28 agosto 2010

Quando Feltri picchiava Berlusconi








A scartabellare vecchi giornali viene il magone, soprattutto se vi si è lavorato, ma si trovano a volte delle cose divertenti oltre che istruttive. Leggete qui: “Diconsi quattordici anni. Durante i quali la Rai ha mantenuto gli antichi privilegi (canone, diretta, deficit ripianato dallo Stato) e la Fininvest ne ha scippati vari per sé, complici i partiti, la Dc, il Pri, il Psdi, il Pli e il Pci, con la loro stolida inerzia, e il Psi con il suo attivismo furfantesco, cui si deve tra l’altro la perla denominata ‘decreto Berlusconi’ cioè la scappatoia che consente all’intestatario di fare provvisoriamente i propri comodi in attesa che possa farseli definitivamente. Decreto elaborato in fretta e furia nel 1984 ad opera di Craxi in persona, decreto in sospetta posizione di fuorigioco costituzionale, decreto che perfino in una repubblica delle banane avrebbe suscitato scandalo e sarebbe stato cancellato dalla magistratura in un soprassalto di dignità e che invece in Italia è ancora spudoratamente in vigore senza che i suoi genitori siano morti suicidi per la vergogna. Niente.

Non soltanto non sono morti, ma sono ancora lì, in piena salute, a far danni alla collettività, col pretesto di curarne gli interessi, interessi che sarebbero gli stessi, secondo loro, del dottor Silvio di Milano due, il quale pretende tre emittenti, pubblicità pressoché illimitata, la Mondadori, un quotidiano e alcuni periodici. Poca roba .Perché non dargli anche un paio di stazioni radiofoniche, il Bollettino dei naviganti e la Gazzetta Ufficiale, così almeno le leggi se le fa sul bancone della tipografia? Poiché nemmeno il garofano, pur desiderandolo, ha osato chiedere tanto per l’amico antennuto, cosa che avrebbe impedito ogni spartizione per esaurimento del materiale da spartire, eccoci giunti allo sgradito momento della resa dei conti: il varo dei capolavori di Mammì, che non è il titolo di una canzonetta, ma il ministro delle Poste, colui che ha scritto sotto dettatura il testo per la disciplina dell’etere
(L’Europeo, 2 agosto 1990).

Quando Vittorio faceva l’anarchico

Di chi è questa prosa scintillante e allegramente e ferocemente antiberlusconiana e anticraxiana? Di Vittorio Feltri. Era quello il Feltri che amavo, anarchico di destra, certamente, ma sul quale non era ancora passato il berlusconismo, col quale ho vissuto due stagioni straordinarie all’Europeo e all’Indipendente. Siamo due calciatori che hanno lo stesso linguaggio tecnico, anche se in ruoli diversi, e che si intendono a meraviglia. Anche quando lasciò l’Indipendente per il Giornale, e io l’avevo trattato ripetutamente da “traditore”, da “canaglia”, da “furfante” (e lui è permalosissimo, come una donna) tutte le volte che ho avuto bisogno di piazzare un pezzo che nessun altro giornale avrebbe osato pubblicare ho chiesto ospitalità a Feltri. Perché tutto si può dire di Vittorio tranne che non abbia l’intuitaccio del giornalista, quello delle Fallaci, dei Montanelli, dei Malaparte, insomma dei grandi e dei grandissimi del nostro mestiere.
La stagione veramente indimenticabile è stata quella dell’Indi. Nel giro di un anno e mezzo, dal marzo del ‘92 all’autunno del ‘93, passammo, sotto la sua direzione, dalle 19500 copie cui l’aveva lasciato l’ectoplasma similanglosassone Ricardo Franco Levi alle 120 mila, una cavalcata che non ha precedenti nella storia del giornalismo italiano (speriamo che il record possa essere superato dal Fatto, che per molti versi, anche se qualcuno storcerà il naso, si apparenta a quell’Indipendente. Travaglio dice che ci siamo vicini, ma sull’entusiasmo di Marco bisogna fare sempre un po’ di tara).

L’avventura de “L’indipendente”

Gli inizi furono difficilissimi. Si diceva che il giornale avrebbe chiuso ad aprile, dopo un mese. Ma vennero le elezioni del 5 aprile con la travolgente avanzata della Lega. E sia Feltri che io, quando stavamo ancora all’Europeo, eravamo stati fra i pochissimi giornalisti, con Giorgio Bocca, a guardare il fenomeno Lega con quell’attenzione che sempre si dovrebbe alla realtà senza pregiudizi e sciocche demonizzazioni, e ci trovammo quindi in “pole position”. La vittoria della Lega scatenò Mani Pulite e Mani Pulite scatenò l’Indi, anche perché gli altri giornali, tutti compromessi col vecchio regime, avevano il freno a mano tirato. Inoltre, con la caduta della Prima Repubblica, molti lettori avevano perso i loro punti di riferimento e venivano da noi. Così potevamo scrivere le cose che gli piaceva sentirsi dire ma anche le cose che non gli piaceva sentirsi dire.
Il giornale era tendenzialmente liberista ma io vi scrivevo i miei pezzi anti-mercato e antindustrialisti e questo portava un altro tipo di lettori. Arrivarono editorialisti da ogni dove, di destra e di sinistra. Fare parte del giro dell’Indi era diventata una moda. Feltri orchestrò magistralmente questa polifonia di voci. Il giornale manteneva una sua fisionomia inconfondibile: quella del suo direttore, che si era inventato il “feltrismo”. Davanti a noi si stendevano praterie. Se Montanelli veniva via dal Giornale (col quale eravamo già in fase di sorpasso), come pareva inevitabile, ci sarebbero arrivati altri 30 o 40 mila lettori senza colpo ferire. Feltri si lamentava che Zanussi non era un vero editore, che non capiva nulla, che non gli dava i rinforzi necessari. Io replicavo che l’assoluta libertà di cui godevamo (quando fu arrestato l’amministratore del nostro giornale sparammo la notizia in testa alla prima pagina) era un “fattore del prodotto” più importante dei rinforzi. Eravamo un po’ sgangherati, certo, ma liberi.
E questo il lettore lo percepiva e ci passava sopra. Insomma, per parafrasare l’Hemingway di Festa mobile, quelli erano “i bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici”. E lo era anche Vittorio che pur, di suo, ha una natura profondamente melanconica.

