24 settembre 2010

"Sorpasso storico" Il fotovoltaico batte il nucleare in termini di costi

Quello che fino a qualche tempo fa poteva essere semplicemente un sospetto o un desiderio diventa oggi una consolidata realtà, almeno per quanto attiene uno studio proveniente dagli USA, della Duke University che, in base a tecniche di comparazione su costi e produzione, ha decretato che si è oramai sancito quello che gli addetti al settore hanno già definito un vero e proprio “sorpasso storico”.

La notizia difatti sembra essere la prova oggettiva tanto attesa da chi, come Fare Verde, ha sempre sostenuto la produzione di energia tramite l’ausilio di fonti energetiche rinnovabili.

Il dato è confermato quindi: l’energiasolare costa meno di quella nucleare!

Difatti se si conduce un’attenta analisi sui costi di produzione del fotovoltaico comparandoli con quelli derivanti dall’utilizzo delle centrali nucleari programmate nel paese, il dato emerge con netta chiarezza, Il solare fotovoltaico ha conquistato una vera e propria posizione di spicco tra le varie alternative, superando perfino il nucleare!

A divulgare la notizia John Blackburn,un docente di economia dell’università, che ha riportato i risultati raggiunti tramite la propria ricerca, all‘interno dell‘articolo “Solar and Nuclear Costs – The Historic Crossover”(http://www.ncwarn.org/?p=2290)

A quanto pare in termini monetari il solare ha raggiunto addirittura i 16 centesimi di dollaro akilowattora.

Una progressiva e costante riduzione dei costi in meno di otto anni a dispetto di quelli impiegati perportare avanti i reattori nucleari che, invece, hanno subito un incremento passando da 2 miliardi di dollari nel 2002 a 10 nel 2010.

Un vero e proprio smacco per l’Italia, che testardamente continua ad investire nella parte sbagliata.

Si segnala inoltre, un altro importantestudio che va a sottolineare l'inversione di tendenza e la fiduciadimostrata dai grandi e piccoli investimenti nel comparto delleenergie rinnovabili a discapito delle energie tradizionali.

A rilevare l’ottimo andamento del mercato delle energie pulite è lo Iefe, l’Istituto di economia e politica dell’energia e dell’ambiente dell’Università Bocconi,che ieri, lunedì 20 settembre, ha presentato nell’ateneo milanese il rapporto "Investimenti all’estero in energie rinnovabili e ruolo delle politiche pubbliche", condotto in collaborazione con Ernst &Young. Secondo il report nel 2009, per il secondo anno consecutivo, i nuovi investimenti nel mondo (163 miliardi di dollari) hanno superato quelli nelle energie tradizionali portando le rinnovabili a coprire il 25% della generazione elettrica mondiale.

di Di Maio Massimo

23 settembre 2010

Profumo: puzza di bruciato e spartizione delle banche



L’antefatto è notissimo: le dimissioni del top manager bancario Alessandro Profumo dalla carica di Ad di Unicredit, carica che occupava se ben ricordo dal lontano 1998, frutto di un’affermazione personale progressiva, dopo la rapida scalata in Credito Italiano avvenuta negli anni novanta.
Alessandro Profumo sembra essere un self made man inserito non in un American Dream, ma in più modesto Italian Dream, che da giovanetto è partito come impiegato al Banco Lariano, in posizione umile, lavorando durante il giorno allo sportello e la sera “studiando alla candela” per una laurea alla prestigiosa Bocconi.

Poi è “cresciuto”, naturalmente in termini aziendalistici di affermazione personale e di scalata, entrando in McKinsey e successivamente in RAS.


Certo non è uno degli squali finanziari peggiori, ma è comunque un Top Manager, un Banchiere contemporaneo, uno che cura gli impietosi interessi degli Investitori, oltre che i suoi personali, e quindi per tutti noi non può che rappresentare un nemico.

Volendo fare un po’ di chiarezza nell’intricata vicenda del repentino “siluramento” di Profumo, senza troppe pretese di scoprire verità assolute o segreti inquietanti, è bene porsi alcune domande.

Normale avvicendamento al vertice di una delle due più grandi banche della penisola?


E’ l’ipotesi meno probabile, anche se Mercati ed Investitori talora esigono sacrifici umani fra gli stessi VIP che ne curano gli interessi, per spingere l’acceleratore sul valore creato e sul profitto.
Non dovrebbe essere questo il caso di Profumo, definibile come un banchiere con tendenze “globali”, ben attento al dividendo da distribuire alla Sovrana Proprietà ed ai Rentiers, orientato verso le grandi acquisizioni [l’HVB tedesca e Capitalia, ad esempio] e il superamento degli angusti confini nazionali.

