiamo il nostro sguardo a ciò che c’è di vero nel 'ritiro delle forze straniere’. In realtà esso non è più di un ritiro formale allo scopo di proteggere le forze di occupazione dagli attacchi della resistenza. Le truppe irachene saranno utilizzate come scudi umani per proteggerle e per mantenere invariato il loro potenziale bellico all’interno delle loro basi fortificate. Le truppe americane potranno tornare nelle strade qualora la situazione lo richiedesse, e continueranno inoltre ad essere libere di lanciare attacchi dal cielo e di utilizzare gli aerei senza pilota per compiere incursioni, bombardamenti e operazioni di monitoraggio. Le forze di occupazione continuano ad essere annidate nel cuore di Baghdad, all’interno della più grande ambasciata americana del mondo, all’ingresso della zona verde, lungo tutta l’autostrada che conduce all’aeroporto, e nelle zone di Baghdad Ovest, che sono state riclassificate come 'esterne alla città’. E mentre le truppe presenti nelle città hanno ridefinito i propri nomi per diventare forze di addestramento e di 'consulenza’, l’ultima inchiesta sull’Iraq rivela che il numero dei 'mercenari’, i contractor al soldo del Pentagono, è cresciuto del 23% dall’arrivo di Obama alla Casa Bianca. Secondo i dati americani di questo mese, si tratta di 126.000 contractor militari, ovvero non operanti nel settore dei servizi, né come camionisti o altro. Più del 30% di essi sono americani precedentemente impiegati nelle squadre delle missioni speciali. I rimanenti sono professionisti provenienti dall’America Latina, dal Sudafrica e da altre regioni che sono state sottoposte a esperienze di repressione dei movimenti di liberazione e della democrazia. Ciò significa che al ritiro di un certo numero di soldati dell’esercito americano regolare corrisponderà un aumento, in percentuale anche maggiore, di mercenari che godono di un’immunità superiore a quella dei militari dell’esercito americano, indipendentemente dai crimini che commettono. Questo è uno dei punti essenziali che i politici iracheni fanno finta di non vedere, e che di tanto in tanto si vantano di aver eliminato, come fece Jaafari nel settembre del 2005, quando mentì senza vergogna affermando: "D’ora in avanti la legge irachena sarà applicata a tutti i crimini commessi in Iraq, inclusi quelli commessi dalla forza multinazionale". Ed ecco che siamo ormai alla metà del 2009, e gli assassini circolano ancora liberamente in terra d’Iraq.

Il general maggiore Robert Caslen, comandante delle forze americane nel nord dell’Iraq, ha dichiarato il 26 giugno che le truppe americane avrebbero circondato le città nel tentativo di ripetere la strategia di concentrazione delle forze che era stata applicata in precedenza dall’esercito, sotto il comando del generale David Petraeus. Egli ha anche ricordato che il governo iracheno ha accettato la presenza di forze americane 'non combattenti’ in alcune città. Ciò include il mantenimento di cinque posizioni nella città di Mosul anche dopo il giorno del 'ritiro’.

Il governo iracheno, che si vanta della propria sovranità, è riuscito a trasformare questa sovranità, così come altri nobili concetti legati alla dignità e alla giustizia, in un concetto vuoto e privo di qualsiasi significato. Non so se le immagini del milione di vittime civili irachene, uccise a seguito dell’invasione e dell’occupazione dell’Iraq, sono sfilate davanti agli occhi di Maliki mentre leggeva il suo discorso sul rapporto paritario dell’Iraq con l’America, gettando la colpa dei mali del paese sulle spalle "dei terroristi, dei takfiriti (gruppi islamici estremisti che accusano di apostasia altri musulmani (N.d.T.) ), dei membri del regime baathista e delle bande criminali". Come se egli non avesse mai avuto notizia delle centinaia di rapporti pubblicati dalle organizzazioni umanitarie e per la difesa dei diritti umani, incluso l’ufficio delle Nazioni Unite in Iraq (UNAMI) che opera in collaborazione con il suo governo, i quali documentano le violazioni, i trattamenti umilianti, gli omicidi, e ogni altra forma di crimini commessi dalle forze di occupazione, da sole o in collaborazione con le sue forze di sicurezza e con le milizie del suo governo.