La tentazione del “Giornale”

Ma qualcosa cominciò a scricchiolare già nell’agosto del ‘93 quando Feltri mi invitò a cena e mi pose la terrificante domanda: “Se vado al Giornale vieni con me?”. Cercai di spiegargli che era un errore, sia in termini generali sia per lui (cosa che successivamente, dopo che ad ogni incontro lo ulceravo con questa questione, ha finito, sia pur a denti stretti, per ammettere). Finimmo quella cena un po’ brilli di vino bianco e col suo grido: “In culo al Berlusca, restiamo all’Indi!”. Questa scena si ripeté almeno altre due o tre volte. Il giorno dopo l’ultima, conclusasi con lo stesso rituale, firmava per Berlusconi. Dopo è cambiato tutto. Era stato un fan senza riserve di Antonio Di Pietro (che chiamava affettuosamente “Tonino”) e di Mani Pulite, con eccessi, lui sì, forcaioli, e divenne nemico acerrimo della Magistratura. Non c’era errore, vero o presunto, di magistrato fosse stato commesso pure in Nuova Zelanda (non dico per dire, c’è stato anche questo) che non fosse sbattuto in prima pagina con critiche feroci e sarcastiche. Divenne un “garantista” a 24 carati (salvo dimenticarsi bellamente di ogni garantismo ora che, per ragioni di scuderia, ha scatenato la “caccia all’uomo” nei confronti di Gianfranco Fini). Era stato un sostenitore appassionato della Lega e le voltò da un giorno all’altro le spalle quando Bossi nel ‘94 abbatté il governo Berlusconi con quello che resta il suo miglior discorso in Parlamento. Mi ricordo che dopo quell’avvenimento ci trovammo insieme a un dibattito a Bergamo con una platea zeppa di leghisti che lo attaccavano pesantemente come “traditore” e “voltagabbana”.

La seconda vita da craxiano

Io lo difesi a spada tratta ricordando a quella gente che comunque aveva un debito di riconoscenza con Feltri che aveva difeso la Lega in tempi difficili. E Vittorio, di nascosto, sotto il tavolo, mi prese la mano in segno di riconoscenza. Era anticraxiano e, in omaggio ai trascorsi del Capo, divenne filocraxiano. Insomma nella seconda parte della sua vita ha sconfessato tutta la prima. Uno sfacelo.

Io ho affetto per Vittorio Feltri e lo considero il miglior direttore di giornale della sua generazione e anche di un paio precedenti. E mi fa male al cuore vederlo ridotto a un pitbull di Berlusconi, senza una vera ragione (perché Feltri, checché se ne pensi, non è un vero cinico, alla Giuliano Ferrara per intenderci), vederlo sprecare il suo grande talento per un uomo che non lo merita e non lo vale. Ma così è. Così è la vita che ti costringe, via via, a lasciare anche i compagni che ti sono stati più cari.
di Massimo Fini

27 agosto 2010

Come i ricchi speculatori traggono profitto dai disastri



Le calamità naturali danno ad alcuni capitalisti l’opportunità di trarre massimi profitti dalla carenza di beni alimentari

Quando la terra cuoce, i mercati vanno a fuoco.

Il caldo intenso e la più rigida siccità degli ultimi cent’anni hanno bruciato una enorme fetta di terra coltivabile in Russia che va dal Mar Nero alla Siberia, distruggendo la raccolta di grano e portando il governo di Medvedev a bloccare le esportazioni nel tentativo di assicurare le scorte.

Come conseguenza, i prezzi sono lievitati dappertutto nel resto del mondo. In Europa sono aumentati dell’80% nelle scorse sei settimane, mentre i mercati del grano a Chicago hanno visto un aumento del 25% in una settimana. Chi ha comprato il grano a prezzo fissato in anticipo ha incassato una fortuna, mentre i contadini in Russia si trovano davanti alla prospettiva di impoverimento e disperazione.

I paesi importatori e le multinazionali di beni alimentari si sono rivolti agli Stati Uniti, Australia, Argentina e alla UE. Il Financial Times commenta: “C'è abbastanza stock per coprire il buco ma manca un cuscino di sicurezza. In altre parole, le condizioni climatiche da qui alla raccolta di dicembre dovranno essere perfette”.

I consumatori devono aspettarsi di pagare di più per il pane e altri beni essenziali entro la fine dell’anno. In seguito, se il tempo non migliora, pagheranno molto di più.

Continua il FT: “I dirigenti delle aziende agricole e gli analisti dicono che la crisi probabilmente accelererà il consolidamento dell’agricoltura russa, permettendo alle grandi aziende di colpire i piccoli agricoltori che combattono”.

Per ogni cento milioni di perdenti nella lotteria dell’economia globale, c'è sempre qualche migliaio di vincitori. Uno dei più grandi a vincere recentemente è stato l’affarista londinese Anthony Ward.

Nell’ottobre del 2009 ha iniziato a stipulare contratti per iniziare la distribuzione del cacao del mese scorso. Cinque settimane fa, il suo hedge fund, Armajaro, ha preso in consegna 240,100 tonnellate, circa il 7% della produzione annuale mondiale. L’effetto è stato l’aumento dei prezzi ai livelli più alti da 30 anni, con enormi profitti per il signor Ward e i suoi investitori.

Le pagine finanziarie suggeriscono che i profitti potranno lievitare verso cime vertiginose se in Ottobre il raccolto della Costa d’Avorio andrà male così come sperano gli affaristi. In quel caso, i prezzi nel paese crolleranno – verso lo zero, secondo un commentatore – creando le condizioni per un altro lucrativo accaparramento di terre.

La Banca Mondiale affermava nei primi giorni di Agosto che “gli investitori mirano ai paesi con leggi deboli, comprano terre coltivabili a prezzi ridotti e non mantengono le promesse fatte”. Circa 124 milioni di acri di terreni coltivabili appartengono agli hedge funds.

Gli hedge funds – “macchine designate per saccheggiare navi naufragate”, secondo la memorabile definizione di un banchiere – si sono rivolti al settore del cibo, dei terreni coltivabili e delle ricchezze minerali del sud del mondo dal momento che le ricche risorse del settore immobiliare si sono prosciugate.

Il secondo più grande hedge fund del mondo, Paulson and Co., ha guadagnato miliardi scommettendo sul collasso del mercato dei subprime negli Stati Uniti. Quando il collasso è avvenuto, buttando fuori casa centinaia di migliaia di famiglie, il capo del fund, John Paulson, ha personalmente guadagnato 3.3 miliardi di dollari. Ora è accreditato come il quarantacinquesimo uomo più ricco al mondo.

