10 settembre 2010

Si può avere ancora fiducia in chi ci ha profondamente deluso?







«La fiducia è una cosa seria», recitava - molti anni fa - la pubblicità televisiva di una nota azienda produttrice di formaggi; e lo slogan era divenuto proverbiale.
Sì, la fiducia è una cosa seria; ma, come valore sociale, potremmo dire che le sue azioni sono scese, ultimamente, alquanto in ribasso.
Non è un caso che non se ne parli quasi più; altri valori l’hanno sostituita, nell’era della tecnologia imperante e dei rapporti umani sempre più anonimi e spersonalizzati: primi fra tutti, l’efficienza e la caccia al risultato, comunque e a qualsiasi prezzo.
Basterebbe dire che, tre o quattro generazioni fa, una stretta di mano fra contadini era sufficiente a sanzionare una transazione economica anche d’una certa importanza (relativamente parlando), come la compravendita di una mucca; non c’era bisogno di contratti, di firme e di notai: la parola data era garanzia più che sufficiente.
Oggi le cose stanno altrimenti, sia nei rapporti privati che in quelli professionali. Si promette con facilità, ma ci si cura pochissimo di mantenere; al punto che, quando ci s’imbatte in una persona veramente di parola, anche nelle piccole e piccolissime cose d’ogni giorno (che so, un elettricista che si presenti puntuale per eseguire un lavoro a domicilio), viene spontaneo provare un piacevole stupore e complimentarsi con l’interessato, come se avesse fatto qualche cosa di eccezionale: mentre non ha fatto altro che rispettare quanto convenuto.
Questo vuol dire che siamo messi male: non solo non c’è più fiducia reciproca, ma è venuta meno anche la reazione morale davanti ad un tale fenomeno; non ci si meraviglia, non ci si indigna più, non si protesta (a meno che si subisca un danno materiale rilevante); si tende sempre più ad una qualche forma di stoica rassegnazione.
In realtà, non dovrebbe essere così. Dovremmo continuare ad esigere il rispetto degli impegni presi, prima di tutto da parte di noi stessi e poi da parte degli altri. Il fatto è che ci stiamo abituando alla mancanza di affidabilità del prossimo perché, nel nostro intimo, sappiamo di essere diventati poco affidabili noi stessi. Dunque, la nostra stoica sopportazione del male comune nasce da una poco encomiabile indulgenza verso il nostro stesso scadimento morale.
Tale è il contesto in cui ci troviamo a vivere al giorno d’oggi. All’interno di un simile contesto, vale ancora la pena di domandarsi se sia possibile rinnovare la propria fiducia nei confronti di qualcuno che l’abbia profondamente delusa?
A nostro avviso, sì; e spiegheremo brevemente perché.
Abbiamo già accennato al fatto che non è cosa intellettualmente onesta pretendere la lealtà altrui, quando si è coscienti di esserlo poco; e la mancanza di lealtà incomincia da quella nei confronti di se stessi. Se si è poco leali con se stessi, se si ha la tendenza a raccontarsi delle storie per giustificare le proprie debolezze e le proprie colpe, allora è chiaro che si tenderà ad essere poco leali anche nei confronti del prossimo; e, talvolta, in perfetta “buona fede”: perché, se ci si autoinganna e ci si prende in giro da sé, non si sarà più nemmeno consapevoli di fare la stessa cosa nei confronti dell’altro.
Questo, dunque, è il primo punto da mettere bene in chiaro: se vogliamo poterci fidare degli altri, dobbiamo prima imparare ad essere onesti con noi stessi. Dobbiamo imparare a guardarci dentro senza trucchi e senza inganni, con assoluta trasparenza.; cosa non semplicissima e, comunque, alla quale siamo in genere poco abituati.
Il secondo punto da mettere in chiaro è che la fiducia che noi accordiamo agli altri, la diamo sulla base di una nostra valutazione di essi, che non è per nulla oggettiva: di fatto, quanto meno noi possediamo consapevolezza di noi stessi, tanto più abbiamo la tendenza a caricare l’altro di tutta una serie di aspettative, positive e negative, che risiedono solo nella nostra mente confusa.
