04 gennaio 2010

A che serve la flessibilità?


Chi soffrirà di più e più a lungo per l'implosione di Wall Street del 2008-2009 e per la recessione mondiale che ne è seguita?
Non i banchieri e i finanzieri che hanno causato il disastro. Alcuni finanzieri, come Bernard Madoff, andranno in prigione per truffa. Ma anche se Madoff era solo la punta dell'iceberg del dilagante malcostume finanziario, la maggior parte dei finanzieri sospetti non ha ragione di temere l'arresto, o perché il loro comportamento era semplicemente ai limiti della legalità oppure perché gli illeciti finanziari, più raffinati della truffa vera e propria, spesso sono difficili da provare.

Alcuni direttori di banca se ne andranno in pensione con disonore, ma con una maxiliquidazione che potrà alleviare le loro pene, come la buonuscita da 55 milioni di dollari concessa a Ken Lewis della Bank of America, o come la pensione di 25 milioni di sterline garantita a Fred Goodwin della Royal Bank of Scotland. Molte banche, incoraggiate dal salvataggio pubblico, dalle garanzie e dai bassi tassi d'interesse, hanno rincominciato a versare colossali gratifiche ai loro top manager e nel frattempo si battono vigorosamente contro l'introduzione di riforme che mirano a imporre limiti ai loro rischi e ai loro sistemi di retribuzione.

I grandi sconfitti di questo disastro economico sono i lavoratori dei paesi ricchi che hanno abbracciato la flessibilità liberista del capitalismo di stampo americano. Dal 2007 all'ottobre 2009, gli Stati Uniti hanno perso quasi otto milioni di posti di lavoro, con un calo della percentuale degli occupati dal 63 al 58,5% della popolazione. Alla fine del 2009, la percentuale dei senza lavoro ha superato il 10% e i disoccupati restano tali più a lungo di tutti i periodi precedenti, dalla Grande Depressione in poi. Milioni di persone si sono viste decurtare l'orario di lavoro, e altri milioni, scoraggiati dalla mancanza di lavoro, hanno rinunciato a cercarlo.
Anche l'Europa economicamente più avanzata, il Canada e il Giappone hanno subìto pesanti cali occupazionali, che persisteranno a lungo. La Spagna, dove sono molto diffusi i contratti a tempo determinato, è quella che ha avuto il maggiore incremento della disoccupazione, perché licenziare un lavoratore in Spagna è facile come in America. Alcuni paesi - ad esempio la Germania, la Svezia e la Corea del Sud hanno "nascosto" la loro disoccupazione pagando le aziende per mantenere i lavoratori sul libro paga. Può funzionare sul breve periodo, ma nel tempo è una soluzione insostenibile.

Dagli anni 80 fino alla metà di questo decennio, ogni volta che c'è stata una ripresa economica l'occupazione è cresciuta più lentamente del Pil, e ogni volta il divario era maggiore. Negli Stati Uniti, sotto la presidenza Clinton, la ripresa non portò posti di lavoro, fino al boom di Internet della fine degli anni 90; anche dopo il rallentamento del 2001, con Bush alla Casa Bianca, la ripresa non produsse effetti positivi sull'occupazione.Nei primi anni 90 la Svezia è stata colpita da una pesantissima recessione, provocata dallo scoppio della bolla immobiliare e da una crisi bancaria. Il tasso di disoccupazione salì dall'1,8% del 1990 al 9,6% del 1994, prima di attestarsi intorno al 5% nel 2001. Sedici anni dopo la crisi, il tasso di disoccupazione era al 6,2%, più del triplo rispetto a quello del 1990.

Nel 1997, la Corea del Sud si trovò in difficoltà non solo per la crisi finanziaria asiatica, ma anche per l'insistenterichiesta degli Stati Uniti e dell'Fmi di alzare i tassi d'interesse e introdurre riforme modellate sul "consenso di Washington", in cambio di aiuti. L'occupazione ripartì, ma principalmente sotto forma di posti di lavoro "non regolari", con benefit limitati, bassi salari e poca sicurezza dell'impiego. La disuguaglianza nel paese asiatico, fino ad allora su livelli modesti, crebbe fino a portare Seul al secondo posto (dopo gli Stati Uniti) nella classifica dei paesi dell'Ocse.

La debolezza del mercato del lavoro penalizza gravemente l'economia e il benessere individuale. Quando il mercato del lavoro è debole, i giovani in cerca di prima occupazione e i lavoratori esperti che perdono il posto subiscono perdite economiche che faranno sentire i loro effetti per tutta la vita. Studi sulla felicità dimostrano che la disoccupazione produce un effetto negativo comparabile a quello della perdita di un congiunto.
È difficile che gli Stati Uniti tornino in tempi brevi alla piena occupazione. Dal 1993 al 1998, l'America ha creato milioni di posti di lavoro, che hanno fatto salire il tasso d'occupazione di 5,4 punti percentuali. Se l'occupazione comincerà a crescere a questo ritmo nel 2010, bisognerà aspettare fino al 2015 prima di tornare ai livelli precedenti alla recessione. E una ripresa lenta negli Usa frenerebbe la ripresa anche negli altri paesi avanzati, penalizzando anche lì l'occupazione.