Esito di una lotta ai coltelli per il controllo di pezzi importanti del sistema bancario nazionale?


Il Profumo di turno ha votato alle primarie del Pd e in qualche modo appartiene a questa trista fazione della politica sistemica, non potendo escludere, nonostante si sia parlato spesso di lui come di un manager “distante” dalla politica, una sua prossima “discesa in campo”
Alessandro come prossimo anti-Silvio?
C’è chi lo vede come il possibile, futuro, “Papa straniero” nel Pd, il quale dovrebbe risolvere i problemi di questo cartello elettorale che sembra molto vicino allo sfaldamento.
Ma i giochi sono complessi più di quanto può sembrare, e l’intricata jungla pidiina, infestata di nomenklature postcomuniste e postdemocristiane in reciproca lotta, prive di qualsivoglia programma ma affamate di posti di potere, è forse un po’ troppo anche per un “collaudato” manager come Profumo, per anni al vertice di un organismo finanziario sempre più multinazionale, che vanta oltre 10.000 filiali in 22 paesi [http://www.unicreditgroup.eu/it/About_us/About_us.htm].
Inoltre, una liquidazione di ben 40 milioni di euro – autentica buonuscita da manager globalista di media tacca – potrebbe suscitare qualche piccola discussione, anche se la cosa non dovrebbe avere troppo peso all’interno della cinica burocrazia pidiina, la quale ha da tempo [e volentieri] rinunciato alla battaglia per la giustizia sociale e la difesa dei subalterni impoveriti, schierandosi apertamente sul fronte opposto.
Dall’altra parte della politica sistemica, è fin troppo chiaro che l’interesse di un Berlusconi in difficoltà, in vistoso calo di consensi nei sondaggi – il quale si è finalmente accorto, seppur in ritardo, che la truffa del berlusconismo è ormai scoperta – è proprio quello di controllare quanti più organismi possibili [bancari e non] per mantenersi ancora in sella a qualsiasi costo, e di metterci ai vertici suoi burattini, o comunque personaggi non potenzialmente ostili al suo gruppo di potere e alle politiche, talora feudali, localistiche e regionaliste, che questo esprime, complici le pressioni [e i molti casi i diktat] di una Lega sempre più determinante.
Da più parti si ricorda che Alessandro Profumo intendeva fare di Unicredit una vera e propria “banca globale”, confliggendo con tutta una serie di interessi consolidati proprio all’interno del gruppo, non di rado di natura localistica/ regionalista.

C’è di mezzo il solito Gheddafi con i cospicui capitali libici da investire in “paesi amici”?


Anche, ma forse non è la ragione principale del “siluramento” di Profumo, pur potendo avere qualche peso nella complessa vicenda che ha indotto il consiglio di amministrazione della banca a sfiduciare il brillante manager, dando mandato al presidente Dieter Rampl di “trattare la resa” con il manager e attribuendogli temporaneamente le deleghe dell’Ad.
In effetti, la banca centrale libica ha un suo alto rappresentate in Unicredit ed una cospicua partecipazione nell’istituto, tendenzialmente in crescita. E’ possibile che nel contrasto fra l’Ad “storico” di Unicredit e i soci, più della controversa questione della “penetrazione libica”, pesi la questione delle Fondazioni, principali azioniste della banca, ormai nemiche giurate del Profumo con aspirazioni “globali”, tendente alla banca unitaria che parla fluentemente inglese e che non dovrebbe piacere molto alle Fondazioni stesse.

Quanto conta in questa vicenda la Lega, che preme da buon parvenu per un suo feudo bancario?


La Lega si è finalmente integrata in “Roma ladrona” – non più tanto sputtanata, se non per tener buoni i bruti nelle sagre padane – ed aspira ad avere un suo peso nelle banche, anzi, vorrebbe una banca importante e “tutta sua”, come la volevano non troppo tempo fa [2005] i capi diessini Fassino, i D’Alema, i La Torre intercettati telefonicamente, che facevano il tifo per l’intraprendente Unipol di Gianni Consorte [al quale D’Alema disse telefonicamente “facci sognare”].

