11 settembre 2009

Destra e sinistra: sempre più una convenzione


1. Da tempo ormai sta diventando opinione comune che la distinzione tra destra e sinistra è sempre più labile e indistinta. Adesso poi, con certi atteggiamenti smaccati di Fini, le nette separazioni sembrano cadute. Anch’io ho parlato spesso di “gioco degli specchi”, volendo ricordare che, pur nella confusione tra i due schieramenti, possono a volte sussistere differenze di “fisionomia”. Tuttavia, ho l’impressione che spesso l’attuale non distinzione venga presa come una diversità netta rispetto soprattutto a presunti antagonismi di un tempo. Bisognerebbe invece ricordare che, in Italia, il trasformismo della sinistra risale addirittura al Governo Depretis del 1876. Non si creda però che altrove si sia avuta una chiara divaricazione tra i due schieramenti; non sempre almeno.

Cominciamo con il dire che sinistra e destra sono considerate, per chi viene da una tradizione effettivamente antagonistica, correnti “borghesi”, comunque dei dominanti nelle società di tipologia capitalistica; correnti del tutto integrate nella riproduzione sistemica di tale forma di società, di cui hanno sempre rappresentato alternative riguardanti modalità di poco diseguali per conseguire le medesime finalità. Se immaginiamo che la politica, nel capitalismo, sia un fiume, potremmo pensare a due suoi rami che corrono grosso modo paralleli, dirigendosi verso la stessa foce. Nel bel film La villeggiatura (di Marco Leto), rivolgendosi al “villeggiante” (condannato al confino) prof. Rossini, inizialmente liberale, che teneva lezioni sulla storia d’Italia fino alla presa del potere da parte del fascismo, l’operaio comunista ad un certo punto sbotta (cito il senso, non le autentiche parole pronunciate nel film): “perché lei continua a parlare della destra e della sinistra? Ci sono la destra, la sinistra e la sinistra di classe”.
Mi permetto di rilevare un errore, giacché la sinistra di classe è il comunismo. In ogni caso, il senso è chiaro: le prime due correnti fluiscono lungo alvei paralleli, l’unica che si distacca e vuol dirigersi altrove è la terza. Da una parte, dunque, due forme differenti di lubrificazione della stessa “macchina” sociale; dall’altra, la volontà di inceppare la stessa e di proporre, per via rivoluzionaria, una sua drastica trasformazione, indirizzandola verso la riproduzione di rapporti sociali pensati come comunisti. Qui arriviamo al punto decisivo. In altre parti d’Europa, molto prima che in Italia (e per certi versi in Francia e paesi latini), ma in modo assai netto nel mondo anglosassone e scandinavo, ecc., il comunismo è sparito da gran tempo e le due correnti “borghesi” (uso apposta un termine un po’ vetusto) appaiono quale unico orizzonte politico; per cui ci si è pigramente adattati alla distinzione tra destra e sinistra – sempre più esile di senso – senza troppi problemi.

2. In Italia è stato diverso poiché esisteva alcuni decenni fa, nella coscienza di strati popolari (operai e contadini) non esigui, il sentimento dell’antagonismo tra comunismo (non semplicemente “sinistra di classe”) e le correnti “borghesi”. Solo che, come si evince anche dal bell’articolo di Berlendis, la prima corrente, per ragioni internazionali (patto di Yalta con divisione del mondo in due “campi”, ecc.) e interne, si è andata progressivamente adattando, nei suoi vertici dirigenti, alla riproduzione dei rapporti capitalistici. Così, insensibilmente, il comunismo è stato via via pensato quale semplice parte della sinistra; un po’ più radicale dell’altra, ma progressivamente sempre meno radicale. Si è prodotto uno iato crescente tra gruppi dirigenti del Pci e base popolare, in cui – sia pure in modo viepiù sbiadito – rimaneva una “memoria” dell’antagonismo “al sistema”. La rottura più netta si è prodotta tra ceti intellettuali e assimilati – in specie quelli dei settori improduttivi (non dico inutili, pur se spesso sono anche questo, anzi nocivi) del settore “pubblico” o da questo alimentati finanziariamente – e la base popolare.

In Italia, dunque, la sempre più scarsa distinguibilità, e la trasversalità, tra destra e sinistra è frutto di una sorta di “mutazione genetica” subita dal comunismo italiano. Quando poi si è verificato il crollo del campo detto socialista – cui il Pci era ormai lontano, non avendo però ancora rotto con esso ogni legame ombelicale (quasi soltanto finanziario) – è avvenuto “l’ultimo scatto” verso il pieno schieramento atlantico, cioè filoamericano, perdendo ogni pur piccola “eco” di ciò che fu il comunismo, quanto meno come ideologia e presa di posizione antisistema; “scatto” sanzionato da ripetuti cambi di nome e di sostanza, cioè di iscritti e base elettorale. Così, qualcuno ha vissuto gli ultimi anni come si trattasse di un’autentica confusione tra destra e sinistra. La confusione, l’illanguidirsi di una distinzione, c’è senz’altro e non solo in Italia; tuttavia, qui da noi l’impressione è stata decisamente superiore per il fatto di questa graduale trasformazione del comunismo in sinistra, che ha cancellato ogni vestigia della critica anticapitalistica e antistatunitense (salvo che in pochi zombi, più dannosi ancora nella loro vetustà).

3. Pensare di invertire oggi il flusso della trasformazione storica, ricostituendo forme esangui e utopiche di comunismo e antiquato antimperialismo, è pura illusione (quando non sia solo un ulteriore “tradimento” a scoppi successivi e ritardati, utili a impedire ogni sano ripensamento). Intendiamoci bene: il laido viso del tradimento è ben limpido davanti a chi vuol vedere. La “sinistra – cioè il comunismo divenuto sinistra – è questo viso; per il semplice motivo che ogni processo oggettivo forgia i suoi agenti. E’ certo il tradimento a creare i traditori. Tuttavia, bisogna tenere ben presenti le due lame della forbice se si vuol tagliare (e non tagliarsi). Il tradimento è stato oggettivamente provocato dall’impossibilità di costruzione del socialismo (e comunismo) per errori pratici indotti da gravi errori di teoria. Quest’ultima aveva indicato la possibilità (anzi certezza) di mettere in moto dati processi, possibilità invece oggettivamente insussistente. La conseguente incapacità degli agenti, di dare vita ad un’effettiva transizione al socialismo, ha indotto gli stessi (in quanto guida della “schiera” che credeva di marciare in quella direzione) a coprire gli insuccessi – spesso inconsapevolmente, almeno all’inizio del loro tentativo – con la pura ideologia, magari gridando al sabotaggio dei commilitoni e seguaci. Alla fine però, quando si è capito o intuito che tutto era perduto, gli ultimi dirigenti del movimento diventarono reali traditori; in quel momento, assunsero il comando i più spregevoli, i più meschini, i veri ignobili individui dall’animo nero come la pece.

