10 settembre 2010

Si può avere ancora fiducia in chi ci ha profondamente deluso?







«La fiducia è una cosa seria», recitava - molti anni fa - la pubblicità televisiva di una nota azienda produttrice di formaggi; e lo slogan era divenuto proverbiale.
Sì, la fiducia è una cosa seria; ma, come valore sociale, potremmo dire che le sue azioni sono scese, ultimamente, alquanto in ribasso.
Non è un caso che non se ne parli quasi più; altri valori l’hanno sostituita, nell’era della tecnologia imperante e dei rapporti umani sempre più anonimi e spersonalizzati: primi fra tutti, l’efficienza e la caccia al risultato, comunque e a qualsiasi prezzo.
Basterebbe dire che, tre o quattro generazioni fa, una stretta di mano fra contadini era sufficiente a sanzionare una transazione economica anche d’una certa importanza (relativamente parlando), come la compravendita di una mucca; non c’era bisogno di contratti, di firme e di notai: la parola data era garanzia più che sufficiente.
Oggi le cose stanno altrimenti, sia nei rapporti privati che in quelli professionali. Si promette con facilità, ma ci si cura pochissimo di mantenere; al punto che, quando ci s’imbatte in una persona veramente di parola, anche nelle piccole e piccolissime cose d’ogni giorno (che so, un elettricista che si presenti puntuale per eseguire un lavoro a domicilio), viene spontaneo provare un piacevole stupore e complimentarsi con l’interessato, come se avesse fatto qualche cosa di eccezionale: mentre non ha fatto altro che rispettare quanto convenuto.
Questo vuol dire che siamo messi male: non solo non c’è più fiducia reciproca, ma è venuta meno anche la reazione morale davanti ad un tale fenomeno; non ci si meraviglia, non ci si indigna più, non si protesta (a meno che si subisca un danno materiale rilevante); si tende sempre più ad una qualche forma di stoica rassegnazione.
In realtà, non dovrebbe essere così. Dovremmo continuare ad esigere il rispetto degli impegni presi, prima di tutto da parte di noi stessi e poi da parte degli altri. Il fatto è che ci stiamo abituando alla mancanza di affidabilità del prossimo perché, nel nostro intimo, sappiamo di essere diventati poco affidabili noi stessi. Dunque, la nostra stoica sopportazione del male comune nasce da una poco encomiabile indulgenza verso il nostro stesso scadimento morale.
Tale è il contesto in cui ci troviamo a vivere al giorno d’oggi. All’interno di un simile contesto, vale ancora la pena di domandarsi se sia possibile rinnovare la propria fiducia nei confronti di qualcuno che l’abbia profondamente delusa?
A nostro avviso, sì; e spiegheremo brevemente perché.
Abbiamo già accennato al fatto che non è cosa intellettualmente onesta pretendere la lealtà altrui, quando si è coscienti di esserlo poco; e la mancanza di lealtà incomincia da quella nei confronti di se stessi. Se si è poco leali con se stessi, se si ha la tendenza a raccontarsi delle storie per giustificare le proprie debolezze e le proprie colpe, allora è chiaro che si tenderà ad essere poco leali anche nei confronti del prossimo; e, talvolta, in perfetta “buona fede”: perché, se ci si autoinganna e ci si prende in giro da sé, non si sarà più nemmeno consapevoli di fare la stessa cosa nei confronti dell’altro.
Questo, dunque, è il primo punto da mettere bene in chiaro: se vogliamo poterci fidare degli altri, dobbiamo prima imparare ad essere onesti con noi stessi. Dobbiamo imparare a guardarci dentro senza trucchi e senza inganni, con assoluta trasparenza.; cosa non semplicissima e, comunque, alla quale siamo in genere poco abituati.
Il secondo punto da mettere in chiaro è che la fiducia che noi accordiamo agli altri, la diamo sulla base di una nostra valutazione di essi, che non è per nulla oggettiva: di fatto, quanto meno noi possediamo consapevolezza di noi stessi, tanto più abbiamo la tendenza a caricare l’altro di tutta una serie di aspettative, positive e negative, che risiedono solo nella nostra mente confusa.
Di conseguenza, succede che la delusine che noi proviamo per certi comportamenti dell’altro, tragga origine non da qualche cosa di reale, ma una nostra costruzione mentale che, non di rado, ha poco o nulla di fondato, e molto o moltissimo di immaginario. Prima di dire a noi stessi, pertanto: «Quella persona mi ha deluso, non crederò mai più in lei», forse faremmo bene a riflettere se la nostra delusione sia davvero giustificata.
Gli altri - è una verità perfino lapalissiana - vanno considerati per quello che sono, non per quello che noi vorremmo che fossero o crediamo che siano. Se noi sovrapponiamo alla loro immagine una immagine deformata, creata dai nostri bisogni e dai nostri timori, è certo che il nostro incontro con essi avverrà su un piano sbagliato e sarà fonte di malintesi, delusioni e, probabilmente, amarezze; ma di chi sarà la responsabilità di tutto questo: loro o nostra?
Se poi si voglia obiettare che, a rigor di termini, conoscere l’altro per quello che è realmente, risulta cosa impossibile, noi, sul piano, filosofico, consentiremo volentieri ad una simile obiezione: fedeli al motto berkeleiano «Esse est percipi», «essere è essere percepito», siamo profondamente convinti che tutto quello che possiamo sapere sugli altri, così come su ogni cosa che entri nel nostro campo esperienziale, non è altro che una operazione della nostra mente, la quale non può esperire le cose se non all’interno di se stessa e con tutti i limiti che da ciò derivano.
Per sapere come è fatta la parte posteriore della Venere di Milo, devo girarci attorno; oppure devo montare su una scala e così vederne, ma solo imperfettamente, entrambi i lati con un unico colpo d’occhio; a quel, punto, però, ci sarà un’altra prospettiva che mi sfuggirà irrimediabilmente, quella dal basso. Insomma, noi non possiamo mai conoscere le cose nella loro totalità; e se ciò vale per gli oggetti fisici, a maggior ragione vale per le esperienze di ordine psicologico. Noi possiamo vedere gli altri in base a come si comportano ora, in questo preciso istante: nulla possiamo dire, tuttavia, di un minuto fa o fra un altro minuto, se un minuto fa non c’eravamo e se fra un altro minuto saremo altrove.
Senza dubbio, le uniche esperienze “totali” (ma sempre relativamente parlando) che ci siano concesse, almeno finché ci troviamo nella presente condizione di esistenza, sono quelle di ordine puramente astratto: quelle di tipo logico-matematico e quelle di tipo spirituale e mistico; e le seconde ben più delle prime.
Con la logica matematica, infatti, noi possiamo cogliere l’essenza delle cose, ma solo partendo da una nostra operazione mentale che, di astrazione in astrazione, riesce a cogliere i nessi necessari fra determinate categorie concettuali (numeri, ad esempio, o classi di enti); mentre nella meditazione profonda e nell’estasi mistica è la realtà ultima che ci viene incontro e ci si apre davanti, inondandoci del suo ineffabile splendore, non perché noi abbiamo bussato con la nostra “ratio”alla sua porta, ma, al contrario, perché abbiamo compiuto un gesto di radicale umiltà, abbandonandoci interamente al flusso dell’Essere e svuotando la mente di ogni pensieri, a cominciare da quello, onnipervasivo ed estremamente petulante, del nostro stesso Ego.
Ma non è questa la sede per approfondire un tale argomento e, de resto, ci siamo già occupati di esso in numerose altre occasioni; per cui ritorniamo al nostro interrogativo iniziale: se, cioè, sia possibile avere ancora fiducia in qualcuno che ci abbia profondamente deluso.
Essendo consapevoli che noi non potremo mai conoscere veramente l’altro e che, spesso, non solo la nostra ragione, ma anche il nostro intuito falliscono, dobbiamo mettere nel conto, sin dall’inizio, che determinati suoi comportamenti ci possono deludere, ferire, amareggiare.
Al tempo stesso, e più in generale, dobbiamo mettere nel conto l’elemento della debolezza umana: in presenza di determinate circostanze, infatti, anche l’uomo la donna migliori possono venir meno al loro senso del dovere e soggiacere alle tentazioni del proprio egoismo, ivi compresa quella particolare forma di egoismo che è la paura, ossia l’anteporre la preoccupazione per sé stessi a quella per ciò che sarebbe giusto e doveroso fare.
Il cristianesimo possiede un termine specifico per indicare questa debolezza fondamentale, questa ferita originaria che deturpa l’anima umana e fa sì che neppure il migliore degli uomini possa dirsi completamente privo di inclinazioni al male: “peccato originale”. Il vero discrimine fra chi possiede un’anima religiosa e chi non la possiede è, in realtà, proprio questo: non il fatto di credere o non credere in Dio, ma il fatto di credere o non credere a una debolezza costitutiva che impedisce all’uomo di considerarsi egli stesso perfetto.
La credenza in Dio è un passo successivo: se l’uomo riconosce il proprio limite ontologico, la propria ferita strutturale (che può essere successiva a una “caduta”, come insegna appunto il cristianesimo, oppure originaria nel senso più completo), allora è possibile che egli si rivolga all’Essere da cui deriva e in cui non può esservi limite né imperfezione; se non lo riconosce, allora non riconoscerà nulla di più grande ed egli stesso sarà tentato di farsi Dio.
Dunque: noi crediamo che la natura umana sia ferita; che abbia smarrito il senso della perfezione, ossia della totalità; che non sia in grado, con le sole proprie forze, di sanare tale ferita e di tornare «a riveder le stelle», ossia a contemplare il proprio Cielo così come, forse, era in condizioni di fare prima dell’evento della “caduta”.
Di conseguenza, sarebbe assurdo pretendere che l’altro essere umano non ci deluda mai, non si mostri mai impari alle nostre aspettative: anche se tali aspettative non fossero sovente, come sono, sproporzionate e anche se noi fossimo in grado di giudicare obiettivamente le persone alle quali desideriamo aprire il nostro cuore.
A questo punto entra in gioco un concetto nuovo, quello del perdono: perché è impossibile continuare a vivere, dopo aver sopportato ripetute delusioni (e tutti, prima o poi, ne facciamo l’esperienza), senza maturare la capacità di perdonare coloro che ci hanno deluso e ferito e, prima ancora, senza la capacità di perdonare noi stessi, che ci siamo messi nelle condizioni di venire delusi e feriti così profondamente.
Infatti, a ben guardare, molto spesso l’incapacità di perdonare gli altri deriva dalla incapacità di perdonare se stessi: sono ben pochi coloro i quali, dopo aver vissuto una grossa delusione sul piano della fiducia verso il prossimo, non finiscano per incolpare se stessi, magari in maniera inconsapevole e, quindi, tanto più rabbiosa e disperata, in quanto la loro sofferenza non trova lo spazio per acquistare consapevolezza di sé e liberarsi.
Ad esempio, l’anziano che è stato raggirato da un truffatore senza scrupoli e gli ha ceduto, con un atto di fiducia sconsiderata, tutti i suoi risparmi, non soffre solo per la perdita economica, ma anche per il senso di colpa e di vergogna dovuto al proprio comportamento ingenuo e sommamente credulo. Ebbene, un meccanismo perfettamente analogo avviene in tutte le circostanze che vedano in gioco l’esperienza della fiducia tradita, anche e soprattutto quando si tratti di una esperienza di tipo affettivo e sentimentale.
L’amante abbandonato si sente in colpa con se stesso (o con se stessa), sia per aver creduto alle ingannevoli parole d’amore, sia per non essere stato capace di ispirare un sentimento autentico da parte dell’altro. Di conseguenza, si sente un fallito (o una fallita) come persona e non semplicemente un essere umano che è incorso in un infortunio; si sente spogliato di ogni fiducia in se stesso, anche se spesso adotta strategie reattive che non lo lascerebbero minimamente immaginare, proprio per cercare di nascondere le tracce del proprio fallimento.
Basterebbe già solo questo per darci un’idea dell’immenso, tortuosissimo groviglio di sotterranee aspettative che noi ci portiamo dietro allorché instauriamo dei rapporti col prossimo, per metterci in guardia circa il fatto di saper giudicare rettamente sia coloro dei quali intendiamo fidarci, sia la nostra stessa delusione, allorché ci sentiamo traditi da loro.
In conclusione, il rimedio migliore contro le ferite della delusione è, da un lato, essere sempre consapevoli della fondamentale debolezza umana; dall’altro, imparare a perdonare sia le altrui debolezze, che le nostre.
L’importante è essere limpidi e onesti: con se stessi in primo luogo, indi con gli altri.
Se esiste questa condizione, non c’è ferita che non si possa sanare e non c’è offesa che non si possa, eventualmente, perdonare, per continuare a guardare avanti sulle strade della vita.
di Francesco Lamendola

