06 aprile 2010

Parigi festeggia in piazza.L’acqua torna pubblica.

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Sconfitte le multinazionali Veolia e Suez, l’amministrazione comunale celebra il ritorno ad una gestione municipalizzata: prezzi più bassi e maggiore qualità. Ma nel resto della Francia impazzano i privati.

Mille caraffe d’acqua al giorno distribuite nelle piazze cittadine, corredate da bicchieri di plastica riciclabile e dalla soddisfazione di una certezza immutabile: «L’acqua del rubinetto è fino a mille volte più ecologica dell’acqua in bottiglia». A sostenerlo non è un gruppo di ecoestremisti né il solito venditore di buone intenzioni ma addirittura la giunta comunale di Parigi.

La distribuzione di acqua fresca nella capitale francese fa il paio con i manifesti affissi ovunque dall’azienda municipalizzata Eau de Paris, per informare i cittadini che dal 1 gennaio scorso il Comune ha rilevato la gestione dell’acqua potabile, strappandola alle due potenti multinazionali leader mondiali del settore, le francesi Veolia del gruppo Vivendi e Suez Lyonnaise des eaux. Obiettivo dichiarato, secondo Anne Le Strat, assistente al Comune e direttrice della municipalizzata, «offrire ai parigini acqua di migliore qualità al miglior costo possibile», e far dimenticare il 260 per cento di rincaro dal 1985 dovuto alla gestione privata.

Il sindaco socialista Bertrand Delanoë, uscito con una solida maggioranza dalle amministrative del marzo 2008, non ha perso l’occasione di festeggiare in piazza il nuovo corso degustando un bicchiere sulla piazza del Comune insieme alla sua assistente Le Strat e alla signora Danielle Mitterrand, vedova dell’ex presidente della Repubblica e direttrice della fondazione France Libertés che milita per «il riconoscimento dell’acqua come diritto umano fondamentale e bene comune dell’umanità».

Nella capitale si consumano in media 550mila mc di acqua al giorno che, trasformati in euro, rappresentano un giro d’affari gigantesco. La municipalizzata applica tariffe pari a 2,93 euro al metro cubo, attualmente le più basse di Francia. Nel resto del Paese impazza invece la gestione privata che controlla i benefici di quasi 300 litri di consumo giornaliero per persona. Anche pochi rispetto ai 380 giornalieri in Italia o ai quasi 600 negli Usa, secondo i dati diffusi nel 2006 dal Programma di sviluppo dell’Onu.

Le multinazionali della distribuzione idrica sono tra le più potenti al mondo: ma la giunta parigina di centrosinistra non si è lasciata piegare ed è tornata alla gestione pubblica, incassando forti critiche da parte di André Santini, ex ministro in governi di centrodestra e attuale presidente della società Sedif, che gestisce la rete idrica in nome e per conto di 144 Comuni intorno alla capitale. Il prossimo giugno Santini aggiudicherà la gara per la concessione ai privati della distribuzione. Unici concorrenti rimasti: Veolia e Suez.

Vinta la scommessa della municipalizzazione, Parigi ora deve lottare contro il Pet, la malefica bottiglia di plastica che, benché riciclabile, in mancanza della giusta catena di smaltimento dei rifiuti invade senza posa terre e mari. L’acqua che esce dal rubinetto della cucina permette di risparmiare 10 kg di rifiuti plastici all’anno per persona perché «è consegnata a domicilio, senza bisogno d’imballaggio», sottolineano al Comune.

Inoltre è «in media 300 volte più economica di quella venduta in bottiglia» e spesso di migliore qualità rispetto alle più pubblicizzate tra le minerali da supermercato, come attestano quintali di saggi scientifici. Questo perché gli acquedotti pubblici, salvo eccezioni, attingono da falde profonde e sorgenti purissime, e hanno l’obbligo di fornire ai consumatori acqua sicura, rispondente ai severi parametri fissati dalle normative comunitarie.

In Francia sono ben 56 i criteri da rispettare, assicurati attraverso continui test di qualità. «L’acqua potabile oggi è l’alimento più controllato», assicura Nathalie Karpel, direttrice al laboratorio di chimica e microbiologie di Poitiers. La gara tra il rubinetto e la bottiglia, dunque, è vinta senza dubbio dal primo, e di larga misura. Ma da quando nel 1992 alla Conferenza di Dublino l’acqua fu dichiarata “bene commerciale”, la gente si è fatta affascinare dal mito oligominerale in bottiglia creato dalla pubblicità.

Lo scorso febbraio, dieci anni dopo la rivolta di Cochabamba in Bolivia, la rete mondiale Reclaiming Public Water ha tenuto un incontro al quale hanno partecipato militanti e amministratori provenienti da tutto il mondo per fare il punto sulla lotta alla privatizzazione. Presente anche l’assistente al comune di Parigi Anne Le Strat per spiegare come, con la semplice volontà politica, Eau de Paris abbia vinto la sua battaglia contro le grandi multinazionali.