Al lato di Paulson, in modo discreto, si trova l’azienda di trasporti di beni Glencore, che fa affari con terreni, grano, zucchero, zinco, gas naturale, ecc., e opera in tutto il pianeta. Anch’essa è nata dal crollo immobiliare in modo prepotente e l’anno scorso ha avuto un utile netto di 2.8 miliardi di dollari dalle sue nuove operazioni.

I prodotti delle aziende agricole di proprietà delle banche e degli hedge funds non sono destinati alle popolazioni locali ma ai mercati internazionali.

A questo fine, l’azienda londinese Central African Mining and Exploration, per esempio, ha appena acquistato 75,000 acri di terra fertile nel Mozambico per creare biocombustibile da esportare. La popolazione locale aveva capito che la terra doveva essere data o concessa in prestito a mille famiglie di coltivatori dislocate dopo che il parco nazionale era stato costituito con l’obiettivo di attrarre turisti.

Un rappresentante del governo spiega che quella gente era “confusa”. Senza dubbio.

Ciò che colpisce di queste operazioni – ce ne sono a centinaia – è l’impatto che possono avere sulla vita quotidiana di un vasto numero di persone, pur rimanendo virtualmente anonime e rimanere totalmente esenti da responsabilità.

L’idea che il profitto è l’unica cosa che conta quando si parla di produzione di alimenti potrà sembrare distorta e perfino immorale. Ma è strettamente in linea con l’etica dell’economia di mercato. Quando una piccola parte del mondo degli affari ha espresso il proprio malcontento per la monopolizzazione del mercato del cacao da parte di Anthony Ward, il Financial Times è corso in suo aiuto con un energico editoriale in cui si metteva in evidenza che egli “non ha infranto alcuna legge”.

Certamente non l’ha fatto. Sono le stesse leggi a truccare il gioco, è lo stesso sistema a generare le ingiustizie.

Titolo originale: "Fat cats profiting off disaster "

Fonte: http://www.belfasttelegraph.co.uk


di Eamonn McCann -

26 agosto 2010

Un Paese a sovranità limitata






Nonostante l’invidiabile posizione geografica e a dispetto dei caratteri che ne costituiscono la struttura morfologica, attualmente l’Italia non possiede una dottrina geopolitica.

Ciò è dovuto principalmente ai tre seguenti elementi: a) l’appartenenza dell’Italia alla sfera d’influenza statunitense (il cosiddetto sistema occidentale); b) la profonda crisi dell’identità nazionale; c) la scarsa cultura geopolitica delle sue classi dirigenti.

Il primo elemento, oltre a limitare la sovranità dello Stato italiano in molteplici ambiti, da quello militare a quello della politica estera, tanto per citare i più rilevanti per l’aspetto geopolitico, ne condiziona la politica e l’economia interne, le scelte strategiche in materia di energia, ricerca tecnologica e realizzazione di grandi infrastrutture e, non da ultimo, ne vincola persino le politiche nazionali di contrasto alla criminalità organizzata. L’Italia repubblicana, a causa delle note conseguenze del trattato di pace del 1947 ed anche in virtù dell’ambiguità ideologica del proprio dettato costituzionale, per il quale la sovranità apparterebbe ad una entità socioeconomica e culturale, peraltro mutevole e vagamente omogenea, il popolo, e non ad un soggetto politico ben definito come lo Stato (1), ha seguito la regola aurea del “realismo collaborazionista o claudicante”, ovverosia la rinuncia alla responsabilità di dirigere il proprio destino (2). Tale abdicazione situa l’Italia nella condizione di “subordinazione passiva” e lega le sue scelte strategiche alla “buona volontà dello Stato subordinante” (3).

Il secondo elemento inficia uno dei fattori necessari per la definizione di una coerente dottrina geopolitica. La crisi dell’identità italiana è dovuta a cause complesse che risalgono alla mal riuscita combinazione delle varie ideologie nazionali (di ispirazione cattolica, monarchica, liberale, socialista e laico-massonica) che hanno sostenuto il processo di unificazione dell’Italia, l’edificazione dello Stato unitario e, dopo la parentesi fascista, la realizzazione dell’attuale assetto repubblicano. La crisi dell’identità nazionale è dovuta, inoltre, anche alla mal digerita esperienza fascista e al trauma della perdita della guerra. La retorica romantica dello stato-nazione, il mito della nazione e, successivamente, quelli della resistenza e della “liberazione” non hanno reso certamente un buon servizio agli interessi dell’Italia, che, a centocinquanta anni dalla sua unificazione, è ancora alla ricerca della propria identità nazionale.

Il terzo elemento, infine, in parte ricollegabile per motivi storici ai precedenti, non permette di collocare la questione delle direttrici geopolitiche dell’Italia tra le priorità dell’agenda nazionale.

Eppure una sorta di geopolitica – o meglio una politica estera basata essenzialmente sulla collocazione geografica – rispondente agli interessi nazionali, e dunque eccentrica rispetto alle indicazioni statunitensi, esclusivamente dirette ad assicurare a Washington l’egemonia nel Mediterraneo, è stata presente nelle alterne vicende della Repubblica italiana. In particolare, l’attenzione di uomini di governo come Moro, Andreotti, Craxi come anche di importanti commis d’État come Mattei rivolta ai Paesi del Nordafrica e a quelli del Vicino e Medio Oriente, seppur limitata ai rapporti di “buon vicinato” e di “coprosperità”, era decisamente conforme non solo alla posizione geografica dell’Italia nel Mediterraneo, ma anche funzionale sia ad una potenziale, futura ed augurabile emancipazione dell’Italia democratica dalla tutela nordamericana, sia al ruolo regionale che Roma avrebbe potuto esercitare anche nell’ambito del rigido sistema bipolare. Tali iniziative avrebbero potuto ben costituire la base per definire le linee strategiche di quello che l’argentino Marcelo Gullo ha chiamato, nell’ambito dello studio della costruzione del potere delle nazioni, “realismo liberazionista”, e far transitare, pertanto, l’Italia dalla “subordinazione passiva” alla “subordinazione attiva”: uno stadio decisivo per ottenere alcuni spazi di autonomia nell’agone internazionale.