E’ obbligo morale denunciare e combattere i traditori, indicarli come esempio di bassezza senza limiti. Tuttavia, tale atteggiamento va accompagnato dall’analisi del processo che ha condotto al tradimento, e che difficilmente avrebbe potuto produrre qualcosa di positivo. In ogni caso, però, dobbiamo oggi concludere per l’impossibilità di una qualsiasi ripresa di una critica “antisistema”, in assenza di un ripensamento generale che solo in pochi hanno iniziato, mentre la maggioranza è passata al “sistema” e una piccola minoranza di ritardatari si ostina a sguazzare nel vecchio pantano. Sul comunismo stendiamo momentaneamente (una fase storica) il silenzio; perché parlarne senza analisi – e senza nuove categorie d’analisi – è da sciocchi o da mascalzoni; significa produrre idee fantasmagoriche della “novella società”, che non hanno una qualsiasi possibilità di convincere se non pochi dissennati.

4. In questo senso, e solo in questo, va inteso il programma di studiare e comprendere la transizione d’epoca che sembra in corso di svolgimento adesso. In tale passaggio storico, permangono alcune forme di lotta dei raggruppamenti sociali (non classi) subordinati che, pur con forme apparentemente nuove, ripetono invece il sostanziale “tradunionismo” delle vecchie. Non si tratta di contrastare tali lotte; anzi, nei limiti del possibile, di appoggiarle. Senza però illusioni. Non sono forme di lotta che spostano reali equilibri nei rapporti di forza tra chi sta sopra e chi sta sotto. Sono le lotte tra dominanti – e soprattutto nei loro effetti di conflitto tra più compartimenti degli stessi sul piano internazionale – a provocare effettivi mutamenti fortemente dinamici in questa fase storica. La crisi economica è solo la “passerella” su cui sfilano attori reali che tuttavia coprono quelli decisivi e assai meno appariscenti (non però del tutto nascosti).

Ciò che appare non è. Formula che tuttavia può indurre in errore. Diciamo meglio: ciò che è in vivida luce attira i nostri sguardi e così non vediamo quanto sarebbe più essenziale vedere. Chi manovra i riflettori illumina gli attori (spesso guitti da avanspettacolo) e lascia in (pen)ombra i ben più efficaci suggeritori. In questo nostro paese, tra gli attori illuminati chi troviamo? Vecchie conoscenze: i traditori del comunismo. Quel vecchio tradimento è ormai consumato; utile riparlarne solo in sede storica per comprendere le radici del tradimento odierno. Con animo immutato, infatti, questi deformi nanetti vogliono ripetere lo stesso “scherzo” nell’attuale fase di transizione ad altra epoca, in attuazione mediante la nuova lotta tra dominanti in campo internazionale; mi riferisco alle più volte da noi trattata conflittualità tendenzialmente multipolare che si va instaurando.
E ancora una volta ripeto: questo tradimento va studiato nelle sue determinanti oggettive: quelle del conflitto che – grazie alla “legge” dello sviluppo ineguale delle varie formazioni particolari – si sta instaurando tra Usa e nuove potenze in gestazione. Dobbiamo comprendere le forme di tale conflitto, rifarci a quello precedente (epoca dell’imperialismo) per individuarne le differenze, che implicano diversità della strutturazione sociale dei capitalismi in lotta. Senza mai dimenticare però i traditori, quelli che intendono mettere in svendita gli interessi del paese. E’ a mio avviso superficiale sostenere che tutto ciò riguarda solo i dominanti, mentre noi dovremmo interessarci soltanto dei dominati. Questi ultimi, lo si capisca infine, resteranno a lungo a lottare in quanto dominati, e per di più a livelli di vita in peggioramento, che non ha mai favorito – di per sé, in mancanza di un conflitto lacerante tra i dominanti di vari paesi – la trasformazione anticapitalistica. Intanto, individuiamo i caratteri del conflitto nella fase attuale e come si muovono in esso i traditori degli interessi di ogni dato paese (che sia tra quelli delle rivoluzioni “colorate”, o uno di quelli europei in apnea, o il nostro a rischio di collasso).
di Gianfranco La Grassa

07 settembre 2009

Processo agli economisti: poveri illusi o ricchi illusionisti?




“Processo agli economisti” (www.chiarelettere.it, 2009), è il libro del giornalista Roberto Petrini che descrive i punti deboli della professione tra le più “tristi” e le più pagate del mondo, con un’esposizione chiara, sintetica e ben documentata.

Si potrebbe considerare l’economista come un ragioniere pagato dagli Stati e dalle varie istituzioni per esaminare i conti, senza avere quasi mai la possibilità di intervenire attivamente sui processi in corso. Il primo grande problema riguarda i difetti dei modelli econometrici (un mix di equazioni e statistiche): “Si fondano prevalentemente su quanto è accaduto nel passato e sulle serie storiche di dati statistici. Di conseguenza, quando accade un evento nuovo, in presenza di nuove regole e di atteggiamenti inediti da parte dei soggetti economici, si verifica una discontinuità non prevista e il passato cessa di essere una guida attendibile per prevedere il futuro” (p. 17).



Nessuno è in grado di prevedere il futuro, nemmeno gli economisti. Infatti quasi tutti i migliori economisti ed esperti finanziari hanno perso grandi fortune durante le grandi crisi finanziare. La storia degli uomini e dell’economia è fatto di eventi irripetibili mescolati a corsi e ricorsi storici. Non si può prevedere il momento esatto della scoppio di una crisi o la sua reale entità: si può solo stabilire una fascia temporale di alcuni mesi e le dimensioni indicative della crisi in arrivo (piccola, media, grande). In alcuni casi si viene colpiti semplicemente da un meteorite emotivo. Questi concetti vengono mirabilmente espressi nel libro “Il Cigno Nero” da un grande esperto di “Scienza dell’Incertezza”: Nassim Nicholas Taleb (un uomo dotato di una grande e profonda cultura poliedrica). Quindi “gli economisti prendono dei modelli matematici ma non stanno a guardare la qualità di quello che ci mettono dentro” (Giuseppe Roma, direttore del Censis).