Come i politici diessini di allora[non c’era ancora il Pd], che in pieno 2005 volevano una banca tutta loro a costo di andare a braccetto con i “furbetti del quartierino”, anche i leghisti che ormai fanno parte a tutti gli effetti del sistema della piccola politica corrotta e cialtrona, aspirano ad entrare nei salotti buoni finanziari, pur a livello locale, non potendo puntare più in alto, ad esempio a JP Morgan Chase/ Chase Manhattan Bank, alle guglie più alte del capitalismo contemporaneo finanziarizzato, come farebbero i tutti gli strateghi globalisti che si rispettano …
E’ chiaro che la Lega deve accontentarsi di ciò “che passa il convento”, essendo il sistema bancario italiano piuttosto provinciale, ancora in parte protetto e “riserva di caccia” per cordate indigene politico-economiche, nonché giudicato un po’ “asfittico” e arretrato rispetto ai brillanti attori finanziari occidentali del collasso “sub-prime” e della più folle finanza creativa.

La Lega giustifica i suoi appetiti in campo bancario, le sue pulsioni acquisitive, con la necessità di concedere credito alla PMI del nord in agonia, soffocata dal credit crunch e bisognosa di supporto finanziario per poter sperare di sopravvivere ancora un po’, ed in effetti è in parte vero, perché si tratta di una fetta importante del suo elettorato tipico, che deve essere preservata per poter continuare la scalata al potere.
La Lega, inoltre, oltre alla naturale avversione per la penetrazione dei capitali libici nel sistema bancario italiano, ha mostrato di essere contraria alla visione politico-strategica di Profumo, un po’ troppo globalista/ mondialista per gli xenofobi-regionalisti padani, ben arroccati nei loro feudi, influenti nella Fondazione Cariverona che partecipa al capitale del gruppo, nonché pilastro principale del IV esecutivo Berlusconi.
In conclusione, tanti sono gli attori della partita per il controllo di Unicredit, dalle Fondazioni ai libici [i cui interessi sembrano divergenti], dalla Lega a Berlusconi [i cui interessi non sempre sono coincidenti], trattandosi di almeno tre o quattro parti in lizza per determinare il futuro della banca, ma ciò che emerge è che sia le Fondazioni sia la Lega, incatenando il gruppo bancario ai feudi sul territorio, respingendo la visione un po’ ”globalista” dell’estromesso Profumo, oggettivamente ed occasionalmente incarnano la resistenza locale/ regionale all’avanzare inesorabile della globalizzazione finanziaria, che prima o poi dovrà investire in pieno anche il sistema bancario italiano, per ora ancora soggetto ai giochi di potere interni.

Più che Profumo, c’è un po’ di puzza di bruciato nella complessa vicenda, che è tuttora in sviluppo non essendoci ancora il successore dell’Ad costretto alle dimissioni, il quale dovrà essere formalmente nominato dal presidente Rampl scegliendo in una ristretta rosa di nomi. La partita è quindi aperta, e se provvisoriamente la vittoria può essere assegnata alle Fondazioni bancarie e alla Lega bossiana, alleati nei fatti contro Profumo, nessuno può escludere colpi di scena futuri.

Ad infima!


di Eugenio Orso




22 settembre 2010

Il sogno americano diventa un incubo



I nuovi dati resi noti qualche giorno fa dall’Ufficio del Censimento degli Stati Uniti, rivelano il durissimo impatto sulla popolazione americana della recessione iniziata nell’autunno del 2008. I numeri ufficiali, pur sottovalutando gli effetti della crisi sulla classe media e i lavoratori d’oltreoceano, evidenziano sia un drammatico aumento del livello di povertà nel paese teoricamente più ricco del pianeta, sia il sostanziale fallimento dell’amministrazione Obama in ambito economico a quasi due anni dal cambio della guardia alla Casa Bianca.

A livello generale, il numero degli americani costretti a vivere al di sotto della soglia ufficiale di povertà, così come definita dal governo, nel 2009 è salito a 43,6 milioni, con un incremento di 3,8 milioni rispetto al 2008. Tale numero è il più alto mai registrato dal “Census Bureau” da quando iniziò a raccogliere i dati mezzo secolo fa. In termini percentuali si è passati dal 13,2 per cento del 2008 al 14,3 per cento dello scorso anno, cioè il tasso più elevato dal 1994.

Le conseguenze della situazione economica negli USA hanno prodotto nel paese una situazione non troppo differente da quella che aveva spinto il presidente Lyndon Johnson a lanciare la cosiddetta “Guerra alla Povertà” nella prima metà degli anni Sessanta e che aveva portato all’approvazione, tra l’altro, dell’Economic Opportunity Act e del Social Security Act, rispettivamente nel 1964 e 1965. Oggi come allora, il numero delle famiglie ridotte in povertà sfiora i nove milioni.