Il fallimento della modesta politica mediterranea dell’Italia repubblicana è da ascrivere, oltre che alle interferenze statunitensi, alla natura episodica con cui è stata esercitata e all’atteggiamento contrario e ostativo dei gruppi di pressione interni più filoamericani e prosionisti. Con la fine del bipolarismo e della cosiddetta Prima repubblica, però, le iniziative sopra esposte, dirette a ricavare un pur limitata autonomia delle politica estera italiana, sono decisamente sfumate.

Oggi l’Italia, quale paese euromediterraneo subordinato agli interessi statunitensi, si trova in una situazione molto delicata, giacché oltre a risentire, in quanto membro dell’Unione Europea e della NATO, delle tensioni tra gli USA e la Russia presenti nell’Europa continentale, in particolare in quella centrorientale (vedi la questione polacca per quanto concerne la “sicurezza”, oppure quella energetica), subisce soprattutto i contraccolpi delle politiche vicino e mediorientali di Washington. Inoltre, la soggezione dell’Italia agli USA, che – occorre ribadirlo – si esprime attraverso una evidente limitazione della sovranità dello Stato italiano, esalta i caratteri di fragilità tipici delle aree peninsulari (tensione tra la parte continentale, seppur limitata nel caso dell’Italia, e quelle più propriamente peninsulare ed insulare), aumenta le spinte centrifughe, rendendo difficoltosa persino la gestione della normale amministrazione dello Stato.

Militarmente occupata dagli USA – nell’ambito dell’“alleanza” atlantica – con oltre cento basi (4), priva di risorse energetiche adeguate, economicamente fragile e socialmente instabile per la continua erosione dell’ormai agonizzante “stato sociale”, l’Italia non possiede gradi di libertà tali da permetterle di valorizzare il suo potenziale geopolitico e geostrategico nelle sue naturali direttrici costituite dal Mediterraneo e dall’area adriatico-balcanico-danubiana, se non nel contesto delle strategie d’oltreatlantico, a esclusivo beneficio, dunque, degli interessi extranazionali ed extracontinentali.

Le opportunità per l’Italia di ricavarsi un proprio ruolo geopolitico risultano dunque esterne alla volontà di Roma; esse risiedono nelle ricadute che l’attuale evoluzione dello scenario mondiale – ormai multipolare – provoca nel bacino mediterraneo e nell’area continentale europea. I grandi rivolgimenti geopolitici in atto, determinati principalmente dalla Russia, infatti, potrebbero esaltare la funzione strategica dell’Italia nel Mediterraneo proprio nell’ambito dell’assetto e del consolidamento del nuovo sistema multipolare e della potenziale integrazione eurasiatica.

Occorre, infatti, tener presente che la strutturazione di questo nuovo sistema geopolitico multipolare passa, per ovvie ragioni, attraverso il processo di disarticolazione o ridimensionamento di quello “occidentale” a guida nordamericana, a partire dalle sue periferie. Queste ultime sono costituite, considerando la massa euroafroasiatica, dalla penisola europea, dal bacino mediterraneo e dall’arco insulare giapponese.





Russia e Turchia: i due poli geopolitici



I recenti mutamenti del quadro geopolitico globale hanno prodotto alcuni fattori che potrebbero dunque facilitare lo “svincolamento” di gran parte dei paesi che costituisco il cosiddetto sistema occidentale dalla tutela dell’”amico americano”. Ciò metterebbe potenzialmente Roma in grado di attivare una propria dottrina geopolitica coerente col nuovo contesto mondiale.

Come noto, la riaffermazione della Russia a livello mondiale ed il protagonismo della Cina e dell’India hanno provocato un riassestamento delle relazioni tra le maggiori potenze e posto le premesse per la costituzione di un nuovo ordinamento, basato su unità geopolitiche continentali a partire, non da rapporti di forza militare, ma da intese strategiche. Tali mutamenti si registrano anche nella parte meridionale dell’emisfero orientale, l’ormai ex cortile di casa degli USA, ove i rapporti di Brasile, Argentina e Venezuela con le potenze eurasiatiche sopra citate hanno fornito nuovo slancio alle ipotesi dell’unità continentale sudamericana. Relativamente all’area mediterranea, il principale tra questi nuovi fattori geopolitici è costituito dall’inversione di tendenza impressa da Ankara alle sue ultime politiche vicino e mediorientali. Lo strappo di Ankara da Washington e Tel Aviv potrebbe assumere, nel medio periodo, una valenza geopolitica di vasta portata ai fini della costituzione di uno spazio geopolitico eurasiatico integrato, giacché rappresenta un primo atto concreto sul quale è possibile innescare il processo di disarticolazione (o di limitazione) del sistema occidentale a partire dal bacino mediterraneo.

Date le condizioni attuali, i poli geopolitici sui quali un’Italia realmente intenzionata ad emanciparsi dalla tutela nordamericana dovrebbe far perno sono rappresentati proprio dalla Turchia e dalla Russia. Un allineamento di Roma alle indicazioni turche in materia di politica vicinorientale fornirebbe all’Italia la necessaria credibilità, pesantemente offuscata dalle sue vassallatiche relazioni con Washington, per imprimere un senso geopolitico alla stanca politica di cooperazione che da anni la Farnesina intrattiene con la sponda sud del Mediterraneo ed il Vicino Oriente. La metterebbe, inoltre, insieme (e grazie) all’alleato turco, nelle condizioni, se non proprio di denunciare il patto atlantico, almeno in quelle necessarie per rinegoziare l’oneroso e avvilente impegno in seno all’Alleanza, e per prospettare, simultaneamente, la riconversione dei siti militari presidiati dalla NATO in basi utili alla sicurezza del Mediterraneo. L’Italia e la Turchia, insieme agli altri paesi rivieraschi del Mediterraneo, potrebbero in tal caso realizzare un sistema di difesa integrato sull’esempio dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (OTSC).