Proteggere le forze di occupazione e tacere sui loro crimini è di per sé un crimine imperdonabile. Il cittadino iracheno continuerà ad essere vittima di questi crimini e di queste violazioni fino a quando le forze di occupazione rimarranno sulla nostra terra godendo dell’immunità rispetto alle nostre leggi. Le cose non cambiano molto se queste forze di occupazione si trovano all’interno o al di fuori delle città.

Haifa Zangana è una scrittrice irachena; è stata prigioniera nelle carceri del regime di Saddam Hussein; attualmente risiede in Gran Bretagna; scrive abitualmente sul quotidiano al-Quds al-Arabi e collabora con giornali come il Guardian e al-Ahram Weekly

10 luglio 2009

G8, il circo è iniziato


Finalmente è arrivato il circo del G8. Mi dispiace per la gente d’Abruzzo, ma il resto d’Italia e del mondo doveva pur divertirsi un pochino, no?


La cosa urta molto il Guardian, che negli ultimi tempi ha tirato fuori pruderies vittoriane dimenticandosi, per esempio, di quando fu proprio il Regno Unito a dare inizio alle danze nel 1963, con l’allora ministro della guerra John Profumo e lo scandalo che porta il suo nome.


Altri paesi non la pensano così: prendiamo la Germania, che nella persona del cancelliere Angela Merkel ha dichiarato di volersi accollare la ricostruzione della chiesa quattrocentesca di Onna; il paesino devastato dal sisma era già stato provato, durante la seconda guerra mondiale, da un eccidio compiuto dalle truppe della Wehrmacht nei primi giorni del giugno 1944, e la Germania intenderebbe così espiare le sue antiche colpe nei confronti del piccolo borgo. Questa smania tutta biblica di lavar via il sangue che padri malaccorti avrebbero fatto ricadere sui figli io personalmente non la capisco: ma prima di tutto non sono tedesca, e poi soprattutto non mi è toccato subire nessun lavaggio del cervello — o forse sì, c’hanno provato, ma per certi tipi di sporco io sono e resto irriducibile come Pig Pen.


Fortuna che sappiamo nuovamente di poter contare sulla certezza della vicinanza, che dico?, dell’amicizia degli Stati Uniti: adesso sì che possiamo stare veramente tranquilli.


