19 dicembre 2010

Neurolandia




http://profile.ak.fbcdn.net/hprofile-ak-snc4/hs458.snc4/50553_116118675092128_1410_n.jpg

Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna ormai stanno diventando il leitmotiv delle riflessioni delle comunità finanziarie internazionali, come se l'unica preoccupazione su cui ci dovremmo soffermare fosse la tenuta nel breve dei conti pubblici di questi paesi. Il cosa scegliere ed il dove posizionarsi a livello di investimento è stato da me ampiamente trattato in svariate occasioni e contesti mediatici, tuttavia l'interrogativo principe cui ci dovremmo porre in questo momento non è se il tal titolo di stato è a rischio default, ma piuttosto quale non lo sarà. Cercherò di trasmettervi questo mio pensiero nel modo più comprensibile possibile.


La crisi del debito sovrano in Europa è una crisi di natura strutturale (e non congiunturale) dovuta a fenomeni macroeconomici che hanno espresso tutto il loro potenziale detonante attraverso un modello di sviluppo economico turboalimentato da bassi tassi di interesse e costi irrisori di manodopera che porta il nome di globalizzazione. Quest’ultima non nasce dalla naturale evoluzione del capitalismo classico, quanto piuttosto è una soluzione studiata a tavolino da potenti lobby di interesse sovranazionale per risolvere l'angosciante diminuzione dei profitti e degli utili aziendali in USA ed in Europa, causa un progressivo ed inarrestabile processo di invecchiamento della popolazione unito ad una decadente natalità dei nuclei familiari.


Le grandi multinazionali vedranno infatti costantemente contrarsi sia i fatturati che i livelli di profitto in quanto ormai quasi tutti i mercati occidentali sono maturi, saturi o addirittura in declino (pensate al mercato automobilistico, non sono casuali le recenti esternazioni di Sergio Marchionne). Tra quindici anni le persone anziane, gli over sessanta, rappresenteranno una quota sempre più consistente delle popolazioni occidentali (in Italia saranno stimati quasi al 40%). Una persona anziana purtroppo non rappresenta il clichè del consumatore ideale, infatti contribuisce marginalmente poco al livello dei consumi rispetto ad un trentenne (quest’ultimo infatti si trova appena all’inizio del suo progetto di vita: si deve sposare, deve comprare un’abitazione, fare figli, acquistare un’autovettura, divertisi nel tempo libero, andare in vacanza, vestirsi alla moda e così via).


Se da una parte infatti diminuirà il livello dei consumi, dall’altra aumenterà invece il peso angosciante del welfare sociale (ricoveri, degenze, assistenza medica e pensioni di anzianità) andando a pesare sempre di più in percentuale ogni anno sul totale della ricchezza prodotta. In buona sostanza stiamo parlando di paesi (USA, Germania, Regno Unito, Francia, Italia, Spagna & Company) il cui destino è piuttosto ben delineato: inesorabile invecchiamento della popolazione, costante aumento dell’indebitamento pubblico, lenta deindustrializzazione e brutale impoverimento. Non so quanto potranno effettivamente servire i cosidetti programmi di austerity sociale, a meno di drastici e drammatici tagli alla spesa sociale ed alla pubblica amministrazione. Chi ha concepito la globalizzazione ha pensato proprio a questo ovvero come salvaguardare i livelli di profitto aziendali (e magari anche come farli aumentare) a fronte di un mutamento epocale della geografia dei consumi mondiali.

In Asia, con in testa Cina ed India, il 75% della popolazione ha un’età inferiore ai trentanni ed un reddito procapite in costante ascesa: si trattava pertanto di creare le premesse e le modalità per far aumentare il numero di persone che in queste regioni potessero iniziare a consumare a livelli similari a quelli occidentali. Grazie ad il WTO si è riusciti ad implementare un fenomenale trasferimento di posti di lavoro attraverso le “opportunità” delle delocalizzazioni produttive, spostando letteralmente fabbriche e stabilimenti, che avrebbero consentito di far nascere con il tempo una nuova classe media borghese disposta a spendere per le mode e le tendenze di consumo del nuovo millennio. Non bisogna essere economisti per rendersi conto di quanto esposto sopra: nel 2000 l’Asia contribuiva ad appena il 10% dei consumi mondiali, nel 2030 salirà a quasi il 40%. Come potenziale di crescita, ai mercati orientali si stanno affiancando anche i mercati dell’America Latina con la locomotiva Brasile in testa.

Stiamo pertanto assistendo ad un mutamento epocale: il baricentro economico e geopolitico del mondo si sta spostando verso Oriente ed anche verso il Sud del Pianeta. La crisi del debito sovrano in Europa è tutto sommato di portata inconsistente rispetto ai problemi che emergeranno nei prossimi cinque anni a fronte di oggettive difficoltà di approvvigionamento alimentare, soprattutto in Oriente che detiene superfici arabili decisamente incapaci a far fronte alla crescente domanda sia di cereali che (purtroppo) di carni da allevamento. Tra ventanni l’attuale modello economico dovrà essere in grado di fornire abitazioni, automobili, carburanti, acqua e cibo ad almeno 600 milioni di nuove persone: pertanto cominciate a chiedervi chi potrà ancora permettersi di avere il frigorifero pieno o i banchi del supermercati colmi e riforniti per accontentare lo scellerato e sfrenato consumismo del nuovo millennio. Destino manifesto per dirla alla Stewie Griffin.
di Eugenio Benetazzo

16 dicembre 2010

I colonizzatori dell'immaginario collettivo




http://www.umbertimes.eu/umbertimes/wp-content/uploads/2010/11/il-mondo-di-escher.jpg