Il secondo grande problema è quello ideologico: “i modelli progressisti-keynesiani sembrano più adatti a considerare una crisi rispetto a quelli conservatori-neoliberisti più in voga negli ultimi anni” (p 18). Purtroppo gli esseri umani vivono ancora in tribù e clan, anche ideologici, e non riescono ad unire i diversi punti di vista sulla conoscenza economica e sociale, e non possono così affrontare l’imperversare delle dure realtà e crisi economiche in maniera razionale. Inoltre, in realtà, il Fondo Monetario Internazionale è gestito dagli Stati Uniti e i 170 membri del suo comitato esecutivo sono nominati dai governi e dagli istituti di emissione, perciò questa istituzione (come molte altre) non ha la possibilità di confrontarsi con dei veri punti di vista esterni. C’è la solita cricca di burocrati indottrinati dalle università private che credono nelle verità pregiudiziali e alle loro stronzate. O per dirla in modo più raffinato è un luogo dove c’è “quel costante scambio d’idee vuote e solenni che è così comune tra personaggi importanti e presuntuosi” (J. Galbraith).

Quale sarà quindi il futuro della nostra economia? Un grande economista, a volte considerato conservatore, a volte considerato originale, fece la previsione della trasformazione del capitalismo in un socialismo burocratico che avrebbe inibito l’innovazione e la creatività. Se pensiamo agli innumerevoli azionisti-cittadini delle varie aziende e multinazionali in un certo senso la previsione si è già avverata: esiste una grande rete di mega-aziende finanziate in gran parte dai cittadini attraverso la Borsa (si sono trasformati i cittadini in minicapitalisti anche per ingabbiarli dentro al sistema) e dirette da burocrati delle risorse umane programmati per recintare, monopolizzare e sorvegliare dei mercati privatizzati. Infatti sono più di cento anni che utilizziamo il motore a scoppio per muoverci e circa cinquant’anni che utilizziamo l’energia nucleare per scaldare l’acqua e far girare delle turbine a vapore. Schumpeter ha avuto ragione e potrebbe avverarsi anche la seconda previsione: qualche vero imprenditore sopravvissuto alla dominazione burocratica si sarebbe alleato alla cittadinanza globale per creare nuove imprese più responsabili e creative. La “distruzione creatrice” punirebbe i vecchi elefanti distruttori della foresta (perché hanno bisogno di troppo cibo per sopravvivere), per premiare molte altre piccole creature più adattabili.

John Kenneth Galbraith, che fu consulente dell’amministrazione Kennedy, riteneva che l’enorme sviluppo delle grandi società multinazionali e del marketing, avesse ridotto il cittadino a consumatore senza vero potere e i rapporti umani a semplici scambi commerciali. Inoltre Galbraith affermò che la borsa era stata inventata per separare il denaro dai cretini. Anche J. M. Keynes non fu molto tenero con lo strapotere distruttivo della finanza: “Il decadente capitalismo internazionale, eppure individualistico, nelle cui mani siamo finiti, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non fornisce nessun bene” (The New Statesman and The Nation, 8-15 luglio 1933).

Dopotutto “Un economista è un esperto che verrà a sapere domani perché ciò che ha previsto ieri non si è verificato oggi” (Anonimo), e i più realisti e onesti vengono evitati accuratamente dalla Tv e dalla stampa, che sono gestite dai vecchi gatti spelacchiati capitalisti e dalle vecchie volpi sogghignanti a capo delle istituzioni finanziarie. Se non ci credete provate a leggere quello che scrive Lyndon LaRouche su www.movisol.org o www.larouchepac.com. Poi ci sono i fenomeni descritti da Nouriel Roubini su www.rgemonitor.com e la descrizione delle irrazionali e brevi vite delle bolle finanziarie raccontate da Robert J. Shiller (Finanza shock, www.egeaonline.it, 2008). In ultimo cito Nino Galloni, un economista accademico, originale e controcorrente, che riconsidera la teoria del Diritto di Signoraggio della Banca centrale, e ha scritto un libro profetico nel 2007: “Il Grande Mutuo. Le ragioni profonde della prossima crisi finanziaria” (www.studimonetari.org).

Purtroppo “la maggior parte degli economisti non si occupa di problemi gravi per l’umanità e per la società, ma di cose che danno loro modo di dimostrare la loro destrezza” (Giorgio Fuà, 2000), utilizzando “formalizzazioni astratte, eleganti, ma inadatte ad interpretare la realtà” (Paolo Sylos Labini, Un paese a civiltà limitata, 2001). E la gente continua a comprare pensando che la bolla non scoppi mai o pensando di poter sfuggire prima delle conseguenze peggiori dello scoppio. Solo i grandi finanzieri godono di questa asimmetria informativa: cioè hanno una massa determinante di informazioni che il risparmiatore ignora (Joseph Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, 2002). È un po’ come se un giocatore di poker potesse giocare vedendo le carte dei suoi avversari. E quando rimangono solo giocatori che si possono vedere le carte a vicenda cosa succede? Si chiede di giocare con lo Stato… Ed è per questi motivi che “il valore nominale dei derivati in giro per il mondo è pari a 8-9 volte il Pil del pianeta che ammonta a 65 mila miliardi di dollari”. Quindi si può ipotizzare che senza un nuovo sistema economico usciremo dalla megadepressione fra circa dieci anni, seguendo un percorso simile a quello del Giappone.

Anche un allievo di Schumpeter, Hyman Minsky, descrisse il meccanismo delle crisi finanziarie: quando le cose vanno bene e i prezzi degli immobili salgono, la gente può continuare facilmente ad indebitarsi in modo sempre più rischioso. Se salgono i tassi d’interesse e il flusso di cassa degli investimenti non basta più a ripagare i debiti, scattano le vendite, che provocano la caduta del valore degli immobili (“Potrebbe ripetersi?”, 1984). Negli Stati Uniti l’ultima serie di crisi ha reso insostenibili i quattro debiti americani: pubblico, estero, delle imprese e dei privati cittadini (Sylos Labini, 2005). La megacrisi è quindi pronta a presentarsi davanti agli sportelli bancari americani…

Del resto l’economia è nata con la rivoluzione industriale ed è quindi una scienza giovane con tutti i difetti derivanti dall’immaturità. Inoltre l’avvento della finanza e l’alta remunerazione del settore ha attratto le migliori menti economiche degli ultimi anni in un settore dove regna la matematica e hanno inventato un gergo incomprensibile per affascinare la gente comune. I grandi classici non avevano bisogno di molte formule matematiche e un grande economista come John Maynard Keynes scrisse la “Teoria dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (l’opera che ci aiutò ad affrontare la Grande depressione) senza usare una sola formula matematica (Loretta Napoleoni, prefazione). Quindi “gli economisti sanno quel che dicono? È a questo punto che sorge un dubbio malizioso: l’economia è un argomento che suscita oggi un grande interesse… e tuttavia poiché i fenomeni sono complessi, gli andamenti spesso caotici, le variabili difficili da individuare e da valutare, e poiché molte sono le zone opache, può anche darsi che alcuni economisti ci capiscano meno di quanto vorrebbero far credere” (Annamaria Testa).

