Mille caraffe d’acqua al giorno distribuite nelle piazze cittadine, corredate da bicchieri di plastica riciclabile e dalla soddisfazione di una certezza immutabile: «L’acqua del rubinetto è fino a mille volte più ecologica dell’acqua in bottiglia». A sostenerlo non è un gruppo di ecoestremisti né il solito venditore di buone intenzioni ma addirittura la giunta comunale di Parigi.
La distribuzione di acqua fresca nella capitale francese fa il paio con i manifesti affissi ovunque dall’azienda municipalizzata Eau de Paris, per informare i cittadini che dal 1 gennaio scorso il Comune ha rilevato la gestione dell’acqua potabile, strappandola alle due potenti multinazionali leader mondiali del settore, le francesi Veolia del gruppo Vivendi e Suez Lyonnaise des eaux. Obiettivo dichiarato, secondo Anne Le Strat, assistente al Comune e direttrice della municipalizzata, «offrire ai parigini acqua di migliore qualità al miglior costo possibile», e far dimenticare il 260 per cento di rincaro dal 1985 dovuto alla gestione privata.
Il sindaco socialista Bertrand Delanoë, uscito con una solida maggioranza dalle amministrative del marzo 2008, non ha perso l’occasione di festeggiare in piazza il nuovo corso degustando un bicchiere sulla piazza del Comune insieme alla sua assistente Le Strat e alla signora Danielle Mitterrand, vedova dell’ex presidente della Repubblica e direttrice della fondazione France Libertés che milita per «il riconoscimento dell’acqua come diritto umano fondamentale e bene comune dell’umanità».
Nella capitale si consumano in media 550mila mc di acqua al giorno che, trasformati in euro, rappresentano un giro d’affari gigantesco. La municipalizzata applica tariffe pari a 2,93 euro al metro cubo, attualmente le più basse di Francia. Nel resto del Paese impazza invece la gestione privata che controlla i benefici di quasi 300 litri di consumo giornaliero per persona. Anche pochi rispetto ai 380 giornalieri in Italia o ai quasi 600 negli Usa, secondo i dati diffusi nel 2006 dal Programma di sviluppo dell’Onu.
Le multinazionali della distribuzione idrica sono tra le più potenti al mondo: ma la giunta parigina di centrosinistra non si è lasciata piegare ed è tornata alla gestione pubblica, incassando forti critiche da parte di André Santini, ex ministro in governi di centrodestra e attuale presidente della società Sedif, che gestisce la rete idrica in nome e per conto di 144 Comuni intorno alla capitale. Il prossimo giugno Santini aggiudicherà la gara per la concessione ai privati della distribuzione. Unici concorrenti rimasti: Veolia e Suez.
Vinta la scommessa della municipalizzazione, Parigi ora deve lottare contro il Pet, la malefica bottiglia di plastica che, benché riciclabile, in mancanza della giusta catena di smaltimento dei rifiuti invade senza posa terre e mari. L’acqua che esce dal rubinetto della cucina permette di risparmiare 10 kg di rifiuti plastici all’anno per persona perché «è consegnata a domicilio, senza bisogno d’imballaggio», sottolineano al Comune.
Inoltre è «in media 300 volte più economica di quella venduta in bottiglia» e spesso di migliore qualità rispetto alle più pubblicizzate tra le minerali da supermercato, come attestano quintali di saggi scientifici. Questo perché gli acquedotti pubblici, salvo eccezioni, attingono da falde profonde e sorgenti purissime, e hanno l’obbligo di fornire ai consumatori acqua sicura, rispondente ai severi parametri fissati dalle normative comunitarie.
In Francia sono ben 56 i criteri da rispettare, assicurati attraverso continui test di qualità. «L’acqua potabile oggi è l’alimento più controllato», assicura Nathalie Karpel, direttrice al laboratorio di chimica e microbiologie di Poitiers. La gara tra il rubinetto e la bottiglia, dunque, è vinta senza dubbio dal primo, e di larga misura. Ma da quando nel 1992 alla Conferenza di Dublino l’acqua fu dichiarata “bene commerciale”, la gente si è fatta affascinare dal mito oligominerale in bottiglia creato dalla pubblicità.