09 settembre 2010

La bolla europea





Esiste l’Europa – intendo, come realtà e unità spirituale, non semplicemente come espressione geografica? Certamente sì, e sommariamente possiamo individuarla nei seguenti elementi:

- una complessa e in parte tuttora misteriosa preistoria, dalla civiltà di Stonehenge a quella dei nuraghi;

- un’ancor oggi stupefacente creatività ellenica, madre delle arti, della matematica, della filosofia, della storiografia, e che costituisce la radice identitaria più autentica e specifica dell’Europa;

- il contributo e l’elaborazione di Roma, soprattutto nella creazione dell’ordinamento giuridico e amministrativo e nella costruzione dei diritti civili e individuali, nella loro distinzione dalla sfera pubblica;

- e successivamente i convergenti contributi soprattutto dell’area italica, dell’area germanica, dell’area francese, dell’area britannica (inclusi i celti), nonché dell’incessante produzione del pensiero ebraico della diaspora;

- l’attiva recettività, sin dai tempi più remoti, ad apporti e influssi asiatici ed egizi, in molti campi, tra cui quello artistico, esoterico e religioso;

- l’avvento di una religione asiatica, dogmatica e intollerante, che si consocia al potere politico, legittimandolo e partecipando ad esso;

- e che pone bruscamente fine, per circa mille e quattrocento anni, alla libertà di pensiero, ricerca, insegnamento, religione, demolendo i templi degli altri culti e chiudendo le scuole filosofiche che non si allineano ad essa, istituendo la censura, sopprimendo o torturando pensatori e scienziati scomodi, lanciando guerre contro i diversamente credenti;

- la successiva, lenta e travagliata risurrezione del pensiero laico e indipendente dai secoli bui, la sua lunga lotta per riconquistare la libertà e ristabilire la tolleranza; il nascere della scienza nell’opposizione della gerarchia religiosa; l’indagine sui limiti del pensiero e del conoscere; il rinascimento e i lumi;

- la multisecolare resistenza contro l’invasione armata di un’altra religione asiatica, militante, ancora più crudamente dogmatica, violenta e intollerante (tranne una breve parentesi dovuta all’influsso dei pochi libri greci che non aveva bruciato), le cui armate erano penetrate fino a Poitiers e a Vienna;

- la fioritura di musica, di belle arti e belle lettere, nonché delle tecniche e delle industrie; la nascita del pensiero e del dibattito politici; la critica del potere e della morale costituiti; la scoperta del relativismo culturale e dell’inconscio;

- e, insieme, i conflitti sociali scatenati dall’industrializzazione capitalista, la critica socioecnomica, le rivoluzioni totalitarie, la resistenza e le cruente lotte per liberarsi dai regimi da esse sorti;

- l’approdo, nei nostri giorni, e oramai su scala non più europea, ma globale, a una condizione di incertezza, precarietà, cronicizzazione delle crisi.

Ma che percentuale degli abitanti dell’Europa ha conoscenza di queste cose, le apprezza, le ha interiorizzate come parte dell’identità, e le vive quotidianamente? Una percentuale irrilevante. E non solo delle masse popolari, ma anche dei ceti medi e alti. Queste sono cose che valgono per pochi cultori specialisti. Altri sono i poli di identificazione e interesse degli odierni abitatori dell’Europa: denaro, potere, droga, sesso, sport, moda, musica commerciale americana o perlomeno non europea. Gusti globalizzati. Che cosa c’è di europeo negli Europei? Praticamente niente. L’identità, la civiltà europea non esistono, nella società e nella politica dei paesi europei, se non indirettamente e vagamente. Eppure vengono addotte a fondamento legittimante dell’Unione Europea e del suo concreto potere politico – sostanzialmente non basato su democratiche elezioni – sui c.d. cittadini europei. L’Unione Europea non è la realtà e unità spirituale “Europa” e in nessun senso la rappresenta. Non ha niente in comune con essa, tolto il riferimento geografico. E’ un ordinamento giuridico-finanziario con caratteri burocratici, vagamente liberali e liberisti, in parte dirigisti. Ma niente di identitariamente o specificamente europeo come qualità.