04 aprile 2010

Il divario tecnologico nell'economia globale


Etleboro


La teoria del libero scambio, da David Ricardo al modello Heckscher-Ohlin-Samuelson, afferma che i flussi commerciali sono determinati dalle differenze nei costi dei fattori produttivi, lavoro e capitale, nel senso che un Paese si specializza nell’esportazione dei beni che riesce a produrre a costi più bassi. Applicata all’economia globale, legittima il sottosviluppo, perché confina il Terzo Mondo al ruolo di fornitore di materie prime e manodopera a basso costo, e giustifica lo sfruttamento neoimperialista nella misura in cui perpetua quei dislivelli, nei salari e nei tassi interessi, che fanno fluire gli investimenti dove è possibile lucrare maggiori profitti, senza riguardo per il diritto dei popoli all’autosufficienza alimentare e alla sovranità sulle risorse della propria terra.
Ne deriva un capitalismo predatore, in cui la povertà di alcune aree è funzionale alla ricchezza di altre, nonostante i profeti del libero scambio sostengano che i flussi commerciali, generati dalla differenza nel costo dei fattori produttivi, siano fonte di ricchezza per tutte le nazioni. A partire dagli anni sessanta, mentre il pensiero terzomondista d’ispirazione marxista critica lo sfruttamento fondato sul libero scambio, nei think tank del capitalismo in corso di globalizzazione s’avverte l’esigenza di fornire analisi più credibili sulla dinamica dei flussi commerciali. A spiegare i vantaggi dell’interscambio - tra economie avanzate in continua espansione ed economie arretrate, costrette a specializzarsi nella produzione di materie prime agricole e minerarie - interviene Michael Posner (1961) con la teoria del divario tecnologico, secondo cui la diffusione del progresso tecnologico determina i flussi commerciali indipendentemente dalla dotazione dei fattori produttivi. All’origine c’è l’innovazione come fattore di successo. Le imprese, per vincere il conflitto competitivo sul mercato interno, sviluppano nuovi prodotti e li esportano sui mercati esteri fino al momento in cui il nuovo prodotto non venga imitato localmente. In tal caso l’interscambio non è determinato dalla dotazione di fattori produttivi, che può anche essere identica nei Paesi interessati, ma dal carattere di novità dei beni scambiati e dalla diffusione dell’innovazione, che è sempre superiore nel Paese esportatore. In tale modello due tipologie di ritardo assumono particolare rilevanza. Il primo è il ritardo nella domanda estera, che misura il periodo intercorrente tra l’introduzione del nuovo prodotto nel Paese esportatore e l’inizio del suo consumo nel Paese importatore. Il secondo è il ritardo nell’imitazione, che indica l’intervallo temporale tra l’inizio della produzione nel Paese innovatore e l’inizio della produzione nel Paese imitatore, potendo l’imitazione avvenire grazie alla ricerca scientifica sviluppata localmente o mediante l’acquisto di brevetti e licenze di produzione. La differenza tra i due ritardi misura il periodo di tempo in cui il Paese innovatore ed esportatore conserverà i vantaggi del divario tecnologico rispetto al Paese importatore ed imitatore. Viene tuttavia precisato che nessuna particolare innovazione tende a produrre un flusso costante di esportazioni, ad eccezione dei casi in cui un know-how difficilmente trasferibile determini un lungo ritardo nell’imitazione. Soltanto un flusso di innovazioni, costante nel tempo e diffuso in diversi settori industriali, può generare uno stabile volume di esportazioni. A loro volta, i Paesi meno attivi nel processo di innovazione possono colmare il deficit nell’interscambio di nuovi beni mediante l’esportazione di prodotti tradizionali. In sostanza la teoria di Posner cerca di dimostrare l’importanza dell’innovazione tecnologica come fattore competitivo in generale, qualunque siano l’estensione del mercato e la dimensione dell’impresa, ma incontra diversi limiti. In primo luogo non spiega perché, sul mercato interno del Paese innovatore, l’innovazione si concentri in alcuni settori piuttosto che in altri. In secondo luogo non rivela perché, sul mercato mondiale, alcuni Paesi siano innovatori ed altri imitatori. L’unica plausibile spiegazione può ricollegarsi alla decisione di investire risorse nella ricerca e sviluppo. Ma ciò significa affermare che, ragionando in termini di commercio internazionale, sono esportatori di nuovi prodotti soltanto i Paesi ricchi, mentre ragionando in termini di interscambio tra settori, sono innovatori solo i settori ad alta intensità di capitale. Questa circostanza contraddice l’intero schema interpretativo di Posner, perché, mentre nei suoi presupposti sottovaluta l’incidenza dei fattori produttivi, nelle sue conclusioni valorizza un elemento, l’innovazione tecnologica, che dipende proprio dalla differente dotazione di un fattore produttivo: il capitale. Le lacune del modello Posner sono colmate dalla teoria del ciclo del prodotto, sviluppata in particolare da Raymond Vernon (1966), che spiega l’interscambio di merci e capitali descrivendo la genesi delle innovazioni e le ragioni che determinano il loro graduale trasferimento dal Paese innovatore ad altri mercati. Il modello presuppone che ciascun bene attraversi fasi successive di standardizzazione. Alcuni elementi - l’impiego dei fattori produttivi, i metodi di lavorazione, il volume delle vendite, il prezzo di mercato - assumono una diversa rilevanza man mano che si passa dalla fase iniziale a quella di maturità del prodotto. L’innovazione di processo e di prodotto favorisce l’esportazione – interscambio di prodotti finiti – o la dislocazione produttiva – interscambio di fattori produttivi, in particolare capitale e risorse naturali. La standardizzazione delle tecnologie favorisce l’inizio della produzione altrove, senza che siano necessarie ingenti spese per la ricerca e sviluppo. Dovunque i nuovi prodotti vengono dapprima lanciati sul mercato interno e poi esportati. Le economie nazionali sono l’ambiente che genera l’innovazione tecnologica e sperimenta, in via prioritaria, la recettività delle sue applicazioni. Una versione alternativa della teoria del ciclo del prodotto viene formulata da S.Hirsch (1967). Per identificare quali sistemi presentano vantaggi comparati ad ogni stadio del ciclo di vita del prodotto, egli divide i vari Paesi in tre categorie - in via di sviluppo, sviluppati, sviluppati ma di piccole dimensioni - ed i fattori produttivi, escludendo le risorse naturali, in cinque gruppi - capitale, lavoro non qualificato, management, conoscenze tecnologiche, economie esterne. La principale discriminante è l’intensità di capitale investito in tecnologia e formazione manageriale. Il mercato interno mantiene la sua fondamentale importanza, sia come sistema di infrastrutture che stimolano la diffusione dell’innovazione, sia come ambiente capace di assorbire l’iniziale offerta di nuove merci. Analizzando la disponibilità dei fattori elencati nei diversi sistemi, Hirsch conclude che i Paesi in via di sviluppo godono di un vantaggio comparato nei prodotti maturi, che richiedono un uso intensivo di lavoro non qualificato. Invece i Paesi sviluppati sono avvantaggiati sia nei beni nuovi che in quelli nuovi ma non ancora standardizzati, in virtù dell’ampia dotazione di capitale, capacità manageriali ed economie esterne. Infine i Paesi sviluppati ma di piccole dimensioni sono specificamente adatti alla sperimentazione di prodotti nuovi, perché hanno grande disponibilità di manodopera qualificata a costi comparativamente più bassi. Il modello Poster-Vernon-Hirsch, idoneo a spiegare l’espansione multinazionale delle aziende occidentali nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, comincia a perdere efficacia quando, nell’insieme Paesi in via di sviluppo, emergono realtà come i New Industrialized Countries (NIC) ed in particolare le cosiddette tigri asiatiche (Corea del Sud, Filippine, Indonesia, Malesia, Thailandia). Attraendo investimenti esteri diretti - con normative fiscali, ambientali e sindacali particolarmente favorevoli alle multinazionali straniere - tali sistemi si specializzano nella manifattura di prodotti o semilavorati destinati non ai rispettivi mercati interni - come presupponevano sia Vernon che Hirsch - ma a mercati diversi, compreso il mercato interno della casamadre. A trainare la crescita, non sono lo scambio di merci e/o fattori produttivi tra economie nazionali, entro i cui confini ciascuna impresa circoscrive una catena del valore ininterrotta. A gonfiare i dati sul commercio mondiale, sono il flusso di beni tra società dello stesso gruppo transnazionale, o tra queste e i loro partner locali. Nella competizione globale, enfatizzare l’innovazione tecnologica piuttosto che la manodopera a basso costo come segreto del successo, è un falso argomento, usato dagli stessi apologeti della globalizzazione, per sviare i discorsi dalla dinamica dell’accumulazione di capitale come fattore competitivo e sistema di sfruttamento, adombrando il ruolo delle banche come centri di potere economico e politico, dal momento che sono esse che creano moneta e la trasformano in capitale, in sostanziale autonomia rispetto ai governi.