Di conseguenza, succede che la delusine che noi proviamo per certi comportamenti dell’altro, tragga origine non da qualche cosa di reale, ma una nostra costruzione mentale che, non di rado, ha poco o nulla di fondato, e molto o moltissimo di immaginario. Prima di dire a noi stessi, pertanto: «Quella persona mi ha deluso, non crederò mai più in lei», forse faremmo bene a riflettere se la nostra delusione sia davvero giustificata.
Gli altri - è una verità perfino lapalissiana - vanno considerati per quello che sono, non per quello che noi vorremmo che fossero o crediamo che siano. Se noi sovrapponiamo alla loro immagine una immagine deformata, creata dai nostri bisogni e dai nostri timori, è certo che il nostro incontro con essi avverrà su un piano sbagliato e sarà fonte di malintesi, delusioni e, probabilmente, amarezze; ma di chi sarà la responsabilità di tutto questo: loro o nostra?
Se poi si voglia obiettare che, a rigor di termini, conoscere l’altro per quello che è realmente, risulta cosa impossibile, noi, sul piano, filosofico, consentiremo volentieri ad una simile obiezione: fedeli al motto berkeleiano «Esse est percipi», «essere è essere percepito», siamo profondamente convinti che tutto quello che possiamo sapere sugli altri, così come su ogni cosa che entri nel nostro campo esperienziale, non è altro che una operazione della nostra mente, la quale non può esperire le cose se non all’interno di se stessa e con tutti i limiti che da ciò derivano.
Per sapere come è fatta la parte posteriore della Venere di Milo, devo girarci attorno; oppure devo montare su una scala e così vederne, ma solo imperfettamente, entrambi i lati con un unico colpo d’occhio; a quel, punto, però, ci sarà un’altra prospettiva che mi sfuggirà irrimediabilmente, quella dal basso. Insomma, noi non possiamo mai conoscere le cose nella loro totalità; e se ciò vale per gli oggetti fisici, a maggior ragione vale per le esperienze di ordine psicologico. Noi possiamo vedere gli altri in base a come si comportano ora, in questo preciso istante: nulla possiamo dire, tuttavia, di un minuto fa o fra un altro minuto, se un minuto fa non c’eravamo e se fra un altro minuto saremo altrove.
Senza dubbio, le uniche esperienze “totali” (ma sempre relativamente parlando) che ci siano concesse, almeno finché ci troviamo nella presente condizione di esistenza, sono quelle di ordine puramente astratto: quelle di tipo logico-matematico e quelle di tipo spirituale e mistico; e le seconde ben più delle prime.
Con la logica matematica, infatti, noi possiamo cogliere l’essenza delle cose, ma solo partendo da una nostra operazione mentale che, di astrazione in astrazione, riesce a cogliere i nessi necessari fra determinate categorie concettuali (numeri, ad esempio, o classi di enti); mentre nella meditazione profonda e nell’estasi mistica è la realtà ultima che ci viene incontro e ci si apre davanti, inondandoci del suo ineffabile splendore, non perché noi abbiamo bussato con la nostra “ratio”alla sua porta, ma, al contrario, perché abbiamo compiuto un gesto di radicale umiltà, abbandonandoci interamente al flusso dell’Essere e svuotando la mente di ogni pensieri, a cominciare da quello, onnipervasivo ed estremamente petulante, del nostro stesso Ego.
Ma non è questa la sede per approfondire un tale argomento e, de resto, ci siamo già occupati di esso in numerose altre occasioni; per cui ritorniamo al nostro interrogativo iniziale: se, cioè, sia possibile avere ancora fiducia in qualcuno che ci abbia profondamente deluso.
Essendo consapevoli che noi non potremo mai conoscere veramente l’altro e che, spesso, non solo la nostra ragione, ma anche il nostro intuito falliscono, dobbiamo mettere nel conto, sin dall’inizio, che determinati suoi comportamenti ci possono deludere, ferire, amareggiare.
Al tempo stesso, e più in generale, dobbiamo mettere nel conto l’elemento della debolezza umana: in presenza di determinate circostanze, infatti, anche l’uomo la donna migliori possono venir meno al loro senso del dovere e soggiacere alle tentazioni del proprio egoismo, ivi compresa quella particolare forma di egoismo che è la paura, ossia l’anteporre la preoccupazione per sé stessi a quella per ciò che sarebbe giusto e doveroso fare.