Al popolo italiano, specificamente, si diceva e si dice: “dovete pagare o fare questo o quello per entrare in Europa, per restare in Europa, perché è l’Europa che ve lo chiede”. Ma, appunto, quando si invoca quell’Europa con simili appelli, si lascia – volutamente – nell’implicito che cosa il popolo dovrebbe intendere per “Europa”. E che cosa intende il popolo italiano per “Europa”? Spirito, cultura, civiltà? Aristotele e Kant? Virgilio e Coleridge? Haydn e Rameau? Caravaggio e Rembrandt? Keplero e Bohr? Bentham e Anna Arendt? No: il popolo italiano intende, e gli si lascia intendere, un’istituzione statuale o superstatuale di tipo assistenziale, che eroga sussidi, che supplisce all’inefficienza, agli sprechi, all’immoralità, alla debolezza finanziaria dello Stato e della pubblica amministrazione italiani. Il paese che rimane attaccato a questa istituzione, rimane un paese di prima classe; chi perde il contatto, scivola verso il terzo mondo e la povertà.

Le aspettative di assistenza e supplenza sono molto radicate nel sentire e nel credere delle popolazioni italiane, soprattutto al Sud, che vive tradizionalmente di trasferimenti a spese di altri, quindi è predisposto a credere a promesse di questo tipo. Altrettanto diffusa è l’esterofilia, la maggior stima dell’estero e per lo straniero rispetto al domestico – forse un retaggio dei molti secoli di sottomissione a dominatori stranieri di quasi tutte le regioni italiane. Forse anche del Piano Marshall. Quindi, ai fini della gestione e produzione dei comportamenti collettivi, era ed è stato psicologicamente efficace abbinare questi due elementi (l’assistenza e lo straniero) per fare accettare agli Italiani molti sacrifici e molti trasferimenti di potere a organismi non italiani e non elettivi. E per fare accettare l’Euro. L’Euro veniva presentato agli Italiani come una panacea, una garanzia di aggancio alla prosperità ed efficienza tedesche, ma anche alla rispettabilità del sistema tedesco. Si diceva – per giustificare fortissimi e numerosi prelievi fiscali “allo scopo di entrare nell’Euro” – che, a) entrando nell’Euro, avremmo salvaguardato il nostro potere d’acquisto; e, b) che i paesi forti si sarebbero fatti carico del nostro enorme debito pubblico. Si trattava di fare un modico sacrificio per essere ammessi all’interno del club dell’Euro, e poi la strada sarebbe stata in discesa. Una furbata, un affarone, insomma. Invece è accaduto tutt’altro, e troppi se ne sono accorti: il passaggio all’Euro a) ha tagliato del 40% circa il potere d’acquisto e, b) ci ha lasciato sulle spalle tutto il debito pubblico – perché era falso, era una menzogna, che entrare nell’Euro avrebbe comportato la comunitarizzazione dei singoli debiti pubblici nazionali. Per giunta, ci ha privati della possibilità di ridurre il debito pubblico, in quanto ha peggiorato il rapporto pil/spesa pubblica, poiché, impedendo la svalutazione competitiva, ha bloccato lo sviluppo economico, ci ha fatto perdere sia quote di mercato estero e costretti a interno, che quote di occupazione. Si osservi come le aspettative popolari circa l’UE e l’Euro fossero sostanzialmente opposte, tra Italia e paesi forti, nel senso che questi ultimi li vedevano come occasione e mezzo per dispiegare ed espandere la propria forza politico-economica, e non certo per farsi assistere o per aiutare altri.

L’ultima sveglia è arrivata mesi fa, allorché la Germania ha messo in chiaro e dimostrato coi fatti che non si farà assolutamente carico dei problemi dei paesi deboli, e che i popoli come i Tedeschi, che hanno le qualità giuste e le mettono in pratica – i popoli laboriosi, efficienti, seri, concreti, ligi alle norme – vanno avanti, reggendo il confronto con la globalizzazione, la Cina, l’India, la Turchia. I popoli parolai, inefficienti e assistenzialisti, sono per contro destinati a un rapido impoverimento. Impoverimento che oramai appare avere una causa non tanto contingente e politica, quanto etnico-culturale, radicata nella mentalità sociale, nelle prassi abituali del singolo popolo circa il lavoro, le regole, l’amministrazione. Una causa che quindi non si risolve cambiando governo, né cambiando le leggi, né incarcerando mafiosi e corrotti. Bisognerebbe cambiare la mentalità, i costumi, la psicologia collettiva di quei popoli, a tutti i livelli, dalla politica alla magistratura, dai liberi professionisti agli insegnanti, e anche del corpo elettorale: un compito assai complesso e difficile, che non si sa nemmeno con che strumenti affrontare. Qualcuno si aspettava che bastasse imporre vincoli di bilancio, alla spesa pubblica, ossia la “virtuosità” di Maastricht, per rieducare i popoli PIGS, o per costringerli a rieducarsi da sé, con uno sforzo interno ma imposto dall’esterno. Ebbene, i fatti hanno smentito tale aspettativa: i PIGS sono rimasti PIGS – hanno perso le setole, ma non il vizio. In fondo, la storia mostra che il successo di un popolo dipende essenzialmente dalle sue qualità etniche, molto meno dai suoi contingenti governi e dalle sue contingenti normative. Svizzeri, Tedeschi, Austriaci, Scandinavi, ad esempio, sono sempre andati bene o comunque meglio degli altri. E meglio degli altri gestiscono anche la presente crisi.

Oramai troppi italiani si sono accorti che le aspettative di aiuto europeo in essi indotte dalla propaganda erano illusorie, e che l’Unione Europea e l’Euro costano molto e rendono poco o nulla. Bruxelles è una sorta di Nuova Roma, burocratica, imperiale, lobbystica, finanziarizzata, corrotta (ricordate M.me Cresson? sapete che i bilanci comunitari non sono controllati da un soggetto autonomo? immaginate quanto continuano a mangiarci? ci salva il fatto che il budget UE è solo l’1% del pil). Una Nuova Roma grassa e grassatrice, autoreferenziale, assurda in interminabili e onerose prescrizioni elucubrate da funzionari strapagati e incompetenti. Una Nuova Roma iniqua, inefficiente, quando non nemica, a cominciare dalla politica agricola comune. E insieme pressoché impotente e senza prestigio, politicamente e militarmente, sulla scena mondiale, tanto quanto nel gestire la corrente crisi economica: infatti ciascun paese fa per sé (ciascun governo fa per il proprio lettorato) e guardando solo ai propri interessi, o al più all’esigenza di rassicurare i mercati. L’idea di un ordinamento che cresce e si impone anche politicamente attraverso un processo strisciante di aggregazione e centralizzazione di funzione dopo funzione, avocandole dagli Stati nazionali, è quindi palesemente fallita. E gli aiuti europei – che poi altro non sono che il parziale ritorno delle nostre tasse – ossia i fondi perequativi, a seguito dell’ingresso dei paesi orientali, vanno oramai quasi tutti ad essi, e non più a noi, aiutandoli anzi a farci concorrenza e ad attirare le nostre imprese e i nostri capitali.

Anche la componente idealista dell’europeismo italiano, cioè il sogno della grande Federazione Europea, è rimasta tradita: con l’inclusione di molti paesi disomogenei dell’Est europeo, Washington e Londra hanno oramai conseguito il loro tradizionale obiettivo di impedire l’integrazione politica europea. Politicamente, anzi, l’Unione è in via di dissoluzione. La vera beneficiaria della sua espansione a Est è la Nato, che se ne è servita per penetrare nell’area ex Comecon in antagonismo alla Russia e piazzare i missili più vicini alle sue frontiere.

A misura che l’opinione pubblica italiana si accorge che la realtà è questa, è naturale che diventi non semplicemente “euroscettica”, ma contraria a Bruxelles (e, i più informati, anche alla sua Bastiglia monetaria, l’Eurotower di Francoforte). E che voti di conseguenza. Gli entusiasmi europeisti della popolazione italiana si sgonfiano come una bolla via via che gli Italiani realizzano che l’Unione Europea non li aiuta, non li sostiene, non supplisce alla loro inefficiente e corrotta gestione politica. Anzi, impone tagli a quel welfare che in Italia è servito per mantenere la coesione sociale e geografica. Col prossimo aggravarsi della recessione italiana, che avevo preannunciato per la fine di questo mese e che si sta avverando, sarà sempre più così.

di Marco Della Luna

08 settembre 2010

400 banche Usa pronte a fallire. Sotto gli occhi dei "regolatori"...