Raffaele Ragni

02 aprile 2010

Il web sostituirà i partiti?

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L'opinione di Donatella Campus, docente di scienza politica

Forse è dai tempi d Tangentopoli che la professione del politico non scendeva così in basso nell'indice di gradimento. Solo che nel '92, a differenza di oggi, c'era un Paese capace di indignarsi, sensibile alla questione morale, almeno in parte disponibile a concedere qualche chance alla rigenerazione della politica. Quasi vent'anni dopo rimane soltanto l'antipolitica. L'astensionismo che stavolta ha raggiunto livelli da record per questo paese, è un segnale grosso come una montagna. Il distacco, la disaffezione, anzi l'insofferenza da saturazione per la "casta politica" sono diventati cultura di massa.

Ma anche chi non si astiene e decide di votare, sceglie in maggioranza di dare il proprio voto a forze che hanno l'apparenza di non essere partiti "tradizionali". A forze e personaggi che, a torto o a ragione, sono percepiti dall'opinione pubblica come estranei al "giro" della politica. Come la Lega, vista come un partito dalle mani pulite, al di fuori dei giochi, non contaminata dal potere. Anche se è al governo nazionale e in quelli locali. Anche se ormai sono lontani i tempi in cui era un movimento e se, nel frattempo, ha sfornato un ceto politico a tutti gli effetti, un esercito di parlamentari, ministri e amministratori locali. La Lega vince perché i suoi militanti stanno sul territorio e tanto basta a distinguerli dai politicanti di professione, a farli apparire "gente come noi", "del popolo". Analogo discorso si potrebbe fare per l'Italia dei Valori, cresciuta sull'onda dell'indignazione per la casta politica, guidata, non a caso, da un leader come Di Pietro prestato alla politica dalla magistratura. Anche a sinistra - è il caso del vendolismo - si vince con l'immagine di un leader che per ricandidarsi ha dovuto lottare contro gli intrighi di potere dall'alto. A prevalere, qui e là, sono insomma le varianti dell'unica narrazione oggi vincente, che individua nella politica e nel suo sistema il Vecchio da abbattere in nome del Nuovo.

Ma il caso più eclatante di antipolitica che fa politica - e con discreto successo - è quella del Movimento cinque stelle, la lista targata Beppe Grillo che ha raccolto l'1,7 per cento su base nazionale, con picchi sorprendenti come il quattro per cento in Piemonte e il sette in Emilia-Romagna. Un fungo spuntato dal nulla, a detta di molti opinionisti. Un fenomeno nato dalla Rete, nei blog e nei social network. Fino a ieri l'altro Giovanni Favia, capolista del movimento grillino in in terra emiliana, era uno sconosciuto e nessuno avrebbe potuto prevederne il successo nei panni dell'outsider in una regione in cui il tradizionale sistema di potere locale del Pd sembra privo di alternative.