Un lungo e penoso periodo di disoccupazione alta va nella direzione opposta a quello che quasi tutti gli esperti pensavano sarebbe stato l'esito del modello economico americano, improntato alla flessibilità. Dai primi anni 90 in poi molti analisti hanno valutato che l'America aveva un tasso di disoccupazione più basso di quello della maggior parte dei paesi dell'Ue grazie alla scarsa sindacalizzazione, alla facilità di assunzione, all'assenza di forti garanzie giuridiche contro il licenziamento e al forte ricambio di personale. Molti paesi Ocse hanno introdotto riforme di vario genere nel senso della flessibilità, nella speranza di migliorare la propria economia imitando l'America.La tesi che la flessibilità sia il fattore chiave per l'occupazione non è più sostenibile. Nel suo Employment Outlook del 2009, l'Ocse analizza impietosamente le sue riforme preferite e giunge alla conclusione che non sono sufficienti per consentire a un paese di adeguarsi agli effetti di una recessione trainata dalla finanza. Secondo l'Ocse, «non sembra esserci nessun motivo reale per ritenere che le recenti riforme strutturali abbiano reso il mercato del lavoro dei paesi Ocse significativamente più resistente a gravi flessioni dell'economia».

Quindi l'insegnamento che possiamo trarre dalla recessione è chiaro: l'anello debole del capitalismo non è il mercato del lavoro, ma il mercato finanziario. Le imperfezioni del mercato del lavoro impongono alla società tutt'al più dei costi modesti in termini d'inefficienza, mentre le imperfezioni del mercato finanziario danneggiano pesantemente la società, e chi ci rimette di più sono i lavoratori, non gli artefici del disastro. Inoltre, a causa della globalizzazione il collasso del mercato finanziario americano dissemina miseria in tutto il mondo.

Dobbiamo reinventare la finanza, in modo che lavori per arricchire l'economia reale, invece che arricchire soltanto i finanzieri: lo dobbiamo ai lavoratori vittime di questa recessione. Reinventare la finanzia significa cambiare gli incentivi e le regole che governano il settore finanziario. E dal momento che sono in pericolo anche l'economia e l'occupazione di altri paesi, questi stati hanno il dovere, nei confronti dei loro cittadini, di fare pressione sugli Stati Uniti perché realizzino riforme finanziarie significative.

di Richard Freeman (docente di Economia Harward)

03 gennaio 2010

Le privatizzazioni come arma politica


Nel corso di una recente trasmissione televisiva che accampa, senza vergogna alcuna, pretese di ereticità, il maggiore esponente del maggiore partito dell’opposizione di Sua Maestà incalzava il ministro dell’economia Giulio Tremonti contestandogli svariate circostanze di cattiva gestione delle finanze pubbliche. Il ministro, con uno dei suoi coup de théâtre abituali e incisivi – ma, ahinoi, spesso sconclusionati – fece presente al suo interlocutore e al pubblico che le cause all’origine dei mali contingenti che affliggono l’economia nazionale sono da cercarsi altrove; ebbe inoltre il coraggio (fuor di metafora) di affermare che sarebbe ora di scrivere, in Italia, una storia delle privatizzazioni, di chi le ha fatte e perché, di chi ci ha guadagnato e come. D’improvviso il guareschiano politicante d’opposizione di cui sopra si è ammutolito, ed è dovuto intervenire il conduttore della trasmissione che, non disponendo (forse a causa dei ‘tagli’ alla Rai) di nani, ballerine e giocolieri, si è dovuto accontentare di sviare il discorso con l’ausilio di un attempato vignettista, sovrapponendo alle parole del ministro, con fare circense, un “facciamo entrare Vaurooo!”.

Quanto sopra, al di là della trita e ritrita aneddotica che contraddistingue le grigie figure della politica e dell’informazione nazionali, valga per esemplificare come di privatizzazioni non sia d’uopo finanche parlarne. Non siamo certo ai livelli della religio holocaustica, ma di vero e proprio Verbo privatizzatore – che negli ultimi lustri risuona con forza sempre maggiore - si può e si deve iniziare a parlare, considerate l’intangibilità di cui gode tale teoria socioeconomica e come questa sia ormai considerata parte integrante delle strutture produttive degli Stati o di quello che ne rimane. Tant’è che se il solo parlare di “partecipazioni statali” può far storcere il naso all’illuminato esperto, al lucido economista o al ligio politicante, a parlare addirittura di “nazionalizzazione” e “socializzazione” quasi quasi si viene accompagnati direttamente al patibolo.

