L'Australia rappresenta l'esempio più lampante di come la crescita cinese sostenga la bolla finanziaria sostenuta dall'erogazione, a costo zero, negli Usa, in Europa e in Giappone, di denaro pubblico al sistema bancario. Quando la crisi precipitò nel 2008 sembrava che per l'Australia le cose dovessero andare malissimo. Con il crollo dei prezzi mondiali delle materie prime il dollaro australiano si svalutò fortemente toccando i 48 centesimi di euro. Oggi il dollaro australiano si situa sui 77 centesimi ed ha superato il dollaro statunitense. Tutto grazie alla Cina, che ha generato un enorme boom minerario, superiore alla grande la corsa all'oro della seconda metà del diciannovesimo secolo che trasformò l'Australia nella regione col reddito pro capite più alto al mondo. I capitali stanno affluendo nel paese sia per investimenti nelle attività minerarie che per via la politica della banca centrale di alzare i tassi di interesse alfine di controllare l'inflazione. Ciò ha rilanciato il credito ai mutui ipotecari con prestiti fondati su aspettative di un continuo rialzo dei valori immobiliari. La bolla cinese ha pienamente inglobato il paese: un modesto calo del tasso di crescita di Pechino creerebbe delle voragini nella posizione debitoria delle famiglie e nell'esposizione delle banche. Se le aspettative di lucro del sistema finanziario mondiale si appuntano sulla Cina e i paesi al suo traino, la crescita di quest'ultima sta giungendo a un punto di svolta. Sul China Daily del 23 dicembre scorso è apparso un articolo di grande importanza a firma di Yu Yongding, già membro della commissione per la politica monetaria della Banca del Popolo (centrale). La sua analisi è severissima. Lo sviluppo cinese ha dei costi esorbitanti col 50% del reddito assorbito dagli investimenti, 1/4 dei quali è destinato all'edilizia. Le autorità spingono a costruire per aumentare il Pil. Infatti l'esistenza di città nuovissime e disabitate è nota. In Cina, sottolinea Yongding, polveri e fumo stanno asfissiando le città, i maggiori fiumi sono gravemente inquinati e, malgrado i progressi realizzati, avanza la deforestazione e la desertificazione. Siccità, inondazioni e frane sono ormai fenomeni comuni, mentre l'incessante attività estrattiva esaurisce le risorse naturali. Si impone, osserva l'articolo, un drastico mutamento di rotta, tuttavia l'industria cinese non riesce a superare il suo status di fabbrica di massa mondiale e trasformarsi in una forza di innovazione. Ne consegue che la dipendenza dalle esportazioni è strutturale: il cambiamento di rotta richiederebbe un aggiustamento molto doloroso. A ciò si aggiunge il fatto che lo sviluppo cinese è stato fortemente orientato in favore degli strati più ricchi, mentre il governo ha fallito nel provvedere beni di utilità pubblica. Per l'autore dell'articolo, sebbene la crescita attuale non sia sostenibile, il paese è dominato da una ferrea alleanza tra burocrazia pubblica e strati capitalisti che hanno addirittura tratto beneficio dai tentativi di riforma. La Cina, scrive Yongdin, «è il paese del capitalismo dei ricchi e dei potenti», questi difendono con ogni mezzo i loro interessi. In tale contesto la possibilità di usare in maniera socialmente razionale il surplus estero del paese sta scemando. L'analisi dell'autore mi risulta corretta e senza maschere nazionalistiche. Essa implica che in Cina il mutamento avverrà con una profonda crisi che coinvolgerà ampiamente il capitalismo americano, nipponico e anche europeo. di Joseph Halevi |
06 gennaio 2011
La crescita di Pechino è davvero sostenibile?
05 gennaio 2011
Palestina: quando arrivano le ruspe
L’asimmetrico conflitto israelo-palestinese è una lotta per la terra che si consuma metro dopo metro, casa dopo casa, a danno della popolazione palestinese autoctona in patente violazione dei Trattati internazionali e della Convenzione di Ginevra.