Nell’attuazione di questa “exit strategy” dai vincoli statunitensi, sopra sinteticamente abbozzata, Roma troverebbe validi sostegni, oltre che ad Ankara, anche a Tripoli, Damasco e Teheran e, ovviamente, Mosca. Quest’ultima, peraltro, sosterrebbe certamente Roma nella uscita dall’orbita nordamericana, favorendo la sua naturale proiezione geopolitica nella direttrice adriatico-balcanico-danubiana nel quadro, ovviamente, di un’intesa italo-turco-russa costruita sui comuni interessi nel cosiddetto Mediterraneo allargato (costituito dai mari Mediterraneo, Nero, Caspio).

di Tiberio Graziani

28 agosto 2010

Quando Feltri picchiava Berlusconi








A scartabellare vecchi giornali viene il magone, soprattutto se vi si è lavorato, ma si trovano a volte delle cose divertenti oltre che istruttive. Leggete qui: “Diconsi quattordici anni. Durante i quali la Rai ha mantenuto gli antichi privilegi (canone, diretta, deficit ripianato dallo Stato) e la Fininvest ne ha scippati vari per sé, complici i partiti, la Dc, il Pri, il Psdi, il Pli e il Pci, con la loro stolida inerzia, e il Psi con il suo attivismo furfantesco, cui si deve tra l’altro la perla denominata ‘decreto Berlusconi’ cioè la scappatoia che consente all’intestatario di fare provvisoriamente i propri comodi in attesa che possa farseli definitivamente. Decreto elaborato in fretta e furia nel 1984 ad opera di Craxi in persona, decreto in sospetta posizione di fuorigioco costituzionale, decreto che perfino in una repubblica delle banane avrebbe suscitato scandalo e sarebbe stato cancellato dalla magistratura in un soprassalto di dignità e che invece in Italia è ancora spudoratamente in vigore senza che i suoi genitori siano morti suicidi per la vergogna. Niente.

Non soltanto non sono morti, ma sono ancora lì, in piena salute, a far danni alla collettività, col pretesto di curarne gli interessi, interessi che sarebbero gli stessi, secondo loro, del dottor Silvio di Milano due, il quale pretende tre emittenti, pubblicità pressoché illimitata, la Mondadori, un quotidiano e alcuni periodici. Poca roba .Perché non dargli anche un paio di stazioni radiofoniche, il Bollettino dei naviganti e la Gazzetta Ufficiale, così almeno le leggi se le fa sul bancone della tipografia? Poiché nemmeno il garofano, pur desiderandolo, ha osato chiedere tanto per l’amico antennuto, cosa che avrebbe impedito ogni spartizione per esaurimento del materiale da spartire, eccoci giunti allo sgradito momento della resa dei conti: il varo dei capolavori di Mammì, che non è il titolo di una canzonetta, ma il ministro delle Poste, colui che ha scritto sotto dettatura il testo per la disciplina dell’etere
(L’Europeo, 2 agosto 1990).

Quando Vittorio faceva l’anarchico

Di chi è questa prosa scintillante e allegramente e ferocemente antiberlusconiana e anticraxiana? Di Vittorio Feltri. Era quello il Feltri che amavo, anarchico di destra, certamente, ma sul quale non era ancora passato il berlusconismo, col quale ho vissuto due stagioni straordinarie all’Europeo e all’Indipendente. Siamo due calciatori che hanno lo stesso linguaggio tecnico, anche se in ruoli diversi, e che si intendono a meraviglia. Anche quando lasciò l’Indipendente per il Giornale, e io l’avevo trattato ripetutamente da “traditore”, da “canaglia”, da “furfante” (e lui è permalosissimo, come una donna) tutte le volte che ho avuto bisogno di piazzare un pezzo che nessun altro giornale avrebbe osato pubblicare ho chiesto ospitalità a Feltri. Perché tutto si può dire di Vittorio tranne che non abbia l’intuitaccio del giornalista, quello delle Fallaci, dei Montanelli, dei Malaparte, insomma dei grandi e dei grandissimi del nostro mestiere.
La stagione veramente indimenticabile è stata quella dell’Indi. Nel giro di un anno e mezzo, dal marzo del ‘92 all’autunno del ‘93, passammo, sotto la sua direzione, dalle 19500 copie cui l’aveva lasciato l’ectoplasma similanglosassone Ricardo Franco Levi alle 120 mila, una cavalcata che non ha precedenti nella storia del giornalismo italiano (speriamo che il record possa essere superato dal Fatto, che per molti versi, anche se qualcuno storcerà il naso, si apparenta a quell’Indipendente. Travaglio dice che ci siamo vicini, ma sull’entusiasmo di Marco bisogna fare sempre un po’ di tara).

L’avventura de “L’indipendente”

Gli inizi furono difficilissimi. Si diceva che il giornale avrebbe chiuso ad aprile, dopo un mese. Ma vennero le elezioni del 5 aprile con la travolgente avanzata della Lega. E sia Feltri che io, quando stavamo ancora all’Europeo, eravamo stati fra i pochissimi giornalisti, con Giorgio Bocca, a guardare il fenomeno Lega con quell’attenzione che sempre si dovrebbe alla realtà senza pregiudizi e sciocche demonizzazioni, e ci trovammo quindi in “pole position”. La vittoria della Lega scatenò Mani Pulite e Mani Pulite scatenò l’Indi, anche perché gli altri giornali, tutti compromessi col vecchio regime, avevano il freno a mano tirato. Inoltre, con la caduta della Prima Repubblica, molti lettori avevano perso i loro punti di riferimento e venivano da noi. Così potevamo scrivere le cose che gli piaceva sentirsi dire ma anche le cose che non gli piaceva sentirsi dire.
Il giornale era tendenzialmente liberista ma io vi scrivevo i miei pezzi anti-mercato e antindustrialisti e questo portava un altro tipo di lettori. Arrivarono editorialisti da ogni dove, di destra e di sinistra. Fare parte del giro dell’Indi era diventata una moda. Feltri orchestrò magistralmente questa polifonia di voci. Il giornale manteneva una sua fisionomia inconfondibile: quella del suo direttore, che si era inventato il “feltrismo”. Davanti a noi si stendevano praterie. Se Montanelli veniva via dal Giornale (col quale eravamo già in fase di sorpasso), come pareva inevitabile, ci sarebbero arrivati altri 30 o 40 mila lettori senza colpo ferire. Feltri si lamentava che Zanussi non era un vero editore, che non capiva nulla, che non gli dava i rinforzi necessari. Io replicavo che l’assoluta libertà di cui godevamo (quando fu arrestato l’amministratore del nostro giornale sparammo la notizia in testa alla prima pagina) era un “fattore del prodotto” più importante dei rinforzi. Eravamo un po’ sgangherati, certo, ma liberi.
E questo il lettore lo percepiva e ci passava sopra. Insomma, per parafrasare l’Hemingway di Festa mobile, quelli erano “i bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici”. E lo era anche Vittorio che pur, di suo, ha una natura profondamente melanconica.