Come prevedibile, gli effetti più pesanti riguardano la popolazione adulta in età lavorativa e soprattutto i bambini. Tra i minori, la percentuale di povertà tra il 2008 e il 2009 è passata dal 19,4 al 20,7. Una realtà che appare il risultato di una risposa alla crisi che - con il pieno appoggio del governo democratico - ha prodotto licenziamenti di massa e drastici ridimensionamenti delle retribuzioni dei lavoratori americani. Meno peggio, relativamente, è andata invece per la popolazione anziana, protetta dalla sia pur debole rete assistenziale pubblica, la cui percentuale al di sotto della soglia di povertà è scesa dal 9,7 all’8,9.

L’incidenza della recessione più grave dagli anni Trenta del secolo scorso è risultata poi peggiore per le minoranze etniche. Se pressoché ogni gruppo razziale è stato colpito duramente, a pagare il prezzo più caro sono stati neri e ispanici. Mentre per la popolazione bianca la percentuale di persone sotto la soglia di povertà è salita al 9,4 nel 2009, per i neri è stata del 25,8 e del 25,3 per gli ispanici.

La perdita di milioni di posti di lavoro si è inoltre tradotta per molti nella perdita della copertura sanitaria, dal momento che quest’ultima negli Stati Uniti è in gran parte garantita dai contratti di impiego. Nell’anno in cui era arrivata la prima approvazione della cosiddetta riforma sanitaria del presidente Obama, il numero di americani sprovvisti di qualsiasi copertura ha sfondato il tetto dei 50 milioni (16,7 per cento) per la prima volta dal 1987. Nel 2008 i non assicurati erano 46,3 milioni, pari al 15,4 per cento della popolazione.

Scorrendo i dati dell’Ufficio del Censimento si scorgono numerosi altri segnali della profondissima crisi sociale in cui versano gli Stati Uniti. Oltre al declino del livello medio dei redditi, è evidente l’incapacità del governo di garantire una redistribuzione della ricchezza in un frangente nel quale più se ne sarebbe sentita la necessità. Al contrario, nel 2009 il venti per cento della popolazione ha guadagnato oltre la metà del reddito complessivo, mentre addirittura il cinque per cento ha avuto quasi il 22 per cento del totale.

Se già questi numeri bastano a disegnare un quadro drammatico, a ciò vanno aggiunti quei milioni di americani che non rientrano nella categoria di poveri solo per le cifre governative. La soglia ufficiale di povertà è fissata ad un reddito annuale di 22.050 dollari per una famiglia di quattro persone e di 10.830 dollari per un adulto single. Queste cifre, che già di per sé non garantiscono un livello di vita decente, non sono oltretutto aggiustate su base geografica, giacchè il costo della vita, ad esempio, nelle grandi città è di gran lunga superiore a quello delle aree rurali e i parametri si basano su parametri e necessità vecchi di cinquant’anni.

Il quadro è destinato poi a deteriorarsi nei prossimi mesi. Già a fine anno si esauriranno infatti i sussidi di disoccupazione di cui godono circa tre milioni di americani e la cui più recente proroga era stata approvata dal Congresso a grande fatica. Non molto più rosee sono anche le prospettive a medio termine. Il modello economico lungo il quale si sono incamminati gli Stati Uniti – e non solo – secondo una previsione del think tank “Brookings Institution” spingerà altri dieci milioni di americani al di sotto della soglia di povertà ufficiale entro la metà del decennio.

La pubblicazione del rapporto dell’Ufficio del Censimento è stato accolto con una sostanziale indifferenza da un Barack Obama impegnato ad incontrare i vertici di alcune delle più influenti corporation statunitensi. In una nota formale la Casa Bianca si è limitata a ricordare i presunti benefici del proprio pacchetto di stimolo all’economia approvato a inizio 2009 che avrebbe evitato una situazione ancora peggiore. Una consolazione molto modesta per quei milioni di americani che hanno perso il lavoro, la casa o la copertura sanitaria.

Per quanto modesti, gli effetti del momentaneo allargamento dei cordoni della spesa pubblica in questo biennio si assottiglieranno ulteriormente il prossimo anno, quando le nuove cifre sulla povertà negli USA riveleranno verosimilmente una realtà ancora più pesante. Le prossime statistiche, infatti, mostreranno tutte le conseguenze degli aumenti delle spese sanitarie e dei servizi pubblici, il cui impatto sta già facendo sprofondare nell’indigenza un numero sempre più elevato di cittadini abbandonati a loro stessi da un sistema politico in grado di rispondere esclusivamente ai grandi interessi economici e finanziari americani.

di Michele Paris

24 settembre 2010

"Sorpasso storico" Il fotovoltaico batte il nucleare in termini di costi

Quello che fino a qualche tempo fa poteva essere semplicemente un sospetto o un desiderio diventa oggi una consolidata realtà, almeno per quanto attiene uno studio proveniente dagli USA, della Duke University che, in base a tecniche di comparazione su costi e produzione, ha decretato che si è oramai sancito quello che gli addetti al settore hanno già definito un vero e proprio “sorpasso storico”.