Michel Barnier, commissario europeo per gli Affari finanziari, è stato chiarissimo nel suo intervento al Workshop Ambrosetti di Cernobbio, addirittura cristallino: nessuno potrà sfuggire alla nuova regolamentazione europea che, se il lavoro proseguirà con questo ritmo, sarà pronta in versione di bozza per il 15 settembre. No one, nessuno. Due i punti chiave: normative sui derivati e sullo short selling che, stando alle indiscrezioni, verrà vietato.

Dopo la mossa stalinista di Barack Obama, ora anche l'Europa mette - o prova a mettere - i bastoni tra le ruote al libero mercato: Londra ringrazia sentitamente. Come se questo servisse a qualcosa. Nonostante il crollo di Lehman, la bolla dei subprime e quanto è seguito, infatti, nulla è cambiato: i volumi dei derivati scambiati sono aumentati. Solo nel mercato valutario c’erano transazioni quotidiane per 3.300 miliardi di dollari nel 2007 mentre quest'anno sono stati superati i 4.000 miliardi. Le cose non vanno meglio per il segmento dei derivati sui tassi d’interesse, cresciuti nell’arco del 24 per cento nell’arco di un triennio, toccando i 2.100 miliardi di dollari scambiati ogni giorno.

Il dito di Barnier, difficilmente, riuscirà a frenare la diga che sta per esondare. D'altronde, le banche non hanno voglia di farsi regolamentare, basti pensare all'esempio che ho portato nell'articolo di giovedì scorso, ovvero l'oceano di scommesse sui cds contro il debito italiano. Ogni giorno sui mercati non regolamentati, il vero problema che Barnier non sembra vedere, si scambiano circa 575 milioni di dollari in protezione sul debito italiano.

E sono, sempre secondo l'ente di vigilanza sui derivati, solo 17 i soggetti che vendono questa immunizzazione: Bank of America Merrill Lynch, Barclays, BNP Paribas, Calyon, Citibank, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs, HSBC, JPMorgan, Morgan Stanley, Natixis, Nomura, Royal Bank of Scotland, Société Générale, UBS e l'italianissima - ancorché internazionalizzata - UniCredit.

Nel caso dell’Italia tutti concorrono alla vendita dei Cds, UniCredit compresa, la quale fa benissimo e non compie alcun reato. Con una media di 21 operazioni di copertura sul debito italiano, per le 17 regine dei derivati si aprono le porte delle commissioni. Infatti per ogni singola transazione le banche guadagnano cifre variabili rispetto all’entità: non è difficile capire chi siano gli scacchieri dietro a questa girandola di scommesse, più vendo più guadagno.

Il 39 per cento dei Cds circolanti sull’Italia sono detenuti da cinque soggetti: Paulson, quel filantropo di Soros, Moore, Citadel e il fondo sovrano China Investment Corporation: quattro hedge fund statunitensi e il principale veicolo d’investimento di Pechino sono attualmente su posizioni ribassiste nei confronti del nostro Paese. E non sono i soli.

Il peso degli investitori si fa sentire sempre di più sul debito italiano. Gli oltre 1.800 miliardi di euro convincono poco i mercati, che hanno deciso di proteggersi dalle brutte sorprese: dallo scorso marzo, quando erano stati accesi circa 5.600 contratti di protezione sui rischi italiani, si è passati a oltre 6.600 nelle ultime settimane. La scadenza media è di un anno, sintomo della percezione negativa che gli investitori hanno del nostro Paese. In compenso, la maggioranza va in frantumi tra polemiche corrosive e il nostro ministro dell'Economia si permette di bollare come "da bambini" i giudizi del governatore di Bankitalia, Mario Draghi.

Ma torniamo a Barnier, il quale a Cernobbio ha parlato chiaro. Cristallino. Peccato si sia ben guardato dal rivelare quanto lui e la Commissione Ue hanno di fatto già deciso e che ora devono trovare il modo, oltre che il coraggio, di comunicare. Gli stress test sulle banche vanno rifatti perché eseguiti con criteri ridicoli e soprattutto perché ritenuti non credibili dalle istituzioni finanziarie ma, soprattutto, dai soggetti corporate. Ovvero, le aziende che con le banche hanno a che fare ogni istante. Una larga parte delle quali, sia nel Regno Unito che nell'Europa continentale, hanno messo nel mirino le banche italiane, spagnole e tedesche e stanno conducendo stress tests indipendenti per valutare realmente la robustezza di questi istituti: le revenues di queste aziende, tanto per capire il loro peso, è di 240 miliardi di dollari l'anno.

«La cosa che ci sta facendo preoccupare maggiormente è il rischio del credito», ha dichiarato al Financial Times il tesoriere di uno dei principali gruppi industriali tedeschi, secondo cui «anche dopo gli stress tests, noi tutti continuiamo a porci la stessa domanda: le banche sono davvero sane? Penso che i tests, lungi dall'aver dato delle rassicurazioni, hanno solo aggiunto domande a domande e timori a timori, soprattutto qui in Germania».

Per Stuart Siddall, presidente dell'Association of Corporate Treasurers, le aziende hanno posto alla prima posizione delle loro priorità il fatto di chiarire realmente lo stato di salute delle banche: «Mai visto spendere tanto tempo, risorse ed energie rispetto al rischio di controparte».

Per il tesoriere di una grande aziende del settore media, «gli stress tests sono stati niente più che uno scherzo. Bisogna capire se l'imperatore ha ancora dei vestiti o è nudo e, soprattutto, cosa fare se la situazione reale è la seconda. Siamo paranoici al riguardo e monitoriamo i rumors del mercato molto attentamente». Altra ossessione per queste aziende sono i cds, un mercato che ormai interessa più di quello azionario: «Le agenzie di rating stanno agendo troppo lentamente - attacca il tesoriere di un altro grande gruppo industriale tedesco -, noi stiamo monitorando lo stato di salute delle banche ogni giorno, anche al fine di aggiustare i nostri limiti».

Per il tesoriere di un'azienda quotata nell'indice Ftse 100 della Borsa di Londra, quanto sta accadendo è la naturale risposta del mercato alla poca trasparenza d istituzioni e regolatori: «Non abbiamo alcun business con banche spagnole e anche con un paio di istituti italiani e tedeschi. Se le banche americane non vogliono avere a che fare con questa gente, perché dovremmo farlo noi?».

Già, perché? D'altronde non il sottoscritto ma Nouriel Roubini, uno che la crisi l'aveva anticipata pur restando inascoltato, ha chiaramente detto che se sarà possibile evitare l'opzione double-dip, una seconda fase di recessione è quasi ineluttabile: fase, durante la quale, a suo modo di vedere saranno circa 400 le banche Usa destinate a fallire.

Chissà perché Barnier non ha voluto spendere una parola su questo, limitandosi a mostrare la faccia cattiva agitando lo spettro della regolamentazione? Chissà, forse è troppo imbarazzante ammettere di aver dato vita a una farsa travestita da stress tests e ora ritrovarsi obbligato a rifarli, secondo criteri seri, prima che siano i soggetti privati, tramite i loro studi, a mostrare davvero quanto è nudo il Re bancario: il Core Tier 1 di moltissime banche, infatti, una volta ripulito da artifici e assets assolutamente inutili in fase di stress, raggiungono a malapena 2,5 per cento.

Se i grandi fondi stanno shortando le azioni di cinque grandi istituti bancari europei, tra cui Barclays e Intesa-San Paolo, qualche motivo ci sarà. Va bene la speculazione, va bene l'azzardo ma nessuno è così masochista da scommettere al ribasso contro un soggetto finanziario in salute. Chissà se questo semplice ragionamento avrà sfiorato la raffinata mente di Michel Barnier?

P.S. So di essere tacciato di pessimismo cosmico e catastrofismo à la page ma stavolta dubito che si possa mettere in dubbio quanto ho scritto, almeno stando al link che allego per tutti i lettori e che è stato pubblicato da Cnbc ventiquattro ore dopo l'invio del mio pezzo, ovvero ieri mattina dopo l'apertura delle contrattazioni. Leggete e chiedetevi se i regolatori con cui abbiamo a che fare non siano da prendere a calci nel sedere.

di Mauro Bottarelli

10 settembre 2010

Si può avere ancora fiducia in chi ci ha profondamente deluso?