La tentazione del “Giornale”

Ma qualcosa cominciò a scricchiolare già nell’agosto del ‘93 quando Feltri mi invitò a cena e mi pose la terrificante domanda: “Se vado al Giornale vieni con me?”. Cercai di spiegargli che era un errore, sia in termini generali sia per lui (cosa che successivamente, dopo che ad ogni incontro lo ulceravo con questa questione, ha finito, sia pur a denti stretti, per ammettere). Finimmo quella cena un po’ brilli di vino bianco e col suo grido: “In culo al Berlusca, restiamo all’Indi!”. Questa scena si ripeté almeno altre due o tre volte. Il giorno dopo l’ultima, conclusasi con lo stesso rituale, firmava per Berlusconi. Dopo è cambiato tutto. Era stato un fan senza riserve di Antonio Di Pietro (che chiamava affettuosamente “Tonino”) e di Mani Pulite, con eccessi, lui sì, forcaioli, e divenne nemico acerrimo della Magistratura. Non c’era errore, vero o presunto, di magistrato fosse stato commesso pure in Nuova Zelanda (non dico per dire, c’è stato anche questo) che non fosse sbattuto in prima pagina con critiche feroci e sarcastiche. Divenne un “garantista” a 24 carati (salvo dimenticarsi bellamente di ogni garantismo ora che, per ragioni di scuderia, ha scatenato la “caccia all’uomo” nei confronti di Gianfranco Fini). Era stato un sostenitore appassionato della Lega e le voltò da un giorno all’altro le spalle quando Bossi nel ‘94 abbatté il governo Berlusconi con quello che resta il suo miglior discorso in Parlamento. Mi ricordo che dopo quell’avvenimento ci trovammo insieme a un dibattito a Bergamo con una platea zeppa di leghisti che lo attaccavano pesantemente come “traditore” e “voltagabbana”.

La seconda vita da craxiano

Io lo difesi a spada tratta ricordando a quella gente che comunque aveva un debito di riconoscenza con Feltri che aveva difeso la Lega in tempi difficili. E Vittorio, di nascosto, sotto il tavolo, mi prese la mano in segno di riconoscenza. Era anticraxiano e, in omaggio ai trascorsi del Capo, divenne filocraxiano. Insomma nella seconda parte della sua vita ha sconfessato tutta la prima. Uno sfacelo.

Io ho affetto per Vittorio Feltri e lo considero il miglior direttore di giornale della sua generazione e anche di un paio precedenti. E mi fa male al cuore vederlo ridotto a un pitbull di Berlusconi, senza una vera ragione (perché Feltri, checché se ne pensi, non è un vero cinico, alla Giuliano Ferrara per intenderci), vederlo sprecare il suo grande talento per un uomo che non lo merita e non lo vale. Ma così è. Così è la vita che ti costringe, via via, a lasciare anche i compagni che ti sono stati più cari.
di Massimo Fini

27 agosto 2010

Come i ricchi speculatori traggono profitto dai disastri



Le calamità naturali danno ad alcuni capitalisti l’opportunità di trarre massimi profitti dalla carenza di beni alimentari

Quando la terra cuoce, i mercati vanno a fuoco.

Il caldo intenso e la più rigida siccità degli ultimi cent’anni hanno bruciato una enorme fetta di terra coltivabile in Russia che va dal Mar Nero alla Siberia, distruggendo la raccolta di grano e portando il governo di Medvedev a bloccare le esportazioni nel tentativo di assicurare le scorte.

Come conseguenza, i prezzi sono lievitati dappertutto nel resto del mondo. In Europa sono aumentati dell’80% nelle scorse sei settimane, mentre i mercati del grano a Chicago hanno visto un aumento del 25% in una settimana. Chi ha comprato il grano a prezzo fissato in anticipo ha incassato una fortuna, mentre i contadini in Russia si trovano davanti alla prospettiva di impoverimento e disperazione.

I paesi importatori e le multinazionali di beni alimentari si sono rivolti agli Stati Uniti, Australia, Argentina e alla UE. Il Financial Times commenta: “C'è abbastanza stock per coprire il buco ma manca un cuscino di sicurezza. In altre parole, le condizioni climatiche da qui alla raccolta di dicembre dovranno essere perfette”.

I consumatori devono aspettarsi di pagare di più per il pane e altri beni essenziali entro la fine dell’anno. In seguito, se il tempo non migliora, pagheranno molto di più.

Continua il FT: “I dirigenti delle aziende agricole e gli analisti dicono che la crisi probabilmente accelererà il consolidamento dell’agricoltura russa, permettendo alle grandi aziende di colpire i piccoli agricoltori che combattono”.

Per ogni cento milioni di perdenti nella lotteria dell’economia globale, c'è sempre qualche migliaio di vincitori. Uno dei più grandi a vincere recentemente è stato l’affarista londinese Anthony Ward.

Nell’ottobre del 2009 ha iniziato a stipulare contratti per iniziare la distribuzione del cacao del mese scorso. Cinque settimane fa, il suo hedge fund, Armajaro, ha preso in consegna 240,100 tonnellate, circa il 7% della produzione annuale mondiale. L’effetto è stato l’aumento dei prezzi ai livelli più alti da 30 anni, con enormi profitti per il signor Ward e i suoi investitori.

Le pagine finanziarie suggeriscono che i profitti potranno lievitare verso cime vertiginose se in Ottobre il raccolto della Costa d’Avorio andrà male così come sperano gli affaristi. In quel caso, i prezzi nel paese crolleranno – verso lo zero, secondo un commentatore – creando le condizioni per un altro lucrativo accaparramento di terre.

La Banca Mondiale affermava nei primi giorni di Agosto che “gli investitori mirano ai paesi con leggi deboli, comprano terre coltivabili a prezzi ridotti e non mantengono le promesse fatte”. Circa 124 milioni di acri di terreni coltivabili appartengono agli hedge funds.

Gli hedge funds – “macchine designate per saccheggiare navi naufragate”, secondo la memorabile definizione di un banchiere – si sono rivolti al settore del cibo, dei terreni coltivabili e delle ricchezze minerali del sud del mondo dal momento che le ricche risorse del settore immobiliare si sono prosciugate.

Il secondo più grande hedge fund del mondo, Paulson and Co., ha guadagnato miliardi scommettendo sul collasso del mercato dei subprime negli Stati Uniti. Quando il collasso è avvenuto, buttando fuori casa centinaia di migliaia di famiglie, il capo del fund, John Paulson, ha personalmente guadagnato 3.3 miliardi di dollari. Ora è accreditato come il quarantacinquesimo uomo più ricco al mondo.