La circolazione delle notizie, sui grandi media, è subordinata alla volontà dei "sistemi" che gestiscono i media stessi. Viviamo nella società del controllo e sembra che esista un governo sovranazionale ed invisibile che decida cosa è giusto farci sapere e cosa no. In questo scenario apocalittico, abbiamo incontrato Marco Cedolin, scrittore e studioso di economia, ambiente e comunicazione, per porgli qualche domanda. “Non credo esistano dubbi sull'esistenza di un governo sovranazionale che attraverso la colonizzazione dell'immaginario collettivo, plasma la conoscenza, la sensibilità, i gusti, le reazioni emotive e più in generale i pensieri delle persone – sottolinea Marco Cedolin - con lo scopo di creare una massa di perfetti consumatori globali perfettamente omogeneizzati, privi di senso critico e programmati per reagire a qualsiasi stimolo indotto nella maniera prevista”. Alla domanda se esistono degli operatori di guerra psicologica lo scrittore e studioso precisa: “non si tratta tanto di una guerra psicologica, dal momento che il concetto di guerra presuppone la presenza di almeno due soggetti belligeranti, mentre in questo caso il soggetto impegnato nell'operazione si manifesta uno solo. Parlerei piuttosto di un processo di orientamento e globalizzazione del pensiero, attraverso l'anestetizzazione delle coscienze e l'annientamento sistematico di qualsiasi prerogativa culturale che possa mettere a rischio la buona riuscita del progetto”. I colonizzatori dell'immaginario collettivo, dunque, agiscono nelle maniere più svariate. Plasmano le notizie a proprio piacimento all'interno dei media mainstream, talvolta le costruiscono, altre volte ne praticano l'eutanasia, sempre decidono la natura di tutto ciò che deve diventare “informazione”, affinché l'operazione sortisca l'effetto desiderato. Ma i colonizzatori non monopolizzano solo l'informazione, gestiscono anche l'istruzione scolastica, il mercato pubblicitario, quello editoriale e discografico, il cinema, lo sport, la medicina e qualsiasi altro campo condizioni la “costruzione” dell'individuo. Sembra proprio che non si limitino a plasmare l’attenzione su i più svariati argomenti ma addirittura decidono se una cosa è realmente accaduta oppure no. “Nella società globale dell'informazione “urlata” in tempo reale, - spiega Marco Cedolin - esistono e possiedono una dimensione concreta solamente quei fatti e quegli accadimenti di cui viene data notizia e il valore di tale esistenza è direttamente proporzionale allo spazio ad essi tributato nel rappresentarli da parte dei media” - e continua con un esempio concreto – “Se io e lei per protesta saliamo su una gru e srotoliamo uno striscione, la nostra azione diventerà “reale” solo se e allorquando essa verrà documentata dai media ed assumerà valore in proporzione all'importanza che i media intenderanno riservarle. Se nessun giornale e nessuna TV documenteranno l'accaduto, per il resto del mondo (tranne qualche raro passante che si trovava nei pressi) non ci sarà stata alcuna scalata alla gru e alcuna protesta”. Il potere di decidere cosa realmente esiste è enorme, dal momento che una realtà imperfetta e parcellare, costruita in funzione del perseguimento di precisi interessi, viene presentata all'opinione pubblica globale come l'unica vera realtà, facendo si che il pensiero, le reazioni, le emozioni della massa, siano esattamente quelle che s'intendeva suscitare. Quando guardiamo un qualsiasi telegiornale o, leggiamo un qualsiasi quotidiano, veniamo “attratti” sempre dalle stesse parole. Parole che, se non analizzate a fondo, possono sembrare ricche di significato. L’interlocutore viene dunque plagiato emotivamente. Le parole rappresentano il fulcro dell'informazione e la loro importanza va molto al di là di quanto possano immaginare coloro che distrattamente sfogliano un giornale o guardano un TG. L'informazione urlata e ipercinetica del nostro tempo ha scelto un linguaggio quanto mai consono ad attirare l'attenzione del lettore/ascoltatore e condizionarne il giudizio. Marco Cedolin ci illustra degli esempi lampanti: “Il primo escamotage è costituito dall'abitudine a parlare per slogan precostruiti, slogan il più delle volte vuoti di contenuti ma di sicuro effetto, che verranno ripetuti continuamente come un mantra, fino a quando l'opinione pubblica sarà indotta a farli propri sotto forma di verità incontrovertibili. La crescita del Pil diventerà così sinonimo di benessere, pur non avendone titolo. La spesa di miliardi di euro di denaro pubblico per la costruzione di ciclopiche infrastrutture sarà accettata come un veicolo per migliorare la condizione economica dei cittadini, che invece si ritroveranno costretti a finanziare di tasca propria operazioni in perdita. L'occupazione in armi di stati sovrani verrà presentata come un'operazione di pace, finalizzata a “civilizzare” gli altri, sempre meno civili di noi. L'elargizione a pioggia di denaro pubblico destinato a rimpinguare le casse del sistema bancario privato, sarà spacciata sotto forma di “aiuti” ai cittadini dell'uno o dell'altro stato in difficoltà. Le operazioni di taglio dello stato sociale, dei redditi e dei servizi, a detrimento del benessere della cittadinanza, verranno giustificate come indispensabili sacrifici volti a ridurre il debito pubblico e così via. Il secondo escamotage è rappresentato dall'attenta scelta delle parole da utilizzare nella diffusione delle notizie, a seconda che lo scopo finale sia quello di mettere in buona o cattiva luce un determinato personaggio politico, uno stato, un provvedimento legislativo, una manifestazione o qualsivoglia tipo di accadimento. Il governo di uno stato che s'intende screditare verrà perciò sempre definito “regime” anche quando come nel caso del Presidente iraniano Ahmadinejad si tratta di un governo legittimamente eletto, nel corso di elezioni assai più partecipate e pulite di quelle statunitensi e di gran parte dei paesi occidentali. Alla stessa stregua il leader di un paese amico verrà chiamato “Presidente” e la nazione sarà definita “democratica”, anche qualora, come nel caso d'Israele l'esercito di tale nazione continui giorno dopo giorno a macchiarsi di crimini orribili. Il leader di un paese scomodo sarà al contrario etichettato sempre come tiranno, despota, dittatore ecc. I manifestanti che vengono a contatto con la polizia saranno teppisti, violenti e facinorosi, se portano avanti temi che devono venire screditati, ma diventeranno semplicemente cittadini esasperati se la loro battaglia può rivelarsi in qualche modo funzionale ad un disegno superiore. Molte volte basta la scelta di una parola per cambiare completamente l'intera ottica attraverso la quale viene letto un accadimento”. C’è il serio rischio, quando si da un’informazione che è contraria a quella fornita dai media considerati tradizionali di passare per complottista. Spesso si rischia di essere emarginati dal circuito di mediatico di massa e automaticamente messi nella condizione di non nuocere. “Poco importa – spiega Marco Cedolin - se le nostre affermazioni in merito alla fallacia della verità ufficiale riguardo alla strage dell'11 settembre sono suffragate da una serie interminabile di elementi incontrovertibili, se il nostro giudizio negativo nei confronti dell'alta velocità ferroviaria si basa su dati ed evidenze di tipo economico e scientifico che nessuna analisi seria sarebbe in grado di smentire, se le nostre prese di posizione su temi economici, politici e ambientali sono documentate dettagliatamente e derivano da studi ed analisi con solidi fondamenti”. Sembra proprio che produrre vera informazione è severamente vietato in un circo mediatico dove l'imperativo è costituito dalla produzione di una verità fittizia che sia funzionale agli interessi superiori. Sembra anche molto difficile difenderci dal controllo globale. I grandi interessi preposti al controllo dell'informazione gestiscono il loro potere attraverso una leva tanto semplice quanto efficace, la leva economica. Qualsiasi strumento d'informazione di massa può esistere solo se supportato da consistenti investimenti economici, facendo si che i “finanziatori” siano gli unici soggetti in grado di decidere la natura e la qualità dell'informazione stessa. Nell’era di internet e del giornalismo partecipativo, esistono, però, fonti d'informazione alternative; esiste qualche piccola casa editrice indipendente, qualche rivista e quotidiano a tiratura limitata. “Per essere bene informati – conclude lo scrittore e studioso Marco Cedolin - occorre faticare, navigare su internet almeno un paio di ore al giorno, leggere molto e farlo sempre con grande spirito critico. Osservare le notizie da varie angolazioni, contribuendo alla formazione di un proprio punto di vista che non dovrà per forza collimare con quello espresso nei testi che si sono letti”. La possibilità d'informarsi correttamente esiste ma richiede tempo e fatica. Certamente è molto più facile sedersi in poltrona e accendere la TV. Sta solo a noi scegliere se ne valga o meno la pena.