Anzi, potremmo. Perché, incredibilmente, ci sono pure guastafeste come Lucio Caracciolo che, papale papale, ti spiattellano sul muso una verità nuda e soprattutto crudissima: «questa formula di incontro fra i “Grandi” del mondo ha finito di disvelare la sua vacuità. Ossia l’incapacità di incidere concretamente sugli affari del mondo». Ma com’è possibile?!? — si chiederanno sgomenti il colto e l’inclita, avvezzi al Tg4 e alle veline. Non è mica difficile: basta considerare che il G8 (è sempre Caracciolo che parla, sul n. 27 de “l’Espresso” ora in edicola) altro non è che «un’eterogenea e autoreferenziale compagnia, che include Stati di potenza - economica, geopolitica e culturale - assai variabile, oltre che di diverso orientamento istituzionale (dalla non democrazia russa alle più radicate liberaldemocrazie occidentali)», e che «i suoi membri (Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti, Canada e Giappone) rappresentano appena più del 50 per cento del prodotto interno lordo mondiale, ma solo il 13 per cento della popolazione. E certo il peso degli Stati Uniti o della Russia sugli affari globali non è paragonabile a quello del Canada o dell’Italia». In soldoni, non possiamo attenderci dal G8 né ricette miracolose né programmi fattibili né «decisioni vincolanti per nessuno. Al massimo, dichiarazioni di principio, indicazioni generali. Dalle regole dell’economia mondiale all’Africa, dall’ambiente alla sicurezza alimentare, i Grandi non mancheranno di produrre comunicati e documenti sufficientemente generici da non impegnare troppo nessuno, e soprattutto da non comportare verifiche troppo stringenti del loro grado di concretezza, quindi di attuazione. Questa è la regola che tutti gli sherpa addetti alla definizione dei documenti, all’opera da mesi sotto la guida italiana, sanno di dover rispettare». Continua impietosamente Caracciolo: «Al fondo, il G8 testimonia della difficoltà di avvicinare la cosiddetta governance globale, termine volutamente generico che starebbe a indicare la gestione concordata degli affari del mondo. Ora, essendo questa ipotesi impossibile nel contesto geopolitico attuale - come lungo tutta la storia dell’umanità - dovremo probabilmente accontentarci, nel migliore dei casi, di affermazioni di buona volontà. O di regole che comunque non potranno essere applicate, in assenza di autorità abilitate a farlo. Il fossato fra problemi mondiali e istituzioni abilitate a risolverlo è stridente. Nel campo economico, e non solo, si profila l’ombra del G2: un condominio sinoamericano, che rifletta la simbiosi fra Cina, produttrice di prima e ultima istanza, e America, superconsumatrice. Il fatto che Pechino sia il massimo creditore degli Stati Uniti, e allo stesso tempo abbia vitale bisogno del mercato americano per collocarvi le sue merci, ha creato un duopolio di fatto che forse un giorno troverà sanzione geopolitica».


Contenti? Cosa credevate, che in seno al G8 si definissero veramente i destini del mondo? Eh no, cari. Il G8 è la cortina di fumo planetaria, è il vapore stupefacente che la Sibilla respira nascondendosene al volgo, è l’escamotage di un qualunque Sik-Sik per celare i suoi poveri trucchi: ciò che è grandioso è il fanatico convincimento di tutti i contestatori, pronti a scatenarsi all’assalto di un qualsiasi Palazzo d’Inverno laddove si manifesti concretamente e visibilmente, dimenticandosi della vecchia lezione di Benjamin Disraeli — «Come vedete, mio caro Coningsby, il mondo è governato da personaggi molto diversi da quelli che si immaginano quando non si è dietro le quinte del teatro»