«La fiducia è una cosa seria», recitava - molti anni fa - la pubblicità televisiva di una nota azienda produttrice di formaggi; e lo slogan era divenuto proverbiale.
Sì, la fiducia è una cosa seria; ma, come valore sociale, potremmo dire che le sue azioni sono scese, ultimamente, alquanto in ribasso.
Non è un caso che non se ne parli quasi più; altri valori l’hanno sostituita, nell’era della tecnologia imperante e dei rapporti umani sempre più anonimi e spersonalizzati: primi fra tutti, l’efficienza e la caccia al risultato, comunque e a qualsiasi prezzo.
Basterebbe dire che, tre o quattro generazioni fa, una stretta di mano fra contadini era sufficiente a sanzionare una transazione economica anche d’una certa importanza (relativamente parlando), come la compravendita di una mucca; non c’era bisogno di contratti, di firme e di notai: la parola data era garanzia più che sufficiente.
Oggi le cose stanno altrimenti, sia nei rapporti privati che in quelli professionali. Si promette con facilità, ma ci si cura pochissimo di mantenere; al punto che, quando ci s’imbatte in una persona veramente di parola, anche nelle piccole e piccolissime cose d’ogni giorno (che so, un elettricista che si presenti puntuale per eseguire un lavoro a domicilio), viene spontaneo provare un piacevole stupore e complimentarsi con l’interessato, come se avesse fatto qualche cosa di eccezionale: mentre non ha fatto altro che rispettare quanto convenuto.
Questo vuol dire che siamo messi male: non solo non c’è più fiducia reciproca, ma è venuta meno anche la reazione morale davanti ad un tale fenomeno; non ci si meraviglia, non ci si indigna più, non si protesta (a meno che si subisca un danno materiale rilevante); si tende sempre più ad una qualche forma di stoica rassegnazione.
In realtà, non dovrebbe essere così. Dovremmo continuare ad esigere il rispetto degli impegni presi, prima di tutto da parte di noi stessi e poi da parte degli altri. Il fatto è che ci stiamo abituando alla mancanza di affidabilità del prossimo perché, nel nostro intimo, sappiamo di essere diventati poco affidabili noi stessi. Dunque, la nostra stoica sopportazione del male comune nasce da una poco encomiabile indulgenza verso il nostro stesso scadimento morale.
Tale è il contesto in cui ci troviamo a vivere al giorno d’oggi. All’interno di un simile contesto, vale ancora la pena di domandarsi se sia possibile rinnovare la propria fiducia nei confronti di qualcuno che l’abbia profondamente delusa?
A nostro avviso, sì; e spiegheremo brevemente perché.
Abbiamo già accennato al fatto che non è cosa intellettualmente onesta pretendere la lealtà altrui, quando si è coscienti di esserlo poco; e la mancanza di lealtà incomincia da quella nei confronti di se stessi. Se si è poco leali con se stessi, se si ha la tendenza a raccontarsi delle storie per giustificare le proprie debolezze e le proprie colpe, allora è chiaro che si tenderà ad essere poco leali anche nei confronti del prossimo; e, talvolta, in perfetta “buona fede”: perché, se ci si autoinganna e ci si prende in giro da sé, non si sarà più nemmeno consapevoli di fare la stessa cosa nei confronti dell’altro.
Questo, dunque, è il primo punto da mettere bene in chiaro: se vogliamo poterci fidare degli altri, dobbiamo prima imparare ad essere onesti con noi stessi. Dobbiamo imparare a guardarci dentro senza trucchi e senza inganni, con assoluta trasparenza.; cosa non semplicissima e, comunque, alla quale siamo in genere poco abituati.
Il secondo punto da mettere in chiaro è che la fiducia che noi accordiamo agli altri, la diamo sulla base di una nostra valutazione di essi, che non è per nulla oggettiva: di fatto, quanto meno noi possediamo consapevolezza di noi stessi, tanto più abbiamo la tendenza a caricare l’altro di tutta una serie di aspettative, positive e negative, che risiedono solo nella nostra mente confusa.
Di conseguenza, succede che la delusine che noi proviamo per certi comportamenti dell’altro, tragga origine non da qualche cosa di reale, ma una nostra costruzione mentale che, non di rado, ha poco o nulla di fondato, e molto o moltissimo di immaginario. Prima di dire a noi stessi, pertanto: «Quella persona mi ha deluso, non crederò mai più in lei», forse faremmo bene a riflettere se la nostra delusione sia davvero giustificata.
Gli altri - è una verità perfino lapalissiana - vanno considerati per quello che sono, non per quello che noi vorremmo che fossero o crediamo che siano. Se noi sovrapponiamo alla loro immagine una immagine deformata, creata dai nostri bisogni e dai nostri timori, è certo che il nostro incontro con essi avverrà su un piano sbagliato e sarà fonte di malintesi, delusioni e, probabilmente, amarezze; ma di chi sarà la responsabilità di tutto questo: loro o nostra?
Se poi si voglia obiettare che, a rigor di termini, conoscere l’altro per quello che è realmente, risulta cosa impossibile, noi, sul piano, filosofico, consentiremo volentieri ad una simile obiezione: fedeli al motto berkeleiano «Esse est percipi», «essere è essere percepito», siamo profondamente convinti che tutto quello che possiamo sapere sugli altri, così come su ogni cosa che entri nel nostro campo esperienziale, non è altro che una operazione della nostra mente, la quale non può esperire le cose se non all’interno di se stessa e con tutti i limiti che da ciò derivano.
Per sapere come è fatta la parte posteriore della Venere di Milo, devo girarci attorno; oppure devo montare su una scala e così vederne, ma solo imperfettamente, entrambi i lati con un unico colpo d’occhio; a quel, punto, però, ci sarà un’altra prospettiva che mi sfuggirà irrimediabilmente, quella dal basso. Insomma, noi non possiamo mai conoscere le cose nella loro totalità; e se ciò vale per gli oggetti fisici, a maggior ragione vale per le esperienze di ordine psicologico. Noi possiamo vedere gli altri in base a come si comportano ora, in questo preciso istante: nulla possiamo dire, tuttavia, di un minuto fa o fra un altro minuto, se un minuto fa non c’eravamo e se fra un altro minuto saremo altrove.
Senza dubbio, le uniche esperienze “totali” (ma sempre relativamente parlando) che ci siano concesse, almeno finché ci troviamo nella presente condizione di esistenza, sono quelle di ordine puramente astratto: quelle di tipo logico-matematico e quelle di tipo spirituale e mistico; e le seconde ben più delle prime.
Con la logica matematica, infatti, noi possiamo cogliere l’essenza delle cose, ma solo partendo da una nostra operazione mentale che, di astrazione in astrazione, riesce a cogliere i nessi necessari fra determinate categorie concettuali (numeri, ad esempio, o classi di enti); mentre nella meditazione profonda e nell’estasi mistica è la realtà ultima che ci viene incontro e ci si apre davanti, inondandoci del suo ineffabile splendore, non perché noi abbiamo bussato con la nostra “ratio”alla sua porta, ma, al contrario, perché abbiamo compiuto un gesto di radicale umiltà, abbandonandoci interamente al flusso dell’Essere e svuotando la mente di ogni pensieri, a cominciare da quello, onnipervasivo ed estremamente petulante, del nostro stesso Ego.
Ma non è questa la sede per approfondire un tale argomento e, de resto, ci siamo già occupati di esso in numerose altre occasioni; per cui ritorniamo al nostro interrogativo iniziale: se, cioè, sia possibile avere ancora fiducia in qualcuno che ci abbia profondamente deluso.
Essendo consapevoli che noi non potremo mai conoscere veramente l’altro e che, spesso, non solo la nostra ragione, ma anche il nostro intuito falliscono, dobbiamo mettere nel conto, sin dall’inizio, che determinati suoi comportamenti ci possono deludere, ferire, amareggiare.
Al tempo stesso, e più in generale, dobbiamo mettere nel conto l’elemento della debolezza umana: in presenza di determinate circostanze, infatti, anche l’uomo la donna migliori possono venir meno al loro senso del dovere e soggiacere alle tentazioni del proprio egoismo, ivi compresa quella particolare forma di egoismo che è la paura, ossia l’anteporre la preoccupazione per sé stessi a quella per ciò che sarebbe giusto e doveroso fare.
Il cristianesimo possiede un termine specifico per indicare questa debolezza fondamentale, questa ferita originaria che deturpa l’anima umana e fa sì che neppure il migliore degli uomini possa dirsi completamente privo di inclinazioni al male: “peccato originale”. Il vero discrimine fra chi possiede un’anima religiosa e chi non la possiede è, in realtà, proprio questo: non il fatto di credere o non credere in Dio, ma il fatto di credere o non credere a una debolezza costitutiva che impedisce all’uomo di considerarsi egli stesso perfetto.
La credenza in Dio è un passo successivo: se l’uomo riconosce il proprio limite ontologico, la propria ferita strutturale (che può essere successiva a una “caduta”, come insegna appunto il cristianesimo, oppure originaria nel senso più completo), allora è possibile che egli si rivolga all’Essere da cui deriva e in cui non può esservi limite né imperfezione; se non lo riconosce, allora non riconoscerà nulla di più grande ed egli stesso sarà tentato di farsi Dio.
Dunque: noi crediamo che la natura umana sia ferita; che abbia smarrito il senso della perfezione, ossia della totalità; che non sia in grado, con le sole proprie forze, di sanare tale ferita e di tornare «a riveder le stelle», ossia a contemplare il proprio Cielo così come, forse, era in condizioni di fare prima dell’evento della “caduta”.
Di conseguenza, sarebbe assurdo pretendere che l’altro essere umano non ci deluda mai, non si mostri mai impari alle nostre aspettative: anche se tali aspettative non fossero sovente, come sono, sproporzionate e anche se noi fossimo in grado di giudicare obiettivamente le persone alle quali desideriamo aprire il nostro cuore.
A questo punto entra in gioco un concetto nuovo, quello del perdono: perché è impossibile continuare a vivere, dopo aver sopportato ripetute delusioni (e tutti, prima o poi, ne facciamo l’esperienza), senza maturare la capacità di perdonare coloro che ci hanno deluso e ferito e, prima ancora, senza la capacità di perdonare noi stessi, che ci siamo messi nelle condizioni di venire delusi e feriti così profondamente.
Infatti, a ben guardare, molto spesso l’incapacità di perdonare gli altri deriva dalla incapacità di perdonare se stessi: sono ben pochi coloro i quali, dopo aver vissuto una grossa delusione sul piano della fiducia verso il prossimo, non finiscano per incolpare se stessi, magari in maniera inconsapevole e, quindi, tanto più rabbiosa e disperata, in quanto la loro sofferenza non trova lo spazio per acquistare consapevolezza di sé e liberarsi.
Ad esempio, l’anziano che è stato raggirato da un truffatore senza scrupoli e gli ha ceduto, con un atto di fiducia sconsiderata, tutti i suoi risparmi, non soffre solo per la perdita economica, ma anche per il senso di colpa e di vergogna dovuto al proprio comportamento ingenuo e sommamente credulo. Ebbene, un meccanismo perfettamente analogo avviene in tutte le circostanze che vedano in gioco l’esperienza della fiducia tradita, anche e soprattutto quando si tratti di una esperienza di tipo affettivo e sentimentale.
L’amante abbandonato si sente in colpa con se stesso (o con se stessa), sia per aver creduto alle ingannevoli parole d’amore, sia per non essere stato capace di ispirare un sentimento autentico da parte dell’altro. Di conseguenza, si sente un fallito (o una fallita) come persona e non semplicemente un essere umano che è incorso in un infortunio; si sente spogliato di ogni fiducia in se stesso, anche se spesso adotta strategie reattive che non lo lascerebbero minimamente immaginare, proprio per cercare di nascondere le tracce del proprio fallimento.
Basterebbe già solo questo per darci un’idea dell’immenso, tortuosissimo groviglio di sotterranee aspettative che noi ci portiamo dietro allorché instauriamo dei rapporti col prossimo, per metterci in guardia circa il fatto di saper giudicare rettamente sia coloro dei quali intendiamo fidarci, sia la nostra stessa delusione, allorché ci sentiamo traditi da loro.
In conclusione, il rimedio migliore contro le ferite della delusione è, da un lato, essere sempre consapevoli della fondamentale debolezza umana; dall’altro, imparare a perdonare sia le altrui debolezze, che le nostre.
L’importante è essere limpidi e onesti: con se stessi in primo luogo, indi con gli altri.
Se esiste questa condizione, non c’è ferita che non si possa sanare e non c’è offesa che non si possa, eventualmente, perdonare, per continuare a guardare avanti sulle strade della vita.
di Francesco Lamendola