Lo scorso febbraio, dieci anni dopo la rivolta di Cochabamba in Bolivia, la rete mondiale Reclaiming Public Water ha tenuto un incontro al quale hanno partecipato militanti e amministratori provenienti da tutto il mondo per fare il punto sulla lotta alla privatizzazione. Presente anche l’assistente al comune di Parigi Anne Le Strat per spiegare come, con la semplice volontà politica, Eau de Paris abbia vinto la sua battaglia contro le grandi multinazionali.
06 aprile 2010
Parigi festeggia in piazza.L’acqua torna pubblica.
04 aprile 2010
Il divario tecnologico nell'economia globale
Ne deriva un capitalismo predatore, in cui la povertà di alcune aree è funzionale alla ricchezza di altre, nonostante i profeti del libero scambio sostengano che i flussi commerciali, generati dalla differenza nel costo dei fattori produttivi, siano fonte di ricchezza per tutte le nazioni. A partire dagli anni sessanta, mentre il pensiero terzomondista d’ispirazione marxista critica lo sfruttamento fondato sul libero scambio, nei think tank del capitalismo in corso di globalizzazione s’avverte l’esigenza di fornire analisi più credibili sulla dinamica dei flussi commerciali. A spiegare i vantaggi dell’interscambio - tra economie avanzate in continua espansione ed economie arretrate, costrette a specializzarsi nella produzione di materie prime agricole e minerarie - interviene Michael Posner (1961) con la teoria del divario tecnologico, secondo cui la diffusione del progresso tecnologico determina i flussi commerciali indipendentemente dalla dotazione dei fattori produttivi. All’origine c’è l’innovazione come fattore di successo. Le imprese, per vincere il conflitto competitivo sul mercato interno, sviluppano nuovi prodotti e li esportano sui mercati esteri fino al momento in cui il nuovo prodotto non venga imitato localmente. In tal caso l’interscambio non è determinato dalla dotazione di fattori produttivi, che può anche essere identica nei Paesi interessati, ma dal carattere di novità dei beni scambiati e dalla diffusione dell’innovazione, che è sempre superiore nel Paese esportatore. In tale modello due tipologie di ritardo assumono particolare rilevanza. Il primo è il ritardo nella domanda estera, che misura il periodo intercorrente tra l’introduzione del nuovo prodotto nel Paese esportatore e l’inizio del suo consumo nel Paese importatore. Il secondo è il ritardo nell’imitazione, che indica l’intervallo temporale tra l’inizio della produzione nel Paese innovatore e l’inizio della produzione nel Paese imitatore, potendo l’imitazione avvenire grazie alla ricerca scientifica sviluppata localmente o mediante l’acquisto di brevetti e licenze di produzione. La differenza tra i due ritardi misura il periodo di tempo in cui il Paese innovatore ed esportatore conserverà i vantaggi del divario tecnologico rispetto al Paese importatore ed imitatore. Viene tuttavia precisato che nessuna particolare innovazione tende a produrre un flusso costante di esportazioni, ad eccezione dei casi in cui un know-how difficilmente trasferibile determini un lungo ritardo nell’imitazione. Soltanto un flusso di innovazioni, costante nel tempo e diffuso in diversi settori industriali, può generare uno stabile volume di esportazioni. A loro volta, i Paesi meno attivi nel processo di innovazione possono colmare il deficit nell’interscambio di nuovi beni mediante l’esportazione di prodotti tradizionali. In sostanza la teoria di Posner cerca di dimostrare l’importanza dell’innovazione tecnologica come fattore competitivo in generale, qualunque siano l’estensione del mercato e la dimensione dell’impresa, ma incontra diversi limiti. In primo luogo non spiega perché, sul mercato interno del Paese innovatore, l’innovazione si concentri in alcuni settori piuttosto che in altri. In secondo luogo non rivela perché, sul mercato mondiale, alcuni Paesi siano innovatori ed altri imitatori. L’unica plausibile spiegazione può ricollegarsi alla decisione di investire risorse nella ricerca e sviluppo. Ma ciò significa affermare che, ragionando in termini di commercio internazionale, sono esportatori di nuovi prodotti soltanto i Paesi ricchi, mentre ragionando in termini di interscambio tra settori, sono innovatori solo i settori ad alta intensità di capitale. Questa circostanza contraddice l’intero schema interpretativo di Posner, perché, mentre nei suoi presupposti sottovaluta l’incidenza dei fattori produttivi, nelle sue conclusioni valorizza