E’ un drammatico dato di fatto che la disgregazione dell’economia sociale, la privatizzazione e l’assunzione, da parte di potentati non autoctoni, del controllo delle leve dell’economia e delle risorse delle nazioni siano fenomeni che sono storicamente andati di pari passo con le dinamiche imperiali, coloniali, belliche e prevaricatrici degli Stati Uniti d’America e della loro putrescente appendice, bonariamente definita “Occidente democratico”. Occorre però distinguere, a seconda della fase storica, del collocamento geografico e del contesto internazionale, molteplici modalità attraverso le quali queste dinamiche hanno preso forma, aprendo le porte al controllo imperialista dell’economia degli Stati e strutturandosi in un processo politico conosciuto appunto come privatizzazione. Prendiamo ad esempio, ai fini esemplificativi, tre modelli relativi a tre diversi teatri di guerra economica.

Il modello irakeno. Alla fine di quella che viene impropriamente definita “seconda guerra irachena” (che nella realtà non è stata altro che l’ultima sanguinosa fase di un più che decennale conflitto imposto alla nazione sovrana e socialista dell’Iraq), le strutture dello Stato vennero integralmente soppresse per essere sostituite con delle catene di comando coloniali funzionali alle velleità di completo controllo che gli Stati Uniti manifestarono nei confronti di quel disgraziato Paese. Tale processo fu talmente rapido e radicale che fece sollevare dei dubbi relativi alla sua efficacia persino all’interno dei centri decisionali politico-militari che si erano resi responsabili dell’aggressione e della guerra; non furono infatti pochi quanti – soprattutto tra i militari – lamentarono delle difficoltà nella gestione ordinaria dell’occupazione (ordine pubblico, servizi essenziali) una volta che anche i vigili urbani e i consorzi agrari erano stati aboliti per legge. Tuttavia questa manovra – per quanto considerata azzardata anche dai più insospettabili – permise agli occupanti di incamerare sotto la loro gestione privata la totalità delle ingenti risorse naturali di cui è ricca la nazione irachena, e segnatamente delle risorse petrolifere. Queste risorse, che fintanto che l’Iraq è stato un Paese sovrano erano gestite dallo Stato attraverso il Ministero del Petrolio, finirono quindi nella loro interezza nei rapaci artigli delle compagnie petrolifere internazionali legate agli interessi occidentali e nordamericani, i quali misero in atto il sistematico saccheggio che è ancora in corso. E’ stato quindi, quello iracheno, un caso in cui non si può propriamente parlare di privatizzazione di strutture preesistenti, poiché queste strutture – funzionali, nonostante il rigido embargo internazionale – vennero preventivamente soppresse. L’intera nazione irachena si trovò quindi, perinde ac cadaver, re-integrata in nuove istituzioni politiche ed economiche create ad hoc e nate “già privatizzate” nelle mani delle multinazionali facenti gli interessi degli aggressori.

Il modello jugoslavo. Alla fine della campagna di massicci bombardamenti che per tre mesi martoriò le repubbliche jugoslave di Serbia e Montenegro nella prima metà del 1999, gli aggressori, per quanto fossero riusciti a strappare il Kosovo e Metohija dalla madrepatria con la forza delle armi e con la violenza etnica, erano ben lungi dal poter levare al cielo i loro sordidi canti di vittoria. Nonostante la tanto decantata vittoria militare, infatti, a Belgrado il governo “nemico”, guidato dal presidente Milošević e sostenuto dal Partito Socialista, dalla Sinistra Unita e dal Partito Radicale[1], teneva, e teneva anche bene. Forte, oltre che di un innegabile consenso popolare, di una gestione statale dell’economia e di una mirata prassi socialista di gestione delle risorse, il governo jugoslavo riuscì, nonostante le sanzioni e il conseguente stato di obsolescenza dell’apparato produttivo aggravato da tre mesi di incursioni aeree, a tenere ben salde le redini dello Stato e a garantire ai cittadini gli essenziali servizi che potevano assicurare la più che dignitosa sopravvivenza. Per gli americani e i loro accoliti, quindi, nel cuore dell’Europa restava un ‘buco nero’ che non intendeva piegarsi e che proseguiva nella sua politica di sovranità, indipendenza e vicinanza con la Russia e coi Paesi non –allineati ai dettami di Washington. Quale migliore scenario per non tentare una “rivoluzione colorata”? Detto fatto: allestiscono una accurata e martellante campagna di disinformazione internazionale, addomesticano ulteriormente i mezzi di informazione locali più legati alla prezzolata opposizione, investono qualche milione di dollari, raccattano in giro per l’Europa un po’ di teppaglia da scatenare sulle strade e, a poco più di un anno dal rientro ad Aviano dell’ultimo bombardiere, Milošević cade. Quale è stato il primo organismo istituito dal nuovo governo collaborazionista? Una commissione per il risarcimento delle vittime della dittatura? Un ente per il ripristino della libertà di stampa? Un gruppo di lavoro per l’appianamento delle discriminazioni etniche? Niente di tutto ciò, bensì un’ Agenzia per le privatizzazioni. Le attività di questa agenzia, che ha la responsabilità di aver svenduto il patrimonio di una nazione, erano e sono mirate a permettere l’accaparramento delle più appetibili imprese statali da parte delle solite sanguisughe con la maschera da filantropo. Tutto ciò si è abbattuto come una scure sulla già indebolita economia locale: in Serbia infatti, a causa di una conservazione della prassi giuridica realsocialista, fino al 2000 (cioè quando qui da noi si privatizzavano anche i bottoni della divisa della fanfara dei Carabinieri) erano a partecipazione statale non solo i settori strategici dell’economia, ma appartenevano allo Stato anche i ristoranti e i negozi di abbigliamento. Imprese che, a differenza di quelle appartenenti al settore degli idrocarburi, delle miniere o dei tabacchi, erano di scarso interesse per i grandi investitori internazionali, e finirono quindi o nelle mani di loschi personaggi legati alla criminalità locale o sulla via della liquidazione. I posti di lavoro perduti si contarono a decine di migliaia.