Secondo Loretta Napoleoni molti economisti non si sono accorti della crisi alle porte per aver peccato di arroganza e superbia: “L’economia non è una scienza esatta, ma chiunque la professa sogna che lo sia”. A mio parere questa è solo una visione a 180 gradi della realtà: gli altri 180 gradi ci dicono che nel mondo della finanza d’élite molti vengono pagati per vedere solo un certo tipo di problemi, così una ristretta minoranza può vivere beatamente nell’abbondanza. Dopotutto la dimostrazione di status symbol di grado più elevato “impone” agli uomini quattro comportamenti caratteristici: molti agi, molti consumi, molti sprechi e molti comportamenti scandalosi (è la psicologia del prestigio magistralmente descritta da Thorstein Veblen e Quentin Bell).

Comunque la nostra ignoranza può essere suddivisa in problemi e misteri (Noam Chomsky), e la verità è forse questa: a tutti piacerebbe scommettere con i soldi degli altri, ma solo i banchieri e i finanzieri ci riescono. Dunque gli economisti stipendiati sono dei semplici croupier della ruota della fortuna. Gli altri sono solo degli studiosi molto tristi perché quando arrivano il paziente è già moribondo.
di Damiano Mazzotti

06 settembre 2009

Il gossip serve a mascherare le vere magagne d'Italia


Una volta Fellini mi disse: «L’Italia è un Paese dove la realtà supera sempre l’immaginazione». Nessuna fantasia, credo, nemmeno la più scatenata, avrebbe potuto immaginare che la politica italiana, e i media che fanno da supporto alle due bande che se la contendono, quella di una sinistra che si fa sempre più fatica a definire tale e di una destra che pure si fa fatica a chiamare destra (perché destra e sinistra sono, o perlomeno lo sono state, delle cose serie), sarebbero precipitati così in basso, in una melma maleodorante in cui sguazzano compiaciuti. Si fa fatica anche a parlarne perché è come se, dovendo spiegare una figura geometrica complessa, si dovesse ogni volta ripartire dal punto e dalla retta, cioè dai fondamentali.



Una sinistra consapevole di sè, del senso dello Stato, delle Istituzioni, dovrebbe avere ben chiaro che le vicende private di un premier, qualora non si concretino in reati, non possono essere oggetto di scontro politico. Sono, appunto, fatti privati. E invece è da mesi che la sinistra e i suoi giornali battono il chiodo dei cosiddetti casi Noemi ed escort, e La Repubblica è arrivata a porre al premier domande da confessionale del tipo di quelle che, da ragazzini, ci faceva il prete: «Quante volte, figliolo?». Una cosa grottesca.

Per contrastare questa campagna Il Giornale di Vittorio Feltri è andato a scovare una vecchia vicenda che riguarda il direttore di Avvenire Dino Boffo, che in questi mesi ha criticato duramente la condotta privata del premier. Feltri ha raccontato che il Boffo ha patteggiato su una condanna per molestie a una signora che aveva il torto di essere la moglie di un suo amico o, forse, compagno. Ne è nato un putiferio. Sono intervenuti politici, cardinali, difensori e accusatori d’ufficio e tutti i giornali hanno intinto il biscotto in questa storia pruriginosa. Della sinistra non si capisce se sia più cretina o più connivente. Chi infatti ha tratto vantaggio dai gossip Noemi-escort di cui il «caso Boffo» è solo un’appendice? Silvio Berlusconi. Berlusconi che, a differenza della sinistra, non è cretino, ha cavalcato le storie su Noemi ed escort e ha addirittura incoraggiato il gossip capendo benissimo due cose: 1) Che su quel piano era politicamente inattaccabile 2) Che quel polverone serviva a far passare in secondo piano altre «magagne», chiamiamole così, vecchie e nuove, ben più sostanziali. Per la verità una di queste «magagne» è venuta fuori, indirettamente, proprio nel «caso Boffo». Se Il Giornale fosse un quotidiano normale, la diatriba si sarebbe risolta in una polemica, penosa e avvilente, fra due giornalisti. Ma si dà il caso che Il Giornale appartenga, come si dice pudicamente, «alla famiglia Berlusconi», cioè a Berlusconi. Com’è ultranotorio. Prova ne è che il presidente del Consiglio, per dribblare l’accusa di aver imbeccato Feltri e tentare di evitare uno scontro con la Chiesa, si è sentito in dovere di dissociarsi e ha emanato un comunicato in cui nega di aver mai incontrato o di aver telefonato al direttore prima dell’uscita dell’articolo su Boffo. Non c’è alcun motivo di prendere le distanze da un giornale se non è il tuo. Ma in nessun paese democratico un uomo politico, tantomeno un premier, può avere un giornale, neppure un foglio di quartiere. Invece Berlusconi controlla Il Giornale, tutti i network televisivi nazionali privati, la Mondadori... L’altra «magagna», ancora più grave, che, nella confusione, è passata nel dimenticatoio è che qualche mese fa il Tribunale di Milano ha sentenziato, sia pure in primo grado, che Berlusconi ha corrotto un teste perché dichiarasse il falso. In nessun Paese democratico un premier in una simile situazione potrebbe rimanere al suo posto un giorno di più.