un elemento, l’innovazione tecnologica, che dipende proprio dalla differente dotazione di un fattore produttivo: il capitale. Le lacune del modello Posner sono colmate dalla teoria del ciclo del prodotto, sviluppata in particolare da Raymond Vernon (1966), che spiega l’interscambio di merci e capitali descrivendo la genesi delle innovazioni e le ragioni che determinano il loro graduale trasferimento dal Paese innovatore ad altri mercati. Il modello presuppone che ciascun bene attraversi fasi successive di standardizzazione. Alcuni elementi - l’impiego dei fattori produttivi, i metodi di lavorazione, il volume delle vendite, il prezzo di mercato - assumono una diversa rilevanza man mano che si passa dalla fase iniziale a quella di maturità del prodotto. L’innovazione di processo e di prodotto favorisce l’esportazione – interscambio di prodotti finiti – o la dislocazione produttiva – interscambio di fattori produttivi, in particolare capitale e risorse naturali. La standardizzazione delle tecnologie favorisce l’inizio della produzione altrove, senza che siano necessarie ingenti spese per la ricerca e sviluppo. Dovunque i nuovi prodotti vengono dapprima lanciati sul mercato interno e poi esportati. Le economie nazionali sono l’ambiente che genera l’innovazione tecnologica e sperimenta, in via prioritaria, la recettività delle sue applicazioni. Una versione alternativa della teoria del ciclo del prodotto viene formulata da S.Hirsch (1967). Per identificare quali sistemi presentano vantaggi comparati ad ogni stadio del ciclo di vita del prodotto, egli divide i vari Paesi in tre categorie - in via di sviluppo, sviluppati, sviluppati ma di piccole dimensioni - ed i fattori produttivi, escludendo le risorse naturali, in cinque gruppi - capitale, lavoro non qualificato, management, conoscenze tecnologiche, economie esterne. La principale discriminante è l’intensità di capitale investito in tecnologia e formazione manageriale. Il mercato interno mantiene la sua fondamentale importanza, sia come sistema di infrastrutture che stimolano la diffusione dell’innovazione, sia come ambiente capace di assorbire l’iniziale offerta di nuove merci. Analizzando la disponibilità dei fattori elencati nei diversi sistemi, Hirsch conclude che i Paesi in via di sviluppo godono di un vantaggio comparato nei prodotti maturi, che richiedono un uso intensivo di lavoro non qualificato. Invece i Paesi sviluppati sono avvantaggiati sia nei beni nuovi che in quelli nuovi ma non ancora standardizzati, in virtù dell’ampia dotazione di capitale, capacità manageriali ed economie esterne. Infine i Paesi sviluppati ma di piccole dimensioni sono specificamente adatti alla sperimentazione di prodotti nuovi, perché hanno grande disponibilità di manodopera qualificata a costi comparativamente più bassi. Il modello Poster-Vernon-Hirsch, idoneo a spiegare l’espansione multinazionale delle aziende occidentali nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, comincia a perdere efficacia quando, nell’insieme Paesi in via di sviluppo, emergono realtà come i New Industrialized Countries (NIC) ed in particolare le cosiddette tigri asiatiche (Corea del Sud, Filippine, Indonesia, Malesia, Thailandia). Attraendo investimenti esteri diretti - con normative fiscali, ambientali e sindacali particolarmente favorevoli alle multinazionali straniere - tali sistemi si specializzano nella manifattura di prodotti o semilavorati destinati non ai rispettivi mercati interni - come presupponevano sia Vernon che Hirsch - ma a mercati diversi, compreso il mercato interno della casamadre. A trainare la crescita, non sono lo scambio di merci e/o fattori produttivi tra economie nazionali, entro i cui confini ciascuna impresa circoscrive una catena del valore ininterrotta. A gonfiare i dati sul commercio mondiale, sono il flusso di beni tra società dello stesso gruppo transnazionale, o tra queste e i loro partner locali. Nella competizione globale, enfatizzare l’innovazione tecnologica piuttosto che la manodopera a basso costo come segreto del successo, è un falso argomento, usato dagli stessi apologeti della globalizzazione, per sviare i discorsi dalla dinamica dell’accumulazione di capitale come fattore competitivo e sistema di sfruttamento, adombrando il ruolo delle banche come centri di potere economico e politico, dal momento che sono esse che creano moneta e la trasformano in capitale, in sostanziale autonomia rispetto ai governi.