09 settembre 2010

La bolla europea





Esiste l’Europa – intendo, come realtà e unità spirituale, non semplicemente come espressione geografica? Certamente sì, e sommariamente possiamo individuarla nei seguenti elementi:

- una complessa e in parte tuttora misteriosa preistoria, dalla civiltà di Stonehenge a quella dei nuraghi;

- un’ancor oggi stupefacente creatività ellenica, madre delle arti, della matematica, della filosofia, della storiografia, e che costituisce la radice identitaria più autentica e specifica dell’Europa;

- il contributo e l’elaborazione di Roma, soprattutto nella creazione dell’ordinamento giuridico e amministrativo e nella costruzione dei diritti civili e individuali, nella loro distinzione dalla sfera pubblica;

- e successivamente i convergenti contributi soprattutto dell’area italica, dell’area germanica, dell’area francese, dell’area britannica (inclusi i celti), nonché dell’incessante produzione del pensiero ebraico della diaspora;

- l’attiva recettività, sin dai tempi più remoti, ad apporti e influssi asiatici ed egizi, in molti campi, tra cui quello artistico, esoterico e religioso;

- l’avvento di una religione asiatica, dogmatica e intollerante, che si consocia al potere politico, legittimandolo e partecipando ad esso;

- e che pone bruscamente fine, per circa mille e quattrocento anni, alla libertà di pensiero, ricerca, insegnamento, religione, demolendo i templi degli altri culti e chiudendo le scuole filosofiche che non si allineano ad essa, istituendo la censura, sopprimendo o torturando pensatori e scienziati scomodi, lanciando guerre contro i diversamente credenti;

- la successiva, lenta e travagliata risurrezione del pensiero laico e indipendente dai secoli bui, la sua lunga lotta per riconquistare la libertà e ristabilire la tolleranza; il nascere della scienza nell’opposizione della gerarchia religiosa; l’indagine sui limiti del pensiero e del conoscere; il rinascimento e i lumi;

- la multisecolare resistenza contro l’invasione armata di un’altra religione asiatica, militante, ancora più crudamente dogmatica, violenta e intollerante (tranne una breve parentesi dovuta all’influsso dei pochi libri greci che non aveva bruciato), le cui armate erano penetrate fino a Poitiers e a Vienna;

- la fioritura di musica, di belle arti e belle lettere, nonché delle tecniche e delle industrie; la nascita del pensiero e del dibattito politici; la critica del potere e della morale costituiti; la scoperta del relativismo culturale e dell’inconscio;

- e, insieme, i conflitti sociali scatenati dall’industrializzazione capitalista, la critica socioecnomica, le rivoluzioni totalitarie, la resistenza e le cruente lotte per liberarsi dai regimi da esse sorti;

- l’approdo, nei nostri giorni, e oramai su scala non più europea, ma globale, a una condizione di incertezza, precarietà, cronicizzazione delle crisi.

Ma che percentuale degli abitanti dell’Europa ha conoscenza di queste cose, le apprezza, le ha interiorizzate come parte dell’identità, e le vive quotidianamente? Una percentuale irrilevante. E non solo delle masse popolari, ma anche dei ceti medi e alti. Queste sono cose che valgono per pochi cultori specialisti. Altri sono i poli di identificazione e interesse degli odierni abitatori dell’Europa: denaro, potere, droga, sesso, sport, moda, musica commerciale americana o perlomeno non europea. Gusti globalizzati. Che cosa c’è di europeo negli Europei? Praticamente niente. L’identità, la civiltà europea non esistono, nella società e nella politica dei paesi europei, se non indirettamente e vagamente. Eppure vengono addotte a fondamento legittimante dell’Unione Europea e del suo concreto potere politico – sostanzialmente non basato su democratiche elezioni – sui c.d. cittadini europei. L’Unione Europea non è la realtà e unità spirituale “Europa” e in nessun senso la rappresenta. Non ha niente in comune con essa, tolto il riferimento geografico. E’ un ordinamento giuridico-finanziario con caratteri burocratici, vagamente liberali e liberisti, in parte dirigisti. Ma niente di identitariamente o specificamente europeo come qualità.