Ma i nostri politici, i media, i cittadini sembrano più interessati alle Noemi, alle D’Addario, ai Boffo, in un Paese dove si sono persi i fondamentali, il senso delle priorità, di cosa è importante di cosa non lo è; è che somiglia sempre più ad un inguardabile bordello. Come diceva Fellini: «L’Italia è un Paese dove la realtà supera sempre l’immaginazione».
di Massimo Fini

11 settembre 2009

Destra e sinistra: sempre più una convenzione


1. Da tempo ormai sta diventando opinione comune che la distinzione tra destra e sinistra è sempre più labile e indistinta. Adesso poi, con certi atteggiamenti smaccati di Fini, le nette separazioni sembrano cadute. Anch’io ho parlato spesso di “gioco degli specchi”, volendo ricordare che, pur nella confusione tra i due schieramenti, possono a volte sussistere differenze di “fisionomia”. Tuttavia, ho l’impressione che spesso l’attuale non distinzione venga presa come una diversità netta rispetto soprattutto a presunti antagonismi di un tempo. Bisognerebbe invece ricordare che, in Italia, il trasformismo della sinistra risale addirittura al Governo Depretis del 1876. Non si creda però che altrove si sia avuta una chiara divaricazione tra i due schieramenti; non sempre almeno.

Cominciamo con il dire che sinistra e destra sono considerate, per chi viene da una tradizione effettivamente antagonistica, correnti “borghesi”, comunque dei dominanti nelle società di tipologia capitalistica; correnti del tutto integrate nella riproduzione sistemica di tale forma di società, di cui hanno sempre rappresentato alternative riguardanti modalità di poco diseguali per conseguire le medesime finalità. Se immaginiamo che la politica, nel capitalismo, sia un fiume, potremmo pensare a due suoi rami che corrono grosso modo paralleli, dirigendosi verso la stessa foce. Nel bel film La villeggiatura (di Marco Leto), rivolgendosi al “villeggiante” (condannato al confino) prof. Rossini, inizialmente liberale, che teneva lezioni sulla storia d’Italia fino alla presa del potere da parte del fascismo, l’operaio comunista ad un certo punto sbotta (cito il senso, non le autentiche parole pronunciate nel film): “perché lei continua a parlare della destra e della sinistra? Ci sono la destra, la sinistra e la sinistra di classe”.
Mi permetto di rilevare un errore, giacché la sinistra di classe è il comunismo. In ogni caso, il senso è chiaro: le prime due correnti fluiscono lungo alvei paralleli, l’unica che si distacca e vuol dirigersi altrove è la terza. Da una parte, dunque, due forme differenti di lubrificazione della stessa “macchina” sociale; dall’altra, la volontà di inceppare la stessa e di proporre, per via rivoluzionaria, una sua drastica trasformazione, indirizzandola verso la riproduzione di rapporti sociali pensati come comunisti. Qui arriviamo al punto decisivo. In altre parti d’Europa, molto prima che in Italia (e per certi versi in Francia e paesi latini), ma in modo assai netto nel mondo anglosassone e scandinavo, ecc., il comunismo è sparito da gran tempo e le due correnti “borghesi” (uso apposta un termine un po’ vetusto) appaiono quale unico orizzonte politico; per cui ci si è pigramente adattati alla distinzione tra destra e sinistra – sempre più esile di senso – senza troppi problemi.

2. In Italia è stato diverso poiché esisteva alcuni decenni fa, nella coscienza di strati popolari (operai e contadini) non esigui, il sentimento dell’antagonismo tra comunismo (non semplicemente “sinistra di classe”) e le correnti “borghesi”. Solo che, come si evince anche dal bell’articolo di Berlendis, la prima corrente, per ragioni internazionali (patto di Yalta con divisione del mondo in due “campi”, ecc.) e interne, si è andata progressivamente adattando, nei suoi vertici dirigenti, alla riproduzione dei rapporti capitalistici. Così, insensibilmente, il comunismo è stato via via pensato quale semplice parte della sinistra; un po’ più radicale dell’altra, ma progressivamente sempre meno radicale. Si è prodotto uno iato crescente tra gruppi dirigenti del Pci e base popolare, in cui – sia pure in modo viepiù sbiadito – rimaneva una “memoria” dell’antagonismo “al sistema”. La rottura più netta si è prodotta tra ceti intellettuali e assimilati – in specie quelli dei settori improduttivi (non dico inutili, pur se spesso sono anche questo, anzi nocivi) del settore “pubblico” o da questo alimentati finanziariamente – e la base popolare.

In Italia, dunque, la sempre più scarsa distinguibilità, e la trasversalità, tra destra e sinistra è frutto di una sorta di “mutazione genetica” subita dal comunismo italiano. Quando poi si è verificato il crollo del campo detto socialista – cui il Pci era ormai lontano, non avendo però ancora rotto con esso ogni legame ombelicale (quasi soltanto finanziario) – è avvenuto “l’ultimo scatto” verso il pieno schieramento atlantico, cioè filoamericano, perdendo ogni pur piccola “eco” di ciò che fu il comunismo, quanto meno come ideologia e presa di posizione antisistema; “scatto” sanzionato da ripetuti cambi di nome e di sostanza, cioè di iscritti e base elettorale. Così, qualcuno ha vissuto gli ultimi anni come si trattasse di un’autentica confusione tra destra e sinistra. La confusione, l’illanguidirsi di una distinzione, c’è senz’altro e non solo in Italia; tuttavia, qui da noi l’impressione è stata decisamente superiore per il fatto di questa graduale trasformazione del comunismo in sinistra, che ha cancellato ogni vestigia della critica anticapitalistica e antistatunitense (salvo che in pochi zombi, più dannosi ancora nella loro vetustà).

3. Pensare di invertire oggi il flusso della trasformazione storica, ricostituendo forme esangui e utopiche di comunismo e antiquato antimperialismo, è pura illusione (quando non sia solo un ulteriore “tradimento” a scoppi successivi e ritardati, utili a impedire ogni sano ripensamento). Intendiamoci bene: il laido viso del tradimento è ben limpido davanti a chi vuol vedere. La “sinistra – cioè il comunismo divenuto sinistra – è questo viso; per il semplice motivo che ogni processo oggettivo forgia i suoi agenti. E’ certo il tradimento a creare i traditori. Tuttavia, bisogna tenere ben presenti le due lame della forbice se si vuol tagliare (e non tagliarsi). Il tradimento è stato oggettivamente provocato dall’impossibilità di costruzione del socialismo (e comunismo) per errori pratici indotti da gravi errori di teoria. Quest’ultima aveva indicato la possibilità (anzi certezza) di mettere in moto dati processi, possibilità invece oggettivamente insussistente. La conseguente incapacità degli agenti, di dare vita ad un’effettiva transizione al socialismo, ha indotto gli stessi (in quanto guida della “schiera” che credeva di marciare in quella direzione) a coprire gli insuccessi – spesso inconsapevolmente, almeno all’inizio del loro tentativo – con la pura ideologia, magari gridando al sabotaggio dei commilitoni e seguaci. Alla fine però, quando si è capito o intuito che tutto era perduto, gli ultimi dirigenti del movimento diventarono reali traditori; in quel momento, assunsero il comando i più spregevoli, i più meschini, i veri ignobili individui dall’animo nero come la pece.