02 aprile 2010
Il web sostituirà i partiti?
06 aprile 2010
Parigi festeggia in piazza.L’acqua torna pubblica.
Mille caraffe d’acqua al giorno distribuite nelle piazze cittadine, corredate da bicchieri di plastica riciclabile e dalla soddisfazione di una certezza immutabile: «L’acqua del rubinetto è fino a mille volte più ecologica dell’acqua in bottiglia». A sostenerlo non è un gruppo di ecoestremisti né il solito venditore di buone intenzioni ma addirittura la giunta comunale di Parigi.
La distribuzione di acqua fresca nella capitale francese fa il paio con i manifesti affissi ovunque dall’azienda municipalizzata Eau de Paris, per informare i cittadini che dal 1 gennaio scorso il Comune ha rilevato la gestione dell’acqua potabile, strappandola alle due potenti multinazionali leader mondiali del settore, le francesi Veolia del gruppo Vivendi e Suez Lyonnaise des eaux. Obiettivo dichiarato, secondo Anne Le Strat, assistente al Comune e direttrice della municipalizzata, «offrire ai parigini acqua di migliore qualità al miglior costo possibile», e far dimenticare il 260 per cento di rincaro dal 1985 dovuto alla gestione privata.
Il sindaco socialista Bertrand Delanoë, uscito con una solida maggioranza dalle amministrative del marzo 2008, non ha perso l’occasione di festeggiare in piazza il nuovo corso degustando un bicchiere sulla piazza del Comune insieme alla sua assistente Le Strat e alla signora Danielle Mitterrand, vedova dell’ex presidente della Repubblica e direttrice della fondazione France Libertés che milita per «il riconoscimento dell’acqua come diritto umano fondamentale e bene comune dell’umanità».
Nella capitale si consumano in media 550mila mc di acqua al giorno che, trasformati in euro, rappresentano un giro d’affari gigantesco. La municipalizzata applica tariffe pari a 2,93 euro al metro cubo, attualmente le più basse di Francia. Nel resto del Paese impazza invece la gestione privata che controlla i benefici di quasi 300 litri di consumo giornaliero per persona. Anche pochi rispetto ai 380 giornalieri in Italia o ai quasi 600 negli Usa, secondo i dati diffusi nel 2006 dal Programma di sviluppo dell’Onu.
Le multinazionali della distribuzione idrica sono tra le più potenti al mondo: ma la giunta parigina di centrosinistra non si è lasciata piegare ed è tornata alla gestione pubblica, incassando forti critiche da parte di André Santini, ex ministro in governi di centrodestra e attuale presidente della società Sedif, che gestisce la rete idrica in nome e per conto di 144 Comuni intorno alla capitale. Il prossimo giugno Santini aggiudicherà la gara per la concessione ai privati della distribuzione. Unici concorrenti rimasti: Veolia e Suez.
Vinta la scommessa della municipalizzazione, Parigi ora deve lottare contro il Pet, la malefica bottiglia di plastica che, benché riciclabile, in mancanza della giusta catena di smaltimento dei rifiuti invade senza posa terre e mari. L’acqua che esce dal rubinetto della cucina permette di risparmiare 10 kg di rifiuti plastici all’anno per persona perché «è consegnata a domicilio, senza bisogno d’imballaggio», sottolineano al Comune.
Inoltre è «in media 300 volte più economica di quella venduta in bottiglia» e spesso di migliore qualità rispetto alle più pubblicizzate tra le minerali da supermercato, come attestano quintali di saggi scientifici. Questo perché gli acquedotti pubblici, salvo eccezioni, attingono da falde profonde e sorgenti purissime, e hanno l’obbligo di fornire ai consumatori acqua sicura, rispondente ai severi parametri fissati dalle normative comunitarie.
In Francia sono ben 56 i criteri da rispettare, assicurati attraverso continui test di qualità. «L’acqua potabile oggi è l’alimento più controllato», assicura Nathalie Karpel, direttrice al laboratorio di chimica e microbiologie di Poitiers. La gara tra il rubinetto e la bottiglia, dunque, è vinta senza dubbio dal primo, e di larga misura. Ma da quando nel 1992 alla Conferenza di Dublino l’acqua fu dichiarata “bene commerciale”, la gente si è fatta affascinare dal mito oligominerale in bottiglia creato dalla pubblicità.