di Alessandra Colla

09 luglio 2009

Il G8 e la vera alternativa

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Non vogliamo neanche sapere quanti quattrini pubblici saranno buttati per coprire le spese del G8, ennesima inutile parata di governi che non governano nulla salvo queste messinscene. Sono riunioni che servono solo a illudere l'opinione pubblica che stabilire le sorti del pianeta siano i politici, eletti dal popolo, chi più chi meno, con la truffa "democratica". E a noi, a dirla tutta, non interessa neanche granchè degli sprechi in quanto tali, quanto dell'inganno per il quale è vietato dire che tutti i piani e gli annunci di questi summit restano regolarmente lettera morta, perchè il vero potere ce l'hanno banche centrali, Fmi, Wto, multinazionali e tutta la fairy band della speculazione internazionale. Sennonchè quel campione del vittimismo "chiagne e fotte", il premier Silvio Berlusconi, ha scelto la martoriata Aquila, ancora fumante di macerie e disperazione, per far sfoggio di buoni sentimenti e criminalizzare a priori la protesta dei cosiddetti no-global che puntuale accompagna ogni G8.
Cosiddetti, certo: perchè la marea "alternativa", la costellazione di Porto Alegre, tutti quei movimenti e gruppi che aspirano ad una globalizzazione "diversa" ("un altro mondo è possibile", è il loro slogan) non sono affatto no-global. Non sono contrari alla globalizzazione in sè. Si accontenterebbero che fosse un'altra, liberata dal neoliberismo, dalle disuguaglianze economiche e dallo sviluppo insostenibile, che per loro potrebbe benissimo diventare sostenibile se corretto e riformato secondo superate ricette di sinistra (in pratica la redistribuzione di risorse dal Nord al Sud, perpetuando così l'invasione economica e culturale dell'Occidente in Africa, Asia e America Latina).
Per noi è in sè e per sè un delitto contro l'umanità l'omologazione di ogni angolo della Terra al nostro modello di produzione e consumo, ai nostri stili di vita e al nostro immaginario sociale. Punto e a capo. Ed è da questo misconoscimento di fondo che deriva il fallimento conclamato della galassia no-global, che usurpa tale etichetta spacciandosi per ciò che non è. Noi non ci uniamo alla solita marcetta claudicante di finti avversari del mostro globale. La maggior parte dei quali, intendiamoci, quando scandisce le parole d'ordine contro la congrega dei privilegiati è in perfetta buona fede. Ma sbaglia clamorosamente bersaglio. E lo sbaglia perchè è priva di un'analisi aggiornata e perspicace, aderente ad una realtà che non si lascia spiegare nei termini del classico terzomondismo.
In parole semplici, non è ai presidenti e primi ministri delle otto grandi potenze mondiali che si deve chiedere il conto della fame che attanaglia intere popolazioni, della miserie delle bidonvilles africane, delle discariche di rifiuti occidentali disseminate nei paesi del Sud del globo. I responsabili siamo noi, consumatori di questo modo di vivere da infelici maiali, che quando produciamo all'impazzata per tenere in piedi il baraccone industriale e quando diamo credito (la famosa "fiducia") al sistema finanziario, ci macchiamo, noi per primi, della colpa di distruggere mezzo mondo. E coloro che vorrebbero che il nostro presunto benessere materiale fosse esteso al mondo tutto, intero, senza eccezioni, cioè i diversamente global (chiamiamoli così, è più esatto), non fanno altro che sorreggere dall'altra parte la macchina livellatrice dello sviluppo. E spiace sentire che anche Ratzinger, questo papa per altri versi apprezzabile, si accodi alla schiera "riformista" sostenendo che bisogna "convertire il modello di sviluppo globale, rendendolo capace di promuovere uno sviluppo umano integrale".
L'alternativa reale c'è. E' il localismo, puro e schietto. E' riportare la misura dell'esistenza dei popoli al più piccolo grado di prossimità con le comunità che si auto-riconoscono come tali. Una misura variabile, libera, che si differenzia di volta in volta a seconda della consapevolezza di ciascun gruppo di uomini di vedersi accomunati da un destino collettivo. Perciò declinabile in forme differenti: tribali dove ancora esiste il senso di tribù, o nazionali, o bioregionali, o politico-civiche. Il come andrebbe lasciato alla storia e alla decisione di ogni specifico contesto, senza preclusioni ideologiche, nostalgismi premoderni o aspirazioni che non tengano in debito conto gli ultimi cento o duecento anni di cambiamenti, per quanto devastanti essi siano stati.
Per l'Italia, il pensiero di chi scrive va alla scrostazione della posticcia maschera di "Stato nazionale" uscita dal Risorgimento e alla riemersione delle feconde peculiarità comunali, o regionali, o isolane, o addirittura valligiane, caso per caso, in base a tradizioni, dialetti, senso di appartenenza ma anche, elemento decisivo, la presenza di un interesse territoriale comune qui e ora, in questo frangente storico. Il tutto modulabile secondo la necessità di far fronte all'oggi, su su fino ad una Grande Europa che faccia da cappello protettivo. Detto con un esempio: il mio Veneto, terra di antichi costumi municipali ben amministrati dalla liberalità del Leone di Venezia, una piccola patria all'interno di un'Italia confederata, neo-rinascimentale (senza più l'eterna conflittualità del Quattro-Cinquecento, si capisce), a sua volta inserita in un'Unione Europea dei popoli, indipendente dall'alleanza-capestro con gli Stati Uniti e svincolata dalla dittatura dell'euro. Un sogno, è chiaro. Ma la vita non è vita, senza sogni.


di Alessio Mannino