di Marco Cedolin - Fabio Polese

15 dicembre 2010

Il paradigma Madoff



È difficile pensare di architettare la più grande truffa del secolo e sperare di farla franca. A maggior ragione pensare che, una volta scoperta la truffa, si riuscirà a non pagarne per intero il conto. Difficile ma non impossibile per Bernard Madoff e per quanti fanno della frode uno stile di vita. Chissà in quanti si ricorderanno della maxi-truffa da 50/70 miliardi di dollari (l’entità precisa dei mancamenti è quasi impossibile da calcolare vista la recente volatilità dei mercati), messa a segno dal finanziere Berny Madoff, fino allora considerato il guru della finanza newyorkese, che gli costò una condanna a 150 anni di carcere.

Dopo la condanna e il recente suicidio del figlio, Mark Madoff, che sabato scorso si è tolto la vita impiccandosi nella propria casa a Manhattan, la truffa del secolo non ha, infatti, rinunciato all’ennesimo colpo di coda.

Considerata la più grande truffa finanziaria della storia, rischia ora di costare caro anche al gruppo bancario italiano Unicredit. Il 10 dicembre Irving Picard, il liquidatore della società di Madoff, ha presentato istanza presso il tribunale fallimentare di New York per recuperare 19,6 miliardi di dollari (14,8 miliardi di euro) dal «Sistema Medici», una complessa associazione guidata dalla banchiera austriaca Sonja Kohn, nota per aver fondato la viennese Banca Medici, e che include almeno sei membri della sua famiglia. Cosa c’entra l’Unicredit in tutto questo? Il colosso bancario di piazza Cordusio, attraverso Bank Austria, possiede il 25% di Banca Medici oltre ad una serie di trust sparsi a New York, in Austria e in Italia.

Nei documenti presentati al tribunale, Picard accusa la Kohn di aver svolto un ruolo centrale nella più grande truffa della storia di Wall Street. «In Sonja Kohn - scrive il liquidatore Picard - Madoff ha trovato un’anima gemella criminale, la cui avidità e disonesta fantasia erano pari alle sue». La “Medici Enterprise”, secondo i documenti, rappresentava uno dei ”mattoni portanti” dello schema Ponzi (il meccanismo di pagare interessi ai vecchi investitori con i soldi dei nuovi investitori, inventato da un italo-americano nel secolo scorso) messo in piedi da Madoff, senza il quale l’intero castello della truffa non sarebbe stato in piedi.

Un’associazione di fatto, gestita dalla Kohn che con l’aiuto di Bank Austria aveva messo in piedi Bank Medici «come un meccanismo per cercare investitori per lo schema Ponzi». Secondo la ricostruzione, oltre nove miliardi del capitale sparito nella truffa di Madoff sono direttamente attribuibili alla «Medici Enterprise». Per il principale istituto finanziario italiano tira dunque una brutta aria.

Il ruolo di Bank Austria, e dunque di Unicredit, secondo i legali dello studio Baker Hosteler di New York, è infatti stato centrale nel tessere la tela della truffa del secolo. Bank Medici, formalmente un’entità autonoma partecipata al 25%, «è di fatto una branch di Bank Austria, che opera sotto il nome di Medici mentre conti e portafoglio sono detenuti e gestiti da Bank Austria». Inoltre, «il personale di Bank Medici è fornito da Bank Austria». Banca Medici sarebbe dunque uno specchio, una mera propaggine priva di qualsiasi autonomia patrimoniale e gestionale, il che ovviamente complica ulteriormente la possibilità di immaginare una solida difesa per l’Unicredit.

Bank Austria avrebbe dunque fornito un «imprimatur di legittimità» all’operato della Kohn per cercare e «pompare» denaro dentro i fondi legati al sistema di Madoff. Un’attività che avrebbe procurato alla Kohn e alle banche coinvolte «centinaia di milioni di dollari» in commissioni, retrocessioni di denaro, profitti fittizi e altro. «I nostri legali - fanno sapere da Unicredit - stanno riesaminando la questione che verrà gestita attraverso le ordinarie procedure legali. È nostra intenzione portare avanti la nostra difesa in modo determinato». A testimoniare la natura fraudolenta del rapporto, da ultimo, la Kohn avrebbe anche cercato di occultare prove e utili del suo «lavoro» per Madoff nei giorni successivi al crac. Tentativo che per fortuna degli investitori è fallito.

Ora lungi dal voler speculare sulle disgrazie di un uomo distrutto dalla propria avidità, quello che interessa qui sottolineare è la natura intrinsecamente fraudolenta di un sistema, quello monetario e finanziario globale, che favorisce il ripetersi di questi comportamenti antigiuridici, antieconomici e soprattutto antisociali. Berny Madoff e la sua criminale anima gemella Kohn altro non sono, infatti, se non pedine di un sistema di cui hanno compreso profondamente le leggi fondamentali. E non sono i soli ad aver acquisito questa consapevolezza.