Il modello italiano. Il caso dell’Italia relativamente alle privatizzazioni si configura nei termini di scontro interno all’imperialismo o, come qualcuno potrebbe sostenere, in seno a uno schema mentale marxiano, tra imperialismo primario e imperialismo secondario. La fine del secondo conflitto mondiale, che segnò l’inizio dell’egemonia anglo-statunitense sulla nostra nazione, non fu largamente contraddistinta da un processo di privatizzazione della nostra economia, almeno non nelle modalità descritte nei precedenti casi. Un esempio: i beni mobili e gli ingenti beni immobili che erano appartenuti alla Gioventù Italiana del Littorio furono conferiti alla gestione del Ministero della Pubblica Istruzione. Tuttora sono numerose le scuole e gli istituti che hanno fisicamente sede negli edifici che avevano ospitato le dismesse strutture sociali, educative e sportive dell’organizzazione giovanile fascista. Per svariati decenni le istituzioni repubblicane hanno sono state prosecutrici di una pur timida politica ‘statalista’ che riuscì a conservare, fino all’ultimo decennio del secolo scorso, una partecipazione della sfera pubblica nella politica economica della nazione, almeno relativamente al settore strategico: comunicazioni, trasporti, energia. Pensiamo inoltre alle politiche abitative, al “Piano Casa” dell’Ina e di Fanfani. Nei primi anni Novanta le centrali decisionali d’oltreoceano stabilirono che tutto ciò era di troppo, che nessuno spazio doveva più essere lasciato alla tutela della sovranità delle nazioni, pur se già ampiamente sottomesse, e che nessuna gestione delle risorse potesse ricusare i diritti di predazione delle imprese private, apolidi, allogene o ‘nazionali’ che siano. Per rendere tutto ciò possibile fu necessario esautorare una classe dirigente che, per quanto in larga parte oltremodo servile, non rispondeva più ai canoni richiesti dal nuovo corso di predazione economica. A tal fine fu organizzata una manovra a tenaglia. Da una parte un ristretto gruppo di rappresentanti del mondo finanziario italiano e internazionale che, con l’incomprensibile benevolenza di Nettuno, incrociando sul Tirreno a bordo del Britannia, stabilirono la svalutazione della lira e la dismissione/svendita del patrimonio industriale dello Stato; dall’altra, una magistratura sapientemente indirizzata e una piazza facilmente sobillata scoprirono che i nostri politicanti sgraffignavano qualche milione dai fondi pubblici[2]. Non solo si era spianata la strada a una nuova classe politica, più ricettiva al nuovo Verbo privatizzatore, ma si era inculcata nel popolo la convinzione che l’intervento dello Stato nell’economia fosse l’origine del male da estirpare. Il resto è storia dei nostri giorni.

I tre modelli citati si differenziano nell’analisi contestuale, ma sono accomunati da varie analogie. Il primo si svolge in un contesto di guerra guerreggiata, e il processo di privatizzazione dell’economia viene esperito come risultato degli eventi bellici, come prezzo stabilito da pagare per la sconfitta. Nel secondo ci troviamo in una cosiddetta “rivoluzione colorata”, in cui il saccheggio viene sbandierato ai quattro venti come scelta economica vincente e viene edulcorato proponendolo come conseguenza di istanze politico-umanitarie. Nel caso italiano la guerra guerreggiata era finita da un pezzo, e di rivoluzione colorata non si può propriamente parlare. C’è chi parla di “guerra occulta”: nascosta nel Palazzo, efficace e incruenta (siamo in Europa occidentale, nel ‘salotto buono’; e il salotto buono non si sporca). Ma che è stata comunque capace di mietere le sue vittime. Le più illustri? Il lavoro, il senso dello Stato, la libertà di autodeterminarci come nazione.

Ma non possono uccidere la nostra volontà di ribellarci. Non possiamo permetterglielo.

di Fabrizio Fiorini


[1] A scanso di equivoci e per eccesso di zelo: niente a che vedere con Emma Bonino e Giacinto Pannella…

[2] Esistono centinaia di migliaia di persone che credono fermamente che Craxi sia morto in esilio perché aveva finanziato illegalmente il suo Partito o anche sé stesso. Sono gli stessi che credono che Mattei sia morto perché gli si era guastato lo spinterogeno. E’ preferibile ricordare, parlando della caduta di Craxi, di quando prendeva la parola ai congressi dell’Internazionale Socialista, e la delegazione dei laburisti israeliani abbandonava i lavori…

04 gennaio 2010

A che serve la flessibilità?