Il cristianesimo possiede un termine specifico per indicare questa debolezza fondamentale, questa ferita originaria che deturpa l’anima umana e fa sì che neppure il migliore degli uomini possa dirsi completamente privo di inclinazioni al male: “peccato originale”. Il vero discrimine fra chi possiede un’anima religiosa e chi non la possiede è, in realtà, proprio questo: non il fatto di credere o non credere in Dio, ma il fatto di credere o non credere a una debolezza costitutiva che impedisce all’uomo di considerarsi egli stesso perfetto.
La credenza in Dio è un passo successivo: se l’uomo riconosce il proprio limite ontologico, la propria ferita strutturale (che può essere successiva a una “caduta”, come insegna appunto il cristianesimo, oppure originaria nel senso più completo), allora è possibile che egli si rivolga all’Essere da cui deriva e in cui non può esservi limite né imperfezione; se non lo riconosce, allora non riconoscerà nulla di più grande ed egli stesso sarà tentato di farsi Dio.
Dunque: noi crediamo che la natura umana sia ferita; che abbia smarrito il senso della perfezione, ossia della totalità; che non sia in grado, con le sole proprie forze, di sanare tale ferita e di tornare «a riveder le stelle», ossia a contemplare il proprio Cielo così come, forse, era in condizioni di fare prima dell’evento della “caduta”.
Di conseguenza, sarebbe assurdo pretendere che l’altro essere umano non ci deluda mai, non si mostri mai impari alle nostre aspettative: anche se tali aspettative non fossero sovente, come sono, sproporzionate e anche se noi fossimo in grado di giudicare obiettivamente le persone alle quali desideriamo aprire il nostro cuore.
A questo punto entra in gioco un concetto nuovo, quello del perdono: perché è impossibile continuare a vivere, dopo aver sopportato ripetute delusioni (e tutti, prima o poi, ne facciamo l’esperienza), senza maturare la capacità di perdonare coloro che ci hanno deluso e ferito e, prima ancora, senza la capacità di perdonare noi stessi, che ci siamo messi nelle condizioni di venire delusi e feriti così profondamente.
Infatti, a ben guardare, molto spesso l’incapacità di perdonare gli altri deriva dalla incapacità di perdonare se stessi: sono ben pochi coloro i quali, dopo aver vissuto una grossa delusione sul piano della fiducia verso il prossimo, non finiscano per incolpare se stessi, magari in maniera inconsapevole e, quindi, tanto più rabbiosa e disperata, in quanto la loro sofferenza non trova lo spazio per acquistare consapevolezza di sé e liberarsi.
Ad esempio, l’anziano che è stato raggirato da un truffatore senza scrupoli e gli ha ceduto, con un atto di fiducia sconsiderata, tutti i suoi risparmi, non soffre solo per la perdita economica, ma anche per il senso di colpa e di vergogna dovuto al proprio comportamento ingenuo e sommamente credulo. Ebbene, un meccanismo perfettamente analogo avviene in tutte le circostanze che vedano in gioco l’esperienza della fiducia tradita, anche e soprattutto quando si tratti di una esperienza di tipo affettivo e sentimentale.
L’amante abbandonato si sente in colpa con se stesso (o con se stessa), sia per aver creduto alle ingannevoli parole d’amore, sia per non essere stato capace di ispirare un sentimento autentico da parte dell’altro. Di conseguenza, si sente un fallito (o una fallita) come persona e non semplicemente un essere umano che è incorso in un infortunio; si sente spogliato di ogni fiducia in se stesso, anche se spesso adotta strategie reattive che non lo lascerebbero minimamente immaginare, proprio per cercare di nascondere le tracce del proprio fallimento.
Basterebbe già solo questo per darci un’idea dell’immenso, tortuosissimo groviglio di sotterranee aspettative che noi ci portiamo dietro allorché instauriamo dei rapporti col prossimo, per metterci in guardia circa il fatto di saper giudicare rettamente sia coloro dei quali intendiamo fidarci, sia la nostra stessa delusione, allorché ci sentiamo traditi da loro.
In conclusione, il rimedio migliore contro le ferite della delusione è, da un lato, essere sempre consapevoli della fondamentale debolezza umana; dall’altro, imparare a perdonare sia le altrui debolezze, che le nostre.
L’importante è essere limpidi e onesti: con se stessi in primo luogo, indi con gli altri.
Se esiste questa condizione, non c’è ferita che non si possa sanare e non c’è offesa che non si possa, eventualmente, perdonare, per continuare a guardare avanti sulle strade della vita.
di Francesco Lamendola

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10 settembre 2010

Si può avere ancora fiducia in chi ci ha profondamente deluso?