Il texano Rod Cameron Stringer millantava che la sua strategia d'investimento garantisse un guadagno del 61% l'anno. Gli investitori, ben felici, gli diedero 45 milioni di dollari. Joseph Forte dalla Pennsylvania ha invece raccolto 50 milioni, assicurando ogni anno performance tra il 18% e il 37%. La Biltmore Financial giurava che i suoi fondi non avrebbero mai perso: «Mai sotto lo 0%» era lo slogan. Peccato che fossero tutte frottole. Truffe. Quelle che gli americani chiamano schema Ponzi. Il texano Stringer ha investito solo il 20% dei soldi che gli investitori avevano puntato su di lui: il resto l'ha usato - scrivono gli sceriffi del mercato Usa - per mantenere il suo stile di vita «mondano».

La Sec, la polizia federale per la finanza, tra il 2008 e il 2009 ha scoperto quasi 30 frodi di questo tipo per un danno superiore ai 60 miliardi di dollari. Madoff ha realizzato quella più eclatante. Robert Allen Stanford la più recente. Ma esistono decine di casi simili. Dopo anni di mercati euforici in cui c'erano guadagni per tutti - truffatori e truffati inclusi - la crisi delle Borse sembra avere per corollario un'impennata delle frodi. E con la fiducia dei risparmiatori al minimo storico, la lotta ai crimini dei colletti bianchi è destinata a diventare per il Presidente Obama una sfida prioritaria quanto la crisi del credito.

Già, la fiducia degli investitori: il grande totem cui sacrificare misure tampone, leggi inutili e discorsi ammalianti. Il tutto per nascondere la polvere sotto il tappeto e tornare ad avere l’illusione della pulizia. Fino a un anno fa, infatti, sembrava che le truffe fossero sempre più limitate. Secondo i dati del Dipartimento di Giustizia Usa, le frodi finanziarie sono diminuite del 48% dal 2000 al 2007, le truffe assicurative sono calate del 75% e quelle legate a titoli del 17%.

I dati della Syracuse University, riportati recentemente dal New York Times, sono simili: tra il 2000 e il 2007 i crimini dei "colletti bianchi" si sono dimezzati. Si pensi poi che la Sec tra il 2000 e il 2004 ha scoperto solo 51 frodi relative a hedge fund, con danni stimati ad appena 1,1 miliardi. La riduzione, però, era un'illusione data dal boom della Borsa. Il 2008 e il 2009 hanno infatti invertito la rotta.

Ben inteso: le truffe capitano ovunque. In Francia c'è stato il caso Kerviel e persino in Svezia i giornali locali parlano di "boom" di frodi finanziarie. Ma è difficile quantificarle. Solo negli Usa ci sono tanti dati aggregati: per questo "effetto ottico" sembra che oltreoceano ci sia un numero maggiore di truffe rispetto all'Europa. Eppure, pur in mancanza di dati comparabili, probabilmente è così: secondo gli esperti, gli Stati Uniti sono effettivamente un terreno più fertile per certi tipi di frodi. Il motivo è banale: oltreoceano vige una minore vigilanza sugli hedge fund rispetto all'Europa.

Se nel Vecchio continente le società di gestione sono tutte sottoposte alla vigilanza delle Autorità di ogni Paese (anche se poi materialmente gli hedge fund vengono domiciliati nei vari paradisi fiscali), negli Stati Uniti non è così. Oltreoceano - spiega un esperto - gli hedge fund sono obbligati a comunicare alla Sec le loro posizioni in acquisto di titoli, ma non esiste un controllo strutturato su questi fondi.

Qualche anno fa la Sec emanò un regolamento che le permetteva di ispezionare ovunque nel mondo qualunque hedge fund che coinvolgesse investitori americani, ma uno di questi fondi fece causa in Tribunale. E vinse. Così il regolamento, e la vigilanza,si spensero insieme. Ecco dunque che motti come “la legge è uguale per tutti” ovvero “la giustizia è amministrata nel nome del popolo” perdono qualsiasi valore cogente. La legge non è uguale per tutti: è semplicemente lo strumento attraverso il quale si struttura una società e in ogni società ci sono valori, interessi, classi sociali più importanti di altri. Nel sistema in cui noi oggi viviamo sono questi personaggi a sedere sul ponte di comando.

Un sistema formato da singoli investitori spietati, avidi ed egoisti, resi ancora più pericolosi dal convincimento di operare per il bene della collettività. Si tratta di persone sinceramente convinte, dopo anni passati tra le migliori e più blasonate facoltà di economia e finanza del mondo, che fare il proprio esclusivo interesse, massimizzare i propri profitti, porti alla lunga benefici per tutti coloro che partecipano al comune mercato globale. Dopo l’internazionalizzazione delle borse valori, dopo l’abbattimento delle barriere doganali, dopo l’istituzione del WTO i benefici coleranno dall’alto della piramide giù fino a toccare anche la base popolare, le masse dell’intero pianeta.

Ora, se da una parte si potrebbe discutere molto sulla superiorità ontologica che l’attuale società contemporanea tributa ai valori dell’individualismo, della competizione, dell’accumulazione delle ricchezze rispetto ad una dimensione più sociale e partecipativa tanto della politica quanto dell’economia, dall’altra, ciò che non può essere taciuto è come anche un sistema fondato sulla capacità d’iniziativa del singolo, mosso unicamente dalla prospettiva del profitto, non può che collassare su se stesso se non adeguatamente regolato.