Chi soffrirà di più e più a lungo per l'implosione di Wall Street del 2008-2009 e per la recessione mondiale che ne è seguita?
Non i banchieri e i finanzieri che hanno causato il disastro. Alcuni finanzieri, come Bernard Madoff, andranno in prigione per truffa. Ma anche se Madoff era solo la punta dell'iceberg del dilagante malcostume finanziario, la maggior parte dei finanzieri sospetti non ha ragione di temere l'arresto, o perché il loro comportamento era semplicemente ai limiti della legalità oppure perché gli illeciti finanziari, più raffinati della truffa vera e propria, spesso sono difficili da provare.

Alcuni direttori di banca se ne andranno in pensione con disonore, ma con una maxiliquidazione che potrà alleviare le loro pene, come la buonuscita da 55 milioni di dollari concessa a Ken Lewis della Bank of America, o come la pensione di 25 milioni di sterline garantita a Fred Goodwin della Royal Bank of Scotland. Molte banche, incoraggiate dal salvataggio pubblico, dalle garanzie e dai bassi tassi d'interesse, hanno rincominciato a versare colossali gratifiche ai loro top manager e nel frattempo si battono vigorosamente contro l'introduzione di riforme che mirano a imporre limiti ai loro rischi e ai loro sistemi di retribuzione.

I grandi sconfitti di questo disastro economico sono i lavoratori dei paesi ricchi che hanno abbracciato la flessibilità liberista del capitalismo di stampo americano. Dal 2007 all'ottobre 2009, gli Stati Uniti hanno perso quasi otto milioni di posti di lavoro, con un calo della percentuale degli occupati dal 63 al 58,5% della popolazione. Alla fine del 2009, la percentuale dei senza lavoro ha superato il 10% e i disoccupati restano tali più a lungo di tutti i periodi precedenti, dalla Grande Depressione in poi. Milioni di persone si sono viste decurtare l'orario di lavoro, e altri milioni, scoraggiati dalla mancanza di lavoro, hanno rinunciato a cercarlo.
Anche l'Europa economicamente più avanzata, il Canada e il Giappone hanno subìto pesanti cali occupazionali, che persisteranno a lungo. La Spagna, dove sono molto diffusi i contratti a tempo determinato, è quella che ha avuto il maggiore incremento della disoccupazione, perché licenziare un lavoratore in Spagna è facile come in America. Alcuni paesi - ad esempio la Germania, la Svezia e la Corea del Sud hanno "nascosto" la loro disoccupazione pagando le aziende per mantenere i lavoratori sul libro paga. Può funzionare sul breve periodo, ma nel tempo è una soluzione insostenibile.

Dagli anni 80 fino alla metà di questo decennio, ogni volta che c'è stata una ripresa economica l'occupazione è cresciuta più lentamente del Pil, e ogni volta il divario era maggiore. Negli Stati Uniti, sotto la presidenza Clinton, la ripresa non portò posti di lavoro, fino al boom di Internet della fine degli anni 90; anche dopo il rallentamento del 2001, con Bush alla Casa Bianca, la ripresa non produsse effetti positivi sull'occupazione.Nei primi anni 90 la Svezia è stata colpita da una pesantissima recessione, provocata dallo scoppio della bolla immobiliare e da una crisi bancaria. Il tasso di disoccupazione salì dall'1,8% del 1990 al 9,6% del 1994, prima di attestarsi intorno al 5% nel 2001. Sedici anni dopo la crisi, il tasso di disoccupazione era al 6,2%, più del triplo rispetto a quello del 1990.

Nel 1997, la Corea del Sud si trovò in difficoltà non solo per la crisi finanziaria asiatica, ma anche per l'insistenterichiesta degli Stati Uniti e dell'Fmi di alzare i tassi d'interesse e introdurre riforme modellate sul "consenso di Washington", in cambio di aiuti. L'occupazione ripartì, ma principalmente sotto forma di posti di lavoro "non regolari", con benefit limitati, bassi salari e poca sicurezza dell'impiego. La disuguaglianza nel paese asiatico, fino ad allora su livelli modesti, crebbe fino a portare Seul al secondo posto (dopo gli Stati Uniti) nella classifica dei paesi dell'Ocse.

La debolezza del mercato del lavoro penalizza gravemente l'economia e il benessere individuale. Quando il mercato del lavoro è debole, i giovani in cerca di prima occupazione e i lavoratori esperti che perdono il posto subiscono perdite economiche che faranno sentire i loro effetti per tutta la vita. Studi sulla felicità dimostrano che la disoccupazione produce un effetto negativo comparabile a quello della perdita di un congiunto.
È difficile che gli Stati Uniti tornino in tempi brevi alla piena occupazione. Dal 1993 al 1998, l'America ha creato milioni di posti di lavoro, che hanno fatto salire il tasso d'occupazione di 5,4 punti percentuali. Se l'occupazione comincerà a crescere a questo ritmo nel 2010, bisognerà aspettare fino al 2015 prima di tornare ai livelli precedenti alla recessione. E una ripresa lenta negli Usa frenerebbe la ripresa anche negli altri paesi avanzati, penalizzando anche lì l'occupazione.