«La fiducia è una cosa seria», recitava - molti anni fa - la pubblicità televisiva di una nota azienda produttrice di formaggi; e lo slogan era divenuto proverbiale.
Sì, la fiducia è una cosa seria; ma, come valore sociale, potremmo dire che le sue azioni sono scese, ultimamente, alquanto in ribasso.
Non è un caso che non se ne parli quasi più; altri valori l’hanno sostituita, nell’era della tecnologia imperante e dei rapporti umani sempre più anonimi e spersonalizzati: primi fra tutti, l’efficienza e la caccia al risultato, comunque e a qualsiasi prezzo.
Basterebbe dire che, tre o quattro generazioni fa, una stretta di mano fra contadini era sufficiente a sanzionare una transazione economica anche d’una certa importanza (relativamente parlando), come la compravendita di una mucca; non c’era bisogno di contratti, di firme e di notai: la parola data era garanzia più che sufficiente.
Oggi le cose stanno altrimenti, sia nei rapporti privati che in quelli professionali. Si promette con facilità, ma ci si cura pochissimo di mantenere; al punto che, quando ci s’imbatte in una persona veramente di parola, anche nelle piccole e piccolissime cose d’ogni giorno (che so, un elettricista che si presenti puntuale per eseguire un lavoro a domicilio), viene spontaneo provare un piacevole stupore e complimentarsi con l’interessato, come se avesse fatto qualche cosa di eccezionale: mentre non ha fatto altro che rispettare quanto convenuto.
Questo vuol dire che siamo messi male: non solo non c’è più fiducia reciproca, ma è venuta meno anche la reazione morale davanti ad un tale fenomeno; non ci si meraviglia, non ci si indigna più, non si protesta (a meno che si subisca un danno materiale rilevante); si tende sempre più ad una qualche forma di stoica rassegnazione.
In realtà, non dovrebbe essere così. Dovremmo continuare ad esigere il rispetto degli impegni presi, prima di tutto da parte di noi stessi e poi da parte degli altri. Il fatto è che ci stiamo abituando alla mancanza di affidabilità del prossimo perché, nel nostro intimo, sappiamo di essere diventati poco affidabili noi stessi. Dunque, la nostra stoica sopportazione del male comune nasce da una poco encomiabile indulgenza verso il nostro stesso scadimento morale.
Tale è il contesto in cui ci troviamo a vivere al giorno d’oggi. All’interno di un simile contesto, vale ancora la pena di domandarsi se sia possibile rinnovare la propria fiducia nei confronti di qualcuno che l’abbia profondamente delusa?
A nostro avviso, sì; e spiegheremo brevemente perché.
Abbiamo già accennato al fatto che non è cosa intellettualmente onesta pretendere la lealtà altrui, quando si è coscienti di esserlo poco; e la mancanza di lealtà incomincia da quella nei confronti di se stessi. Se si è poco leali con se stessi, se si ha la tendenza a raccontarsi delle storie per giustificare le proprie debolezze e le proprie colpe, allora è chiaro che si tenderà ad essere poco leali anche nei confronti del prossimo; e, talvolta, in perfetta “buona fede”: perché, se ci si autoinganna e ci si prende in giro da sé, non si sarà più nemmeno consapevoli di fare la stessa cosa nei confronti dell’altro.
Questo, dunque, è il primo punto da mettere bene in chiaro: se vogliamo poterci fidare degli altri, dobbiamo prima imparare ad essere onesti con noi stessi. Dobbiamo imparare a guardarci dentro senza trucchi e senza inganni, con assoluta trasparenza.; cosa non semplicissima e, comunque, alla quale siamo in genere poco abituati.
Il secondo punto da mettere in chiaro è che la fiducia che noi accordiamo agli altri, la diamo sulla base di una nostra valutazione di essi, che non è per nulla oggettiva: di fatto, quanto meno noi possediamo consapevolezza di noi stessi, tanto più abbiamo la tendenza a caricare l’altro di tutta una serie di aspettative, positive e negative, che risiedono solo nella nostra mente confusa.