I valori non esprimono, infatti, un dovere giuridico, ma rappresentano entità dinamiche che esigono una concretizzazione. Possiedono un’intrinseca connotazione teleologica e tendono inevitabilmente alla propria realizzazione. Sono, per riprendere un’efficace immagine del giurista tedesco Carl Schmitt, entità tiranniche, ciascuna delle quali esige di affermarsi anche a dispetto delle altre entità del medesimo tipo. Se dunque viene a mancare un organismo terzo (che deve necessariamente avere una qualche legittimazione popolare), un’istituzione, cioè, chiamata a regolare e disciplinare il concreto esercizio dei diritti individuali all’interno di una cornice equilibrata e ponderata di opposti valori (ad esempio libertà e uguaglianza, ovvero iniziativa economica privata e ruolo sociale dell’impresa) la qualità della democrazia di un popolo non potrà che scadere.

di Ilvio Pannullo

19 dicembre 2010

Neurolandia




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Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna ormai stanno diventando il leitmotiv delle riflessioni delle comunità finanziarie internazionali, come se l'unica preoccupazione su cui ci dovremmo soffermare fosse la tenuta nel breve dei conti pubblici di questi paesi. Il cosa scegliere ed il dove posizionarsi a livello di investimento è stato da me ampiamente trattato in svariate occasioni e contesti mediatici, tuttavia l'interrogativo principe cui ci dovremmo porre in questo momento non è se il tal titolo di stato è a rischio default, ma piuttosto quale non lo sarà. Cercherò di trasmettervi questo mio pensiero nel modo più comprensibile possibile.


La crisi del debito sovrano in Europa è una crisi di natura strutturale (e non congiunturale) dovuta a fenomeni macroeconomici che hanno espresso tutto il loro potenziale detonante attraverso un modello di sviluppo economico turboalimentato da bassi tassi di interesse e costi irrisori di manodopera che porta il nome di globalizzazione. Quest’ultima non nasce dalla naturale evoluzione del capitalismo classico, quanto piuttosto è una soluzione studiata a tavolino da potenti lobby di interesse sovranazionale per risolvere l'angosciante diminuzione dei profitti e degli utili aziendali in USA ed in Europa, causa un progressivo ed inarrestabile processo di invecchiamento della popolazione unito ad una decadente natalità dei nuclei familiari.


Le grandi multinazionali vedranno infatti costantemente contrarsi sia i fatturati che i livelli di profitto in quanto ormai quasi tutti i mercati occidentali sono maturi, saturi o addirittura in declino (pensate al mercato automobilistico, non sono casuali le recenti esternazioni di Sergio Marchionne). Tra quindici anni le persone anziane, gli over sessanta, rappresenteranno una quota sempre più consistente delle popolazioni occidentali (in Italia saranno stimati quasi al 40%). Una persona anziana purtroppo non rappresenta il clichè del consumatore ideale, infatti contribuisce marginalmente poco al livello dei consumi rispetto ad un trentenne (quest’ultimo infatti si trova appena all’inizio del suo progetto di vita: si deve sposare, deve comprare un’abitazione, fare figli, acquistare un’autovettura, divertisi nel tempo libero, andare in vacanza, vestirsi alla moda e così via).


Se da una parte infatti diminuirà il livello dei consumi, dall’altra aumenterà invece il peso angosciante del welfare sociale (ricoveri, degenze, assistenza medica e pensioni di anzianità) andando a pesare sempre di più in percentuale ogni anno sul totale della ricchezza prodotta. In buona sostanza stiamo parlando di paesi (USA, Germania, Regno Unito, Francia, Italia, Spagna & Company) il cui destino è piuttosto ben delineato: inesorabile invecchiamento della popolazione, costante aumento dell’indebitamento pubblico, lenta deindustrializzazione e brutale impoverimento. Non so quanto potranno effettivamente servire i cosidetti programmi di austerity sociale, a meno di drastici e drammatici tagli alla spesa sociale ed alla pubblica amministrazione. Chi ha concepito la globalizzazione ha pensato proprio a questo ovvero come salvaguardare i livelli di profitto aziendali (e magari anche come farli aumentare) a fronte di un mutamento epocale della geografia dei consumi mondiali.

In Asia, con in testa Cina ed India, il 75% della popolazione ha un’età inferiore ai trentanni ed un reddito procapite in costante ascesa: si trattava pertanto di creare le premesse e le modalità per far aumentare il numero di persone che in queste regioni potessero iniziare a consumare a livelli similari a quelli occidentali. Grazie ad il WTO si è riusciti ad implementare un fenomenale trasferimento di posti di lavoro attraverso le “opportunità” delle delocalizzazioni produttive, spostando letteralmente fabbriche e stabilimenti, che avrebbero consentito di far nascere con il tempo una nuova classe media borghese disposta a spendere per le mode e le tendenze di consumo del nuovo millennio. Non bisogna essere economisti per rendersi conto di quanto esposto sopra: nel 2000 l’Asia contribuiva ad appena il 10% dei consumi mondiali, nel 2030 salirà a quasi il 40%. Come potenziale di crescita, ai mercati orientali si stanno affiancando anche i mercati dell’America Latina con la locomotiva Brasile in testa.

Stiamo pertanto assistendo ad un mutamento epocale: il baricentro economico e geopolitico del mondo si sta spostando verso Oriente ed anche verso il Sud del Pianeta. La crisi del debito sovrano in Europa è tutto sommato di portata inconsistente rispetto ai problemi che emergeranno nei prossimi cinque anni a fronte di oggettive difficoltà di approvvigionamento alimentare, soprattutto in Oriente che detiene superfici arabili decisamente incapaci a far fronte alla crescente domanda sia di cereali che (purtroppo) di carni da allevamento. Tra ventanni l’attuale modello economico dovrà essere in grado di fornire abitazioni, automobili, carburanti, acqua e cibo ad almeno 600 milioni di nuove persone: pertanto cominciate a chiedervi chi potrà ancora permettersi di avere il frigorifero pieno o i banchi del supermercati colmi e riforniti per accontentare lo scellerato e sfrenato consumismo del nuovo millennio. Destino manifesto per dirla alla Stewie Griffin.
di Eugenio Benetazzo