L’ICHAD (Comitato Israeliano Contro la Demolizione delle Case) stima che, dal 1967 al 28 luglio 2010, nel TPO siano state demolite 24.813 strutture abitative palestinesi, 2.000 soltanto a Gerusalemme Est. Dall’anno 2000 al gennaio 2009 sono state abbattute 10.105 case, una media di 1.011 all’anno. Il numero di ordini di demolizione ancora da eseguire e’ a tutt’oggi pari a circa 20.000[3]. Le autorità israeliane giustificano la demolizione di case con ragioni o militari (deterrenza e anti-terrorismo) o amministrative per la mancanza di permessi o la violazione di norme abitative. Secondo molte organizzazioni, come Amnesty International e il Comitato Internazionale della Croce Rossa, questi interventi hanno invece due principali motivazioni: L’autorità israeliana persegue come illegali le costruzioni effettuate senza autorizzazione per le quali in genere fa seguire l’ordine di abbattimento. I palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana a Gerusalemme Est e nell’area C della Cisgiordania sono sottoposti a divieti di edificazione talmente rigidi che molte famiglie devono subire la violenza distruttiva delle ruspe e la privazione del diritto ad una casa. Gli Accordi di Oslo (1993) prevedevano che Israele mantenesse per alcuni anni il controllo civile e militare della cosiddetta Area C, equivalente a più del 60% della Cisgiordania. I circa 150.000 palestinesi che vivono in quelle zone soffrono di notevoli restrizioni a costruire e a muoversi liberamente. Migliaia di ettari (il 18% della Cisgiordania), in particolare la Valle del Giordano e le colline a sud di Hebron, sono classificati come “area militare inaccessibile” dove è vietato edificare. A Gerusalemme Est, area della città occupata nel 1967 e annessa illegalmente nel 1980, Israele ha espropriato il 35% del territorio, circa 24 Kmq, allo scopo di costruire nuovi insediamenti ebraici. Su queste terre il governo israeliano ha finanziato l’edificazione di quasi 50 mila unità residenziali per la popolazione ebraica e meno di 600 per quella palestinese, l’ultima delle quali più di 30 anni fa[4]. Nonostante la popolazione palestinese rappresenti il 30% dell’intera Gerusalemme, essa è confinata sul 7% della superficie della città in abitazioni il più delle volte inadeguate. La maggior parte della terra che rimane nelle mani dei palestinesi, circa 45 Kmq, non è edificabile mentre negli ultimi 40 anni i residenti di Gerusalemme Est sono praticamente quadruplicati (da 69.000 a 273.000). Si stima che la crescita naturale della popolazione palestinese richiederebbe la costruzione di 1.500 unità abitative all’anno, mentre nel 2008 sono stati accordati soltanto 125 permessi che hanno consentito la costruzione di 400 alloggi. A causa della crescente e soffocante densità abitativa nella parte palestinese della città, che nel 2002 era pari a quattro volte quella della zona ebraica occidentale, per i pochi palestinesi che ancora possiedono un pezzo di terra non rimane che sperare nella remota possibilità di un permesso di costruzione. Quando questo, come nella maggior parte dei casi, non arriva, non rimane che costruire abusivamente. I palestinesi di Gerusalemme Est sono estremamente vulnerabili agli interventi di demolizione. Delle 46 mila abitazioni del settore orientale della città soltanto 20 mila sono state costruite con la dovuta autorizzazione. In qualsiasi momento, quindi, quasi la metà della popolazione palestinese di Gerusalemme può essere soggetta a sfratto o alla demolizione della propria casa. Il recente Piano regolatore[5], che cita esplicitamente tra i suoi obiettivi quello di mantenere l’”equilibrio demografico” tra residenti ebrei (70%) e palestinesi (30%), prevede 13.550 nuove unità abitative per la popolazione palestinese di Gerusalemme Est, 10 mila delle quali, tuttavia, da costruire soltanto nel 2030. All’inizio degli anni 90, l’allora sindaco di Gerusalemme, Teddy Kollek, aveva riconosciuto esplicitamente la profonda ingiustizia delle demolizioni per una popolazione costretta a costruire illegalmente per l’assenza quasi totale delle dovute autorizzazioni. Contro la sua volontà di modificare le cose, tuttavia, la destra israeliana al governo aveva istituito un’apposita unità operativa a Gerusalemme Est, tuttora in funzione, che si occupa soltanto delle case abusive della popolazione palestinese. Nessun’altra unità del genere esiste in tutto Israele e nessuna abitazione di proprietà ebraica è mai stata demolita. Quando arrivano le ruspe, la tragedia raggiunge il culmine. Accompagnate da agenti di polizia e soldati israeliani, le squadre di demolizione possono presentarsi in qualsiasi momento del giorno e della notte, concedendo soltanto un breve preavviso per rimuovere beni e masserizie. Secondo la legge militare israeliana, le famiglie sfollate non hanno diritto a ottenere un alloggio né a essere compensate. Se non vengono ospitate da familiari, amici o organizzazioni caritatevoli, sono abbandonate a se stesse[6]. È difficile quantificare il trauma e la sofferenza che comporta la distruzione della propria abitazione. La casa è più di una semplice struttura fisica e il suo significato è soprattutto simbolico. È il luogo dove si svolge la parte più intima dell’esistenza personale. È il rifugio, la rappresentazione fisica della famiglia e il posto dove si trovano gli oggetti più cari. Nella cultura palestinese la casa possiede un ulteriore significato. I figli che si sposano tendono a fissare la propria residenza accanto alla famiglia di origine allo scopo di preservare non soltanto la vicinanza fisica ma, soprattutto, una continuità nella proprietà della terra dei propri avi. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante per una società agricola e di rifugiati che hanno perduto la casa nativa a seguito dei conflitti del 1948 e del 1967. La demolizione dell’abitazione o la sua espropriazione rappresenta un’ulteriore aggressione all’identità di una persona[7]. Le famiglie le cui case sono demolite spesso non possono permettersene un’altra e devono contare sull’ospitalità di parenti o amici. Il trauma viene percepito in modo diverso da uomini, donne e bambini. L’uomo rimane profondamente umiliato per il senso di impotenza a proteggere la propria famiglia, la perdita dei legami con la terra dei suoi avi, la sua eredità e quella della sua gente. La maggior parte delle donne non lavorano fuori casa, la quale costituisce la loro principale sfera d’influenza ed è lo spazio che appartiene a loro. Esse sono quindi molto più traumatizzate dall’obbligo di trovare un’altra sistemazione, in un territorio altrui in cui non hanno più la responsabilità di gestire spazi e attività familiari. Vedono distrutta la propria immagine e il loro ruolo di mogli e di madri, il ruolo di chi dà praticamente espressione alla vita domestica. Una casa distrutta è come una persona cara che muore, un vuoto che non può essere colmato da soluzioni alternative che, in genere, si rivelano disastrose. Una donna costretta a sistemarsi in un’altra famiglia va ad occupare l’ambito vitale di un’altra donna (la madre o la cognata) e perde inevitabilmente il controllo su marito e figli[8]. La perdita della privacy causa spesso un aumento dei conflitti tra i membri della famiglia con un’esplosione della violenza domestica. Salwa, 28 anni, così esprime la sua tragedia personale: “La gente potrà anche provare dispiacere quando sente il frastuono della demolizione, ma pensi che qualcuno sia capace di sentire la demolizione dei nostri cuori? dei nostri sogni? dei nostri programmi futuri? Credo che queste voci non siano mai udite. Pensi che si siano accorti della mia paura, della mia agonia, del mio orrore? Niente affatto. Paura, agonia, orrore non hanno voce, non fanno rumore, e l’occupazione militare non ha occhi, non ha moralità, non ha coscienza, non ha Dio” [9]. Nei bambini il trauma della demolizione della casa lascia un marchio indelebile che dura tutta la vita. Già nei mesi che precedono l’intervento demolitivo essi sono testimoni della paura e del senso di inadeguatezza dei propri genitori che vivono costantemente in un’atmosfera di insicurezza. All’arrivo delle squadre di demolizione, vedono i propri cari sottoposti a violenze e umiliati, circondati dal fragore delle ruspe che sradicano e distruggono la loro dimora, il loro mondo, i loro giocattoli. La presenza di decine di poliziotti, assistiti da soldati in tenuta da combattimento, disegna nella mente del bambino un quadro dei propri genitori come pericolosi criminali. Questo processo ha un enorme impatto sulle condizioni psichiche e fisiche di tutti membri della famiglia, non soltanto dei bambini. La demolizione della casa è seguita da lunghi periodi di instabilità della famiglia. Secondo uno studio della ONG Save the Children[10], la maggior parte delle famiglie impiegano almeno due anni prima di trovare un luogo di residenza permanente. Un’altra ricerca rivela il profondo impatto psicologico sulle donne che tendono a sviluppare sintomi depressivi di vario tipo[11]. Altri studi hanno descritto gli effetti deleteri sui bambini che si manifestano con disturbi emotivi e comportamentali[12]. Le maggiori fonti di tensione nella famiglia sono, per i bambini, la sensazione di essere abbandonati e, per i genitori, la comparsa della depressione. Commenta Meir Margalit, storico israeliano della comunità ebraica in Palestina ed ex-sionista radicale, “Non c’è nessun dubbio: il bulldozer prende posto accanto al carro armato come simbolo del modo in cui Israele si relaziona con i palestinesi. Entrambi i simboli dovrebbero comparire sulla bandiera nazionale. Entrambi sono espressione dell’aggressione che ha preso il sopravvento dell’esperienza nazionale israeliana. L’uno completa l’altro. Entrambi simbolizzano il lato oscuro del progetto che Israele sta portando avanti di sradicare ed espellere i palestinesi dalle terre in cui si trovano” [13]. Sia sul territorio israeliano sia nel TPO, Israele è vincolato dalla legislazione internazionale inclusi quei trattati internazionali sui diritti umani di cui Israele è uno Stato firmatario (State Party), come il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e la Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione Razziale. Nel Territorio Occupato, inoltre, la condotta di Israele come potenza occupante deve conformarsi ai dettati della legislazione umanitaria internazionale che si applica in tutti i casi di occupazione militare, compresa la 4° Convenzione di Ginevra relativa alla Protezione delle Persone Civili in Tempo di Guerra. Israele è l’unico Stato appartenente all’ONU che rifiuta di riconoscere i propri obblighi nei confronti della Convenzione di Ginevra nonostante le sconfessioni e le condanne ricevute in varie sedi dalla comunità internazionale, in particolare la Corte Internazionale di Giustizia[14]. di Angelo Stefanini |
04 gennaio 2011
L'alpino crepa, Bossi straparla

Mentre dilaga la retorica sull’ennesimo caduto “per la pace”, il Senatur si barcamena tra il malcontento popolare per i morti al fronte e i soliti luoghi comuni sul cosiddetto terrorismo talebano
La Lega, espressione di un territorio, il Nord, e perciò non automaticamente ascrivibile alla dicotomia destra-sinistra, è sempre stata un movimento contraddittorio, a due facce. In origine no-global ma liberista, poi secessionista ma senza disdegnare ministeri a Roma, infine federalista ma con una riforma federale tutta sulla carta, usata come merce di ricatto per tenere in piedi un Berlusconi ostaggio di Bossi. Oggi, dopo la morte del trentacinquesimo soldato italiano sul fronte dell’Afghanistan, Matteo Miotto, il grande capo leghista Umberto Bossi ha confermato la linea del doppio binario: «il problema è che quelli che non tornano dall'Afghanistan sono troppi e il Paese non è contento per questi lutti», benché, se «gli americani non fossero andati laggiù avremmo il terrorismo in tutta Europa, del resto i primi a fare atti di guerra sono stati i talebani con le Torri Gemelle». Conclusione: «Fai una guerra e in guerra muore della gente».