Al popolo italiano, specificamente, si diceva e si dice: “dovete pagare o fare questo o quello per entrare in Europa, per restare in Europa, perché è l’Europa che ve lo chiede”. Ma, appunto, quando si invoca quell’Europa con simili appelli, si lascia – volutamente – nell’implicito che cosa il popolo dovrebbe intendere per “Europa”. E che cosa intende il popolo italiano per “Europa”? Spirito, cultura, civiltà? Aristotele e Kant? Virgilio e Coleridge? Haydn e Rameau? Caravaggio e Rembrandt? Keplero e Bohr? Bentham e Anna Arendt? No: il popolo italiano intende, e gli si lascia intendere, un’istituzione statuale o superstatuale di tipo assistenziale, che eroga sussidi, che supplisce all’inefficienza, agli sprechi, all’immoralità, alla debolezza finanziaria dello Stato e della pubblica amministrazione italiani. Il paese che rimane attaccato a questa istituzione, rimane un paese di prima classe; chi perde il contatto, scivola verso il terzo mondo e la povertà.

Le aspettative di assistenza e supplenza sono molto radicate nel sentire e nel credere delle popolazioni italiane, soprattutto al Sud, che vive tradizionalmente di trasferimenti a spese di altri, quindi è predisposto a credere a promesse di questo tipo. Altrettanto diffusa è l’esterofilia, la maggior stima dell’estero e per lo straniero rispetto al domestico – forse un retaggio dei molti secoli di sottomissione a dominatori stranieri di quasi tutte le regioni italiane. Forse anche del Piano Marshall. Quindi, ai fini della gestione e produzione dei comportamenti collettivi, era ed è stato psicologicamente efficace abbinare questi due elementi (l’assistenza e lo straniero) per fare accettare agli Italiani molti sacrifici e molti trasferimenti di potere a organismi non italiani e non elettivi. E per fare accettare l’Euro. L’Euro veniva presentato agli Italiani come una panacea, una garanzia di aggancio alla prosperità ed efficienza tedesche, ma anche alla rispettabilità del sistema tedesco. Si diceva – per giustificare fortissimi e numerosi prelievi fiscali “allo scopo di entrare nell’Euro” – che, a) entrando nell’Euro, avremmo salvaguardato il nostro potere d’acquisto; e, b) che i paesi forti si sarebbero fatti carico del nostro enorme debito pubblico. Si trattava di fare un modico sacrificio per essere ammessi all’interno del club dell’Euro, e poi la strada sarebbe stata in discesa. Una furbata, un affarone, insomma. Invece è accaduto tutt’altro, e troppi se ne sono accorti: il passaggio all’Euro a) ha tagliato del 40% circa il potere d’acquisto e, b) ci ha lasciato sulle spalle tutto il debito pubblico – perché era falso, era una menzogna, che entrare nell’Euro avrebbe comportato la comunitarizzazione dei singoli debiti pubblici nazionali. Per giunta, ci ha privati della possibilità di ridurre il debito pubblico, in quanto ha peggiorato il rapporto pil/spesa pubblica, poiché, impedendo la svalutazione competitiva, ha bloccato lo sviluppo economico, ci ha fatto perdere sia quote di mercato estero e costretti a interno, che quote di occupazione. Si osservi come le aspettative popolari circa l’UE e l’Euro fossero sostanzialmente opposte, tra Italia e paesi forti, nel senso che questi ultimi li vedevano come occasione e mezzo per dispiegare ed espandere la propria forza politico-economica, e non certo per farsi assistere o per aiutare altri.

L’ultima sveglia è arrivata mesi fa, allorché la Germania ha messo in chiaro e dimostrato coi fatti che non si farà assolutamente carico dei problemi dei paesi deboli, e che i popoli come i Tedeschi, che hanno le qualità giuste e le mettono in pratica – i popoli laboriosi, efficienti, seri, concreti, ligi alle norme – vanno avanti, reggendo il confronto con la globalizzazione, la Cina, l’India, la Turchia. I popoli parolai, inefficienti e assistenzialisti, sono per contro destinati a un rapido impoverimento. Impoverimento che oramai appare avere una causa non tanto contingente e politica, quanto etnico-culturale, radicata nella mentalità sociale, nelle prassi abituali del singolo popolo circa il lavoro, le regole, l’amministrazione. Una causa che quindi non si risolve cambiando governo, né cambiando le leggi, né incarcerando mafiosi e corrotti. Bisognerebbe cambiare la mentalità, i costumi, la psicologia collettiva di quei popoli, a tutti i livelli, dalla politica alla magistratura, dai liberi professionisti agli insegnanti, e anche del corpo elettorale: un compito assai complesso e difficile, che non si sa nemmeno con che strumenti affrontare. Qualcuno si aspettava che bastasse imporre vincoli di bilancio, alla spesa pubblica, ossia la “virtuosità” di Maastricht, per rieducare i popoli PIGS, o per costringerli a rieducarsi da sé, con uno sforzo interno ma imposto dall’esterno. Ebbene, i fatti hanno smentito tale aspettativa: i PIGS sono rimasti PIGS – hanno perso le setole, ma non il vizio. In fondo, la storia mostra che il successo di un popolo dipende essenzialmente dalle sue qualità etniche, molto meno dai suoi contingenti governi e dalle sue contingenti normative. Svizzeri, Tedeschi, Austriaci, Scandinavi, ad esempio, sono sempre andati bene o comunque meglio degli altri. E meglio degli altri gestiscono anche la presente crisi.

Oramai troppi italiani si sono accorti che le aspettative di aiuto europeo in essi indotte dalla propaganda erano illusorie, e che l’Unione Europea e l’Euro costano molto e rendono poco o nulla. Bruxelles è una sorta di Nuova Roma, burocratica, imperiale, lobbystica, finanziarizzata, corrotta (ricordate M.me Cresson? sapete che i bilanci comunitari non sono controllati da un soggetto autonomo? immaginate quanto continuano a mangiarci? ci salva il fatto che il budget UE è solo l’1% del pil). Una Nuova Roma grassa e grassatrice, autoreferenziale, assurda in interminabili e onerose prescrizioni elucubrate da funzionari strapagati e incompetenti. Una Nuova Roma iniqua, inefficiente, quando non nemica, a cominciare dalla politica agricola comune. E insieme pressoché impotente e senza prestigio, politicamente e militarmente, sulla scena mondiale, tanto quanto nel gestire la corrente crisi economica: infatti ciascun paese fa per sé (ciascun governo fa per il proprio lettorato) e guardando solo ai propri interessi, o al più all’esigenza di rassicurare i mercati. L’idea di un ordinamento che cresce e si impone anche politicamente attraverso un processo strisciante di aggregazione e centralizzazione di funzione dopo funzione, avocandole dagli Stati nazionali, è quindi palesemente fallita. E gli aiuti europei – che poi altro non sono che il parziale ritorno delle nostre tasse – ossia i fondi perequativi, a seguito dell’ingresso dei paesi orientali, vanno oramai quasi tutti ad essi, e non più a noi, aiutandoli anzi a farci concorrenza e ad attirare le nostre imprese e i nostri capitali.

Anche la componente idealista dell’europeismo italiano, cioè il sogno della grande Federazione Europea, è rimasta tradita: con l’inclusione di molti paesi disomogenei dell’Est europeo, Washington e Londra hanno oramai conseguito il loro tradizionale obiettivo di impedire l’integrazione politica europea. Politicamente, anzi, l’Unione è in via di dissoluzione. La vera beneficiaria della sua espansione a Est è la Nato, che se ne è servita per penetrare nell’area ex Comecon in antagonismo alla Russia e piazzare i missili più vicini alle sue frontiere.

A misura che l’opinione pubblica italiana si accorge che la realtà è questa, è naturale che diventi non semplicemente “euroscettica”, ma contraria a Bruxelles (e, i più informati, anche alla sua Bastiglia monetaria, l’Eurotower di Francoforte). E che voti di conseguenza. Gli entusiasmi europeisti della popolazione italiana si sgonfiano come una bolla via via che gli Italiani realizzano che l’Unione Europea non li aiuta, non li sostiene, non supplisce alla loro inefficiente e corrotta gestione politica. Anzi, impone tagli a quel welfare che in Italia è servito per mantenere la coesione sociale e geografica. Col prossimo aggravarsi della recessione italiana, che avevo preannunciato per la fine di questo mese e che si sta avverando, sarà sempre più così.

di Marco Della Luna

08 settembre 2010

400 banche Usa pronte a fallire. Sotto gli occhi dei "regolatori"...