16 dicembre 2010

I colonizzatori dell'immaginario collettivo




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La circolazione delle notizie, sui grandi media, è subordinata alla volontà dei "sistemi" che gestiscono i media stessi. Viviamo nella società del controllo e sembra che esista un governo sovranazionale ed invisibile che decida cosa è giusto farci sapere e cosa no. In questo scenario apocalittico, abbiamo incontrato Marco Cedolin, scrittore e studioso di economia, ambiente e comunicazione, per porgli qualche domanda. “Non credo esistano dubbi sull'esistenza di un governo sovranazionale che attraverso la colonizzazione dell'immaginario collettivo, plasma la conoscenza, la sensibilità, i gusti, le reazioni emotive e più in generale i pensieri delle persone – sottolinea Marco Cedolin - con lo scopo di creare una massa di perfetti consumatori globali perfettamente omogeneizzati, privi di senso critico e programmati per reagire a qualsiasi stimolo indotto nella maniera prevista”. Alla domanda se esistono degli operatori di guerra psicologica lo scrittore e studioso precisa: “non si tratta tanto di una guerra psicologica, dal momento che il concetto di guerra presuppone la presenza di almeno due soggetti belligeranti, mentre in questo caso il soggetto impegnato nell'operazione si manifesta uno solo. Parlerei piuttosto di un processo di orientamento e globalizzazione del pensiero, attraverso l'anestetizzazione delle coscienze e l'annientamento sistematico di qualsiasi prerogativa culturale che possa mettere a rischio la buona riuscita del progetto”. I colonizzatori dell'immaginario collettivo, dunque, agiscono nelle maniere più svariate. Plasmano le notizie a proprio piacimento all'interno dei media mainstream, talvolta le costruiscono, altre volte ne praticano l'eutanasia, sempre decidono la natura di tutto ciò che deve diventare “informazione”, affinché l'operazione sortisca l'effetto desiderato. Ma i colonizzatori non monopolizzano solo l'informazione, gestiscono anche l'istruzione scolastica, il mercato pubblicitario, quello editoriale e discografico, il cinema, lo sport, la medicina e qualsiasi altro campo condizioni la “costruzione” dell'individuo. Sembra proprio che non si limitino a plasmare l’attenzione su i più svariati argomenti ma addirittura decidono se una cosa è realmente accaduta oppure no. “Nella società globale dell'informazione “urlata” in tempo reale, - spiega Marco Cedolin - esistono e possiedono una dimensione concreta solamente quei fatti e quegli accadimenti di cui viene data notizia e il valore di tale esistenza è direttamente proporzionale allo spazio ad essi tributato nel rappresentarli da parte dei media” - e continua con un esempio concreto – “Se io e lei per protesta saliamo su una gru e srotoliamo uno striscione, la nostra azione diventerà “reale” solo se e allorquando essa verrà documentata dai media ed assumerà valore in proporzione all'importanza che i media intenderanno riservarle. Se nessun giornale e nessuna TV documenteranno l'accaduto, per il resto del mondo (tranne qualche raro passante che si trovava nei pressi) non ci sarà stata alcuna scalata alla gru e alcuna protesta”. Il potere di decidere cosa realmente esiste è enorme, dal momento che una realtà imperfetta e parcellare, costruita in funzione del perseguimento di precisi interessi, viene presentata all'opinione pubblica globale come l'unica vera realtà, facendo si che il pensiero, le reazioni, le emozioni della massa, siano esattamente quelle che s'intendeva suscitare. Quando guardiamo un qualsiasi telegiornale o, leggiamo un qualsiasi quotidiano, veniamo “attratti” sempre dalle stesse parole. Parole che, se non analizzate a fondo, possono sembrare ricche di significato. L’interlocutore viene dunque plagiato emotivamente. Le parole rappresentano il fulcro dell'informazione e la loro importanza va molto al di là di quanto possano immaginare coloro che distrattamente sfogliano un giornale o guardano un TG. L'informazione urlata e ipercinetica del nostro tempo ha scelto un linguaggio quanto mai consono ad attirare l'attenzione del lettore/ascoltatore e condizionarne il giudizio. Marco Cedolin ci illustra degli esempi lampanti: “Il primo escamotage è costituito dall'abitudine a parlare per slogan precostruiti, slogan il più delle volte vuoti di contenuti ma di sicuro effetto, che verranno ripetuti continuamente come un mantra, fino a quando l'opinione pubblica sarà indotta a farli propri sotto forma di verità incontrovertibili. La crescita del Pil diventerà così sinonimo di benessere, pur non avendone titolo. La spesa di miliardi di euro di denaro pubblico per la costruzione di ciclopiche infrastrutture sarà accettata come un veicolo per migliorare la condizione economica dei cittadini, che invece si ritroveranno costretti a finanziare di tasca propria operazioni in perdita. L'occupazione in armi di stati sovrani verrà presentata come un'operazione di pace, finalizzata a “civilizzare” gli altri, sempre meno civili di noi. L'elargizione a pioggia di denaro pubblico destinato a rimpinguare le casse del sistema bancario privato, sarà spacciata sotto forma di “aiuti” ai cittadini dell'uno o dell'altro stato in difficoltà. Le operazioni di taglio dello stato sociale, dei redditi e dei servizi, a detrimento del benessere della cittadinanza, verranno giustificate come indispensabili sacrifici volti a ridurre il debito pubblico e così via. Il secondo escamotage è rappresentato dall'attenta scelta delle parole da utilizzare nella diffusione delle notizie, a seconda che lo scopo finale sia quello di mettere in buona o cattiva luce un determinato personaggio politico, uno stato, un provvedimento legislativo, una manifestazione o qualsivoglia tipo di accadimento. Il governo di uno stato che s'intende screditare verrà perciò sempre definito “regime” anche quando come nel caso del Presidente iraniano Ahmadinejad si tratta di un governo legittimamente eletto, nel corso di elezioni assai più partecipate e pulite di quelle statunitensi e di gran parte dei paesi occidentali. Alla stessa stregua il leader di un paese amico verrà chiamato “Presidente” e la nazione sarà definita “democratica”, anche qualora, come nel caso d'Israele l'esercito di tale nazione continui giorno dopo giorno a macchiarsi di crimini orribili. Il leader di un paese scomodo sarà al contrario etichettato sempre come tiranno, despota, dittatore ecc. I manifestanti che vengono a contatto con la polizia saranno teppisti, violenti e facinorosi, se portano avanti temi che devono venire screditati, ma diventeranno semplicemente cittadini esasperati se la loro battaglia può rivelarsi in qualche modo funzionale ad un disegno superiore. Molte volte basta la scelta di una parola per cambiare completamente l'intera ottica attraverso la quale viene letto un accadimento”. C’è il serio rischio, quando si da un’informazione che è contraria a quella fornita dai media considerati tradizionali di passare per complottista. Spesso si rischia di essere emarginati dal circuito di mediatico di massa e automaticamente messi nella condizione di non nuocere. “Poco importa – spiega Marco Cedolin - se le nostre affermazioni in merito alla fallacia della verità ufficiale riguardo alla strage dell'11 settembre sono suffragate da una serie interminabile di elementi incontrovertibili, se il nostro giudizio negativo nei confronti dell'alta velocità ferroviaria si basa su dati ed evidenze di tipo economico e scientifico che nessuna analisi seria sarebbe in grado di smentire, se le nostre prese di posizione su temi economici, politici e ambientali sono documentate dettagliatamente e derivano da studi ed analisi con solidi fondamenti”. Sembra proprio che produrre vera informazione è severamente vietato in un circo mediatico dove l'imperativo è costituito dalla produzione di una verità fittizia che sia funzionale agli interessi superiori. Sembra anche molto difficile difenderci dal controllo globale. I grandi interessi preposti al controllo dell'informazione gestiscono il loro potere attraverso una leva tanto semplice quanto efficace, la leva economica. Qualsiasi strumento d'informazione di massa può esistere solo se supportato da consistenti investimenti economici, facendo si che i “finanziatori” siano gli unici soggetti in grado di decidere la natura e la qualità dell'informazione stessa. Nell’era di internet e del giornalismo partecipativo, esistono, però, fonti d'informazione alternative; esiste qualche piccola casa editrice indipendente, qualche rivista e quotidiano a tiratura limitata. “Per essere bene informati – conclude lo scrittore e studioso Marco Cedolin - occorre faticare, navigare su internet almeno un paio di ore al giorno, leggere molto e farlo sempre con grande spirito critico. Osservare le notizie da varie angolazioni, contribuendo alla formazione di un proprio punto di vista che non dovrà per forza collimare con quello espresso nei testi che si sono letti”. La possibilità d'informarsi correttamente esiste ma richiede tempo e fatica. Certamente è molto più facile sedersi in poltrona e accendere la TV. Sta solo a noi scegliere se ne valga o meno la pena.