Il "grillismo" è stato definito un movimento antipolitico. Non tanto perché chi vi si riconosce sia privo di senso civico, quanto perché esso raccoglie gli umori di una parte di elettorato sensibile sui temi etici e ambientali, ma indisponibile a votare uno qualunque dei partiti riconducibile al "sistema" politico. Al punto da presentarsi come un modo "nuovo" di fare politica che sostituirà definitivamente i vecchi partiti.

«Siamo la Lega del terzo millennio. Noi e loro siamo gli unici radicati sul territorio», ha detto Beppe Grillo nelle interviste a caldo dopo i risultati elettorali. E' il web, appunto, la nuova organizzazione che per i grillini cambierà la politica. «C'è la rete... noi siamo il contrario di tutti i partiti. Lo abbiamo visto tutti come sono stati scelti i candidati alle regionali. La gente è stata tenuta fuori. I nostri candidati sono specialisti scelti dalla rete. E su internet ogni persona vale uno, io come qualsiasi altro iscritto al Movimento Cinque Stelle. La rete è democrazia e trasparenza».

Internet, si dice, ha cambiato tutto, ha trasformato il modo in cui le persone si informano e comunicano tra loro, senza che i partiti se ne accorgessero.Il web è il Nuovo che avanza. La Rete, i blog, i social network sono le nuove autostrade digitali della conoscenza lungo le quali, ogni giorno, migliaia di persone si scambiano informazioni e formano le loro opinoni in autonomia e senza rapporti di gerarchia tra alto e basso. Perciò il vecchio sistema della politica - è la conclusione del ragionamento - non può continuare come prima. C'è chi vede in Internet, in virtù di questa previsione, «la panacea del male che attanaglia molte delle democrazie contemporanee, ovvero apatia, disaffezione nei confronti della politica, scarsa partecipazione attraverso i canali convenzionali come il voto e l'iscrizione a partiti e associazioni». Della questione si è occupata Donatella Campus, docente di scienza politica, nel saggio Comunicazione politica. Le nuove frontiere (Laterza, pp. 144, euro 16). «Internet riflette lo stato di cose esistente. Non direi perciò che l'uso politico di internet sia un sintomo di antipolitica. Certo, l'antipolitica c'è, in Italia c'è da sempre. Sono reduce da un convegno in cui si parlava proprio di Achille Lauro come prototipo di Berlusconi. E' chiaro che anche in internet possiamo trovare manifestazioni di antipolitica. Ma non è internet che le produce. Da voce, possiamo dire, a un certo tipo di pubblico che è composto prevalentemente da persone giovani, soprattutto nel caso dell'Italia. Se queste persone hanno un sentimento di insofferenza nei confronti della politica lo esprimono lì. Internet ha offerto oltre al menu di canali di partecipazione già esistenti, un ulteriore modo di partecipare. Ma questo non significa dire che sarà l panacea di tutti i mali. E'solo un'opportunità».
Fino a che punto però la discussione nei blog e nei forum può sostituire i canali tradizionali di partecipazione alla politica? Internet è davvero un'alternativa ai partiti - che tra l'altro soffrono di crisi di iscrizioni, di militanza e di radicamento nei territori? «Internet sta cambiando in prospettiva il rapporto tra partito e simpatizzanti. Forse in Italia lo vediamo meno che altrove. Ma il caso Obama e anche quello di Ségolène Royal in Francia internet ha cambiato la modalità di selezione del candidato alla presidenza. Però, secondo me, la rete non sostituirà i partiti, ma li andrà a integrare. Il che significa che i partiti dovranno evolversi fino a considerare internet come una propria manifestazione naturale. Mi spiego: internet rappresenterà il feedback che cambierà la forma organizzativa dei partiti. Ne dovranno tenere conto per sopravvivere. Non solo come strumento per comunicare durante le campagne elettorali, ma come modello di relazione più paritario. Un partito strutturato dall'alto verso il basso farà più fatica a utilizzarlo.

Il Pdl, ad esempio, non è un partito che va molto su internet. Non ha neppure interesse a farlo. I partiti del domani dovranno, da un lato, riscoprire i territori, e dall'altro, imparare a usare internet. Sono entrambi un tipo di relazione orizzontale, porta a porta. Il momento mediatico puro, la televisione, è destinato a essere sorpassato. Per ora funziona ancora bene, ma è un colpo di coda. Sono processi lunghi». Però c'è anche il rischio che attraverso la rete l'approccio alla politica non avvenga più nello spazio sociale della piazza, nella sfera delle relazioni concrete, ma nella dimensione privatistica del proprio schermo. «Internet dà la possibilità di partecipare alla politica anche senza scendere in piazza, rimanendo seduto davanti allo schermo. Vero. Però a volte funziona anche come passaggio intermedio. La comunicazione prende forma in rete e poi esce. Non è scontato insomma che il web produrrà un'atomizzazione. Se è per questo, la televisione ha diminuito le capacità associative e partecipative - come diceva Robert Putnam. Uno se ne può stare chiuso in casa a guardare la tv. Al confronto internet è un luogo di potenzialità. I segmenti di pubblico si possono anche mettere assieme. Non si può dire che internet sia il motore primario della segmentazione, piuttosto quest'ultima è riflesso di un fenomeno più complessivo». Un fenomeno presente soprattutto nei blog dove a discutere degli stessi temi si ritrovano spesso persone che la pensano allo stesso modo. Simile col simile. Ma così non passa una visione frammentata, parziale della realtà? «Questo accade, ma non è scontato. La frammentazione esiste, ognuno segue il filo dei propri interessi. Anche qui, però, internet segue il trend».
di Tonino Bucci

06 aprile 2010

Parigi festeggia in piazza.L’acqua torna pubblica.