La notizia difatti sembra essere la prova oggettiva tanto attesa da chi, come Fare Verde, ha sempre sostenuto la produzione di energia tramite l’ausilio di fonti energetiche rinnovabili.

Il dato è confermato quindi: l’energiasolare costa meno di quella nucleare!

Difatti se si conduce un’attenta analisi sui costi di produzione del fotovoltaico comparandoli con quelli derivanti dall’utilizzo delle centrali nucleari programmate nel paese, il dato emerge con netta chiarezza, Il solare fotovoltaico ha conquistato una vera e propria posizione di spicco tra le varie alternative, superando perfino il nucleare!

A divulgare la notizia John Blackburn,un docente di economia dell’università, che ha riportato i risultati raggiunti tramite la propria ricerca, all‘interno dell‘articolo “Solar and Nuclear Costs – The Historic Crossover”(http://www.ncwarn.org/?p=2290)

A quanto pare in termini monetari il solare ha raggiunto addirittura i 16 centesimi di dollaro akilowattora.

Una progressiva e costante riduzione dei costi in meno di otto anni a dispetto di quelli impiegati perportare avanti i reattori nucleari che, invece, hanno subito un incremento passando da 2 miliardi di dollari nel 2002 a 10 nel 2010.

Un vero e proprio smacco per l’Italia, che testardamente continua ad investire nella parte sbagliata.

Si segnala inoltre, un altro importantestudio che va a sottolineare l'inversione di tendenza e la fiduciadimostrata dai grandi e piccoli investimenti nel comparto delleenergie rinnovabili a discapito delle energie tradizionali.

A rilevare l’ottimo andamento del mercato delle energie pulite è lo Iefe, l’Istituto di economia e politica dell’energia e dell’ambiente dell’Università Bocconi,che ieri, lunedì 20 settembre, ha presentato nell’ateneo milanese il rapporto "Investimenti all’estero in energie rinnovabili e ruolo delle politiche pubbliche", condotto in collaborazione con Ernst &Young. Secondo il report nel 2009, per il secondo anno consecutivo, i nuovi investimenti nel mondo (163 miliardi di dollari) hanno superato quelli nelle energie tradizionali portando le rinnovabili a coprire il 25% della generazione elettrica mondiale.

di Di Maio Massimo

23 settembre 2010

Profumo: puzza di bruciato e spartizione delle banche



L’antefatto è notissimo: le dimissioni del top manager bancario Alessandro Profumo dalla carica di Ad di Unicredit, carica che occupava se ben ricordo dal lontano 1998, frutto di un’affermazione personale progressiva, dopo la rapida scalata in Credito Italiano avvenuta negli anni novanta.
Alessandro Profumo sembra essere un self made man inserito non in un American Dream, ma in più modesto Italian Dream, che da giovanetto è partito come impiegato al Banco Lariano, in posizione umile, lavorando durante il giorno allo sportello e la sera “studiando alla candela” per una laurea alla prestigiosa Bocconi.

Poi è “cresciuto”, naturalmente in termini aziendalistici di affermazione personale e di scalata, entrando in McKinsey e successivamente in RAS.


Certo non è uno degli squali finanziari peggiori, ma è comunque un Top Manager, un Banchiere contemporaneo, uno che cura gli impietosi interessi degli Investitori, oltre che i suoi personali, e quindi per tutti noi non può che rappresentare un nemico.

Volendo fare un po’ di chiarezza nell’intricata vicenda del repentino “siluramento” di Profumo, senza troppe pretese di scoprire verità assolute o segreti inquietanti, è bene porsi alcune domande.

Normale avvicendamento al vertice di una delle due più grandi banche della penisola?


E’ l’ipotesi meno probabile, anche se Mercati ed Investitori talora esigono sacrifici umani fra gli stessi VIP che ne curano gli interessi, per spingere l’acceleratore sul valore creato e sul profitto.
Non dovrebbe essere questo il caso di Profumo, definibile come un banchiere con tendenze “globali”, ben attento al dividendo da distribuire alla Sovrana Proprietà ed ai Rentiers, orientato verso le grandi acquisizioni [l’HVB tedesca e Capitalia, ad esempio] e il superamento degli angusti confini nazionali.