di Marco Cedolin - Fabio Polese

15 dicembre 2010

Il paradigma Madoff



È difficile pensare di architettare la più grande truffa del secolo e sperare di farla franca. A maggior ragione pensare che, una volta scoperta la truffa, si riuscirà a non pagarne per intero il conto. Difficile ma non impossibile per Bernard Madoff e per quanti fanno della frode uno stile di vita. Chissà in quanti si ricorderanno della maxi-truffa da 50/70 miliardi di dollari (l’entità precisa dei mancamenti è quasi impossibile da calcolare vista la recente volatilità dei mercati), messa a segno dal finanziere Berny Madoff, fino allora considerato il guru della finanza newyorkese, che gli costò una condanna a 150 anni di carcere.

Dopo la condanna e il recente suicidio del figlio, Mark Madoff, che sabato scorso si è tolto la vita impiccandosi nella propria casa a Manhattan, la truffa del secolo non ha, infatti, rinunciato all’ennesimo colpo di coda.

Considerata la più grande truffa finanziaria della storia, rischia ora di costare caro anche al gruppo bancario italiano Unicredit. Il 10 dicembre Irving Picard, il liquidatore della società di Madoff, ha presentato istanza presso il tribunale fallimentare di New York per recuperare 19,6 miliardi di dollari (14,8 miliardi di euro) dal «Sistema Medici», una complessa associazione guidata dalla banchiera austriaca Sonja Kohn, nota per aver fondato la viennese Banca Medici, e che include almeno sei membri della sua famiglia. Cosa c’entra l’Unicredit in tutto questo? Il colosso bancario di piazza Cordusio, attraverso Bank Austria, possiede il 25% di Banca Medici oltre ad una serie di trust sparsi a New York, in Austria e in Italia.

Nei documenti presentati al tribunale, Picard accusa la Kohn di aver svolto un ruolo centrale nella più grande truffa della storia di Wall Street. «In Sonja Kohn - scrive il liquidatore Picard - Madoff ha trovato un’anima gemella criminale, la cui avidità e disonesta fantasia erano pari alle sue». La “Medici Enterprise”, secondo i documenti, rappresentava uno dei ”mattoni portanti” dello schema Ponzi (il meccanismo di pagare interessi ai vecchi investitori con i soldi dei nuovi investitori, inventato da un italo-americano nel secolo scorso) messo in piedi da Madoff, senza il quale l’intero castello della truffa non sarebbe stato in piedi.

Un’associazione di fatto, gestita dalla Kohn che con l’aiuto di Bank Austria aveva messo in piedi Bank Medici «come un meccanismo per cercare investitori per lo schema Ponzi». Secondo la ricostruzione, oltre nove miliardi del capitale sparito nella truffa di Madoff sono direttamente attribuibili alla «Medici Enterprise». Per il principale istituto finanziario italiano tira dunque una brutta aria.

Il ruolo di Bank Austria, e dunque di Unicredit, secondo i legali dello studio Baker Hosteler di New York, è infatti stato centrale nel tessere la tela della truffa del secolo. Bank Medici, formalmente un’entità autonoma partecipata al 25%, «è di fatto una branch di Bank Austria, che opera sotto il nome di Medici mentre conti e portafoglio sono detenuti e gestiti da Bank Austria». Inoltre, «il personale di Bank Medici è fornito da Bank Austria». Banca Medici sarebbe dunque uno specchio, una mera propaggine priva di qualsiasi autonomia patrimoniale e gestionale, il che ovviamente complica ulteriormente la possibilità di immaginare una solida difesa per l’Unicredit.

Bank Austria avrebbe dunque fornito un «imprimatur di legittimità» all’operato della Kohn per cercare e «pompare» denaro dentro i fondi legati al sistema di Madoff. Un’attività che avrebbe procurato alla Kohn e alle banche coinvolte «centinaia di milioni di dollari» in commissioni, retrocessioni di denaro, profitti fittizi e altro. «I nostri legali - fanno sapere da Unicredit - stanno riesaminando la questione che verrà gestita attraverso le ordinarie procedure legali. È nostra intenzione portare avanti la nostra difesa in modo determinato». A testimoniare la natura fraudolenta del rapporto, da ultimo, la Kohn avrebbe anche cercato di occultare prove e utili del suo «lavoro» per Madoff nei giorni successivi al crac. Tentativo che per fortuna degli investitori è fallito.

Ora lungi dal voler speculare sulle disgrazie di un uomo distrutto dalla propria avidità, quello che interessa qui sottolineare è la natura intrinsecamente fraudolenta di un sistema, quello monetario e finanziario globale, che favorisce il ripetersi di questi comportamenti antigiuridici, antieconomici e soprattutto antisociali. Berny Madoff e la sua criminale anima gemella Kohn altro non sono, infatti, se non pedine di un sistema di cui hanno compreso profondamente le leggi fondamentali. E non sono i soli ad aver acquisito questa consapevolezza.