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Sconfitte le multinazionali Veolia e Suez, l’amministrazione comunale celebra il ritorno ad una gestione municipalizzata: prezzi più bassi e maggiore qualità. Ma nel resto della Francia impazzano i privati.

Mille caraffe d’acqua al giorno distribuite nelle piazze cittadine, corredate da bicchieri di plastica riciclabile e dalla soddisfazione di una certezza immutabile: «L’acqua del rubinetto è fino a mille volte più ecologica dell’acqua in bottiglia». A sostenerlo non è un gruppo di ecoestremisti né il solito venditore di buone intenzioni ma addirittura la giunta comunale di Parigi.

La distribuzione di acqua fresca nella capitale francese fa il paio con i manifesti affissi ovunque dall’azienda municipalizzata Eau de Paris, per informare i cittadini che dal 1 gennaio scorso il Comune ha rilevato la gestione dell’acqua potabile, strappandola alle due potenti multinazionali leader mondiali del settore, le francesi Veolia del gruppo Vivendi e Suez Lyonnaise des eaux. Obiettivo dichiarato, secondo Anne Le Strat, assistente al Comune e direttrice della municipalizzata, «offrire ai parigini acqua di migliore qualità al miglior costo possibile», e far dimenticare il 260 per cento di rincaro dal 1985 dovuto alla gestione privata.

Il sindaco socialista Bertrand Delanoë, uscito con una solida maggioranza dalle amministrative del marzo 2008, non ha perso l’occasione di festeggiare in piazza il nuovo corso degustando un bicchiere sulla piazza del Comune insieme alla sua assistente Le Strat e alla signora Danielle Mitterrand, vedova dell’ex presidente della Repubblica e direttrice della fondazione France Libertés che milita per «il riconoscimento dell’acqua come diritto umano fondamentale e bene comune dell’umanità».

Nella capitale si consumano in media 550mila mc di acqua al giorno che, trasformati in euro, rappresentano un giro d’affari gigantesco. La municipalizzata applica tariffe pari a 2,93 euro al metro cubo, attualmente le più basse di Francia. Nel resto del Paese impazza invece la gestione privata che controlla i benefici di quasi 300 litri di consumo giornaliero per persona. Anche pochi rispetto ai 380 giornalieri in Italia o ai quasi 600 negli Usa, secondo i dati diffusi nel 2006 dal Programma di sviluppo dell’Onu.

Le multinazionali della distribuzione idrica sono tra le più potenti al mondo: ma la giunta parigina di centrosinistra non si è lasciata piegare ed è tornata alla gestione pubblica, incassando forti critiche da parte di André Santini, ex ministro in governi di centrodestra e attuale presidente della società Sedif, che gestisce la rete idrica in nome e per conto di 144 Comuni intorno alla capitale. Il prossimo giugno Santini aggiudicherà la gara per la concessione ai privati della distribuzione. Unici concorrenti rimasti: Veolia e Suez.

Vinta la scommessa della municipalizzazione, Parigi ora deve lottare contro il Pet, la malefica bottiglia di plastica che, benché riciclabile, in mancanza della giusta catena di smaltimento dei rifiuti invade senza posa terre e mari. L’acqua che esce dal rubinetto della cucina permette di risparmiare 10 kg di rifiuti plastici all’anno per persona perché «è consegnata a domicilio, senza bisogno d’imballaggio», sottolineano al Comune.

Inoltre è «in media 300 volte più economica di quella venduta in bottiglia» e spesso di migliore qualità rispetto alle più pubblicizzate tra le minerali da supermercato, come attestano quintali di saggi scientifici. Questo perché gli acquedotti pubblici, salvo eccezioni, attingono da falde profonde e sorgenti purissime, e hanno l’obbligo di fornire ai consumatori acqua sicura, rispondente ai severi parametri fissati dalle normative comunitarie.

In Francia sono ben 56 i criteri da rispettare, assicurati attraverso continui test di qualità. «L’acqua potabile oggi è l’alimento più controllato», assicura Nathalie Karpel, direttrice al laboratorio di chimica e microbiologie di Poitiers. La gara tra il rubinetto e la bottiglia, dunque, è vinta senza dubbio dal primo, e di larga misura. Ma da quando nel 1992 alla Conferenza di Dublino l’acqua fu dichiarata “bene commerciale”, la gente si è fatta affascinare dal mito oligominerale in bottiglia creato dalla pubblicità.

Lo scorso febbraio, dieci anni dopo la rivolta di Cochabamba in Bolivia, la rete mondiale Reclaiming Public Water ha tenuto un incontro al quale hanno partecipato militanti e amministratori provenienti da tutto il mondo per fare il punto sulla lotta alla privatizzazione. Presente anche l’assistente al comune di Parigi Anne Le Strat per spiegare come, con la semplice volontà politica, Eau de Paris abbia vinto la sua battaglia contro le grandi multinazionali.