Un lungo e penoso periodo di disoccupazione alta va nella direzione opposta a quello che quasi tutti gli esperti pensavano sarebbe stato l'esito del modello economico americano, improntato alla flessibilità. Dai primi anni 90 in poi molti analisti hanno valutato che l'America aveva un tasso di disoccupazione più basso di quello della maggior parte dei paesi dell'Ue grazie alla scarsa sindacalizzazione, alla facilità di assunzione, all'assenza di forti garanzie giuridiche contro il licenziamento e al forte ricambio di personale. Molti paesi Ocse hanno introdotto riforme di vario genere nel senso della flessibilità, nella speranza di migliorare la propria economia imitando l'America.La tesi che la flessibilità sia il fattore chiave per l'occupazione non è più sostenibile. Nel suo Employment Outlook del 2009, l'Ocse analizza impietosamente le sue riforme preferite e giunge alla conclusione che non sono sufficienti per consentire a un paese di adeguarsi agli effetti di una recessione trainata dalla finanza. Secondo l'Ocse, «non sembra esserci nessun motivo reale per ritenere che le recenti riforme strutturali abbiano reso il mercato del lavoro dei paesi Ocse significativamente più resistente a gravi flessioni dell'economia».

Quindi l'insegnamento che possiamo trarre dalla recessione è chiaro: l'anello debole del capitalismo non è il mercato del lavoro, ma il mercato finanziario. Le imperfezioni del mercato del lavoro impongono alla società tutt'al più dei costi modesti in termini d'inefficienza, mentre le imperfezioni del mercato finanziario danneggiano pesantemente la società, e chi ci rimette di più sono i lavoratori, non gli artefici del disastro. Inoltre, a causa della globalizzazione il collasso del mercato finanziario americano dissemina miseria in tutto il mondo.

Dobbiamo reinventare la finanza, in modo che lavori per arricchire l'economia reale, invece che arricchire soltanto i finanzieri: lo dobbiamo ai lavoratori vittime di questa recessione. Reinventare la finanzia significa cambiare gli incentivi e le regole che governano il settore finanziario. E dal momento che sono in pericolo anche l'economia e l'occupazione di altri paesi, questi stati hanno il dovere, nei confronti dei loro cittadini, di fare pressione sugli Stati Uniti perché realizzino riforme finanziarie significative.

di Richard Freeman (docente di Economia Harward)

03 gennaio 2010

Le privatizzazioni come arma politica


Nel corso di una recente trasmissione televisiva che accampa, senza vergogna alcuna, pretese di ereticità, il maggiore esponente del maggiore partito dell’opposizione di Sua Maestà incalzava il ministro dell’economia Giulio Tremonti contestandogli svariate circostanze di cattiva gestione delle finanze pubbliche. Il ministro, con uno dei suoi coup de théâtre abituali e incisivi – ma, ahinoi, spesso sconclusionati – fece presente al suo interlocutore e al pubblico che le cause all’origine dei mali contingenti che affliggono l’economia nazionale sono da cercarsi altrove; ebbe inoltre il coraggio (fuor di metafora) di affermare che sarebbe ora di scrivere, in Italia, una storia delle privatizzazioni, di chi le ha fatte e perché, di chi ci ha guadagnato e come. D’improvviso il guareschiano politicante d’opposizione di cui sopra si è ammutolito, ed è dovuto intervenire il conduttore della trasmissione che, non disponendo (forse a causa dei ‘tagli’ alla Rai) di nani, ballerine e giocolieri, si è dovuto accontentare di sviare il discorso con l’ausilio di un attempato vignettista, sovrapponendo alle parole del ministro, con fare circense, un “facciamo entrare Vaurooo!”.

Quanto sopra, al di là della trita e ritrita aneddotica che contraddistingue le grigie figure della politica e dell’informazione nazionali, valga per esemplificare come di privatizzazioni non sia d’uopo finanche parlarne. Non siamo certo ai livelli della religio holocaustica, ma di vero e proprio Verbo privatizzatore – che negli ultimi lustri risuona con forza sempre maggiore - si può e si deve iniziare a parlare, considerate l’intangibilità di cui gode tale teoria socioeconomica e come questa sia ormai considerata parte integrante delle strutture produttive degli Stati o di quello che ne rimane. Tant’è che se il solo parlare di “partecipazioni statali” può far storcere il naso all’illuminato esperto, al lucido economista o al ligio politicante, a parlare addirittura di “nazionalizzazione” e “socializzazione” quasi quasi si viene accompagnati direttamente al patibolo.

E’ un drammatico dato di fatto che la disgregazione dell’economia sociale, la privatizzazione e l’assunzione, da parte di potentati non autoctoni, del controllo delle leve dell’economia e delle risorse delle nazioni siano fenomeni che sono storicamente andati di pari passo con le dinamiche imperiali, coloniali, belliche e prevaricatrici degli Stati Uniti d’America e della loro putrescente appendice, bonariamente definita “Occidente democratico”. Occorre però distinguere, a seconda della fase storica, del collocamento geografico e del contesto internazionale, molteplici modalità attraverso le quali queste dinamiche hanno preso forma, aprendo le porte al controllo imperialista dell’economia degli Stati e strutturandosi in un processo politico conosciuto appunto come privatizzazione. Prendiamo ad esempio, ai fini esemplificativi, tre modelli relativi a tre diversi teatri di guerra economica.