Un piccolo capolavoro di saggezza e ignoranza fuse assieme come in una chiacchiera da bar. Bossi, Ministro della Repubblica, è sempre quel popolano di scarpe grosse e cervello fino che fiuta gli umori popolari e li traduce col linguaggio del popolo. Ma la voce del popolo è la voce di un Dio buon padre di famiglia ma cieco e, sui fatti afgani, decisamente arrogante. Bossi dice che è meglio ritirarsi perché la guerra – lui la chiama così, visto che è una vera guerra e non un’operazione di pace – è impopolare. La sua presa di distanza dalla missione italiana a rimorchio dell’invasione Nato è frutto di un calcolo politico, non di un’idea di principio. Meglio che niente, visto che per evitare altri lutti insensati, sia di italiani mandati a combattere una fiera nazione sovrana che nulla ci ha fatto di male, sia di afgani, donne bambini e civili inermi trucidati dai bombardamenti “intelligenti”, l’unica cosa giusta da fare è andarsene, e al più presto.
Fin qui il buonsenso dell’uomo comune, che Bossi cattura con semplicità da maestro con quel suo lapalissiano e disarmante «il Paese non è contento» perché «in guerra muore della gente». Poi scatta il riflesso condizionato del luogo comune più becero e falso. Se non fossimo anche noi a dar manforte agli americani aggrediti nel cuore del loro potere finanziario, New York, secondo il Senatùr saremmo stati sommersi dalla marea nera del terrorismo islamico. Questa è una fesseria. Anzitutto, gli afgani non sono tutti terroristi, il che equivarrebbe a dire che gli italiani sono tutti dei mafiosi. Non sono terroristi neppure i Taliban, che non si macchiarono di nessun atto di terrorismo durante le occupazioni inglese e sovietica e che ora compiono atti di guerriglia contro i militari occupanti. E ciò non si configura come terrorismo, perché gli insorti non colpiscono civili innocenti in maniera indiscriminata bensì attaccano, in modo del tutto legittimo essendo dei resistenti né più né meno dei nostri partigiani nel ’43-’45, obbiettivi militari. Infine, non pago, Bossi ripete a pappagallo la sesquipedale sciocchezza secondo la quale dietro l’attentato alle Torri Gemelle ci sarebbero sempre questi Taliban, sottinteso alleati di Al Qaeda, cioè di quel fantasma di Osama Bin Laden. Peccato che non un solo afgano sia stato trovato fra gli attentatori (semmai era pieno di sauditi: col criterio bossiano avremmo dovuto invadere l’Arabia degli sceicchi Saud, se non fossero alleati storici degli Usa). Né, in quel fatidico 2001, è provato che Bin Laden fosse ancora in rapporti col governo talebano, che di Osama voleva sbarazzarsi (porgendone la testa su un piatto d’argento a Clinton che però rifiutò) perché diventato troppo ingombrante. E poi che l’Afghanistan sia la culla del terrorismo internazionale è una favoletta che la stessa Cia ha smontato calcolando che fra i circa 50mila “insurgents” ci sono appena 386 stranieri (uzbeki, ceceni, turchi).
L’alpino Matteo Miotto è caduto in una guerra d’occupazione ingiusta che stiamo perdendo. E nonostante ciò, a lui che credeva nella Patria, seppur in una Patria serva dell’America e proterva nel voler imporre ad un altro popolo il proprio sistema economico e di valori, va reso l’onore che meritano i caduti (e non il miserabile piagnisteo nazionale con cui l’Italia mammona sbrodola i feretri dei propri soldati). Il miglior modo per rispettarne la memoria, in ogni caso, resta rispettare la verità. E la verità è che noi stiamo occupando un paese in spregio al principio dell’autodeterminazione dei popoli (un tempo caro ai leghisti), e che continueremo a piangere morti poiché le pallottole finite in corpo ai nostri Miotto vanno a bersaglio grazie al diffuso appoggio che la gente afgana, quella che dovremmo “aiutare”, dà ai ribelli talebani. Altrimenti non si capisce come mai, dopo dieci anni di amorevoli “aiuti”, non siamo riusciti a piegare questi “terroristi” che dovrebbero venire isolati dalla popolazione. E invece siamo ancora lì, a perdere vite umane e a cospargerci di retorica sulla bara di un giovane, morto per una guerra sbagliata.
di Alessio Mannino
06 gennaio 2011
La crescita di Pechino è davvero sostenibile?