E’ obbligo morale denunciare e combattere i traditori, indicarli come esempio di bassezza senza limiti. Tuttavia, tale atteggiamento va accompagnato dall’analisi del processo che ha condotto al tradimento, e che difficilmente avrebbe potuto produrre qualcosa di positivo. In ogni caso, però, dobbiamo oggi concludere per l’impossibilità di una qualsiasi ripresa di una critica “antisistema”, in assenza di un ripensamento generale che solo in pochi hanno iniziato, mentre la maggioranza è passata al “sistema” e una piccola minoranza di ritardatari si ostina a sguazzare nel vecchio pantano. Sul comunismo stendiamo momentaneamente (una fase storica) il silenzio; perché parlarne senza analisi – e senza nuove categorie d’analisi – è da sciocchi o da mascalzoni; significa produrre idee fantasmagoriche della “novella società”, che non hanno una qualsiasi possibilità di convincere se non pochi dissennati.

4. In questo senso, e solo in questo, va inteso il programma di studiare e comprendere la transizione d’epoca che sembra in corso di svolgimento adesso. In tale passaggio storico, permangono alcune forme di lotta dei raggruppamenti sociali (non classi) subordinati che, pur con forme apparentemente nuove, ripetono invece il sostanziale “tradunionismo” delle vecchie. Non si tratta di contrastare tali lotte; anzi, nei limiti del possibile, di appoggiarle. Senza però illusioni. Non sono forme di lotta che spostano reali equilibri nei rapporti di forza tra chi sta sopra e chi sta sotto. Sono le lotte tra dominanti – e soprattutto nei loro effetti di conflitto tra più compartimenti degli stessi sul piano internazionale – a provocare effettivi mutamenti fortemente dinamici in questa fase storica. La crisi economica è solo la “passerella” su cui sfilano attori reali che tuttavia coprono quelli decisivi e assai meno appariscenti (non però del tutto nascosti).

Ciò che appare non è. Formula che tuttavia può indurre in errore. Diciamo meglio: ciò che è in vivida luce attira i nostri sguardi e così non vediamo quanto sarebbe più essenziale vedere. Chi manovra i riflettori illumina gli attori (spesso guitti da avanspettacolo) e lascia in (pen)ombra i ben più efficaci suggeritori. In questo nostro paese, tra gli attori illuminati chi troviamo? Vecchie conoscenze: i traditori del comunismo. Quel vecchio tradimento è ormai consumato; utile riparlarne solo in sede storica per comprendere le radici del tradimento odierno. Con animo immutato, infatti, questi deformi nanetti vogliono ripetere lo stesso “scherzo” nell’attuale fase di transizione ad altra epoca, in attuazione mediante la nuova lotta tra dominanti in campo internazionale; mi riferisco alle più volte da noi trattata conflittualità tendenzialmente multipolare che si va instaurando.
E ancora una volta ripeto: questo tradimento va studiato nelle sue determinanti oggettive: quelle del conflitto che – grazie alla “legge” dello sviluppo ineguale delle varie formazioni particolari – si sta instaurando tra Usa e nuove potenze in gestazione. Dobbiamo comprendere le forme di tale conflitto, rifarci a quello precedente (epoca dell’imperialismo) per individuarne le differenze, che implicano diversità della strutturazione sociale dei capitalismi in lotta. Senza mai dimenticare però i traditori, quelli che intendono mettere in svendita gli interessi del paese. E’ a mio avviso superficiale sostenere che tutto ciò riguarda solo i dominanti, mentre noi dovremmo interessarci soltanto dei dominati. Questi ultimi, lo si capisca infine, resteranno a lungo a lottare in quanto dominati, e per di più a livelli di vita in peggioramento, che non ha mai favorito – di per sé, in mancanza di un conflitto lacerante tra i dominanti di vari paesi – la trasformazione anticapitalistica. Intanto, individuiamo i caratteri del conflitto nella fase attuale e come si muovono in esso i traditori degli interessi di ogni dato paese (che sia tra quelli delle rivoluzioni “colorate”, o uno di quelli europei in apnea, o il nostro a rischio di collasso).
di Gianfranco La Grassa

07 settembre 2009

Processo agli economisti: poveri illusi o ricchi illusionisti?




“Processo agli economisti” (www.chiarelettere.it, 2009), è il libro del giornalista Roberto Petrini che descrive i punti deboli della professione tra le più “tristi” e le più pagate del mondo, con un’esposizione chiara, sintetica e ben documentata.

Si potrebbe considerare l’economista come un ragioniere pagato dagli Stati e dalle varie istituzioni per esaminare i conti, senza avere quasi mai la possibilità di intervenire attivamente sui processi in corso. Il primo grande problema riguarda i difetti dei modelli econometrici (un mix di equazioni e statistiche): “Si fondano prevalentemente su quanto è accaduto nel passato e sulle serie storiche di dati statistici. Di conseguenza, quando accade un evento nuovo, in presenza di nuove regole e di atteggiamenti inediti da parte dei soggetti economici, si verifica una discontinuità non prevista e il passato cessa di essere una guida attendibile per prevedere il futuro” (p. 17).



Nessuno è in grado di prevedere il futuro, nemmeno gli economisti. Infatti quasi tutti i migliori economisti ed esperti finanziari hanno perso grandi fortune durante le grandi crisi finanziare. La storia degli uomini e dell’economia è fatto di eventi irripetibili mescolati a corsi e ricorsi storici. Non si può prevedere il momento esatto della scoppio di una crisi o la sua reale entità: si può solo stabilire una fascia temporale di alcuni mesi e le dimensioni indicative della crisi in arrivo (piccola, media, grande). In alcuni casi si viene colpiti semplicemente da un meteorite emotivo. Questi concetti vengono mirabilmente espressi nel libro “Il Cigno Nero” da un grande esperto di “Scienza dell’Incertezza”: Nassim Nicholas Taleb (un uomo dotato di una grande e profonda cultura poliedrica). Quindi “gli economisti prendono dei modelli matematici ma non stanno a guardare la qualità di quello che ci mettono dentro” (Giuseppe Roma, direttore del Censis).