Al lato di Paulson, in modo discreto, si trova l’azienda di trasporti di beni Glencore, che fa affari con terreni, grano, zucchero, zinco, gas naturale, ecc., e opera in tutto il pianeta. Anch’essa è nata dal crollo immobiliare in modo prepotente e l’anno scorso ha avuto un utile netto di 2.8 miliardi di dollari dalle sue nuove operazioni.

I prodotti delle aziende agricole di proprietà delle banche e degli hedge funds non sono destinati alle popolazioni locali ma ai mercati internazionali.

A questo fine, l’azienda londinese Central African Mining and Exploration, per esempio, ha appena acquistato 75,000 acri di terra fertile nel Mozambico per creare biocombustibile da esportare. La popolazione locale aveva capito che la terra doveva essere data o concessa in prestito a mille famiglie di coltivatori dislocate dopo che il parco nazionale era stato costituito con l’obiettivo di attrarre turisti.

Un rappresentante del governo spiega che quella gente era “confusa”. Senza dubbio.

Ciò che colpisce di queste operazioni – ce ne sono a centinaia – è l’impatto che possono avere sulla vita quotidiana di un vasto numero di persone, pur rimanendo virtualmente anonime e rimanere totalmente esenti da responsabilità.

L’idea che il profitto è l’unica cosa che conta quando si parla di produzione di alimenti potrà sembrare distorta e perfino immorale. Ma è strettamente in linea con l’etica dell’economia di mercato. Quando una piccola parte del mondo degli affari ha espresso il proprio malcontento per la monopolizzazione del mercato del cacao da parte di Anthony Ward, il Financial Times è corso in suo aiuto con un energico editoriale in cui si metteva in evidenza che egli “non ha infranto alcuna legge”.

Certamente non l’ha fatto. Sono le stesse leggi a truccare il gioco, è lo stesso sistema a generare le ingiustizie.

Titolo originale: "Fat cats profiting off disaster "

Fonte: http://www.belfasttelegraph.co.uk


di Eamonn McCann -

26 agosto 2010

Un Paese a sovranità limitata






Nonostante l’invidiabile posizione geografica e a dispetto dei caratteri che ne costituiscono la struttura morfologica, attualmente l’Italia non possiede una dottrina geopolitica.

Ciò è dovuto principalmente ai tre seguenti elementi: a) l’appartenenza dell’Italia alla sfera d’influenza statunitense (il cosiddetto sistema occidentale); b) la profonda crisi dell’identità nazionale; c) la scarsa cultura geopolitica delle sue classi dirigenti.

Il primo elemento, oltre a limitare la sovranità dello Stato italiano in molteplici ambiti, da quello militare a quello della politica estera, tanto per citare i più rilevanti per l’aspetto geopolitico, ne condiziona la politica e l’economia interne, le scelte strategiche in materia di energia, ricerca tecnologica e realizzazione di grandi infrastrutture e, non da ultimo, ne vincola persino le politiche nazionali di contrasto alla criminalità organizzata. L’Italia repubblicana, a causa delle note conseguenze del trattato di pace del 1947 ed anche in virtù dell’ambiguità ideologica del proprio dettato costituzionale, per il quale la sovranità apparterebbe ad una entità socioeconomica e culturale, peraltro mutevole e vagamente omogenea, il popolo, e non ad un soggetto politico ben definito come lo Stato (1), ha seguito la regola aurea del “realismo collaborazionista o claudicante”, ovverosia la rinuncia alla responsabilità di dirigere il proprio destino (2). Tale abdicazione situa l’Italia nella condizione di “subordinazione passiva” e lega le sue scelte strategiche alla “buona volontà dello Stato subordinante” (3).

Il secondo elemento inficia uno dei fattori necessari per la definizione di una coerente dottrina geopolitica. La crisi dell’identità italiana è dovuta a cause complesse che risalgono alla mal riuscita combinazione delle varie ideologie nazionali (di ispirazione cattolica, monarchica, liberale, socialista e laico-massonica) che hanno sostenuto il processo di unificazione dell’Italia, l’edificazione dello Stato unitario e, dopo la parentesi fascista, la realizzazione dell’attuale assetto repubblicano. La crisi dell’identità nazionale è dovuta, inoltre, anche alla mal digerita esperienza fascista e al trauma della perdita della guerra. La retorica romantica dello stato-nazione, il mito della nazione e, successivamente, quelli della resistenza e della “liberazione” non hanno reso certamente un buon servizio agli interessi dell’Italia, che, a centocinquanta anni dalla sua unificazione, è ancora alla ricerca della propria identità nazionale.

Il terzo elemento, infine, in parte ricollegabile per motivi storici ai precedenti, non permette di collocare la questione delle direttrici geopolitiche dell’Italia tra le priorità dell’agenda nazionale.

Eppure una sorta di geopolitica – o meglio una politica estera basata essenzialmente sulla collocazione geografica – rispondente agli interessi nazionali, e dunque eccentrica rispetto alle indicazioni statunitensi, esclusivamente dirette ad assicurare a Washington l’egemonia nel Mediterraneo, è stata presente nelle alterne vicende della Repubblica italiana. In particolare, l’attenzione di uomini di governo come Moro, Andreotti, Craxi come anche di importanti commis d’État come Mattei rivolta ai Paesi del Nordafrica e a quelli del Vicino e Medio Oriente, seppur limitata ai rapporti di “buon vicinato” e di “coprosperità”, era decisamente conforme non solo alla posizione geografica dell’Italia nel Mediterraneo, ma anche funzionale sia ad una potenziale, futura ed augurabile emancipazione dell’Italia democratica dalla tutela nordamericana, sia al ruolo regionale che Roma avrebbe potuto esercitare anche nell’ambito del rigido sistema bipolare. Tali iniziative avrebbero potuto ben costituire la base per definire le linee strategiche di quello che l’argentino Marcelo Gullo ha chiamato, nell’ambito dello studio della costruzione del potere delle nazioni, “realismo liberazionista”, e far transitare, pertanto, l’Italia dalla “subordinazione passiva” alla “subordinazione attiva”: uno stadio decisivo per ottenere alcuni spazi di autonomia nell’agone internazionale.