Esito di una lotta ai coltelli per il controllo di pezzi importanti del sistema bancario nazionale?


Il Profumo di turno ha votato alle primarie del Pd e in qualche modo appartiene a questa trista fazione della politica sistemica, non potendo escludere, nonostante si sia parlato spesso di lui come di un manager “distante” dalla politica, una sua prossima “discesa in campo”
Alessandro come prossimo anti-Silvio?
C’è chi lo vede come il possibile, futuro, “Papa straniero” nel Pd, il quale dovrebbe risolvere i problemi di questo cartello elettorale che sembra molto vicino allo sfaldamento.
Ma i giochi sono complessi più di quanto può sembrare, e l’intricata jungla pidiina, infestata di nomenklature postcomuniste e postdemocristiane in reciproca lotta, prive di qualsivoglia programma ma affamate di posti di potere, è forse un po’ troppo anche per un “collaudato” manager come Profumo, per anni al vertice di un organismo finanziario sempre più multinazionale, che vanta oltre 10.000 filiali in 22 paesi [http://www.unicreditgroup.eu/it/About_us/About_us.htm].
Inoltre, una liquidazione di ben 40 milioni di euro – autentica buonuscita da manager globalista di media tacca – potrebbe suscitare qualche piccola discussione, anche se la cosa non dovrebbe avere troppo peso all’interno della cinica burocrazia pidiina, la quale ha da tempo [e volentieri] rinunciato alla battaglia per la giustizia sociale e la difesa dei subalterni impoveriti, schierandosi apertamente sul fronte opposto.
Dall’altra parte della politica sistemica, è fin troppo chiaro che l’interesse di un Berlusconi in difficoltà, in vistoso calo di consensi nei sondaggi – il quale si è finalmente accorto, seppur in ritardo, che la truffa del berlusconismo è ormai scoperta – è proprio quello di controllare quanti più organismi possibili [bancari e non] per mantenersi ancora in sella a qualsiasi costo, e di metterci ai vertici suoi burattini, o comunque personaggi non potenzialmente ostili al suo gruppo di potere e alle politiche, talora feudali, localistiche e regionaliste, che questo esprime, complici le pressioni [e i molti casi i diktat] di una Lega sempre più determinante.
Da più parti si ricorda che Alessandro Profumo intendeva fare di Unicredit una vera e propria “banca globale”, confliggendo con tutta una serie di interessi consolidati proprio all’interno del gruppo, non di rado di natura localistica/ regionalista.

C’è di mezzo il solito Gheddafi con i cospicui capitali libici da investire in “paesi amici”?


Anche, ma forse non è la ragione principale del “siluramento” di Profumo, pur potendo avere qualche peso nella complessa vicenda che ha indotto il consiglio di amministrazione della banca a sfiduciare il brillante manager, dando mandato al presidente Dieter Rampl di “trattare la resa” con il manager e attribuendogli temporaneamente le deleghe dell’Ad.
In effetti, la banca centrale libica ha un suo alto rappresentate in Unicredit ed una cospicua partecipazione nell’istituto, tendenzialmente in crescita. E’ possibile che nel contrasto fra l’Ad “storico” di Unicredit e i soci, più della controversa questione della “penetrazione libica”, pesi la questione delle Fondazioni, principali azioniste della banca, ormai nemiche giurate del Profumo con aspirazioni “globali”, tendente alla banca unitaria che parla fluentemente inglese e che non dovrebbe piacere molto alle Fondazioni stesse.

Quanto conta in questa vicenda la Lega, che preme da buon parvenu per un suo feudo bancario?


La Lega si è finalmente integrata in “Roma ladrona” – non più tanto sputtanata, se non per tener buoni i bruti nelle sagre padane – ed aspira ad avere un suo peso nelle banche, anzi, vorrebbe una banca importante e “tutta sua”, come la volevano non troppo tempo fa [2005] i capi diessini Fassino, i D’Alema, i La Torre intercettati telefonicamente, che facevano il tifo per l’intraprendente Unipol di Gianni Consorte [al quale D’Alema disse telefonicamente “facci sognare”].