L'Australia rappresenta l'esempio più lampante di come la crescita cinese sostenga la bolla finanziaria sostenuta dall'erogazione, a costo zero, negli Usa, in Europa e in Giappone, di denaro pubblico al sistema bancario. Quando la crisi precipitò nel 2008 sembrava che per l'Australia le cose dovessero andare malissimo. Con il crollo dei prezzi mondiali delle materie prime il dollaro australiano si svalutò fortemente toccando i 48 centesimi di euro. Oggi il dollaro australiano si situa sui 77 centesimi ed ha superato il dollaro statunitense. Tutto grazie alla Cina, che ha generato un enorme boom minerario, superiore alla grande la corsa all'oro della seconda metà del diciannovesimo secolo che trasformò l'Australia nella regione col reddito pro capite più alto al mondo. I capitali stanno affluendo nel paese sia per investimenti nelle attività minerarie che per via la politica della banca centrale di alzare i tassi di interesse alfine di controllare l'inflazione. Ciò ha rilanciato il credito ai mutui ipotecari con prestiti fondati su aspettative di un continuo rialzo dei valori immobiliari. La bolla cinese ha pienamente inglobato il paese: un modesto calo del tasso di crescita di Pechino creerebbe delle voragini nella posizione debitoria delle famiglie e nell'esposizione delle banche. Se le aspettative di lucro del sistema finanziario mondiale si appuntano sulla Cina e i paesi al suo traino, la crescita di quest'ultima sta giungendo a un punto di svolta. Sul China Daily del 23 dicembre scorso è apparso un articolo di grande importanza a firma di Yu Yongding, già membro della commissione per la politica monetaria della Banca del Popolo (centrale). La sua analisi è severissima. Lo sviluppo cinese ha dei costi esorbitanti col 50% del reddito assorbito dagli investimenti, 1/4 dei quali è destinato all'edilizia. Le autorità spingono a costruire per aumentare il Pil. Infatti l'esistenza di città nuovissime e disabitate è nota. In Cina, sottolinea Yongding, polveri e fumo stanno asfissiando le città, i maggiori fiumi sono gravemente inquinati e, malgrado i progressi realizzati, avanza la deforestazione e la desertificazione. Siccità, inondazioni e frane sono ormai fenomeni comuni, mentre l'incessante attività estrattiva esaurisce le risorse naturali. Si impone, osserva l'articolo, un drastico mutamento di rotta, tuttavia l'industria cinese non riesce a superare il suo status di fabbrica di massa mondiale e trasformarsi in una forza di innovazione. Ne consegue che la dipendenza dalle esportazioni è strutturale: il cambiamento di rotta richiederebbe un aggiustamento molto doloroso. A ciò si aggiunge il fatto che lo sviluppo cinese è stato fortemente orientato in favore degli strati più ricchi, mentre il governo ha fallito nel provvedere beni di utilità pubblica. Per l'autore dell'articolo, sebbene la crescita attuale non sia sostenibile, il paese è dominato da una ferrea alleanza tra burocrazia pubblica e strati capitalisti che hanno addirittura tratto beneficio dai tentativi di riforma. La Cina, scrive Yongdin, «è il paese del capitalismo dei ricchi e dei potenti», questi difendono con ogni mezzo i loro interessi. In tale contesto la possibilità di usare in maniera socialmente razionale il surplus estero del paese sta scemando. L'analisi dell'autore mi risulta corretta e senza maschere nazionalistiche. Essa implica che in Cina il mutamento avverrà con una profonda crisi che coinvolgerà ampiamente il capitalismo americano, nipponico e anche europeo. di Joseph Halevi |
05 gennaio 2011
Palestina: quando arrivano le ruspe
L’asimmetrico conflitto israelo-palestinese è una lotta per la terra che si consuma metro dopo metro, casa dopo casa, a danno della popolazione palestinese autoctona in patente violazione dei Trattati internazionali e della Convenzione di Ginevra.