04 aprile 2010

Il divario tecnologico nell'economia globale


Etleboro


La teoria del libero scambio, da David Ricardo al modello Heckscher-Ohlin-Samuelson, afferma che i flussi commerciali sono determinati dalle differenze nei costi dei fattori produttivi, lavoro e capitale, nel senso che un Paese si specializza nell’esportazione dei beni che riesce a produrre a costi più bassi. Applicata all’economia globale, legittima il sottosviluppo, perché confina il Terzo Mondo al ruolo di fornitore di materie prime e manodopera a basso costo, e giustifica lo sfruttamento neoimperialista nella misura in cui perpetua quei dislivelli, nei salari e nei tassi interessi, che fanno fluire gli investimenti dove è possibile lucrare maggiori profitti, senza riguardo per il diritto dei popoli all’autosufficienza alimentare e alla sovranità sulle risorse della propria terra.
Ne deriva un capitalismo predatore, in cui la povertà di alcune aree è funzionale alla ricchezza di altre, nonostante i profeti del libero scambio sostengano che i flussi commerciali, generati dalla differenza nel costo dei fattori produttivi, siano fonte di ricchezza per tutte le nazioni. A partire dagli anni sessanta, mentre il pensiero terzomondista d’ispirazione marxista critica lo sfruttamento fondato sul libero scambio, nei think tank del capitalismo in corso di globalizzazione s’avverte l’esigenza di fornire analisi più credibili sulla dinamica dei flussi commerciali. A spiegare i vantaggi dell’interscambio - tra economie avanzate in continua espansione ed economie arretrate, costrette a specializzarsi nella produzione di materie prime agricole e minerarie - interviene Michael Posner (1961) con la teoria del divario tecnologico, secondo cui la diffusione del progresso tecnologico determina i flussi commerciali indipendentemente dalla dotazione dei fattori produttivi. All’origine c’è l’innovazione come fattore di successo. Le imprese, per vincere il conflitto competitivo sul mercato interno, sviluppano nuovi prodotti e li esportano sui mercati esteri fino al momento in cui il nuovo prodotto non venga imitato localmente. In tal caso l’interscambio non è determinato dalla dotazione di fattori produttivi, che può anche essere identica nei Paesi interessati, ma dal carattere di novità dei beni scambiati e dalla diffusione dell’innovazione, che è sempre superiore nel Paese esportatore. In tale modello due tipologie di ritardo assumono particolare rilevanza. Il primo è il ritardo nella domanda estera, che misura il periodo intercorrente tra l’introduzione del nuovo prodotto nel Paese esportatore e l’inizio del suo consumo nel Paese importatore. Il secondo è il ritardo nell’imitazione, che indica l’intervallo temporale tra l’inizio della produzione nel Paese innovatore e l’inizio della produzione nel Paese imitatore, potendo l’imitazione avvenire grazie alla ricerca scientifica sviluppata localmente o mediante l’acquisto di brevetti e licenze di produzione. La differenza tra i due ritardi misura il periodo di tempo in cui il Paese innovatore ed esportatore conserverà i vantaggi del divario tecnologico rispetto al Paese importatore ed imitatore. Viene tuttavia precisato che nessuna particolare innovazione tende a produrre un flusso costante di esportazioni, ad eccezione dei casi in cui un know-how difficilmente trasferibile determini un lungo ritardo nell’imitazione. Soltanto un flusso di innovazioni, costante nel tempo e diffuso in diversi settori industriali, può generare uno stabile volume di esportazioni. A loro volta, i Paesi meno attivi nel processo di innovazione possono colmare il deficit nell’interscambio di nuovi beni mediante l’esportazione di prodotti tradizionali. In sostanza la teoria di Posner cerca di dimostrare l’importanza dell’innovazione tecnologica come fattore competitivo in generale, qualunque siano l’estensione del mercato e la dimensione dell’impresa, ma incontra diversi limiti. In primo luogo non spiega perché, sul mercato interno del Paese innovatore, l’innovazione si concentri in alcuni settori piuttosto che in altri. In secondo luogo non rivela perché, sul mercato mondiale, alcuni Paesi siano innovatori ed altri imitatori. L’unica plausibile spiegazione può ricollegarsi alla decisione di investire risorse nella ricerca e sviluppo. Ma ciò significa affermare che, ragionando in termini di commercio internazionale, sono esportatori di nuovi prodotti soltanto i Paesi ricchi, mentre ragionando in termini di interscambio tra settori, sono innovatori solo i settori ad alta intensità di capitale. Questa circostanza contraddice l’intero schema interpretativo di Posner, perché, mentre nei suoi presupposti sottovaluta l’incidenza dei fattori produttivi, nelle sue conclusioni valorizza un elemento, l’innovazione tecnologica, che dipende proprio dalla differente dotazione di un fattore produttivo: il capitale. Le lacune del modello Posner sono colmate dalla teoria del ciclo del prodotto, sviluppata in particolare da Raymond Vernon (1966), che spiega l’interscambio di merci e capitali descrivendo la genesi delle innovazioni e le ragioni che determinano il loro graduale trasferimento dal Paese innovatore ad altri mercati. Il modello presuppone che ciascun bene attraversi fasi successive di standardizzazione. Alcuni elementi - l’impiego dei fattori produttivi, i metodi di lavorazione, il volume delle vendite, il prezzo di mercato - assumono una diversa rilevanza man mano che si passa dalla fase iniziale a quella di maturità del prodotto. L’innovazione di processo e di prodotto favorisce l’esportazione – interscambio di prodotti finiti – o la dislocazione produttiva – interscambio di fattori produttivi, in particolare capitale e risorse naturali. La standardizzazione delle tecnologie favorisce l’inizio della produzione altrove, senza che siano necessarie ingenti spese per la ricerca e sviluppo. Dovunque i nuovi prodotti vengono dapprima lanciati sul mercato interno e poi esportati. Le economie nazionali sono l’ambiente che genera l’innovazione tecnologica e sperimenta, in via prioritaria, la recettività delle sue applicazioni. Una versione alternativa della teoria del ciclo del prodotto viene formulata da S.Hirsch (1967). Per identificare quali sistemi presentano vantaggi comparati ad ogni stadio del ciclo di vita del prodotto, egli divide i vari Paesi in tre categorie - in via di sviluppo, sviluppati, sviluppati ma di piccole dimensioni - ed i fattori produttivi, escludendo le risorse naturali, in cinque gruppi - capitale, lavoro non qualificato, management, conoscenze tecnologiche, economie esterne. La principale discriminante è l’intensità di capitale investito in tecnologia e formazione manageriale. Il mercato interno mantiene la sua fondamentale importanza, sia come sistema di infrastrutture che stimolano la diffusione dell’innovazione, sia come ambiente capace di assorbire l’iniziale offerta di nuove merci. Analizzando la disponibilità dei fattori elencati nei diversi sistemi, Hirsch conclude che i Paesi in via di sviluppo godono di un vantaggio comparato nei prodotti maturi, che richiedono un uso intensivo di lavoro non qualificato. Invece i Paesi sviluppati sono avvantaggiati sia nei beni nuovi che in quelli nuovi ma non ancora standardizzati, in virtù dell’ampia dotazione di capitale, capacità manageriali ed economie esterne. Infine i Paesi sviluppati ma di piccole dimensioni sono specificamente adatti alla sperimentazione di prodotti nuovi, perché hanno grande disponibilità di manodopera qualificata a costi comparativamente più bassi. Il modello Poster-Vernon-Hirsch, idoneo a spiegare l’espansione multinazionale delle aziende occidentali nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, comincia a perdere efficacia quando, nell’insieme Paesi in via di sviluppo, emergono realtà come i New Industrialized Countries (NIC) ed in particolare le cosiddette tigri asiatiche (Corea del Sud, Filippine, Indonesia, Malesia, Thailandia). Attraendo investimenti esteri diretti - con normative fiscali, ambientali e sindacali particolarmente favorevoli alle multinazionali straniere - tali sistemi si specializzano nella manifattura di prodotti o semilavorati destinati non ai rispettivi mercati interni - come presupponevano sia Vernon che Hirsch - ma a mercati diversi, compreso il mercato interno della casamadre. A trainare la crescita, non sono lo scambio di merci e/o fattori produttivi tra economie nazionali, entro i cui confini ciascuna impresa circoscrive una catena del valore ininterrotta. A gonfiare i dati sul commercio mondiale, sono il flusso di beni tra società dello stesso gruppo transnazionale, o tra queste e i loro partner locali. Nella competizione globale, enfatizzare l’innovazione tecnologica piuttosto che la manodopera a basso costo come segreto del successo, è un falso argomento, usato dagli stessi apologeti della globalizzazione, per sviare i discorsi dalla dinamica dell’accumulazione di capitale come fattore competitivo e sistema di sfruttamento, adombrando il ruolo delle banche come centri di potere economico e politico, dal momento che sono esse che creano moneta e la trasformano in capitale, in sostanziale autonomia rispetto ai governi.