Lo scorso febbraio, dieci anni dopo la rivolta di Cochabamba in Bolivia, la rete mondiale Reclaiming Public Water ha tenuto un incontro al quale hanno partecipato militanti e amministratori provenienti da tutto il mondo per fare il punto sulla lotta alla privatizzazione. Presente anche l’assistente al comune di Parigi Anne Le Strat per spiegare come, con la semplice volontà politica, Eau de Paris abbia vinto la sua battaglia contro le grandi multinazionali.
04 aprile 2010
Il divario tecnologico nell'economia globale
Ne deriva un capitalismo predatore, in cui la povertà di alcune aree è funzionale alla ricchezza di altre, nonostante i profeti del libero scambio sostengano che i flussi commerciali, generati dalla differenza nel costo dei fattori produttivi, siano fonte di ricchezza per tutte le nazioni. A partire dagli anni sessanta, mentre il pensiero terzomondista d’ispirazione marxista critica lo sfruttamento fondato sul libero scambio, nei think tank del capitalismo in corso di globalizzazione s’avverte l’esigenza di fornire analisi più credibili sulla dinamica dei flussi commerciali. A spiegare i vantaggi dell’interscambio - tra economie avanzate in continua espansione ed economie arretrate, costrette a specializzarsi nella produzione di materie prime agricole e minerarie - interviene Michael Posner (1961) con la teoria del divario tecnologico, secondo cui la diffusione del progresso tecnologico determina i flussi commerciali indipendentemente dalla dotazione dei fattori produttivi. All’origine c’è l’innovazione come fattore di successo. Le imprese, per vincere il conflitto competitivo sul mercato interno, sviluppano nuovi prodotti e li esportano sui mercati esteri fino al momento in cui il nuovo prodotto non venga imitato localmente. In tal caso l’interscambio non è determinato dalla dotazione di fattori produttivi, che può anche essere identica nei Paesi interessati, ma dal carattere di novità dei beni scambiati e dalla diffusione dell’innovazione, che è sempre superiore nel Paese esportatore. In tale modello due tipologie di ritardo assumono particolare rilevanza. Il primo è il ritardo nella domanda estera, che misura il periodo intercorrente tra l’introduzione del nuovo prodotto nel Paese esportatore e l’inizio del suo consumo nel Paese importatore. Il secondo è il ritardo nell’imitazione, che indica l’intervallo temporale tra l’inizio della produzione nel Paese innovatore e l’inizio della produzione nel Paese imitatore, potendo l’imitazione avvenire grazie alla ricerca scientifica sviluppata localmente o mediante l’acquisto di brevetti e licenze di produzione. La differenza tra i due ritardi misura il periodo di tempo in cui il Paese innovatore ed esportatore conserverà i vantaggi del divario tecnologico rispetto al Paese importatore ed imitatore. Viene tuttavia precisato che nessuna particolare innovazione tende a produrre un flusso costante di esportazioni, ad eccezione dei casi in cui un know-how difficilmente trasferibile determini un lungo ritardo nell’imitazione. Soltanto un flusso di innovazioni, costante nel tempo e diffuso in diversi settori industriali, può generare uno stabile volume di esportazioni. A loro volta, i Paesi meno attivi nel processo di innovazione possono colmare il deficit nell’interscambio di nuovi beni mediante l’esportazione di prodotti tradizionali. In sostanza la teoria di Posner cerca di dimostrare l’importanza dell’innovazione tecnologica come fattore competitivo in generale, qualunque siano l’estensione del mercato e la dimensione dell’impresa, ma incontra diversi limiti. In primo luogo non spiega perché, sul mercato interno del Paese innovatore, l’innovazione si concentri in alcuni settori piuttosto che in altri. In secondo luogo non rivela perché, sul mercato mondiale, alcuni Paesi siano innovatori ed altri imitatori. L’unica plausibile spiegazione può ricollegarsi alla decisione di investire risorse nella ricerca e sviluppo. Ma ciò significa affermare che, ragionando in termini di commercio internazionale, sono esportatori di nuovi prodotti soltanto i Paesi ricchi, mentre ragionando in termini di interscambio tra settori, sono innovatori solo i settori ad alta intensità di capitale. Questa circostanza contraddice l’intero schema interpretativo di Posner, perché, mentre nei suoi presupposti sottovaluta l’incidenza dei fattori produttivi, nelle sue conclusioni valorizza un elemento, l’innovazione