L’ICHAD (Comitato Israeliano Contro la Demolizione delle Case) stima che, dal 1967 al 28 luglio 2010, nel TPO siano state demolite 24.813 strutture abitative palestinesi, 2.000 soltanto a Gerusalemme Est. Dall’anno 2000 al gennaio 2009 sono state abbattute 10.105 case, una media di 1.011 all’anno. Il numero di ordini di demolizione ancora da eseguire e’ a tutt’oggi pari a circa 20.000[3]. Le autorità israeliane giustificano la demolizione di case con ragioni o militari (deterrenza e anti-terrorismo) o amministrative per la mancanza di permessi o la violazione di norme abitative. Secondo molte organizzazioni, come Amnesty International e il Comitato Internazionale della Croce Rossa, questi interventi hanno invece due principali motivazioni: L’autorità israeliana persegue come illegali le costruzioni effettuate senza autorizzazione per le quali in genere fa seguire l’ordine di abbattimento. I palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana a Gerusalemme Est e nell’area C della Cisgiordania sono sottoposti a divieti di edificazione talmente rigidi che molte famiglie devono subire la violenza distruttiva delle ruspe e la privazione del diritto ad una casa. Gli Accordi di Oslo (1993) prevedevano che Israele mantenesse per alcuni anni il controllo civile e militare della cosiddetta Area C, equivalente a più del 60% della Cisgiordania. I circa 150.000 palestinesi che vivono in quelle zone soffrono di notevoli restrizioni a costruire e a muoversi liberamente. Migliaia di ettari (il 18% della Cisgiordania), in particolare la Valle del Giordano e le colline a sud di Hebron, sono classificati come “area militare inaccessibile” dove è vietato edificare. A Gerusalemme Est, area della città occupata nel 1967 e annessa illegalmente nel 1980, Israele ha espropriato il 35% del territorio, circa 24 Kmq, allo scopo di costruire nuovi insediamenti ebraici. Su queste terre il governo israeliano ha finanziato l’edificazione di quasi 50 mila unità residenziali per la popolazione ebraica e meno di 600 per quella palestinese, l’ultima delle quali più di 30 anni fa[4]. Nonostante la popolazione palestinese rappresenti il 30% dell’intera Gerusalemme, essa è confinata sul 7% della superficie della città in abitazioni il più delle volte inadeguate. La maggior parte della terra che rimane nelle mani dei palestinesi, circa 45 Kmq, non è edificabile mentre negli ultimi 40 anni i residenti di Gerusalemme Est sono praticamente quadruplicati (da 69.000 a 273.000). Si stima che la crescita naturale della popolazione palestinese richiederebbe la costruzione di 1.500 unità abitative all’anno, mentre nel 2008 sono stati accordati soltanto 125 permessi che hanno consentito la costruzione di 400 alloggi. A causa della crescente e soffocante densità abitativa nella parte palestinese della città, che nel 2002 era pari a quattro volte quella della zona ebraica occidentale, per i pochi palestinesi che ancora possiedono un pezzo di terra non rimane che sperare nella remota possibilità di un permesso di costruzione. Quando questo, come nella maggior parte dei casi, non arriva, non rimane che costruire abusivamente. I palestinesi di Gerusalemme Est sono estremamente vulnerabili agli interventi di demolizione. Delle 46 mila abitazioni del settore orientale della città soltanto 20 mila sono state costruite con la dovuta autorizzazione. In qualsiasi momento, quindi, quasi la metà della popolazione palestinese di Gerusalemme può essere soggetta a sfratto o alla demolizione della propria casa. Il recente Piano regolatore[5], che cita esplicitamente tra i suoi obiettivi quello di mantenere l’”equilibrio demografico” tra residenti ebrei (70%) e palestinesi (30%), prevede 13.550 nuove unità abitative per la popolazione palestinese di Gerusalemme Est, 10 mila delle quali, tuttavia, da costruire soltanto nel 2030. All’inizio degli anni 90, l’allora sindaco di Gerusalemme, Teddy Kollek, aveva riconosciuto esplicitamente la profonda ingiustizia delle demolizioni per una popolazione costretta a costruire illegalmente per l’assenza quasi totale delle dovute autorizzazioni. Contro la sua volontà di modificare le cose, tuttavia, la destra israeliana al governo aveva istituito un’apposita unità operativa a Gerusalemme Est, tuttora in funzione, che si occupa soltanto delle case abusive della popolazione palestinese. Nessun’altra unità del genere esiste in tutto Israele e nessuna abitazione di proprietà ebraica è mai stata demolita. Quando arrivano le ruspe, la tragedia raggiunge il culmine. Accompagnate da agenti di polizia e soldati israeliani, le squadre di demolizione possono presentarsi in qualsiasi momento del giorno e della notte, concedendo soltanto un breve preavviso per rimuovere beni e masserizie. Secondo la legge militare israeliana, le famiglie sfollate non hanno diritto a ottenere un alloggio né a essere compensate. Se non vengono ospitate da familiari, amici o organizzazioni caritatevoli, sono abbandonate a se stesse[6]. È difficile quantificare il trauma e la sofferenza che comporta la distruzione della propria abitazione. La casa è più di una semplice struttura fisica e il suo significato è soprattutto simbolico. È il luogo dove si svolge la parte più intima dell’esistenza personale. È il rifugio, la rappresentazione fisica della famiglia e il posto dove si trovano gli oggetti più cari. Nella cultura palestinese la casa possiede un ulteriore significato. I figli che si sposano tendono a fissare la propria residenza accanto alla famiglia di origine allo scopo di preservare non soltanto la vicinanza fisica ma, soprattutto, una continuità nella proprietà della terra dei propri avi. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante per una società agricola e di rifugiati che hanno perduto la casa nativa a seguito dei conflitti del 1948 e del 1967. La demolizione dell’abitazione o la sua espropriazione rappresenta un’ulteriore aggressione all’identità di una persona[7]. Le famiglie le cui case sono demolite spesso non possono permettersene un’altra e devono contare sull’ospitalità di parenti o amici. Il trauma viene percepito in modo diverso da uomini, donne e bambini. L’uomo rimane profondamente umiliato per il senso di impotenza a proteggere la propria famiglia, la perdita dei legami con la terra dei suoi avi, la sua eredità e quella della sua gente. La maggior parte delle donne non lavorano fuori casa, la quale costituisce la loro principale sfera d’influenza ed è lo spazio che appartiene a loro. Esse sono quindi molto più traumatizzate dall’obbligo di trovare un’altra sistemazione, in un territorio altrui in cui non hanno più la responsabilità di gestire spazi e attività familiari. Vedono distrutta la propria immagine e il loro ruolo di mogli e di madri, il ruolo di chi dà praticamente espressione alla vita domestica. Una casa distrutta è come una persona cara che muore, un vuoto che non può essere colmato da soluzioni alternative che, in genere, si rivelano disastrose. Una donna costretta a sistemarsi in un’altra famiglia va ad occupare l’ambito vitale di un’altra donna (la madre o la cognata) e perde inevitabilmente il controllo su marito e figli[8]. La perdita della privacy causa spesso un aumento dei conflitti tra i membri della famiglia con un’esplosione della violenza domestica. Salwa, 28 anni, così esprime la sua tragedia personale: “La gente potrà anche provare dispiacere quando sente il frastuono della demolizione, ma pensi che qualcuno sia capace di sentire la demolizione dei nostri cuori? dei nostri sogni? dei nostri programmi futuri? Credo che queste voci non siano mai udite. Pensi che si siano accorti della mia paura, della mia agonia, del mio orrore? Niente affatto. Paura, agonia, orrore non hanno voce, non fanno rumore, e l’occupazione militare non ha occhi, non ha moralità, non ha coscienza, non ha Dio” [9]. Nei bambini il trauma della demolizione della casa lascia un marchio indelebile che dura tutta la vita. Già nei mesi che precedono l’intervento demolitivo essi sono testimoni della paura e del senso di inadeguatezza dei propri genitori che vivono costantemente in un’atmosfera di insicurezza. All’arrivo delle squadre di demolizione, vedono i propri cari sottoposti a violenze e umiliati, circondati dal fragore delle ruspe che sradicano e distruggono la loro dimora, il loro mondo, i loro giocattoli. La presenza di decine di poliziotti, assistiti da soldati in tenuta da combattimento, disegna nella mente del bambino un quadro dei propri genitori come pericolosi criminali. Questo processo ha un enorme impatto sulle condizioni psichiche e fisiche di tutti membri della famiglia, non soltanto dei bambini. La demolizione della casa è seguita da lunghi periodi di instabilità della famiglia. Secondo uno studio della ONG Save the Children[10], la maggior parte delle famiglie impiegano almeno due anni prima di trovare un luogo di residenza permanente. Un’altra ricerca rivela il profondo impatto psicologico sulle donne che tendono a sviluppare sintomi depressivi di vario tipo[11]. Altri studi hanno descritto gli effetti deleteri sui bambini che si manifestano con disturbi emotivi e comportamentali[12]. Le maggiori fonti di tensione nella famiglia sono, per i bambini, la sensazione di essere abbandonati e, per i genitori, la comparsa della depressione. Commenta Meir Margalit, storico israeliano della comunità ebraica in Palestina ed ex-sionista radicale, “Non c’è nessun dubbio: il bulldozer prende posto accanto al carro armato come simbolo del modo in cui Israele si relaziona con i palestinesi. Entrambi i simboli dovrebbero comparire sulla bandiera nazionale. Entrambi sono espressione dell’aggressione che ha preso il sopravvento dell’esperienza nazionale israeliana. L’uno completa l’altro. Entrambi simbolizzano il lato oscuro del progetto che Israele sta portando avanti di sradicare ed espellere i palestinesi dalle terre in cui si trovano” [13]. Sia sul territorio israeliano sia nel TPO, Israele è vincolato dalla legislazione internazionale inclusi quei trattati internazionali sui diritti umani di cui Israele è uno Stato firmatario (State Party), come il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e la Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione Razziale. Nel Territorio Occupato, inoltre, la condotta di Israele come potenza occupante deve conformarsi ai dettati della legislazione umanitaria internazionale che si applica in tutti i casi di occupazione militare, compresa la 4° Convenzione di Ginevra relativa alla Protezione delle Persone Civili in Tempo di Guerra. Israele è l’unico Stato appartenente all’ONU che rifiuta di riconoscere i propri obblighi nei confronti della Convenzione di Ginevra nonostante le sconfessioni e le condanne ricevute in varie sedi dalla comunità internazionale, in particolare la Corte Internazionale di Giustizia[14]. di Angelo Stefanini |
04 gennaio 2011
L'alpino crepa, Bossi straparla

Mentre dilaga la retorica sull’ennesimo caduto “per la pace”, il Senatur si barcamena tra il malcontento popolare per i morti al fronte e i soliti luoghi comuni sul cosiddetto terrorismo talebano
La Lega, espressione di un territorio, il Nord, e perciò non automaticamente ascrivibile alla dicotomia destra-sinistra, è sempre stata un movimento contraddittorio, a due facce. In origine no-global ma liberista, poi secessionista ma senza disdegnare ministeri a Roma, infine federalista ma con una riforma federale tutta sulla carta, usata come merce di ricatto per tenere in piedi un Berlusconi ostaggio di Bossi. Oggi, dopo la morte del trentacinquesimo soldato italiano sul fronte dell’Afghanistan, Matteo Miotto, il grande capo leghista Umberto Bossi ha confermato la linea del doppio binario: «il problema è che quelli che non tornano dall'Afghanistan sono troppi e il Paese non è contento per questi lutti», benché, se «gli americani non fossero andati laggiù avremmo il terrorismo in tutta Europa, del resto i primi a fare atti di guerra sono stati i talebani con le Torri Gemelle». Conclusione: «Fai una guerra e in guerra muore della gente».