Raffaele Ragni

02 aprile 2010

Il web sostituirà i partiti?

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L'opinione di Donatella Campus, docente di scienza politica

Forse è dai tempi d Tangentopoli che la professione del politico non scendeva così in basso nell'indice di gradimento. Solo che nel '92, a differenza di oggi, c'era un Paese capace di indignarsi, sensibile alla questione morale, almeno in parte disponibile a concedere qualche chance alla rigenerazione della politica. Quasi vent'anni dopo rimane soltanto l'antipolitica. L'astensionismo che stavolta ha raggiunto livelli da record per questo paese, è un segnale grosso come una montagna. Il distacco, la disaffezione, anzi l'insofferenza da saturazione per la "casta politica" sono diventati cultura di massa.

Ma anche chi non si astiene e decide di votare, sceglie in maggioranza di dare il proprio voto a forze che hanno l'apparenza di non essere partiti "tradizionali". A forze e personaggi che, a torto o a ragione, sono percepiti dall'opinione pubblica come estranei al "giro" della politica. Come la Lega, vista come un partito dalle mani pulite, al di fuori dei giochi, non contaminata dal potere. Anche se è al governo nazionale e in quelli locali. Anche se ormai sono lontani i tempi in cui era un movimento e se, nel frattempo, ha sfornato un ceto politico a tutti gli effetti, un esercito di parlamentari, ministri e amministratori locali. La Lega vince perché i suoi militanti stanno sul territorio e tanto basta a distinguerli dai politicanti di professione, a farli apparire "gente come noi", "del popolo". Analogo discorso si potrebbe fare per l'Italia dei Valori, cresciuta sull'onda dell'indignazione per la casta politica, guidata, non a caso, da un leader come Di Pietro prestato alla politica dalla magistratura. Anche a sinistra - è il caso del vendolismo - si vince con l'immagine di un leader che per ricandidarsi ha dovuto lottare contro gli intrighi di potere dall'alto. A prevalere, qui e là, sono insomma le varianti dell'unica narrazione oggi vincente, che individua nella politica e nel suo sistema il Vecchio da abbattere in nome del Nuovo.

Ma il caso più eclatante di antipolitica che fa politica - e con discreto successo - è quella del Movimento cinque stelle, la lista targata Beppe Grillo che ha raccolto l'1,7 per cento su base nazionale, con picchi sorprendenti come il quattro per cento in Piemonte e il sette in Emilia-Romagna. Un fungo spuntato dal nulla, a detta di molti opinionisti. Un fenomeno nato dalla Rete, nei blog e nei social network. Fino a ieri l'altro Giovanni Favia, capolista del movimento grillino in in terra emiliana, era uno sconosciuto e nessuno avrebbe potuto prevederne il successo nei panni dell'outsider in una regione in cui il tradizionale sistema di potere locale del Pd sembra privo di alternative.