Come i politici diessini di allora[non c’era ancora il Pd], che in pieno 2005 volevano una banca tutta loro a costo di andare a braccetto con i “furbetti del quartierino”, anche i leghisti che ormai fanno parte a tutti gli effetti del sistema della piccola politica corrotta e cialtrona, aspirano ad entrare nei salotti buoni finanziari, pur a livello locale, non potendo puntare più in alto, ad esempio a JP Morgan Chase/ Chase Manhattan Bank, alle guglie più alte del capitalismo contemporaneo finanziarizzato, come farebbero i tutti gli strateghi globalisti che si rispettano …
E’ chiaro che la Lega deve accontentarsi di ciò “che passa il convento”, essendo il sistema bancario italiano piuttosto provinciale, ancora in parte protetto e “riserva di caccia” per cordate indigene politico-economiche, nonché giudicato un po’ “asfittico” e arretrato rispetto ai brillanti attori finanziari occidentali del collasso “sub-prime” e della più folle finanza creativa.

La Lega giustifica i suoi appetiti in campo bancario, le sue pulsioni acquisitive, con la necessità di concedere credito alla PMI del nord in agonia, soffocata dal credit crunch e bisognosa di supporto finanziario per poter sperare di sopravvivere ancora un po’, ed in effetti è in parte vero, perché si tratta di una fetta importante del suo elettorato tipico, che deve essere preservata per poter continuare la scalata al potere.
La Lega, inoltre, oltre alla naturale avversione per la penetrazione dei capitali libici nel sistema bancario italiano, ha mostrato di essere contraria alla visione politico-strategica di Profumo, un po’ troppo globalista/ mondialista per gli xenofobi-regionalisti padani, ben arroccati nei loro feudi, influenti nella Fondazione Cariverona che partecipa al capitale del gruppo, nonché pilastro principale del IV esecutivo Berlusconi.
In conclusione, tanti sono gli attori della partita per il controllo di Unicredit, dalle Fondazioni ai libici [i cui interessi sembrano divergenti], dalla Lega a Berlusconi [i cui interessi non sempre sono coincidenti], trattandosi di almeno tre o quattro parti in lizza per determinare il futuro della banca, ma ciò che emerge è che sia le Fondazioni sia la Lega, incatenando il gruppo bancario ai feudi sul territorio, respingendo la visione un po’ ”globalista” dell’estromesso Profumo, oggettivamente ed occasionalmente incarnano la resistenza locale/ regionale all’avanzare inesorabile della globalizzazione finanziaria, che prima o poi dovrà investire in pieno anche il sistema bancario italiano, per ora ancora soggetto ai giochi di potere interni.

Più che Profumo, c’è un po’ di puzza di bruciato nella complessa vicenda, che è tuttora in sviluppo non essendoci ancora il successore dell’Ad costretto alle dimissioni, il quale dovrà essere formalmente nominato dal presidente Rampl scegliendo in una ristretta rosa di nomi. La partita è quindi aperta, e se provvisoriamente la vittoria può essere assegnata alle Fondazioni bancarie e alla Lega bossiana, alleati nei fatti contro Profumo, nessuno può escludere colpi di scena futuri.

Ad infima!


di Eugenio Orso




22 settembre 2010

Il sogno americano diventa un incubo



I nuovi dati resi noti qualche giorno fa dall’Ufficio del Censimento degli Stati Uniti, rivelano il durissimo impatto sulla popolazione americana della recessione iniziata nell’autunno del 2008. I numeri ufficiali, pur sottovalutando gli effetti della crisi sulla classe media e i lavoratori d’oltreoceano, evidenziano sia un drammatico aumento del livello di povertà nel paese teoricamente più ricco del pianeta, sia il sostanziale fallimento dell’amministrazione Obama in ambito economico a quasi due anni dal cambio della guardia alla Casa Bianca.

A livello generale, il numero degli americani costretti a vivere al di sotto della soglia ufficiale di povertà, così come definita dal governo, nel 2009 è salito a 43,6 milioni, con un incremento di 3,8 milioni rispetto al 2008. Tale numero è il più alto mai registrato dal “Census Bureau” da quando iniziò a raccogliere i dati mezzo secolo fa. In termini percentuali si è passati dal 13,2 per cento del 2008 al 14,3 per cento dello scorso anno, cioè il tasso più elevato dal 1994.

Le conseguenze della situazione economica negli USA hanno prodotto nel paese una situazione non troppo differente da quella che aveva spinto il presidente Lyndon Johnson a lanciare la cosiddetta “Guerra alla Povertà” nella prima metà degli anni Sessanta e che aveva portato all’approvazione, tra l’altro, dell’Economic Opportunity Act e del Social Security Act, rispettivamente nel 1964 e 1965. Oggi come allora, il numero delle famiglie ridotte in povertà sfiora i nove milioni.