Il modello irakeno. Alla fine di quella che viene impropriamente definita “seconda guerra irachena” (che nella realtà non è stata altro che l’ultima sanguinosa fase di un più che decennale conflitto imposto alla nazione sovrana e socialista dell’Iraq), le strutture dello Stato vennero integralmente soppresse per essere sostituite con delle catene di comando coloniali funzionali alle velleità di completo controllo che gli Stati Uniti manifestarono nei confronti di quel disgraziato Paese. Tale processo fu talmente rapido e radicale che fece sollevare dei dubbi relativi alla sua efficacia persino all’interno dei centri decisionali politico-militari che si erano resi responsabili dell’aggressione e della guerra; non furono infatti pochi quanti – soprattutto tra i militari – lamentarono delle difficoltà nella gestione ordinaria dell’occupazione (ordine pubblico, servizi essenziali) una volta che anche i vigili urbani e i consorzi agrari erano stati aboliti per legge. Tuttavia questa manovra – per quanto considerata azzardata anche dai più insospettabili – permise agli occupanti di incamerare sotto la loro gestione privata la totalità delle ingenti risorse naturali di cui è ricca la nazione irachena, e segnatamente delle risorse petrolifere. Queste risorse, che fintanto che l’Iraq è stato un Paese sovrano erano gestite dallo Stato attraverso il Ministero del Petrolio, finirono quindi nella loro interezza nei rapaci artigli delle compagnie petrolifere internazionali legate agli interessi occidentali e nordamericani, i quali misero in atto il sistematico saccheggio che è ancora in corso. E’ stato quindi, quello iracheno, un caso in cui non si può propriamente parlare di privatizzazione di strutture preesistenti, poiché queste strutture – funzionali, nonostante il rigido embargo internazionale – vennero preventivamente soppresse. L’intera nazione irachena si trovò quindi, perinde ac cadaver, re-integrata in nuove istituzioni politiche ed economiche create ad hoc e nate “già privatizzate” nelle mani delle multinazionali facenti gli interessi degli aggressori.

Il modello jugoslavo. Alla fine della campagna di massicci bombardamenti che per tre mesi martoriò le repubbliche jugoslave di Serbia e Montenegro nella prima metà del 1999, gli aggressori, per quanto fossero riusciti a strappare il Kosovo e Metohija dalla madrepatria con la forza delle armi e con la violenza etnica, erano ben lungi dal poter levare al cielo i loro sordidi canti di vittoria. Nonostante la tanto decantata vittoria militare, infatti, a Belgrado il governo “nemico”, guidato dal presidente Milošević e sostenuto dal Partito Socialista, dalla Sinistra Unita e dal Partito Radicale[1], teneva, e teneva anche bene. Forte, oltre che di un innegabile consenso popolare, di una gestione statale dell’economia e di una mirata prassi socialista di gestione delle risorse, il governo jugoslavo riuscì, nonostante le sanzioni e il conseguente stato di obsolescenza dell’apparato produttivo aggravato da tre mesi di incursioni aeree, a tenere ben salde le redini dello Stato e a garantire ai cittadini gli essenziali servizi che potevano assicurare la più che dignitosa sopravvivenza. Per gli americani e i loro accoliti, quindi, nel cuore dell’Europa restava un ‘buco nero’ che non intendeva piegarsi e che proseguiva nella sua politica di sovranità, indipendenza e vicinanza con la Russia e coi Paesi non –allineati ai dettami di Washington. Quale migliore scenario per non tentare una “rivoluzione colorata”? Detto fatto: allestiscono una accurata e martellante campagna di disinformazione internazionale, addomesticano ulteriormente i mezzi di informazione locali più legati alla prezzolata opposizione, investono qualche milione di dollari, raccattano in giro per l’Europa un po’ di teppaglia da scatenare sulle strade e, a poco più di un anno dal rientro ad Aviano dell’ultimo bombardiere, Milošević cade. Quale è stato il primo organismo istituito dal nuovo governo collaborazionista? Una commissione per il risarcimento delle vittime della dittatura? Un ente per il ripristino della libertà di stampa? Un gruppo di lavoro per l’appianamento delle discriminazioni etniche? Niente di tutto ciò, bensì un’ Agenzia per le privatizzazioni. Le attività di questa agenzia, che ha la responsabilità di aver svenduto il patrimonio di una nazione, erano e sono mirate a permettere l’accaparramento delle più appetibili imprese statali da parte delle solite sanguisughe con la maschera da filantropo. Tutto ciò si è abbattuto come una scure sulla già indebolita economia locale: in Serbia infatti, a causa di una conservazione della prassi giuridica realsocialista, fino al 2000 (cioè quando qui da noi si privatizzavano anche i bottoni della divisa della fanfara dei Carabinieri) erano a partecipazione statale non solo i settori strategici dell’economia, ma appartenevano allo Stato anche i ristoranti e i negozi di abbigliamento. Imprese che, a differenza di quelle appartenenti al settore degli idrocarburi, delle miniere o dei tabacchi, erano di scarso interesse per i grandi investitori internazionali, e finirono quindi o nelle mani di loschi personaggi legati alla criminalità locale o sulla via della liquidazione. I posti di lavoro perduti si contarono a decine di migliaia.