Il secondo grande problema è quello ideologico: “i modelli progressisti-keynesiani sembrano più adatti a considerare una crisi rispetto a quelli conservatori-neoliberisti più in voga negli ultimi anni” (p 18). Purtroppo gli esseri umani vivono ancora in tribù e clan, anche ideologici, e non riescono ad unire i diversi punti di vista sulla conoscenza economica e sociale, e non possono così affrontare l’imperversare delle dure realtà e crisi economiche in maniera razionale. Inoltre, in realtà, il Fondo Monetario Internazionale è gestito dagli Stati Uniti e i 170 membri del suo comitato esecutivo sono nominati dai governi e dagli istituti di emissione, perciò questa istituzione (come molte altre) non ha la possibilità di confrontarsi con dei veri punti di vista esterni. C’è la solita cricca di burocrati indottrinati dalle università private che credono nelle verità pregiudiziali e alle loro stronzate. O per dirla in modo più raffinato è un luogo dove c’è “quel costante scambio d’idee vuote e solenni che è così comune tra personaggi importanti e presuntuosi” (J. Galbraith).

Quale sarà quindi il futuro della nostra economia? Un grande economista, a volte considerato conservatore, a volte considerato originale, fece la previsione della trasformazione del capitalismo in un socialismo burocratico che avrebbe inibito l’innovazione e la creatività. Se pensiamo agli innumerevoli azionisti-cittadini delle varie aziende e multinazionali in un certo senso la previsione si è già avverata: esiste una grande rete di mega-aziende finanziate in gran parte dai cittadini attraverso la Borsa (si sono trasformati i cittadini in minicapitalisti anche per ingabbiarli dentro al sistema) e dirette da burocrati delle risorse umane programmati per recintare, monopolizzare e sorvegliare dei mercati privatizzati. Infatti sono più di cento anni che utilizziamo il motore a scoppio per muoverci e circa cinquant’anni che utilizziamo l’energia nucleare per scaldare l’acqua e far girare delle turbine a vapore. Schumpeter ha avuto ragione e potrebbe avverarsi anche la seconda previsione: qualche vero imprenditore sopravvissuto alla dominazione burocratica si sarebbe alleato alla cittadinanza globale per creare nuove imprese più responsabili e creative. La “distruzione creatrice” punirebbe i vecchi elefanti distruttori della foresta (perché hanno bisogno di troppo cibo per sopravvivere), per premiare molte altre piccole creature più adattabili.

John Kenneth Galbraith, che fu consulente dell’amministrazione Kennedy, riteneva che l’enorme sviluppo delle grandi società multinazionali e del marketing, avesse ridotto il cittadino a consumatore senza vero potere e i rapporti umani a semplici scambi commerciali. Inoltre Galbraith affermò che la borsa era stata inventata per separare il denaro dai cretini. Anche J. M. Keynes non fu molto tenero con lo strapotere distruttivo della finanza: “Il decadente capitalismo internazionale, eppure individualistico, nelle cui mani siamo finiti, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non fornisce nessun bene” (The New Statesman and The Nation, 8-15 luglio 1933).

Dopotutto “Un economista è un esperto che verrà a sapere domani perché ciò che ha previsto ieri non si è verificato oggi” (Anonimo), e i più realisti e onesti vengono evitati accuratamente dalla Tv e dalla stampa, che sono gestite dai vecchi gatti spelacchiati capitalisti e dalle vecchie volpi sogghignanti a capo delle istituzioni finanziarie. Se non ci credete provate a leggere quello che scrive Lyndon LaRouche su www.movisol.org o www.larouchepac.com. Poi ci sono i fenomeni descritti da Nouriel Roubini su www.rgemonitor.com e la descrizione delle irrazionali e brevi vite delle bolle finanziarie raccontate da Robert J. Shiller (Finanza shock, www.egeaonline.it, 2008). In ultimo cito Nino Galloni, un economista accademico, originale e controcorrente, che riconsidera la teoria del Diritto di Signoraggio della Banca centrale, e ha scritto un libro profetico nel 2007: “Il Grande Mutuo. Le ragioni profonde della prossima crisi finanziaria” (www.studimonetari.org).

Purtroppo “la maggior parte degli economisti non si occupa di problemi gravi per l’umanità e per la società, ma di cose che danno loro modo di dimostrare la loro destrezza” (Giorgio Fuà, 2000), utilizzando “formalizzazioni astratte, eleganti, ma inadatte ad interpretare la realtà” (Paolo Sylos Labini, Un paese a civiltà limitata, 2001). E la gente continua a comprare pensando che la bolla non scoppi mai o pensando di poter sfuggire prima delle conseguenze peggiori dello scoppio. Solo i grandi finanzieri godono di questa asimmetria informativa: cioè hanno una massa determinante di informazioni che il risparmiatore ignora (Joseph Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, 2002). È un po’ come se un giocatore di poker potesse giocare vedendo le carte dei suoi avversari. E quando rimangono solo giocatori che si possono vedere le carte a vicenda cosa succede? Si chiede di giocare con lo Stato… Ed è per questi motivi che “il valore nominale dei derivati in giro per il mondo è pari a 8-9 volte il Pil del pianeta che ammonta a 65 mila miliardi di dollari”. Quindi si può ipotizzare che senza un nuovo sistema economico usciremo dalla megadepressione fra circa dieci anni, seguendo un percorso simile a quello del Giappone.

Anche un allievo di Schumpeter, Hyman Minsky, descrisse il meccanismo delle crisi finanziarie: quando le cose vanno bene e i prezzi degli immobili salgono, la gente può continuare facilmente ad indebitarsi in modo sempre più rischioso. Se salgono i tassi d’interesse e il flusso di cassa degli investimenti non basta più a ripagare i debiti, scattano le vendite, che provocano la caduta del valore degli immobili (“Potrebbe ripetersi?”, 1984). Negli Stati Uniti l’ultima serie di crisi ha reso insostenibili i quattro debiti americani: pubblico, estero, delle imprese e dei privati cittadini (Sylos Labini, 2005). La megacrisi è quindi pronta a presentarsi davanti agli sportelli bancari americani…

Del resto l’economia è nata con la rivoluzione industriale ed è quindi una scienza giovane con tutti i difetti derivanti dall’immaturità. Inoltre l’avvento della finanza e l’alta remunerazione del settore ha attratto le migliori menti economiche degli ultimi anni in un settore dove regna la matematica e hanno inventato un gergo incomprensibile per affascinare la gente comune. I grandi classici non avevano bisogno di molte formule matematiche e un grande economista come John Maynard Keynes scrisse la “Teoria dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (l’opera che ci aiutò ad affrontare la Grande depressione) senza usare una sola formula matematica (Loretta Napoleoni, prefazione). Quindi “gli economisti sanno quel che dicono? È a questo punto che sorge un dubbio malizioso: l’economia è un argomento che suscita oggi un grande interesse… e tuttavia poiché i fenomeni sono complessi, gli andamenti spesso caotici, le variabili difficili da individuare e da valutare, e poiché molte sono le zone opache, può anche darsi che alcuni economisti ci capiscano meno di quanto vorrebbero far credere” (Annamaria Testa).