Il fallimento della modesta politica mediterranea dell’Italia repubblicana è da ascrivere, oltre che alle interferenze statunitensi, alla natura episodica con cui è stata esercitata e all’atteggiamento contrario e ostativo dei gruppi di pressione interni più filoamericani e prosionisti. Con la fine del bipolarismo e della cosiddetta Prima repubblica, però, le iniziative sopra esposte, dirette a ricavare un pur limitata autonomia delle politica estera italiana, sono decisamente sfumate.

Oggi l’Italia, quale paese euromediterraneo subordinato agli interessi statunitensi, si trova in una situazione molto delicata, giacché oltre a risentire, in quanto membro dell’Unione Europea e della NATO, delle tensioni tra gli USA e la Russia presenti nell’Europa continentale, in particolare in quella centrorientale (vedi la questione polacca per quanto concerne la “sicurezza”, oppure quella energetica), subisce soprattutto i contraccolpi delle politiche vicino e mediorientali di Washington. Inoltre, la soggezione dell’Italia agli USA, che – occorre ribadirlo – si esprime attraverso una evidente limitazione della sovranità dello Stato italiano, esalta i caratteri di fragilità tipici delle aree peninsulari (tensione tra la parte continentale, seppur limitata nel caso dell’Italia, e quelle più propriamente peninsulare ed insulare), aumenta le spinte centrifughe, rendendo difficoltosa persino la gestione della normale amministrazione dello Stato.

Militarmente occupata dagli USA – nell’ambito dell’“alleanza” atlantica – con oltre cento basi (4), priva di risorse energetiche adeguate, economicamente fragile e socialmente instabile per la continua erosione dell’ormai agonizzante “stato sociale”, l’Italia non possiede gradi di libertà tali da permetterle di valorizzare il suo potenziale geopolitico e geostrategico nelle sue naturali direttrici costituite dal Mediterraneo e dall’area adriatico-balcanico-danubiana, se non nel contesto delle strategie d’oltreatlantico, a esclusivo beneficio, dunque, degli interessi extranazionali ed extracontinentali.

Le opportunità per l’Italia di ricavarsi un proprio ruolo geopolitico risultano dunque esterne alla volontà di Roma; esse risiedono nelle ricadute che l’attuale evoluzione dello scenario mondiale – ormai multipolare – provoca nel bacino mediterraneo e nell’area continentale europea. I grandi rivolgimenti geopolitici in atto, determinati principalmente dalla Russia, infatti, potrebbero esaltare la funzione strategica dell’Italia nel Mediterraneo proprio nell’ambito dell’assetto e del consolidamento del nuovo sistema multipolare e della potenziale integrazione eurasiatica.

Occorre, infatti, tener presente che la strutturazione di questo nuovo sistema geopolitico multipolare passa, per ovvie ragioni, attraverso il processo di disarticolazione o ridimensionamento di quello “occidentale” a guida nordamericana, a partire dalle sue periferie. Queste ultime sono costituite, considerando la massa euroafroasiatica, dalla penisola europea, dal bacino mediterraneo e dall’arco insulare giapponese.





Russia e Turchia: i due poli geopolitici



I recenti mutamenti del quadro geopolitico globale hanno prodotto alcuni fattori che potrebbero dunque facilitare lo “svincolamento” di gran parte dei paesi che costituisco il cosiddetto sistema occidentale dalla tutela dell’”amico americano”. Ciò metterebbe potenzialmente Roma in grado di attivare una propria dottrina geopolitica coerente col nuovo contesto mondiale.

Come noto, la riaffermazione della Russia a livello mondiale ed il protagonismo della Cina e dell’India hanno provocato un riassestamento delle relazioni tra le maggiori potenze e posto le premesse per la costituzione di un nuovo ordinamento, basato su unità geopolitiche continentali a partire, non da rapporti di forza militare, ma da intese strategiche. Tali mutamenti si registrano anche nella parte meridionale dell’emisfero orientale, l’ormai ex cortile di casa degli USA, ove i rapporti di Brasile, Argentina e Venezuela con le potenze eurasiatiche sopra citate hanno fornito nuovo slancio alle ipotesi dell’unità continentale sudamericana. Relativamente all’area mediterranea, il principale tra questi nuovi fattori geopolitici è costituito dall’inversione di tendenza impressa da Ankara alle sue ultime politiche vicino e mediorientali. Lo strappo di Ankara da Washington e Tel Aviv potrebbe assumere, nel medio periodo, una valenza geopolitica di vasta portata ai fini della costituzione di uno spazio geopolitico eurasiatico integrato, giacché rappresenta un primo atto concreto sul quale è possibile innescare il processo di disarticolazione (o di limitazione) del sistema occidentale a partire dal bacino mediterraneo.

Date le condizioni attuali, i poli geopolitici sui quali un’Italia realmente intenzionata ad emanciparsi dalla tutela nordamericana dovrebbe far perno sono rappresentati proprio dalla Turchia e dalla Russia. Un allineamento di Roma alle indicazioni turche in materia di politica vicinorientale fornirebbe all’Italia la necessaria credibilità, pesantemente offuscata dalle sue vassallatiche relazioni con Washington, per imprimere un senso geopolitico alla stanca politica di cooperazione che da anni la Farnesina intrattiene con la sponda sud del Mediterraneo ed il Vicino Oriente. La metterebbe, inoltre, insieme (e grazie) all’alleato turco, nelle condizioni, se non proprio di denunciare il patto atlantico, almeno in quelle necessarie per rinegoziare l’oneroso e avvilente impegno in seno all’Alleanza, e per prospettare, simultaneamente, la riconversione dei siti militari presidiati dalla NATO in basi utili alla sicurezza del Mediterraneo. L’Italia e la Turchia, insieme agli altri paesi rivieraschi del Mediterraneo, potrebbero in tal caso realizzare un sistema di difesa integrato sull’esempio dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (OTSC).

Nell’attuazione di questa “exit strategy” dai vincoli statunitensi, sopra sinteticamente abbozzata, Roma troverebbe validi sostegni, oltre che ad Ankara, anche a Tripoli, Damasco e Teheran e, ovviamente, Mosca. Quest’ultima, peraltro, sosterrebbe certamente Roma nella uscita dall’orbita nordamericana, favorendo la sua naturale proiezione geopolitica nella direttrice adriatico-balcanico-danubiana nel quadro, ovviamente, di un’intesa italo-turco-russa costruita sui comuni interessi nel cosiddetto Mediterraneo allargato (costituito dai mari Mediterraneo, Nero, Caspio).

di Tiberio Graziani