Il texano Rod Cameron Stringer millantava che la sua strategia d'investimento garantisse un guadagno del 61% l'anno. Gli investitori, ben felici, gli diedero 45 milioni di dollari. Joseph Forte dalla Pennsylvania ha invece raccolto 50 milioni, assicurando ogni anno performance tra il 18% e il 37%. La Biltmore Financial giurava che i suoi fondi non avrebbero mai perso: «Mai sotto lo 0%» era lo slogan. Peccato che fossero tutte frottole. Truffe. Quelle che gli americani chiamano schema Ponzi. Il texano Stringer ha investito solo il 20% dei soldi che gli investitori avevano puntato su di lui: il resto l'ha usato - scrivono gli sceriffi del mercato Usa - per mantenere il suo stile di vita «mondano».

La Sec, la polizia federale per la finanza, tra il 2008 e il 2009 ha scoperto quasi 30 frodi di questo tipo per un danno superiore ai 60 miliardi di dollari. Madoff ha realizzato quella più eclatante. Robert Allen Stanford la più recente. Ma esistono decine di casi simili. Dopo anni di mercati euforici in cui c'erano guadagni per tutti - truffatori e truffati inclusi - la crisi delle Borse sembra avere per corollario un'impennata delle frodi. E con la fiducia dei risparmiatori al minimo storico, la lotta ai crimini dei colletti bianchi è destinata a diventare per il Presidente Obama una sfida prioritaria quanto la crisi del credito.

Già, la fiducia degli investitori: il grande totem cui sacrificare misure tampone, leggi inutili e discorsi ammalianti. Il tutto per nascondere la polvere sotto il tappeto e tornare ad avere l’illusione della pulizia. Fino a un anno fa, infatti, sembrava che le truffe fossero sempre più limitate. Secondo i dati del Dipartimento di Giustizia Usa, le frodi finanziarie sono diminuite del 48% dal 2000 al 2007, le truffe assicurative sono calate del 75% e quelle legate a titoli del 17%.

I dati della Syracuse University, riportati recentemente dal New York Times, sono simili: tra il 2000 e il 2007 i crimini dei "colletti bianchi" si sono dimezzati. Si pensi poi che la Sec tra il 2000 e il 2004 ha scoperto solo 51 frodi relative a hedge fund, con danni stimati ad appena 1,1 miliardi. La riduzione, però, era un'illusione data dal boom della Borsa. Il 2008 e il 2009 hanno infatti invertito la rotta.

Ben inteso: le truffe capitano ovunque. In Francia c'è stato il caso Kerviel e persino in Svezia i giornali locali parlano di "boom" di frodi finanziarie. Ma è difficile quantificarle. Solo negli Usa ci sono tanti dati aggregati: per questo "effetto ottico" sembra che oltreoceano ci sia un numero maggiore di truffe rispetto all'Europa. Eppure, pur in mancanza di dati comparabili, probabilmente è così: secondo gli esperti, gli Stati Uniti sono effettivamente un terreno più fertile per certi tipi di frodi. Il motivo è banale: oltreoceano vige una minore vigilanza sugli hedge fund rispetto all'Europa.

Se nel Vecchio continente le società di gestione sono tutte sottoposte alla vigilanza delle Autorità di ogni Paese (anche se poi materialmente gli hedge fund vengono domiciliati nei vari paradisi fiscali), negli Stati Uniti non è così. Oltreoceano - spiega un esperto - gli hedge fund sono obbligati a comunicare alla Sec le loro posizioni in acquisto di titoli, ma non esiste un controllo strutturato su questi fondi.

Qualche anno fa la Sec emanò un regolamento che le permetteva di ispezionare ovunque nel mondo qualunque hedge fund che coinvolgesse investitori americani, ma uno di questi fondi fece causa in Tribunale. E vinse. Così il regolamento, e la vigilanza,si spensero insieme. Ecco dunque che motti come “la legge è uguale per tutti” ovvero “la giustizia è amministrata nel nome del popolo” perdono qualsiasi valore cogente. La legge non è uguale per tutti: è semplicemente lo strumento attraverso il quale si struttura una società e in ogni società ci sono valori, interessi, classi sociali più importanti di altri. Nel sistema in cui noi oggi viviamo sono questi personaggi a sedere sul ponte di comando.

Un sistema formato da singoli investitori spietati, avidi ed egoisti, resi ancora più pericolosi dal convincimento di operare per il bene della collettività. Si tratta di persone sinceramente convinte, dopo anni passati tra le migliori e più blasonate facoltà di economia e finanza del mondo, che fare il proprio esclusivo interesse, massimizzare i propri profitti, porti alla lunga benefici per tutti coloro che partecipano al comune mercato globale. Dopo l’internazionalizzazione delle borse valori, dopo l’abbattimento delle barriere doganali, dopo l’istituzione del WTO i benefici coleranno dall’alto della piramide giù fino a toccare anche la base popolare, le masse dell’intero pianeta.

Ora, se da una parte si potrebbe discutere molto sulla superiorità ontologica che l’attuale società contemporanea tributa ai valori dell’individualismo, della competizione, dell’accumulazione delle ricchezze rispetto ad una dimensione più sociale e partecipativa tanto della politica quanto dell’economia, dall’altra, ciò che non può essere taciuto è come anche un sistema fondato sulla capacità d’iniziativa del singolo, mosso unicamente dalla prospettiva del profitto, non può che collassare su se stesso se non adeguatamente regolato.

I valori non esprimono, infatti, un dovere giuridico, ma rappresentano entità dinamiche che esigono una concretizzazione. Possiedono un’intrinseca connotazione teleologica e tendono inevitabilmente alla propria realizzazione. Sono, per riprendere un’efficace immagine del giurista tedesco Carl Schmitt, entità tiranniche, ciascuna delle quali esige di affermarsi anche a dispetto delle altre entità del medesimo tipo. Se dunque viene a mancare un organismo terzo (che deve necessariamente avere una qualche legittimazione popolare), un’istituzione, cioè, chiamata a regolare e disciplinare il concreto esercizio dei diritti individuali all’interno di una cornice equilibrata e ponderata di opposti valori (ad esempio libertà e uguaglianza, ovvero iniziativa economica privata e ruolo sociale dell’impresa) la qualità della democrazia di un popolo non potrà che scadere.

di Ilvio Pannullo