Un piccolo capolavoro di saggezza e ignoranza fuse assieme come in una chiacchiera da bar. Bossi, Ministro della Repubblica, è sempre quel popolano di scarpe grosse e cervello fino che fiuta gli umori popolari e li traduce col linguaggio del popolo. Ma la voce del popolo è la voce di un Dio buon padre di famiglia ma cieco e, sui fatti afgani, decisamente arrogante. Bossi dice che è meglio ritirarsi perché la guerra – lui la chiama così, visto che è una vera guerra e non un’operazione di pace – è impopolare. La sua presa di distanza dalla missione italiana a rimorchio dell’invasione Nato è frutto di un calcolo politico, non di un’idea di principio. Meglio che niente, visto che per evitare altri lutti insensati, sia di italiani mandati a combattere una fiera nazione sovrana che nulla ci ha fatto di male, sia di afgani, donne bambini e civili inermi trucidati dai bombardamenti “intelligenti”, l’unica cosa giusta da fare è andarsene, e al più presto.
Fin qui il buonsenso dell’uomo comune, che Bossi cattura con semplicità da maestro con quel suo lapalissiano e disarmante «il Paese non è contento» perché «in guerra muore della gente». Poi scatta il riflesso condizionato del luogo comune più becero e falso. Se non fossimo anche noi a dar manforte agli americani aggrediti nel cuore del loro potere finanziario, New York, secondo il Senatùr saremmo stati sommersi dalla marea nera del terrorismo islamico. Questa è una fesseria. Anzitutto, gli afgani non sono tutti terroristi, il che equivarrebbe a dire che gli italiani sono tutti dei mafiosi. Non sono terroristi neppure i Taliban, che non si macchiarono di nessun atto di terrorismo durante le occupazioni inglese e sovietica e che ora compiono atti di guerriglia contro i militari occupanti. E ciò non si configura come terrorismo, perché gli insorti non colpiscono civili innocenti in maniera indiscriminata bensì attaccano, in modo del tutto legittimo essendo dei resistenti né più né meno dei nostri partigiani nel ’43-’45, obbiettivi militari. Infine, non pago, Bossi ripete a pappagallo la sesquipedale sciocchezza secondo la quale dietro l’attentato alle Torri Gemelle ci sarebbero sempre questi Taliban, sottinteso alleati di Al Qaeda, cioè di quel fantasma di Osama Bin Laden. Peccato che non un solo afgano sia stato trovato fra gli attentatori (semmai era pieno di sauditi: col criterio bossiano avremmo dovuto invadere l’Arabia degli sceicchi Saud, se non fossero alleati storici degli Usa). Né, in quel fatidico 2001, è provato che Bin Laden fosse ancora in rapporti col governo talebano, che di Osama voleva sbarazzarsi (porgendone la testa su un piatto d’argento a Clinton che però rifiutò) perché diventato troppo ingombrante. E poi che l’Afghanistan sia la culla del terrorismo internazionale è una favoletta che la stessa Cia ha smontato calcolando che fra i circa 50mila “insurgents” ci sono appena 386 stranieri (uzbeki, ceceni, turchi).
L’alpino Matteo Miotto è caduto in una guerra d’occupazione ingiusta che stiamo perdendo. E nonostante ciò, a lui che credeva nella Patria, seppur in una Patria serva dell’America e proterva nel voler imporre ad un altro popolo il proprio sistema economico e di valori, va reso l’onore che meritano i caduti (e non il miserabile piagnisteo nazionale con cui l’Italia mammona sbrodola i feretri dei propri soldati). Il miglior modo per rispettarne la memoria, in ogni caso, resta rispettare la verità. E la verità è che noi stiamo occupando un paese in spregio al principio dell’autodeterminazione dei popoli (un tempo caro ai leghisti), e che continueremo a piangere morti poiché le pallottole finite in corpo ai nostri Miotto vanno a bersaglio grazie al diffuso appoggio che la gente afgana, quella che dovremmo “aiutare”, dà ai ribelli talebani. Altrimenti non si capisce come mai, dopo dieci anni di amorevoli “aiuti”, non siamo riusciti a piegare questi “terroristi” che dovrebbero venire isolati dalla popolazione. E invece siamo ancora lì, a perdere vite umane e a cospargerci di retorica sulla bara di un giovane, morto per una guerra sbagliata.
di Alessio Mannino