Michel Barnier, commissario europeo per gli Affari finanziari, è stato chiarissimo nel suo intervento al Workshop Ambrosetti di Cernobbio, addirittura cristallino: nessuno potrà sfuggire alla nuova regolamentazione europea che, se il lavoro proseguirà con questo ritmo, sarà pronta in versione di bozza per il 15 settembre. No one, nessuno. Due i punti chiave: normative sui derivati e sullo short selling che, stando alle indiscrezioni, verrà vietato.

Dopo la mossa stalinista di Barack Obama, ora anche l'Europa mette - o prova a mettere - i bastoni tra le ruote al libero mercato: Londra ringrazia sentitamente. Come se questo servisse a qualcosa. Nonostante il crollo di Lehman, la bolla dei subprime e quanto è seguito, infatti, nulla è cambiato: i volumi dei derivati scambiati sono aumentati. Solo nel mercato valutario c’erano transazioni quotidiane per 3.300 miliardi di dollari nel 2007 mentre quest'anno sono stati superati i 4.000 miliardi. Le cose non vanno meglio per il segmento dei derivati sui tassi d’interesse, cresciuti nell’arco del 24 per cento nell’arco di un triennio, toccando i 2.100 miliardi di dollari scambiati ogni giorno.

Il dito di Barnier, difficilmente, riuscirà a frenare la diga che sta per esondare. D'altronde, le banche non hanno voglia di farsi regolamentare, basti pensare all'esempio che ho portato nell'articolo di giovedì scorso, ovvero l'oceano di scommesse sui cds contro il debito italiano. Ogni giorno sui mercati non regolamentati, il vero problema che Barnier non sembra vedere, si scambiano circa 575 milioni di dollari in protezione sul debito italiano.

E sono, sempre secondo l'ente di vigilanza sui derivati, solo 17 i soggetti che vendono questa immunizzazione: Bank of America Merrill Lynch, Barclays, BNP Paribas, Calyon, Citibank, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs, HSBC, JPMorgan, Morgan Stanley, Natixis, Nomura, Royal Bank of Scotland, Société Générale, UBS e l'italianissima - ancorché internazionalizzata - UniCredit.

Nel caso dell’Italia tutti concorrono alla vendita dei Cds, UniCredit compresa, la quale fa benissimo e non compie alcun reato. Con una media di 21 operazioni di copertura sul debito italiano, per le 17 regine dei derivati si aprono le porte delle commissioni. Infatti per ogni singola transazione le banche guadagnano cifre variabili rispetto all’entità: non è difficile capire chi siano gli scacchieri dietro a questa girandola di scommesse, più vendo più guadagno.

Il 39 per cento dei Cds circolanti sull’Italia sono detenuti da cinque soggetti: Paulson, quel filantropo di Soros, Moore, Citadel e il fondo sovrano China Investment Corporation: quattro hedge fund statunitensi e il principale veicolo d’investimento di Pechino sono attualmente su posizioni ribassiste nei confronti del nostro Paese. E non sono i soli.

Il peso degli investitori si fa sentire sempre di più sul debito italiano. Gli oltre 1.800 miliardi di euro convincono poco i mercati, che hanno deciso di proteggersi dalle brutte sorprese: dallo scorso marzo, quando erano stati accesi circa 5.600 contratti di protezione sui rischi italiani, si è passati a oltre 6.600 nelle ultime settimane. La scadenza media è di un anno, sintomo della percezione negativa che gli investitori hanno del nostro Paese. In compenso, la maggioranza va in frantumi tra polemiche corrosive e il nostro ministro dell'Economia si permette di bollare come "da bambini" i giudizi del governatore di Bankitalia, Mario Draghi.

Ma torniamo a Barnier, il quale a Cernobbio ha parlato chiaro. Cristallino. Peccato si sia ben guardato dal rivelare quanto lui e la Commissione Ue hanno di fatto già deciso e che ora devono trovare il modo, oltre che il coraggio, di comunicare. Gli stress test sulle banche vanno rifatti perché eseguiti con criteri ridicoli e soprattutto perché ritenuti non credibili dalle istituzioni finanziarie ma, soprattutto, dai soggetti corporate. Ovvero, le aziende che con le banche hanno a che fare ogni istante. Una larga parte delle quali, sia nel Regno Unito che nell'Europa continentale, hanno messo nel mirino le banche italiane, spagnole e tedesche e stanno conducendo stress tests indipendenti per valutare realmente la robustezza di questi istituti: le revenues di queste aziende, tanto per capire il loro peso, è di 240 miliardi di dollari l'anno.

«La cosa che ci sta facendo preoccupare maggiormente è il rischio del credito», ha dichiarato al Financial Times il tesoriere di uno dei principali gruppi industriali tedeschi, secondo cui «anche dopo gli stress tests, noi tutti continuiamo a porci la stessa domanda: le banche sono davvero sane? Penso che i tests, lungi dall'aver dato delle rassicurazioni, hanno solo aggiunto domande a domande e timori a timori, soprattutto qui in Germania».

Per Stuart Siddall, presidente dell'Association of Corporate Treasurers, le aziende hanno posto alla prima posizione delle loro priorità il fatto di chiarire realmente lo stato di salute delle banche: «Mai visto spendere tanto tempo, risorse ed energie rispetto al rischio di controparte».

Per il tesoriere di una grande aziende del settore media, «gli stress tests sono stati niente più che uno scherzo. Bisogna capire se l'imperatore ha ancora dei vestiti o è nudo e, soprattutto, cosa fare se la situazione reale è la seconda. Siamo paranoici al riguardo e monitoriamo i rumors del mercato molto attentamente». Altra ossessione per queste aziende sono i cds, un mercato che ormai interessa più di quello azionario: «Le agenzie di rating stanno agendo troppo lentamente - attacca il tesoriere di un altro grande gruppo industriale tedesco -, noi stiamo monitorando lo stato di salute delle banche ogni giorno, anche al fine di aggiustare i nostri limiti».

Per il tesoriere di un'azienda quotata nell'indice Ftse 100 della Borsa di Londra, quanto sta accadendo è la naturale risposta del mercato alla poca trasparenza d istituzioni e regolatori: «Non abbiamo alcun business con banche spagnole e anche con un paio di istituti italiani e tedeschi. Se le banche americane non vogliono avere a che fare con questa gente, perché dovremmo farlo noi?».

Già, perché? D'altronde non il sottoscritto ma Nouriel Roubini, uno che la crisi l'aveva anticipata pur restando inascoltato, ha chiaramente detto che se sarà possibile evitare l'opzione double-dip, una seconda fase di recessione è quasi ineluttabile: fase, durante la quale, a suo modo di vedere saranno circa 400 le banche Usa destinate a fallire.

Chissà perché Barnier non ha voluto spendere una parola su questo, limitandosi a mostrare la faccia cattiva agitando lo spettro della regolamentazione? Chissà, forse è troppo imbarazzante ammettere di aver dato vita a una farsa travestita da stress tests e ora ritrovarsi obbligato a rifarli, secondo criteri seri, prima che siano i soggetti privati, tramite i loro studi, a mostrare davvero quanto è nudo il Re bancario: il Core Tier 1 di moltissime banche, infatti, una volta ripulito da artifici e assets assolutamente inutili in fase di stress, raggiungono a malapena 2,5 per cento.

Se i grandi fondi stanno shortando le azioni di cinque grandi istituti bancari europei, tra cui Barclays e Intesa-San Paolo, qualche motivo ci sarà. Va bene la speculazione, va bene l'azzardo ma nessuno è così masochista da scommettere al ribasso contro un soggetto finanziario in salute. Chissà se questo semplice ragionamento avrà sfiorato la raffinata mente di Michel Barnier?

P.S. So di essere tacciato di pessimismo cosmico e catastrofismo à la page ma stavolta dubito che si possa mettere in dubbio quanto ho scritto, almeno stando al link che allego per tutti i lettori e che è stato pubblicato da Cnbc ventiquattro ore dopo l'invio del mio pezzo, ovvero ieri mattina dopo l'apertura delle contrattazioni. Leggete e chiedetevi se i regolatori con cui abbiamo a che fare non siano da prendere a calci nel sedere.

di Mauro Bottarelli