Il "grillismo" è stato definito un movimento antipolitico. Non tanto perché chi vi si riconosce sia privo di senso civico, quanto perché esso raccoglie gli umori di una parte di elettorato sensibile sui temi etici e ambientali, ma indisponibile a votare uno qualunque dei partiti riconducibile al "sistema" politico. Al punto da presentarsi come un modo "nuovo" di fare politica che sostituirà definitivamente i vecchi partiti.

«Siamo la Lega del terzo millennio. Noi e loro siamo gli unici radicati sul territorio», ha detto Beppe Grillo nelle interviste a caldo dopo i risultati elettorali. E' il web, appunto, la nuova organizzazione che per i grillini cambierà la politica. «C'è la rete... noi siamo il contrario di tutti i partiti. Lo abbiamo visto tutti come sono stati scelti i candidati alle regionali. La gente è stata tenuta fuori. I nostri candidati sono specialisti scelti dalla rete. E su internet ogni persona vale uno, io come qualsiasi altro iscritto al Movimento Cinque Stelle. La rete è democrazia e trasparenza».

Internet, si dice, ha cambiato tutto, ha trasformato il modo in cui le persone si informano e comunicano tra loro, senza che i partiti se ne accorgessero.Il web è il Nuovo che avanza. La Rete, i blog, i social network sono le nuove autostrade digitali della conoscenza lungo le quali, ogni giorno, migliaia di persone si scambiano informazioni e formano le loro opinoni in autonomia e senza rapporti di gerarchia tra alto e basso. Perciò il vecchio sistema della politica - è la conclusione del ragionamento - non può continuare come prima. C'è chi vede in Internet, in virtù di questa previsione, «la panacea del male che attanaglia molte delle democrazie contemporanee, ovvero apatia, disaffezione nei confronti della politica, scarsa partecipazione attraverso i canali convenzionali come il voto e l'iscrizione a partiti e associazioni». Della questione si è occupata Donatella Campus, docente di scienza politica, nel saggio Comunicazione politica. Le nuove frontiere (Laterza, pp. 144, euro 16). «Internet riflette lo stato di cose esistente. Non direi perciò che l'uso politico di internet sia un sintomo di antipolitica. Certo, l'antipolitica c'è, in Italia c'è da sempre. Sono reduce da un convegno in cui si parlava proprio di Achille Lauro come prototipo di Berlusconi. E' chiaro che anche in internet possiamo trovare manifestazioni di antipolitica. Ma non è internet che le produce. Da voce, possiamo dire, a un certo tipo di pubblico che è composto prevalentemente da persone giovani, soprattutto nel caso dell'Italia. Se queste persone hanno un sentimento di insofferenza nei confronti della politica lo esprimono lì. Internet ha offerto oltre al menu di canali di partecipazione già esistenti, un ulteriore modo di partecipare. Ma questo non significa dire che sarà l panacea di tutti i mali. E'solo un'opportunità».
Fino a che punto però la discussione nei blog e nei forum può sostituire i canali tradizionali di partecipazione alla politica? Internet è davvero un'alternativa ai partiti - che tra l'altro soffrono di crisi di iscrizioni, di militanza e di radicamento nei territori? «Internet sta cambiando in prospettiva il rapporto tra partito e simpatizzanti. Forse in Italia lo vediamo meno che altrove. Ma il caso Obama e anche quello di Ségolène Royal in Francia internet ha cambiato la modalità di selezione del candidato alla presidenza. Però, secondo me, la rete non sostituirà i partiti, ma li andrà a integrare. Il che significa che i partiti dovranno evolversi fino a considerare internet come una propria manifestazione naturale. Mi spiego: internet rappresenterà il feedback che cambierà la forma organizzativa dei partiti. Ne dovranno tenere conto per sopravvivere. Non solo come strumento per comunicare durante le campagne elettorali, ma come modello di relazione più paritario. Un partito strutturato dall'alto verso il basso farà più fatica a utilizzarlo.

Il Pdl, ad esempio, non è un partito che va molto su internet. Non ha neppure interesse a farlo. I partiti del domani dovranno, da un lato, riscoprire i territori, e dall'altro, imparare a usare internet. Sono entrambi un tipo di relazione orizzontale, porta a porta. Il momento mediatico puro, la televisione, è destinato a essere sorpassato. Per ora funziona ancora bene, ma è un colpo di coda. Sono processi lunghi». Però c'è anche il rischio che attraverso la rete l'approccio alla politica non avvenga più nello spazio sociale della piazza, nella sfera delle relazioni concrete, ma nella dimensione privatistica del proprio schermo. «Internet dà la possibilità di partecipare alla politica anche senza scendere in piazza, rimanendo seduto davanti allo schermo. Vero. Però a volte funziona anche come passaggio intermedio. La comunicazione prende forma in rete e poi esce. Non è scontato insomma che il web produrrà un'atomizzazione. Se è per questo, la televisione ha diminuito le capacità associative e partecipative - come diceva Robert Putnam. Uno se ne può stare chiuso in casa a guardare la tv. Al confronto internet è un luogo di potenzialità. I segmenti di pubblico si possono anche mettere assieme. Non si può dire che internet sia il motore primario della segmentazione, piuttosto quest'ultima è riflesso di un fenomeno più complessivo». Un fenomeno presente soprattutto nei blog dove a discutere degli stessi temi si ritrovano spesso persone che la pensano allo stesso modo. Simile col simile. Ma così non passa una visione frammentata, parziale della realtà? «Questo accade, ma non è scontato. La frammentazione esiste, ognuno segue il filo dei propri interessi. Anche qui, però, internet segue il trend».
di Tonino Bucci