Di conseguenza, succede che la delusine che noi proviamo per certi comportamenti dell’altro, tragga origine non da qualche cosa di reale, ma una nostra costruzione mentale che, non di rado, ha poco o nulla di fondato, e molto o moltissimo di immaginario. Prima di dire a noi stessi, pertanto: «Quella persona mi ha deluso, non crederò mai più in lei», forse faremmo bene a riflettere se la nostra delusione sia davvero giustificata.
Gli altri - è una verità perfino lapalissiana - vanno considerati per quello che sono, non per quello che noi vorremmo che fossero o crediamo che siano. Se noi sovrapponiamo alla loro immagine una immagine deformata, creata dai nostri bisogni e dai nostri timori, è certo che il nostro incontro con essi avverrà su un piano sbagliato e sarà fonte di malintesi, delusioni e, probabilmente, amarezze; ma di chi sarà la responsabilità di tutto questo: loro o nostra?
Se poi si voglia obiettare che, a rigor di termini, conoscere l’altro per quello che è realmente, risulta cosa impossibile, noi, sul piano, filosofico, consentiremo volentieri ad una simile obiezione: fedeli al motto berkeleiano «Esse est percipi», «essere è essere percepito», siamo profondamente convinti che tutto quello che possiamo sapere sugli altri, così come su ogni cosa che entri nel nostro campo esperienziale, non è altro che una operazione della nostra mente, la quale non può esperire le cose se non all’interno di se stessa e con tutti i limiti che da ciò derivano.
Per sapere come è fatta la parte posteriore della Venere di Milo, devo girarci attorno; oppure devo montare su una scala e così vederne, ma solo imperfettamente, entrambi i lati con un unico colpo d’occhio; a quel, punto, però, ci sarà un’altra prospettiva che mi sfuggirà irrimediabilmente, quella dal basso. Insomma, noi non possiamo mai conoscere le cose nella loro totalità; e se ciò vale per gli oggetti fisici, a maggior ragione vale per le esperienze di ordine psicologico. Noi possiamo vedere gli altri in base a come si comportano ora, in questo preciso istante: nulla possiamo dire, tuttavia, di un minuto fa o fra un altro minuto, se un minuto fa non c’eravamo e se fra un altro minuto saremo altrove.
Senza dubbio, le uniche esperienze “totali” (ma sempre relativamente parlando) che ci siano concesse, almeno finché ci troviamo nella presente condizione di esistenza, sono quelle di ordine puramente astratto: quelle di tipo logico-matematico e quelle di tipo spirituale e mistico; e le seconde ben più delle prime.
Con la logica matematica, infatti, noi possiamo cogliere l’essenza delle cose, ma solo partendo da una nostra operazione mentale che, di astrazione in astrazione, riesce a cogliere i nessi necessari fra determinate categorie concettuali (numeri, ad esempio, o classi di enti); mentre nella meditazione profonda e nell’estasi mistica è la realtà ultima che ci viene incontro e ci si apre davanti, inondandoci del suo ineffabile splendore, non perché noi abbiamo bussato con la nostra “ratio”alla sua porta, ma, al contrario, perché abbiamo compiuto un gesto di radicale umiltà, abbandonandoci interamente al flusso dell’Essere e svuotando la mente di ogni pensieri, a cominciare da quello, onnipervasivo ed estremamente petulante, del nostro stesso Ego.
Ma non è questa la sede per approfondire un tale argomento e, de resto, ci siamo già occupati di esso in numerose altre occasioni; per cui ritorniamo al nostro interrogativo iniziale: se, cioè, sia possibile avere ancora fiducia in qualcuno che ci abbia profondamente deluso.
Essendo consapevoli che noi non potremo mai conoscere veramente l’altro e che, spesso, non solo la nostra ragione, ma anche il nostro intuito falliscono, dobbiamo mettere nel conto, sin dall’inizio, che determinati suoi comportamenti ci possono deludere, ferire, amareggiare.
Al tempo stesso, e più in generale, dobbiamo mettere nel conto l’elemento della debolezza umana: in presenza di determinate circostanze, infatti, anche l’uomo la donna migliori possono venir meno al loro senso del dovere e soggiacere alle tentazioni del proprio egoismo, ivi compresa quella particolare forma di egoismo che è la paura, ossia l’anteporre la preoccupazione per sé stessi a quella per ciò che sarebbe giusto e doveroso fare.