Come prevedibile, gli effetti più pesanti riguardano la popolazione adulta in età lavorativa e soprattutto i bambini. Tra i minori, la percentuale di povertà tra il 2008 e il 2009 è passata dal 19,4 al 20,7. Una realtà che appare il risultato di una risposa alla crisi che - con il pieno appoggio del governo democratico - ha prodotto licenziamenti di massa e drastici ridimensionamenti delle retribuzioni dei lavoratori americani. Meno peggio, relativamente, è andata invece per la popolazione anziana, protetta dalla sia pur debole rete assistenziale pubblica, la cui percentuale al di sotto della soglia di povertà è scesa dal 9,7 all’8,9.

L’incidenza della recessione più grave dagli anni Trenta del secolo scorso è risultata poi peggiore per le minoranze etniche. Se pressoché ogni gruppo razziale è stato colpito duramente, a pagare il prezzo più caro sono stati neri e ispanici. Mentre per la popolazione bianca la percentuale di persone sotto la soglia di povertà è salita al 9,4 nel 2009, per i neri è stata del 25,8 e del 25,3 per gli ispanici.

La perdita di milioni di posti di lavoro si è inoltre tradotta per molti nella perdita della copertura sanitaria, dal momento che quest’ultima negli Stati Uniti è in gran parte garantita dai contratti di impiego. Nell’anno in cui era arrivata la prima approvazione della cosiddetta riforma sanitaria del presidente Obama, il numero di americani sprovvisti di qualsiasi copertura ha sfondato il tetto dei 50 milioni (16,7 per cento) per la prima volta dal 1987. Nel 2008 i non assicurati erano 46,3 milioni, pari al 15,4 per cento della popolazione.

Scorrendo i dati dell’Ufficio del Censimento si scorgono numerosi altri segnali della profondissima crisi sociale in cui versano gli Stati Uniti. Oltre al declino del livello medio dei redditi, è evidente l’incapacità del governo di garantire una redistribuzione della ricchezza in un frangente nel quale più se ne sarebbe sentita la necessità. Al contrario, nel 2009 il venti per cento della popolazione ha guadagnato oltre la metà del reddito complessivo, mentre addirittura il cinque per cento ha avuto quasi il 22 per cento del totale.

Se già questi numeri bastano a disegnare un quadro drammatico, a ciò vanno aggiunti quei milioni di americani che non rientrano nella categoria di poveri solo per le cifre governative. La soglia ufficiale di povertà è fissata ad un reddito annuale di 22.050 dollari per una famiglia di quattro persone e di 10.830 dollari per un adulto single. Queste cifre, che già di per sé non garantiscono un livello di vita decente, non sono oltretutto aggiustate su base geografica, giacchè il costo della vita, ad esempio, nelle grandi città è di gran lunga superiore a quello delle aree rurali e i parametri si basano su parametri e necessità vecchi di cinquant’anni.

Il quadro è destinato poi a deteriorarsi nei prossimi mesi. Già a fine anno si esauriranno infatti i sussidi di disoccupazione di cui godono circa tre milioni di americani e la cui più recente proroga era stata approvata dal Congresso a grande fatica. Non molto più rosee sono anche le prospettive a medio termine. Il modello economico lungo il quale si sono incamminati gli Stati Uniti – e non solo – secondo una previsione del think tank “Brookings Institution” spingerà altri dieci milioni di americani al di sotto della soglia di povertà ufficiale entro la metà del decennio.

La pubblicazione del rapporto dell’Ufficio del Censimento è stato accolto con una sostanziale indifferenza da un Barack Obama impegnato ad incontrare i vertici di alcune delle più influenti corporation statunitensi. In una nota formale la Casa Bianca si è limitata a ricordare i presunti benefici del proprio pacchetto di stimolo all’economia approvato a inizio 2009 che avrebbe evitato una situazione ancora peggiore. Una consolazione molto modesta per quei milioni di americani che hanno perso il lavoro, la casa o la copertura sanitaria.

Per quanto modesti, gli effetti del momentaneo allargamento dei cordoni della spesa pubblica in questo biennio si assottiglieranno ulteriormente il prossimo anno, quando le nuove cifre sulla povertà negli USA riveleranno verosimilmente una realtà ancora più pesante. Le prossime statistiche, infatti, mostreranno tutte le conseguenze degli aumenti delle spese sanitarie e dei servizi pubblici, il cui impatto sta già facendo sprofondare nell’indigenza un numero sempre più elevato di cittadini abbandonati a loro stessi da un sistema politico in grado di rispondere esclusivamente ai grandi interessi economici e finanziari americani.

di Michele Paris