Secondo Loretta Napoleoni molti economisti non si sono accorti della crisi alle porte per aver peccato di arroganza e superbia: “L’economia non è una scienza esatta, ma chiunque la professa sogna che lo sia”. A mio parere questa è solo una visione a 180 gradi della realtà: gli altri 180 gradi ci dicono che nel mondo della finanza d’élite molti vengono pagati per vedere solo un certo tipo di problemi, così una ristretta minoranza può vivere beatamente nell’abbondanza. Dopotutto la dimostrazione di status symbol di grado più elevato “impone” agli uomini quattro comportamenti caratteristici: molti agi, molti consumi, molti sprechi e molti comportamenti scandalosi (è la psicologia del prestigio magistralmente descritta da Thorstein Veblen e Quentin Bell).

Comunque la nostra ignoranza può essere suddivisa in problemi e misteri (Noam Chomsky), e la verità è forse questa: a tutti piacerebbe scommettere con i soldi degli altri, ma solo i banchieri e i finanzieri ci riescono. Dunque gli economisti stipendiati sono dei semplici croupier della ruota della fortuna. Gli altri sono solo degli studiosi molto tristi perché quando arrivano il paziente è già moribondo.
di Damiano Mazzotti

06 settembre 2009

Il gossip serve a mascherare le vere magagne d'Italia


Una volta Fellini mi disse: «L’Italia è un Paese dove la realtà supera sempre l’immaginazione». Nessuna fantasia, credo, nemmeno la più scatenata, avrebbe potuto immaginare che la politica italiana, e i media che fanno da supporto alle due bande che se la contendono, quella di una sinistra che si fa sempre più fatica a definire tale e di una destra che pure si fa fatica a chiamare destra (perché destra e sinistra sono, o perlomeno lo sono state, delle cose serie), sarebbero precipitati così in basso, in una melma maleodorante in cui sguazzano compiaciuti. Si fa fatica anche a parlarne perché è come se, dovendo spiegare una figura geometrica complessa, si dovesse ogni volta ripartire dal punto e dalla retta, cioè dai fondamentali.



Una sinistra consapevole di sè, del senso dello Stato, delle Istituzioni, dovrebbe avere ben chiaro che le vicende private di un premier, qualora non si concretino in reati, non possono essere oggetto di scontro politico. Sono, appunto, fatti privati. E invece è da mesi che la sinistra e i suoi giornali battono il chiodo dei cosiddetti casi Noemi ed escort, e La Repubblica è arrivata a porre al premier domande da confessionale del tipo di quelle che, da ragazzini, ci faceva il prete: «Quante volte, figliolo?». Una cosa grottesca.

Per contrastare questa campagna Il Giornale di Vittorio Feltri è andato a scovare una vecchia vicenda che riguarda il direttore di Avvenire Dino Boffo, che in questi mesi ha criticato duramente la condotta privata del premier. Feltri ha raccontato che il Boffo ha patteggiato su una condanna per molestie a una signora che aveva il torto di essere la moglie di un suo amico o, forse, compagno. Ne è nato un putiferio. Sono intervenuti politici, cardinali, difensori e accusatori d’ufficio e tutti i giornali hanno intinto il biscotto in questa storia pruriginosa. Della sinistra non si capisce se sia più cretina o più connivente. Chi infatti ha tratto vantaggio dai gossip Noemi-escort di cui il «caso Boffo» è solo un’appendice? Silvio Berlusconi. Berlusconi che, a differenza della sinistra, non è cretino, ha cavalcato le storie su Noemi ed escort e ha addirittura incoraggiato il gossip capendo benissimo due cose: 1) Che su quel piano era politicamente inattaccabile 2) Che quel polverone serviva a far passare in secondo piano altre «magagne», chiamiamole così, vecchie e nuove, ben più sostanziali. Per la verità una di queste «magagne» è venuta fuori, indirettamente, proprio nel «caso Boffo». Se Il Giornale fosse un quotidiano normale, la diatriba si sarebbe risolta in una polemica, penosa e avvilente, fra due giornalisti. Ma si dà il caso che Il Giornale appartenga, come si dice pudicamente, «alla famiglia Berlusconi», cioè a Berlusconi. Com’è ultranotorio. Prova ne è che il presidente del Consiglio, per dribblare l’accusa di aver imbeccato Feltri e tentare di evitare uno scontro con la Chiesa, si è sentito in dovere di dissociarsi e ha emanato un comunicato in cui nega di aver mai incontrato o di aver telefonato al direttore prima dell’uscita dell’articolo su Boffo. Non c’è alcun motivo di prendere le distanze da un giornale se non è il tuo. Ma in nessun paese democratico un uomo politico, tantomeno un premier, può avere un giornale, neppure un foglio di quartiere. Invece Berlusconi controlla Il Giornale, tutti i network televisivi nazionali privati, la Mondadori... L’altra «magagna», ancora più grave, che, nella confusione, è passata nel dimenticatoio è che qualche mese fa il Tribunale di Milano ha sentenziato, sia pure in primo grado, che Berlusconi ha corrotto un teste perché dichiarasse il falso. In nessun Paese democratico un premier in una simile situazione potrebbe rimanere al suo posto un giorno di più.

Ma i nostri politici, i media, i cittadini sembrano più interessati alle Noemi, alle D’Addario, ai Boffo, in un Paese dove si sono persi i fondamentali, il senso delle priorità, di cosa è importante di cosa non lo è; è che somiglia sempre più ad un inguardabile bordello. Come diceva Fellini: «L’Italia è un Paese dove la realtà supera sempre l’immaginazione».
di Massimo Fini