Il cristianesimo possiede un termine specifico per indicare questa debolezza fondamentale, questa ferita originaria che deturpa l’anima umana e fa sì che neppure il migliore degli uomini possa dirsi completamente privo di inclinazioni al male: “peccato originale”. Il vero discrimine fra chi possiede un’anima religiosa e chi non la possiede è, in realtà, proprio questo: non il fatto di credere o non credere in Dio, ma il fatto di credere o non credere a una debolezza costitutiva che impedisce all’uomo di considerarsi egli stesso perfetto.
La credenza in Dio è un passo successivo: se l’uomo riconosce il proprio limite ontologico, la propria ferita strutturale (che può essere successiva a una “caduta”, come insegna appunto il cristianesimo, oppure originaria nel senso più completo), allora è possibile che egli si rivolga all’Essere da cui deriva e in cui non può esservi limite né imperfezione; se non lo riconosce, allora non riconoscerà nulla di più grande ed egli stesso sarà tentato di farsi Dio.
Dunque: noi crediamo che la natura umana sia ferita; che abbia smarrito il senso della perfezione, ossia della totalità; che non sia in grado, con le sole proprie forze, di sanare tale ferita e di tornare «a riveder le stelle», ossia a contemplare il proprio Cielo così come, forse, era in condizioni di fare prima dell’evento della “caduta”.
Di conseguenza, sarebbe assurdo pretendere che l’altro essere umano non ci deluda mai, non si mostri mai impari alle nostre aspettative: anche se tali aspettative non fossero sovente, come sono, sproporzionate e anche se noi fossimo in grado di giudicare obiettivamente le persone alle quali desideriamo aprire il nostro cuore.
A questo punto entra in gioco un concetto nuovo, quello del perdono: perché è impossibile continuare a vivere, dopo aver sopportato ripetute delusioni (e tutti, prima o poi, ne facciamo l’esperienza), senza maturare la capacità di perdonare coloro che ci hanno deluso e ferito e, prima ancora, senza la capacità di perdonare noi stessi, che ci siamo messi nelle condizioni di venire delusi e feriti così profondamente.
Infatti, a ben guardare, molto spesso l’incapacità di perdonare gli altri deriva dalla incapacità di perdonare se stessi: sono ben pochi coloro i quali, dopo aver vissuto una grossa delusione sul piano della fiducia verso il prossimo, non finiscano per incolpare se stessi, magari in maniera inconsapevole e, quindi, tanto più rabbiosa e disperata, in quanto la loro sofferenza non trova lo spazio per acquistare consapevolezza di sé e liberarsi.
Ad esempio, l’anziano che è stato raggirato da un truffatore senza scrupoli e gli ha ceduto, con un atto di fiducia sconsiderata, tutti i suoi risparmi, non soffre solo per la perdita economica, ma anche per il senso di colpa e di vergogna dovuto al proprio comportamento ingenuo e sommamente credulo. Ebbene, un meccanismo perfettamente analogo avviene in tutte le circostanze che vedano in gioco l’esperienza della fiducia tradita, anche e soprattutto quando si tratti di una esperienza di tipo affettivo e sentimentale.
L’amante abbandonato si sente in colpa con se stesso (o con se stessa), sia per aver creduto alle ingannevoli parole d’amore, sia per non essere stato capace di ispirare un sentimento autentico da parte dell’altro. Di conseguenza, si sente un fallito (o una fallita) come persona e non semplicemente un essere umano che è incorso in un infortunio; si sente spogliato di ogni fiducia in se stesso, anche se spesso adotta strategie reattive che non lo lascerebbero minimamente immaginare, proprio per cercare di nascondere le tracce del proprio fallimento.
Basterebbe già solo questo per darci un’idea dell’immenso, tortuosissimo groviglio di sotterranee aspettative che noi ci portiamo dietro allorché instauriamo dei rapporti col prossimo, per metterci in guardia circa il fatto di saper giudicare rettamente sia coloro dei quali intendiamo fidarci, sia la nostra stessa delusione, allorché ci sentiamo traditi da loro.
In conclusione, il rimedio migliore contro le ferite della delusione è, da un lato, essere sempre consapevoli della fondamentale debolezza umana; dall’altro, imparare a perdonare sia le altrui debolezze, che le nostre.
L’importante è essere limpidi e onesti: con se stessi in primo luogo, indi con gli altri.
Se esiste questa condizione, non c’è ferita che non si possa sanare e non c’è offesa che non si possa, eventualmente, perdonare, per continuare a guardare avanti sulle strade della vita.
di Francesco Lamendola

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