tecnologica, che dipende proprio dalla differente dotazione di un fattore produttivo: il capitale. Le lacune del modello Posner sono colmate dalla teoria del ciclo del prodotto, sviluppata in particolare da Raymond Vernon (1966), che spiega l’interscambio di merci e capitali descrivendo la genesi delle innovazioni e le ragioni che determinano il loro graduale trasferimento dal Paese innovatore ad altri mercati. Il modello presuppone che ciascun bene attraversi fasi successive di standardizzazione. Alcuni elementi - l’impiego dei fattori produttivi, i metodi di lavorazione, il volume delle vendite, il prezzo di mercato - assumono una diversa rilevanza man mano che si passa dalla fase iniziale a quella di maturità del prodotto. L’innovazione di processo e di prodotto favorisce l’esportazione – interscambio di prodotti finiti – o la dislocazione produttiva – interscambio di fattori produttivi, in particolare capitale e risorse naturali. La standardizzazione delle tecnologie favorisce l’inizio della produzione altrove, senza che siano necessarie ingenti spese per la ricerca e sviluppo. Dovunque i nuovi prodotti vengono dapprima lanciati sul mercato interno e poi esportati. Le economie nazionali sono l’ambiente che genera l’innovazione tecnologica e sperimenta, in via prioritaria, la recettività delle sue applicazioni. Una versione alternativa della teoria del ciclo del prodotto viene formulata da S.Hirsch (1967). Per identificare quali sistemi presentano vantaggi comparati ad ogni stadio del ciclo di vita del prodotto, egli divide i vari Paesi in tre categorie - in via di sviluppo, sviluppati, sviluppati ma di piccole dimensioni - ed i fattori produttivi, escludendo le risorse naturali, in cinque gruppi - capitale, lavoro non qualificato, management, conoscenze tecnologiche, economie esterne. La principale discriminante è l’intensità di capitale investito in tecnologia e formazione manageriale. Il mercato interno mantiene la sua fondamentale importanza, sia come sistema di infrastrutture che stimolano la diffusione dell’innovazione, sia come ambiente capace di assorbire l’iniziale offerta di nuove merci. Analizzando la disponibilità dei fattori elencati nei diversi sistemi, Hirsch conclude che i Paesi in via di sviluppo godono di un vantaggio comparato nei prodotti maturi, che richiedono un uso intensivo di lavoro non qualificato. Invece i Paesi sviluppati sono avvantaggiati sia nei beni nuovi che in quelli nuovi ma non ancora standardizzati, in virtù dell’ampia dotazione di capitale, capacità manageriali ed economie esterne. Infine i Paesi sviluppati ma di piccole dimensioni sono specificamente adatti alla sperimentazione di prodotti nuovi, perché hanno grande disponibilità di manodopera qualificata a costi comparativamente più bassi. Il modello Poster-Vernon-Hirsch, idoneo a spiegare l’espansione multinazionale delle aziende occidentali nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, comincia a perdere efficacia quando, nell’insieme Paesi in via di sviluppo, emergono realtà come i New Industrialized Countries (NIC) ed in particolare le cosiddette tigri asiatiche (Corea del Sud, Filippine, Indonesia, Malesia, Thailandia). Attraendo investimenti esteri diretti - con normative fiscali, ambientali e sindacali particolarmente favorevoli alle multinazionali straniere - tali sistemi si specializzano nella manifattura di prodotti o semilavorati destinati non ai rispettivi mercati interni - come presupponevano sia Vernon che Hirsch - ma a mercati diversi, compreso il mercato interno della casamadre. A trainare la crescita, non sono lo scambio di merci e/o fattori produttivi tra economie nazionali, entro i cui confini ciascuna impresa circoscrive una catena del valore ininterrotta. A gonfiare i dati sul commercio mondiale, sono il flusso di beni tra società dello stesso gruppo transnazionale, o tra queste e i loro partner locali. Nella competizione globale, enfatizzare l’innovazione tecnologica piuttosto che la manodopera a basso costo come segreto del successo, è un falso argomento, usato dagli stessi apologeti della globalizzazione, per sviare i discorsi dalla dinamica dell’accumulazione di capitale come fattore competitivo e sistema di sfruttamento, adombrando il ruolo delle banche come centri di potere economico e politico, dal momento che sono esse che creano moneta e la trasformano in capitale, in sostanziale autonomia rispetto ai governi.