Il modello italiano. Il caso dell’Italia relativamente alle privatizzazioni si configura nei termini di scontro interno all’imperialismo o, come qualcuno potrebbe sostenere, in seno a uno schema mentale marxiano, tra imperialismo primario e imperialismo secondario. La fine del secondo conflitto mondiale, che segnò l’inizio dell’egemonia anglo-statunitense sulla nostra nazione, non fu largamente contraddistinta da un processo di privatizzazione della nostra economia, almeno non nelle modalità descritte nei precedenti casi. Un esempio: i beni mobili e gli ingenti beni immobili che erano appartenuti alla Gioventù Italiana del Littorio furono conferiti alla gestione del Ministero della Pubblica Istruzione. Tuttora sono numerose le scuole e gli istituti che hanno fisicamente sede negli edifici che avevano ospitato le dismesse strutture sociali, educative e sportive dell’organizzazione giovanile fascista. Per svariati decenni le istituzioni repubblicane hanno sono state prosecutrici di una pur timida politica ‘statalista’ che riuscì a conservare, fino all’ultimo decennio del secolo scorso, una partecipazione della sfera pubblica nella politica economica della nazione, almeno relativamente al settore strategico: comunicazioni, trasporti, energia. Pensiamo inoltre alle politiche abitative, al “Piano Casa” dell’Ina e di Fanfani. Nei primi anni Novanta le centrali decisionali d’oltreoceano stabilirono che tutto ciò era di troppo, che nessuno spazio doveva più essere lasciato alla tutela della sovranità delle nazioni, pur se già ampiamente sottomesse, e che nessuna gestione delle risorse potesse ricusare i diritti di predazione delle imprese private, apolidi, allogene o ‘nazionali’ che siano. Per rendere tutto ciò possibile fu necessario esautorare una classe dirigente che, per quanto in larga parte oltremodo servile, non rispondeva più ai canoni richiesti dal nuovo corso di predazione economica. A tal fine fu organizzata una manovra a tenaglia. Da una parte un ristretto gruppo di rappresentanti del mondo finanziario italiano e internazionale che, con l’incomprensibile benevolenza di Nettuno, incrociando sul Tirreno a bordo del Britannia, stabilirono la svalutazione della lira e la dismissione/svendita del patrimonio industriale dello Stato; dall’altra, una magistratura sapientemente indirizzata e una piazza facilmente sobillata scoprirono che i nostri politicanti sgraffignavano qualche milione dai fondi pubblici[2]. Non solo si era spianata la strada a una nuova classe politica, più ricettiva al nuovo Verbo privatizzatore, ma si era inculcata nel popolo la convinzione che l’intervento dello Stato nell’economia fosse l’origine del male da estirpare. Il resto è storia dei nostri giorni.

I tre modelli citati si differenziano nell’analisi contestuale, ma sono accomunati da varie analogie. Il primo si svolge in un contesto di guerra guerreggiata, e il processo di privatizzazione dell’economia viene esperito come risultato degli eventi bellici, come prezzo stabilito da pagare per la sconfitta. Nel secondo ci troviamo in una cosiddetta “rivoluzione colorata”, in cui il saccheggio viene sbandierato ai quattro venti come scelta economica vincente e viene edulcorato proponendolo come conseguenza di istanze politico-umanitarie. Nel caso italiano la guerra guerreggiata era finita da un pezzo, e di rivoluzione colorata non si può propriamente parlare. C’è chi parla di “guerra occulta”: nascosta nel Palazzo, efficace e incruenta (siamo in Europa occidentale, nel ‘salotto buono’; e il salotto buono non si sporca). Ma che è stata comunque capace di mietere le sue vittime. Le più illustri? Il lavoro, il senso dello Stato, la libertà di autodeterminarci come nazione.

Ma non possono uccidere la nostra volontà di ribellarci. Non possiamo permetterglielo.

di Fabrizio Fiorini


[1] A scanso di equivoci e per eccesso di zelo: niente a che vedere con Emma Bonino e Giacinto Pannella…

[2] Esistono centinaia di migliaia di persone che credono fermamente che Craxi sia morto in esilio perché aveva finanziato illegalmente il suo Partito o anche sé stesso. Sono gli stessi che credono che Mattei sia morto perché gli si era guastato lo spinterogeno. E’ preferibile ricordare, parlando della caduta di Craxi, di quando prendeva la parola ai congressi dell’Internazionale Socialista, e la delegazione dei laburisti israeliani abbandonava i lavori…

31 dicembre 2009